Relazione su “Imperialismo e guerra”.

Alla fine di questa giornata di lavoro (14 giugno 2024) sui temi economici e sul Partito, non potevamo non dedicare uno spazio al tema dei conflitti inter-imperialistici. L’argomento è di fondamentale importanza e lo scontro tra le potenze imperialiste si sta facendo sempre più aspro.  Affronteremo le cause generali delle crisi del sistema capitalistico e la guerra come strumento di distruzione di risorse umane e materiali al fine di riavviare un nuovo ciclo di accumulazione.

Il capitalismo è un sistema che si è diffuso ormai da lungo tempo in tutto il globo terrestre, non esiste area del mondo che non sia sottoposta alle inesorabili leggi economiche del capitalismo. Esistono paesi capitalisti che si sono sviluppati prima ed altri che sono ora in pieno sviluppo, ma è confermata l’invarianza delle leggi che regolano la produzione di merci e il profitto ricavato dallo sfruttamento del lavoro umano. L’acuirsi dello scontro commerciale tra grandi moloch statali è conseguenza della caduta tendenziale del saggio medio di profitto a livello globale.

Definiamo vulcano della produzione la caratteristica tipica del sistema economico e sociale che produce per produrre e per trarre profitto dallo sfruttamento dei salariati, proletari liberi di vendere sul mercato le loro braccia, la loro forza lavoro. La caotica e anarchica tendenza della produzione capitalistica a crescere sempre più trova il suo limite nella palude del mercato. I capitali sono in concorrenza fra loro per piazzare le proprie merci sul mercato. I salariati possono acquistare merci per la loro sussistenza, magari anche acquistarne più di quanto sarebbe necessario, spinti dalla pubblicità che induce bisogni superflui. Ma la sovraproduzione di beni non corrisponde ai bisogni umani, essa risponde alla necessità inesorabile del capitale di accrescersi sempre più. Ecco che enormi quantitativi di merci rimangono invendute o viene programmata la loro obsolescenza.

A partire dagli anni 70 del secolo scorso, si sono succedute ripetute crisi di sovraproduzione, l’ultima in ordine di tempo si è manifestata con il crollo dei titoli sub-prime sul mercato immobiliare e il conseguente crollo di alcune banche negli Stati Uniti, nel 2008. Da allora un generale rallentamento della produzione industriale si è verificato a livello globale. Ricordiamo che ad esso si accompagna la tendenziale caduta del saggio medio di profitto.

Non in tutti i paesi capitalisti però il livello della produzione rallenta allo stesso modo come pure il tasso di profitto. I paesi a capitalismo più giovane (BRICS, Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) per esempio fanno rilevare livelli di produzione e tassi di incremento più alti, a scapito delle economie occidentali. I paesi a capitalismo più maturo subiscono l’attacco dei nuovi concorrenti sul mercato mondiale.

Gli Stati Uniti, potenza ancora egemone a livello mondiale per quanto riguarda il controllo militare non lo è più da un punto di vista della capacità produttiva e finanziaria. La sua egemonia è stata messa in discussione dal travolgente sviluppo della Cina, in primis, e di altre potenze regionali. L’istituzione di organismi finanziari internazionali da parte dei paesi BRICS (per es. la AIIB Asian Infrastructure Investment Bank in Cina a cui poi hanno aderito 57 paesi) e di sistemi di pagamento alternativi a quelli usati in occidente (per es. SPFS System for Trasfer of Financial Messages sempre in Cina o MIR in Russia) hanno gradualmente eroso l’area di scambi commerciali in cui il dollaro statunitense era la sola moneta ammessa (questo avviene in particolare nei mercati del Medio Oriente e in Africa).

Questi elementi mostrano come sia in corso una ridefinizione degli equilibri di potenza tra blocchi imperiali e all’interno degli stessi blocchi.

Nel mondo i conflitti in corso sono numerosi (Sudan, Gaza, Myanmar, Ucraina, Congo, Somalia, per citarne solo alcuni). E sono tutti conflitti in cui la posta in gioco è il controllo di risorse naturali, il controllo di aree strategiche per le rotte commerciali mondiali, o il controllo di serbatoi di manodopera a basso costo.

Il conflitto in Ucraina è il risultato dell’inasprirsi dei rapporti tra opposti blocchi imperiali (Usa e Russia/Cina). Dopo la caduta del muro di Berlino la Russia ha dato avvio ad una ristrutturazione interna, essendosi alleggerita della zavorra economica costituita dai paesi satelliti.  L’allargamento verso est della sfera d’influenza della Nato (con nuove basi militari e lo scudo antimissile) e la prospettiva che l’Ucraina potesse passare sotto la sfera di influenza occidentale ha generato in una prima fase la secessione delle regioni di Donetsk, Luhans’k, Kharkiv, (sostenute dalla Russia nelle loro richieste di autonomia regionale) e successivamente ad un conflitto aperto tra le repubbliche secessioniste e il governo centrale. Infine nel 2022 lo scontro in atto è degenerato nell’avvio dell’ operazione militare speciale da parte della Russia.

