La guerra borghese nella fase imperialistica del capitalismo assume frequentemente le caratteristiche dello sterminio di popolazioni civili. La corrente della Sinistra Comunista è sempre stata consapevole di questa “novità” antica di oltre un secolo e dunque c’è poco di cui stupirsi come fanno gli ipocriti di fronte all’immane e infame massacro in corso a Gaza, il quale rientra pienamente nei dispositivi con cui il regime del capitale tenta di fare fronte alla propria crisi sempre più ingravescente e irreversibile. Il fenomeno della guerra di sterminio viene talora rappresentato dai mezzi d’informazione, cioè dal possente apparato di produzione ideologica in mano alla classe dominante borghese, come un fatto improvviso e quasi inaspettato e questo aspetto va tenuto in considerazione perché consente agli Stati e alle fazioni politiche coinvolte nella guerra di imporre alle masse subalterne una lettura artefatta dei processi in corso di svolgimento. In realtà non c’è nulla di inaspettato nel divampare repentino di un conflitto e nella sua tendenza a volgersi nel massacro indiscriminato di popolazioni civili: la borghesia incapace di assumere la funzione di classe generale, a causa dei suoi conflitti interni, cavalca le onde di marea delle crisi che fanno trascendere la contesa economica in guerra guerreggiata. La classe dominante, a un certo punto dell’avanzare della crisi, vede dunque nella guerra l’inevitabile sbocco all’accumularsi di contraddizioni incoercibili, e così si adatta a preparare per tempo il conflitto sia in senso militare che ideologico. Quest’ultimo aspetto della preparazione bellica, vede la macchina della propaganda di ciascuno Stato impegnata ad agire con un largo anticipo coltivando nella propria “opinione pubblica”, in maniera sottile e senza darlo troppo a vedere, i pregiudizi più assurdi e menzogneri nei confronti delle nazioni e delle etnie contro le quali si rivolgerà un giorno la furia distruttiva del proprio esercito. Nell’arco di anni e decenni che precedono il divampare dei conflitti, il veleno ideologico verrà somministrato a dosi sempre crescenti alle grandi masse attraverso giornali e programmi televisivi mettendo in cattiva luce il “popolo” nemico, il quale viene descritto attribuendogli un lungo catalogo di caratteristiche negative che finiranno col tempo per radicare la diffusa convinzione della sua sostanziale disumanità.

