La giornata internazionale della donna nasce nel contesto delle lotte operaie di fine Ottocento e inizio Novecento, in particolare per ricordare le condizioni di sfruttamento delle donne proletarie, spesso costrette a lavorare in condizioni disumane. Non si trattava di una celebrazione, ma di un momento di lotta, di denuncia e di rivendicazione di diritti fondamentali, tra cui salari equi, condizioni di lavoro dignitose e il riconoscimento del valore del lavoro femminile.
Oggi è ridotta a celebrazione interclassista, occasione mondana, priva dell’originario significato di lotta proletaria. E’ necessario ritornare a parlare della lotta delle donne come lotta di classe per l’emancipazione e contro lo sfruttamento, contro la doppia oppressione subita dalle donne proletarie nel capitalismo. La condizione di sfruttamento non è una questione di genere o di singoli diritti, ma un problema sistemico che coinvolge l’intera classe lavoratrice. La liberazione non può avvenire attraverso concessioni parziali e temporanee ma solo con un’azione rivoluzionaria contro il sistema di sfruttamento capitalistico.
Lo sfruttamento e l’oppressione della donna saranno eliminate solo nel comunismo cioè solo nella società che abolirà la proprietà privata, il salario, il mercato, lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e sulla donna: una società senza classi, la società di specie.
La condizione della donna non è sempre stata questa: nelle società senza classi, nel comunismo primitivo, epoca durata diversi millenni, nella gestione comunitaria delle risorse e della vita sociale non esisteva divisione del lavoro se non quella dettata dalla funzione di procreazione. La dimensione limitata delle comunità consentiva una comune conduzione e gestione dell’economia domestica. Siamo nello stadio selvaggio, corrispondente al paleolitico, quando l’economia si basava sulla caccia, la pesca, la raccolta. Non vi era eccedenza di prodotti e non esisteva proprietà privata.
Successivamente, nello stadio della barbarie, corrispondente al neolitico, si sviluppò la stanzialità e l’agricoltura fino a introdurre la metallurgia. Le tecniche agricole si affinarono, si sviluppò la cerealicoltura, l’allevamento, l’uso dell’aratro. Tutto ciò rivoluzionò la società primitiva. Si ebbe eccedenza di prodotti e si svilupparono tecniche per la fabbricazione di utensili e ceramiche, la filatura, tessitura, le tecniche edilizie. Soltanto in questa fase si creò una vera divisione del lavoro. Sorsero comunità più estese, le città, ed ebbe origine la proprietà privata che superò la precedente amministrazione comunitaria dei beni.
Anche le forme sociali di matrimonio hanno avuto un’evoluzione: si passò dal matrimonio di gruppo a quello all’interno della propria tribù ma non nella propria “gens” (ad un certo punto si affermò il divieto di matrimonio tra consanguinei). In tutte queste forme sociali la discendenza si determinava in linea femminile, la donna godeva di una posizione sociale superiore e il femminicidio era il più efferato dei crimini. Era l’epoca del matriarcato che, nel corso evolutivo della storia, permaneva anche successivamente all’affermarsi del matrimonio di coppia.
Aumentando l’eccedenza di prodotti dell’allevamento e dell’agricoltura, e la ricchezza generale della famiglia, attribuita prevalentemente all’uomo che la procacciava con il suo lavoro fuori dalla casa, la posizione del “pater familias” (possessore degli schiavi e di tutti i componenti della famiglia) divenne dominante. La società schiavista, divisa in classi, conosce la proprietà privata. La ricchezza personale o familiare non andrà più ai figli discendenti della moglie e appartenenti alla sua “gens” ma si instaurerà un sistema di discendenza in linea paterna. Per far valere di diritto tale trasformazione sociale, il capo-famiglia costringerà la donna alla monogamia, la rinchiuderà tra le mura domestiche, dovendo egli essere certo della legittimità della sua prole e quindi della successione del suo patrimonio ai figli legittimi. Si afferma così il modello di famiglia monogamica che dura fino ai giorni nostri, nel capitalismo.
La proprietà privata dei mezzi di produzione e la divisione in classi sociali è ancora la caratteristica della società in cui viviamo. A questo modo di produzione corrisponde l’ideologia borghese, cioè l’ideologia della classe dominante, essa permea la vita di proletarie e proletari che fanno proprio il pensiero unico dominante.
La borghesia si fece vanto, quando prese il potere, di aver instaurato una società basata sulla libertà: libertà dai precedenti vincoli feudali, libertà di pensiero, uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge.