Evidentemente il conflitto non era ricomponibile attraverso le manovre e colloqui diplomatici e sono entrate quindi in scena le armi. I proletari russi e ucraini, intruppati sotto opposte bandiere, sono stati mandati al massacro. Il prezzo pagato finora in questo conflitto sono, facendo la dovuta tara alle stime delle fonti ufficiali borghesi, circa 190.000 morti fra civili e militari di entrambi i fronti.

La mediazione tentata dopo il 2014 dalle potenze europee, l’iniziativa della Germania in primis, non ha potuto evitare lo scoppio del conflitto armato. Lo scoppio del conflitto in Ucraina ha messo in discussione i fiorenti rapporti economici tra gli stati europei e la Russia, in particolare tra la Germania e l’Italia e la Russia. Gli Stati Uniti hanno imposto agli stati vassalli europei la politica delle sanzioni economiche alla Russia. Con la messa fuori uso del gasdotto North Stream2 gli europei hanno dovuto accettare l’acquisto di materie prime energetiche (gas e petrolio) dagli Stati Uniti ad un prezzo maggiorato. Nel Patto Atlantico è prevalso il diktat della difesa dell’Ucraina: accoglienza dei profughi, invio di armi, finanziamento del governo Zelens’kjy ormai in bancarotta.

Siamo nel cuore dell’Europa, il conflitto armato rimane aperto e non trova ricomposizione, gli equilibri internazionali sono troppo instabili.  Continuano le forniture occidentali di sistemi d’arma, munizioni, addestratori militari. L’Ucraina rappresenta un buon mercato di smercio di armi, di sperimentazione di nuovi sistemi d’arma, ed infine un terreno dove la borghesia saggia il grado di irreggimentazione del proletariato, o detto in altre parole, l’incapacità dei proletari ucraini ad agire come classe, a rispondere come classe al massacro in corso.

Dallo scoppio del conflitto ci sono state deboli proteste e isolate azioni contro i governi, insufficienti però a cambiare le sorti del conflitto. Ci sono state in Russia manifestazioni di protesta da parte dei giovani contro l’operazione militare speciale, ci sono state proteste e dimostrazioni delle famiglie dei militari caduti al fronte che chiedono la fine delle ostilità.  Non tutta la società russa è pacificata. Anche in Ucraina le fughe all’estero per diserzione aumentano, i processi per corruzione ai funzionari militari che esentavano i soldati di leva ci fanno capire che ci sono state alcune azioni contro il governo di Zelens’kyj. Ma sia in Russia che in Ucraina queste azioni sono rimaste marginali, non sono riuscite a saldarsi tra i due fronti. Queste azioni disfattiste purtroppo non hanno avuto la forza di svilupparsi e mettere in discussione i governi dei paesi in conflitto.

Ma a questo punto che fare? Che indicazioni dare ai nostri fratelli proletari coinvolti nel conflitto?

Ai fratelli proletari russi e ucraini, come comunisti, diciamo: praticate il disfattismo nelle città con gli scioperi contro la guerra, contro l’aumento dello sfruttamento e contro la miseria dilagante, contro la militarizzazione della società. La forza del vostro movimento saprà spingere al disfattismo i soldati proletari schierati sul fronte opposto, saprà spingerli al rifiuto di sparare sui propri fratelli, a praticare la fraternizzazione sui fronti di battaglia.

I lavoratori salariati, nella loro quotidiana guerra contro il capitale quando si oppongono all’aumento dello sfruttamento praticano il disfattismo già in tempo di pace, nella loro quotidiana lotta per il salario, per la riduzione dell’orario di lavoro, per il salario ai disoccupati. I proletari dichiarano la loro guerra di classe rompendo il fronte interno. Il primo nemico del proletariato di una nazione è la propria borghesia e la lotta contro di essa parte dalla rottura delle compatibilità del sistema, dalla lotta economica per la difesa delle proprie condizioni di esistenza. Assordante è il silenzio dei sindacati finanziati dallo stato. Tutti stanno oggi sul fronte borghese, la loro politica di subordinazione alle compatibilità del sistema impedisce loro di schierarsi in maniera chiara e aperta sul fronte della classe lavoratrice, per sua difesa immediata, organizzandone la mobilitazione.

Ma diamo ora uno sguardo al Vicino Oriente. I massacri perpetrati contro il proletariato palestinese, quello israeliano e arabo di tutti i paesi della zona sono sotto i nostri occhi giornalmente.

Qui la sproporzione fra la potenza di fuoco messa in campo da opposti schieramenti rende una volta di più risibili le definizioni di aggressore e aggredito. Più che mai in questo conflitto sono in gioco interessi economici contrapposti delle borghesie regionali locali e delle grandi potenze imperiali, che muovono le pedine di questo tragico gioco al massacro.