Nel caso dei massacri di Gaza, se oggi una parte cospicua della popolazione israeliana è incline a sostenere le azioni efferate del proprio esercito, è perché la campagna propagandistica di disumanizzazione della componente etnica palestinese ha una storia lunga che ha conosciuto diverse fasi prima di compiere quel salto qualitativo verificatosi dopo l’attacco compiuto da Hamas e altre componenti politiche palestinesi il 7 ottobre del 2023. Certo anche con la Nakba [1] del 1948 ci fu bisogno che fra le milizie sioniste si radicasse un atteggiamento diffuso di odio nei confronti della popolazione palestinese sottoposta in alcuni casi a eccidi feroci e a una espulsione in massa dalla Palestina che coinvolse almeno 710.000 persone. Col linguaggio politico di oggi si parlerebbe di una “pulizia etnica” di enormi proporzioni e a questo proposito occorre ricordare come l’introduzione di questa locuzione nei media nel corso degli anni ’90 del secolo scorso per descrivere fenomeni legati alle guerre balcaniche fornì l’appiglio ideologico per giustificare l’intervento militare della Nato contro la Serbia per la questione del Kosovo. Un elemento essenziale della propaganda israeliana attraverso i quasi otto decenni che ci separano dalla Nakba è consistito nella negazione costante e sistematica del fatto che la nascita di Israele fosse legata indissolubilmente a questa tragica “pulizia etnica”. La grande stampa israeliana con rare eccezioni questo non lo ha mai ammesso e non lo ha fatto mai neanche la stampa mainstream dei paesi alleati di Israele. Semmai ad associare il concetto di “pulizia etnica” alla Nakba palestinese ci ha pensato lo storico israeliano come Ilan Pappé il quale è diventato da parecchi anni nel suo paese e all’estero il punto di riferimento di una “narrazione alternativa” della nascita di Israele. Per i maggiori organi di stampa israeliani il racconto ha sempre associato i palestinesi, o meglio gli “arabi” dato che a eccezione di una pubblicistica minoritaria “di nicchia”, non è stata mai riconosciuta l’esistenza di un’etnia palestinese che si differenziasse in qualche modo dal resto del mondo arabo. Dunque per decenni si è tenuto in piedi lo stereotipo dell’”arabo terrorista” sempre intento a minacciare la vita degli israeliani o degli ebrei in genere al fine di destabilizzare e infine distruggere lo Stato di Israele. I palestinesi sono però la nazione oppressa e pertanto il “racconto” israeliano ha suscitato spesso una comprensibile antipatia anche lontano dalla Palestina in molte regioni del mondo. Tale ripulsa della versione israeliana è stata alla base di un racconto completamente capovolto da parte di parecchi paesi arabi e musulmani.
Negli anni ’50 del secolo scorso, l’affermazione delle varie tendenze del panarabismo, sul tema della Palestina e della nascita di Israele, adottarono una narrativa tesa a eludere un aspetto essenziale che accompagnò i primi tempi della fondazione del nuovo stato, cioè una “pulizia etnica” speculare a quella della Nakba che portò all’espulsione da parecchi paesi arabi di circa 850.000 ebrei appartenenti alle comunità israelitiche locali. Questo è un aspetto che viene sistematicamente rimosso da quanti hanno fatto propria la bandiera dell’antisionismo e auspicano una “Palestina libera dal fiume al mare”. Allo stesso tempo quanti auspicano la distruzione di Israele quale unica soluzione della questione dell’oppressione nazionale palestinese, se non nel caso delle componenti più apertamente antisemite, difficilmente ammettono che la loro posizione non prospetta altro sbocco per gli ebrei israeliani che non sia quella di prendere la via dell’esilio.

Questo ultimo aspetto dimostra come sia difficilmente accettabile per gli israeliani la possibilità della fine del “proprio” Stato e come anche in via subordinata sia vista comunque con sospetto, se non con aperta ostilità, anche la possibilità di dare vita a uno Stato palestinese accanto a quello israeliano. Se abbiamo voluto passare in rassegna seppure in maniera molto sommaria il materiale ideologico che si accumula nell’ambito della politica borghese è perché ci interessa sottolineare come rimanendo sotto il dominio del capitale sia estremamente difficile, cioè praticamente impossibile, raggiungere una evoluzione politica e sociale della regione mediorientale che eviti nuove guerre e nuovi massacri. 
La nostra corrente politica marxista propone una visione dei conflitti mediorientali e della questione palestinese che si distingue in maniera totale sia da quella dei sostenitori di Israele che da quella degli “antisionisti”. Da entrambi gli schieramenti ci divide innanzitutto il rifiuto di una visione interclassista e l’indisponibilità ad adottare i clichés che portano a valutare “i popoli” in senso etico. Noi da marxisti consideriamo il concetto stesso di “popolo” come un’astrazione arbitraria, dato che dietro a questo termine si nasconde un amalgama indistinto di classi distinte e antagoniste fra loro. Addentrandoci sul tema del sionismo dobbiamo ricordare che la nostra corrente già da parecchi decenni ha analizzato il fenomeno inserendolo nel contesto della vicenda storica dell’Europa fra gli ultimi decenni dell’Ottocento e la prima metà del XX secolo. Per quanto il sionismo fosse stato giudicato sin dall’inizio dai marxisti come un movimento reazionario, è innegabile che esso sia stato il prodotto dell’oppressione nazionale subita dagli ebrei nell’Europa orientale e della loro mancata integrazione nei paesi del resto del Vecchio Continente. Karl Marx nello scritto “Zur Judenfrage” (“Sulla questione ebraica”) del 1843 aveva già spiegato come la sola condizione alla quale gli ebrei potevano raggiungere la loro emancipazione andasse cercata nella fine dello Stato politico. Si tratta di un elemento essenziale del nostro programma comunista questa fine dello Stato politico e in questo noi da oltre 180 anni abbiamo sempre indicato il risultato ineludibile che raggiungerà presto o tardi il moto storico della società umana.