La realtà odierna ci racconta di un mondo in cui le disuguaglianze aumentano, la libertà di vendere la propria forza-lavoro sul libero mercato non garantisce a tutti una vita dignitosa ed è di fatto una schiavitù, la schiavitù del lavoro salariato. Questa moderna schiavitù, a differenza dell’antica, è dissimulata dal potere con mille forme di corruzione sociale, ma ai più non sfuggirà che le giovani generazioni nutrono un potenziale odio contro il sistema sociale, odio che si manifesta con sporadiche ribellioni contro lo sfruttamento (per esempio il recente sciopero in Amazon contro la obbligatorietà del lavoro festivo o le proteste studentesche contro l’obbligo dell’alternanza scuola-lavoro) e in un rifiuto del lavoro stesso. Certo è un fenomeno ancora poco esteso ma spia di un profondo malessere sociale.
La donna subisce una doppia oppressione, quella di classe accanto ai suoi compagni proletari e quella di genere. Non ancora cosciente della propria appartenenza di classe, come classe per sè e non come classe del capitale, il proletariato maschile e femminile fa sua l’ideologia borghese: nel ruolo di capo-famiglia l’uomo spesso considera una sua proprietà sia la moglie che figli, e su di essi non può non esercitare, anche esplicitamente, quella violenza che sottende una tale relazione di potere. La donna vive questa condizione di subordinazione come un ineluttabile destino, una sorte che la società le riserva essendo nata donna, specialmente quando è priva di autonomia economica e isolata socialmente, costretta dentro le mura domestiche, ad occuparsi della cura della casa e dei figli.
Il femminicidio è il risultato di relazioni basate sul potere e sull’oppressione. La violenza che contraddistingue queste relazioni di coppia è la stessa violenza che permea la società borghese e caratterizza tutte le relazioni umane che in essa si sviluppano, sul posto di lavoro, nell’ambito familiare, nella società.
Alla base di tutto vi è il dispotico modo di produzione capitalistico, lo sfruttamento del lavoro umano per trarne il massimo profitto. Un sistema segnato da continue guerre, povertà, fame e carestie, migrazioni forzate, inquinamento e distruzione di risorse naturali e del pianeta intero.
Tali sono le “magnifiche e progressive sorti” che questo modo di produzione riserva al genere umano.
E’ pur vero che la legislazione borghese garantisce, in certa misura, i diritti delle donne ma la cronaca quotidiana internazionale ci mostra fatti di inaudita violenza. Spesso le donne sono alla testa di movimenti di protesta e ribellione radicali (le donne nelle favelas dell’America Latina, le donne iraniane o afgane). Ma nessuna lotta democratica, interclassista, nessuna democrazia borghese sarà mai in grado di difendere o di migliorare la condizione delle donne.
Non vogliamo dire con ciò che un ritorno al selvaggio mondo primitivo ci restituirebbe l’umanità perduta e ci riconcilierebbe con la natura, superando l’alienazione dell’uomo capitalistico. Non vogliamo far girare la ruota della storia al contrario.
Solo il superamento di questo sistema, il Capitale, potrà riconciliare l’uomo con sé stesso e restituirgli la sua umanità.
Tuttavia uno strumento di tutela immediata utile contro la violenza che si abbatte sulle donne potrebbe essere la solidarietà e il materiale reciproco aiuto tra le donne proletarie, cioè l’organizzazione di una rete di mutuo soccorso, coinvolgendo anche i proletari maschi che saranno disponibili ad agire quella solidarietà di classe che è l’unico rimedio alla desolante, violenta e misera esistenza individuale, propria della società borghese. Questa solidarietà, questo mutuo aiuto è parte integrante della lotta di classe contro il capitale, è una lotta immediata, come le lotte sindacali per rivendicazioni economiche. E al pari di esse, per il proletariato, ogni lotta, ogni sciopero è la palestra della lotta di classe.
La solidarietà e la coscienza delle questioni legate all’oppressione e allo sfruttamento delle donne dovrebbe svilupparsi prima di tutto tra i compagni, nel Partito: caratteristico nucleo della futura società comunista, esso sarà la direzione del movimento di classe che spazzerà il potere della borghesia, abbatterà lo Stato e le sue istituzioni, instaurerà la dittatura della sua classe nella fase necessaria alla transizione verso il comunismo.
Solo allora, in una nuova organizzazione sociale, sul modello di quella dei primi anni della rivoluzione bolscevica nella Russia del 1917, le donne godranno di una reale parità sociale e di una reale considerazione del ruolo fondamentale che hanno nella società.
Dobbiamo dunque ripensare alla Giornata Internazionale della Donna come uno strumento di mobilitazione reale, con scioperi, manifestazioni e azioni concrete che mettano in discussione le strutture economiche e sociali dominanti. La lotta per l’emancipazione delle donne non può essere ridotta a un rituale annuale, ma deve diventare parte di una unica strategia di lotta proletaria.
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