Il Vicino Oriente è una zona cruciale per la sua ricchezza di petrolio (sulla rendita petrolifera si reggono le oligarchie arabe locali) e per l’esistenza di importanti scali commerciali e vie di comunicazione affacciate nel bacino del Mediterraneo. Qui è in gioco per esempio parte dello sviluppo della nuova via della seta cinese, infrastruttura economica strategica per la circolazione delle merci provenienti dall’estremo oriente. Si incrociano e si concentrano quindi in questa area tutti gli interessi imperialistici mondiali e dal nuovo assetto che assumeranno gli equilibri fra grandi potenze (in questo momento Stati Uniti da un lato e Russia e Cina dall’altro) deriverà la possibilità di stabilizzare politicamente ed economicamente l’area del Vicino e Medio Oriente, secondo un improbabile ma ricercato dalla borghesia, nuovo ordine mondiale.

L’elemento destabilizzante dell’area cioè l’annosa e mai risolta “questione palestinese” impedisce alle varie borghesie arabe di condurre i propri affari, di sviluppare il loro potere locale, di sfruttare le alleanze con le grandi potenze imperiali, di sfruttare adeguatamente il proprio proletariato.

La crisi economica internazionale spinge le diverse borghesie a centralizzare e rafforzare il proprio potere. Qui in quest’area questo si traduce nel tentativo di Israele di estendere la sua influenza (cioè allargare fisicamente i territori occupati, colonizzati) forzando l’alleato imperiale (gli Stati Uniti) a appoggiare il suo disegno, anche a rischio di destabilizzare ulteriormente tutta l’area. Abbiamo parlato in altri testi di “caos imperium”, ovvero di strategia del caos.

Anche Hamas tenta di assumere un nuovo ruolo come classe dirigente e, al costo del massacro immane che è in corso, fronteggia il nemico e, nello stesso momento, rimette in gioco le altre componenti borghesi palestinesi (si ricordino i colloqui avvenuti a Mosca tra componenti dell’OLP in vista di una sistemazione della questione palestinese) nel tentativo di giungere alla costituzione di un’entità nazionale palestinese, nella quale esercitare il suo ruolo di classe sfruttatrice di una manodopera ormai a costo bassissimo.

I tentativi di mediazione in corso per un cessate il fuoco e per l’avvio di trattative sul destino della Palestina sono per ora solo specchi per le allodole, cioè falsi tentativi di pacificazione.

Ma un accordo tra le parti in conflitto non è impossibile. Entrambi (Israele e Hamas) hanno un obiettivo non dichiarato, la posta in gioco è il controllo del proletariato palestinese e arabo di tutta la regione. La situazione di destabilizzazione dell’area nuoce alle borghesie arabe ma divisioni, rivalità e concorrenza fra loro rendono impossibile una risposta borghese araba all’espansionismo dello stato di Israele. E per ora i massacri della popolazione a Gaza, in Cisgiordania e nel sud del Libano sono lo strumento per annichilire qualsiasi risposta di classe.

Il tentativo di Israele di allargare il conflitto anche ad altri paesi (Iran, Libano, Siria) non fa altro che rendere la situazione sociale ancora più incandescente e una soluzione diplomatica ancora più lontana.

Certamente c’è da schierarsi, ma il fronte è quello di classe, contro le borghesie palestinese, israeliana ed araba in generale, che incatenano tutto il proletariato dell’area alla rupe del nazionalismo e del fondamentalismo religioso, in un massacro che avrà fine solo con la fine del mito nefasto dello Stato. Tutto il nostro appoggio e la nostra solidarietà va al proletariato palestinese, che si batte quotidianamente per sopravvivere e, nel farlo, cozza contro una borghesia (Hamas a Gaza e Al Fatah in Cisgiordania) che difende con le unghie e coi denti i propri interessi e privilegi. Solidarietà, anche, col proletariato israeliano e con chi si batte in Israele contro il massacro di Gaza, disertando e/o sabotando le operazioni militari, manifestando in tutte le forme possibili la propria avversione verso la politica della borghesia israeliana. 

I proletari hanno una sola via da seguire: quella del disfattismo rivoluzionario. La propria borghesia è il primo nemico da battere. Nei conflitti in epoca imperialista il proletariato deve augurarsi la sconfitta del governo borghese  e lottare per scatenare un’insurrezione rivoluzionaria, quando l’insurrezione che doveva impedire la guerra non è riuscita. Questi insegnamenti ci vengono da lontano (Lenin 1916) ma valgono oggi come ieri. Schierarsi quindi assume un significato più ampio, per i comunisti significa che i proletari devono lottare ogni giorno per difendere la propria condizione e lo fanno perché sono parte di una classe proletaria rivoluzionaria mondiale che ricorrentemente scatena la propria rabbia contro lo sfruttamento del capitale. Il proletariato palestinese, il proletariato israeliano, il proletariato arabo devono trovare l’unione che darà loro la forza di scatenare un processo rivoluzionario in tutta l’area del Vicino e Medio Oriente, contro ogni nazionalismo, contro le borghesie arabe reazionarie e completamente asservite all’imperialismo russo, statunitense, cinese. Non ci sono altre strade.

14/06/2024

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