Nel corso dell’Ottocento all’interno dell’impero russo i decreti zaristi avevano peggiorato enormemente la condizione degli ebrei costringendoli a vivere nelle cosiddette “zone di residenza”. Sottoposti a una doppia oppressione, nazionale e di classe, negli ultimi decenni dell’autocrazia zarista una parte cospicua degli ebrei si unì al movimento operaio e dapprincipio il sionismo non ebbe grosso successo. Anche il Bund, il partito dei lavoratori ebraici, fu decisamente antisionista. I socialdemocratici russi e Lenin in prima fila, condannarono il sionismo, a ragione, come movimento reazionario dato che divideva il movimento internazionalista di classe e si opponeva alla diffusione di sentimenti di solidarietà fra i proletari di diverse nazioni. Ma il movimento operaio venne sconfitto in maniera definitiva con l’affermazione dello stalinismo negli anni ’20 del secolo scorso e l’affermarsi della controrivoluzione mondiale e così i massacri della seconda guerra mondiale costrinsero le masse ebraiche a vedere soltanto nella nascita dello Stato di Israele la propria unica possibilità di salvezza. Da allora diverse generazioni di ebrei israeliani si sono succedute sul suolo di Palestina e alle loro orecchie nulla suona più strano e odioso dell’idea che la loro presenza possa essere cancellata dalla regione e che debbano essere costretti a trovarsi un altro posto dove andare a vivere. In riferimento al tema della terra da abitare si tratta di un punto di vista e di un sentimento non diverso da quello delle masse palestinesi che hanno vissuto le condizioni dell’occupazione militare israeliana per decenni in Cisgiordania e a Gaza, o che vivono in condizioni assai difficili nei campi profughi dei paesi arabi confinanti con Israele. Questi ultimi, per le condizioni di emarginazione patita nei paesi “ospiti” vedono ancora oggi nel “ritorno” in Palestina, nei villaggi e nelle città d’origine, la sola prospettiva possibile per potere conquistare una vita decente e degna. Tutti questi aspetti devono essere tenuti in considerazione per spiegare come otto decenni di dominio borghese successivo alla seconda guerra mondiale non abbiano fatto altro che aggravare la situazione mediorientale senza neanche tentare di prospettare una via d’uscita dal conflitto permanente che risultasse accettabile a tutte le parti coinvolte. Tale via d’uscita non era e non è oggi possibile trovarla perché la borghesia non conosce la possibilità di una pace che non sia armata e iniqua allo stesso tempo. Sul versante israeliano si è assistito al crescente radicalizzarsi del nazionalismo con l’affermazione di governi sempre più militaristi che hanno fatto un imperativo assoluto dell’odio contro i palestinesi e hanno imposto loro un’oppressione nazionale sempre più insopportabile e degradante. Allo stesso tempo, in campo palestinese, nonostante l’istituzione nel 1994 dell’Autorità Nazionale Palestinese e il conseguente sviluppo del collaborazionismo con la potenza occupante di alcuni settori della borghesia palestinese, si è assistito all’indebolimento delle organizzazioni politiche laiche e di sinistra (borghese) e all’affermazione delle componenti religiose e oscurantiste che si pongono come obiettivo esplicito la distruzione di Israele.  Nel caso particolare della striscia di Gaza, il blocco israeliano che l’aveva isolata dal resto del mondo, ha permesso l’affermazione di Hamas come arbitro assoluto in uno Stato di fatto che ha preparato per oltre un quindicennio una guerra asimmetrica ma mortale contro Israele. Così i due processi paralleli in Israele e nei Territori occupati palestinesi erano entrati in rotta di collisione da parecchi anni prima che l’urto si manifestasse con l’attacco palestinese del 7 ottobre del 2023 e la conseguente risposta israeliana con la distruzione di Gaza. Allora si è compiuto un salto a una nuova fase dello scontro in cui l’annientamento dell’avversario diventa, per le forze in campo, l’unico sbocco possibile.

Oggi per il massacro della popolazione di Gaza si parla spesso di genocidio. Si tratta di un termine verso il quale noi non possiamo non manifestare una certa diffidenza che deriva dal fatto che esso sia nato nell’ambito della terminologia giuridica borghese e che in passato, spesso associato all’espressione “pulizia etnica”, sia servito per giustificare interventi militari e punizioni collettive nei confronti di nazioni ed etnie considerate responsabili di tale categoria di crimini. Per questo di preferenza nella nostra produzione pubblicistica sarebbe consigliabile, quando possibile, utilizzare termini che si discostino in maniera più netta da tale quadro ideologico e giuridico. Pertanto si potrebbe parlare di “guerra di annientamento” o di “guerra di sterminio”. Tuttavia non siamo noi a decidere quale è il linguaggio corrente che viene imposto dalla classe nemica e dalla sua grancassa mediatica e non si può negare che il massacro ancora in corso a Gaza corrisponda in gran parte alla definizione che lo stesso diritto borghese fornisce del termine “genocidio”.  Bombardamenti indiscriminati e a tappeto, la distruzione pressoché totale delle abitazioni, la distruzione o il grave danneggiamento di nove ospedali su dieci con i pazienti e il personale sanitario dentro, l’uccisione frequente dei soccorritori dopo i bombardamenti, il blocco dei convogli umanitari con i farmaci e il cibo, l’affamamento sistematico della popolazione civile, l’eliminazione dei testimoni in grado di comunicare con l’esterno della Striscia coi 280 giornalisti uccisi, i raid aerei contro personale di organizzazioni dell’Onu e delle organizzazioni umanitarie, sono tutti ingredienti che autorizzano l’uso del termine genocidio senza virgolette. Inoltre la degradazione dell’ambiente causato dai bombardamenti non può non esitare in una pulizia etnica se si considera che già adesso sono inabitabili vaste porzioni del territorio della Striscia. A Gaza sono già cadute 85mila bombe, di cui circa il 10% sono rimaste inesplose. Questo significa che oltre 8mila ordigni fanno del territorio un grande campo minato la cui bonifica richiederà parecchio tempo. Le esplosioni hanno rilasciato ingenti quantità di elementi pesanti come arsenico, cadmio, mercurio e piombo che avvelenando il suolo e le falde acquifere e col tempo, inserendosi nella catena alimentare, provocheranno danni alla salute degli abitanti della Striscia di Gaza per alcuni decenni. La distruzione delle reti idriche e fognarie ha già provocato un aumento esponenziale delle malattie infettive. Facile supporre che la deportazione della popolazione palestinese dalla Striscia di Gaza un giorno verrà presentata come un “intervento umanitario”.

Il massacro negli ultimi 600 giorni è andato avanti perché finora nessuna forza borghese ha avuto alcun interesse e dunque alcuna intenzione di fermarlo. Non sono interessati gli Stati capitalisti, a partire da quelli dell’area, che hanno utilizzato la questione palestinese come arma ideologica per assoggettare il proprio proletariato sotto la bandiera borghese e perseguire i propri obiettivi di potenze regionali. Allo stesso tempo non aiuta le masse massacrate di Gaza l’ideologia antisionista che vede nella distruzione o quanto meno nella dissoluzione dello Stato di Israele, la soluzione di ogni problema. Se oggi antisionismo significa essere contrari all’esistenza di uno Stato ebraico e auspicarne la distruzione, ma allo stesso tempo non auspicare la fine di tutti gli Stati della regione, questo atteggiamento come può essere ragionevolmente disgiunto dall’antisemitismo bello e buono?

Il programma del comunismo è lontano tanto dalla statolatria sionista che dalla cosiddetta “Resistenza palestinese” e dall’antisionismo dei movimenti pro Palestina.  Questi movimenti borghesi e interclassisti, anche quando sono animati dalle migliori intenzioni (per quanto possano esistere “buone intenzioni” nell’ambito dell’ideologia del benpensante borghese), non fanno che lavorare per rafforzare la spirale della violenza contro la popolazione civile.  Se oggi Hamas ha nel suo statuto, l’obbligo di uccidere ovunque gli ebrei, nella misura in cui tale organizzazione è egemone nella cosiddetta resistenza palestinese, questo impedisce ovviamente qualsiasi avvicinamento dei lavoratori israeliani alle istanze dei proletari palestinesi e alla prospettiva di un’unione di classe proletaria al di sopra delle nazionalità. Allo stesso tempo la promessa della distruzione di Israele condanna gli ebrei israeliani e in parte anche della diaspora a stringersi attorno all’infame governo di Netanyahu con la speranza di essere difesi da un nemico percepito a torto o a ragione come mortale. I proletari ebrei israeliani pensano, anche con qualche ragione, di vivere “a casa loro” e non credono di dovere fare le valige perché movimenti o Stati borghesi che hanno fatta propria la bandiera dell’antisionismo, hanno deciso che Israele non deve esistere. La stessa cosa vale per molti ebrei della diaspora che pensano che Israele sia l’unico paese dove nessuno li fa sentire in condizioni di minorità in quanto ebrei. Singolare che questo sentimento sia sentito in maniera ancora più frustrata e capovolta anche dai palestinesi che avvertono la privazione di non avere un proprio Stato dunque un proprio Paese.

La rivoluzione comunista che noi prevediamo in maniera scientifica ci porta a non prospettare nessuna soluzione né per i palestinesi, né per gli israeliani in quanto tali, i quali finché resteranno saldamente attaccati all’idea e alla realtà dello Stato nazionale (reale nell’immaginario anche quando è inesistente) verranno condannati a reiterare massacri reciproci su vasta scala. La nostra rivoluzione offrirà una sola soluzione a tutta la classe lavoratrice mondiale al di sopra delle differenze di nazionalità: il rovesciamento della mortifera dominazione borghese, la distruzione di tutti gli Stati capitalisti esistenti e con essa la fine di ogni oppressione di classe, di razza e di nazionalità.

Noi possiamo solo ribadire le nostre posizioni.

Ai proletari palestinesi, ai proletari arabi, diciamo con chiarezza: ogni via nazionale (soluzione “due popoli, due stati”) è un vicolo cieco, destinato a protrarre all’infinito guerre, sofferenze, distruzioni.

L’unica via d’uscita da questo inferno lungo ottant’anni, non sarà né semplice né rapida. Essa richiede il capovolgimento radicale di tutte le prospettive politiche fin qui adottate e sostenute dalle formazioni borghesi “resistenziali” e “nazionalistiche”.

L’unica prospettiva è il comunismo, in termini teorici e pratici: lo scontro politico quotidiano e la lotta sociale aperta, fino alla guerra di classe, in stretto collegamento con il movimento proletario mondiale. Questa è la prospettiva che deve essere riconquistata e riattivata.

Qualunque sarà l’esito politico dell’attuale immane carneficina, il proletariato di Gaza, della Cisgiordania, di tutti i paesi arabi coinvolti e il proletariato israeliano dovranno lottare uniti su un doppio fronte:

  • Contro la borghesia israeliana rappresentata oggi dal governo Netanyahu e dallo Stato israeliano, che ha ferocemente perseguitato negli anni la popolazione palestinese;
  • Contro la borghesia araba oggi rappresentata da Hamas, dall’ANP, e dai governi degli altri paesi arabi, che ha sacrificato la popolazione palestinese e il proprio proletariato come carne da cannone per il conseguimento dei propri interessi, per la continuazione dei propri traffici internazionali.

Allo stesso tempo, spetterà al proletariato delle metropoli dell’imperialismo più antico, una volta ritrovata la strada dell’aperto conflitto sociale – senza compromessi e senza confini, sotto la guida del partito comunista internazionale – integrare la battaglia locale del proletariato arabo nella più ampia, generale e decisiva guerra di classe mondiale contro la borghesia, per l’abbattimento degli Stati, per una società senza classi, per il comunismo.

3 giugno 2025


[1] “la catastrofe”: esodo forzato di 710.000 palestinesi

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