La guerra è una costante che accompagna l’umanità fin dalle sue origini, ma la sua natura e funzione si sono trasformate profondamente nel corso del tempo. Le società comunistiche originarie, esistite per decine di migliaia di anni, conoscevano il conflitto ma lo vivevano entro una logica organica, funzionale all’equilibrio collettivo e mai distruttiva dell’intero organismo sociale. Queste comunità, integrate con la natura e basate su un sistema di vita non antagonistico, erano strutturate secondo rapporti non di dominio, e perciò estranee all’idea di guerra permanente.

L’emergere delle società divise in classi sociali antagoniste segna il momento in cui la guerra assume il volto della conquista, del saccheggio, dell’asservimento dell’uomo sull’uomo. Nelle società antiche e feudali, come anche nelle prime fasi del capitalismo, le guerre restavano tuttavia limitate da un punto di vista territoriale e strategico, finalizzate a ridefinire confini, consolidare poteri, sottomettere popolazioni rivali.

Con l’affermarsi della fase imperialista del capitalismo, soprattutto a partire dal 1871, la guerra assume invece una portata completamente nuova: non si tratta più solo di un sistema di regolazione nei rapporti tra Stati o fra borghesie nazionali, ma di una funzione strutturale dell’economia capitalista globale. Le guerre imperialiste, ben al di là della spartizione del mondo tra potenze rivali, diventano un mezzo per rilanciare il processo d’accumulazione, attraverso la distruzione di capitale costante (strutture, macchinari, beni) e capitale variabile (forza-lavoro). Questo bagno di sangue non è un effetto collaterale, ma una condizione funzionale alla ripartenza del ciclo di valorizzazione del capitale. Per questo le guerre moderne sono in primo luogo guerre contro il proletariato, volte a prevenire la sua insorgenza rivoluzionaria in momenti di crisi e anche ad eliminare fisicamente masse di lavoratori divenute superflue rispetto alle esigenze dell’apparato produttivo. Le due guerre mondiali sono l’esempio più chiaro di questa trasformazione: sotto la maschera degli scontri tra potenze, si cela una guerra di classe condotta su scala globale. Non è importante chi vinca, ma che la guerra si combatta e divori milioni di esseri umani, mantenendo in vita il capitalismo. Già durante la Prima guerra mondiale, la pianificazione congiunta dei comandi militari e politici suggerisce un’intesa occulta per contenere le potenzialità rivoluzionarie del proletariato, come dimostra l’interruzione delle ostilità nel 1918 di fronte alla minaccia bolscevica in Germania. Nel secondo conflitto mondiale, la natura profondamente anti-proletaria e sistemica della guerra diventa ancora più evidente: le città vengono bombardate con un potenziale bellico mai visto, diventano il bersaglio prioritario, si distruggono strutture civili, forza-lavoro eccedente e preventivamente ogni possibilità di disgregazione dell’ordine capitalistico. Oggi, questa tendenza non si è arrestata, ma ha assunto forme nuove, più perverse e raffinate. Il capitalismo contemporaneo, segnato da una crisi di sovrapproduzione cronica iniziata negli anni Settanta e mai superata, ha affinato i suoi strumenti di sterminio. Accanto alle guerre convenzionali, limitate a teatri regionali, si sviluppa una guerra diffusa, latente, permanente, non dichiarata ufficialmente, eppure concreta e devastante. Fame, malattia, miseria, migrazioni forzate, emarginazione sociale, sono gli strumenti principali con cui il capitale elimina la parte della popolazione che non può essere valorizzata. Questo processo colpisce in primo luogo i proletari dei paesi più poveri, condannati a un’esistenza di stenti, alla fame, alla morte lenta o improvvisa, perché la loro sopravvivenza rappresenta una minaccia potenziale per la stabilità dell’ordine borghese. La guerra diventa così guerra camuffata, guerra per lo sterminio silenzioso della forza-lavoro in eccesso. In tale contesto, i vari attori geopolitici, i blocchi imperialisti, i governi nazionali, non sono altro che esecutori, interpreti subordinati ad una strategia dettata dal modo di produzione capitalistico, l’unico vero regista della tragedia storica in atto. I conflitti tra potenze, gli antagonismi, le tensioni internazionali, sono parte della sceneggiatura globale attraverso cui il capitale gestisce la propria crisi strutturale, ristruttura il ciclo di valorizzazione, eliminando capitale costante, capitale variabile, la popolazione improduttiva e così riconfigura il dominio di classe. Sotto la superficie della pace apparente, seguita al secondo dopoguerra, la guerra non è mai cessata: ha semplicemente assunto forme meno evidenti, ma non per questo meno letali. In definitiva, lo sterminio delle masse proletarie eccedenti non è una tragica eccezione, ma un’esigenza organica del capitale in crisi. La guerra non è più mezzo di soluzione delle contese tra Stati, ma fine strutturale del modo di produzione dominante: uno strumento di gestione economica, sociale e politica. Solo la rivoluzione del proletariato, vittima designata di questo meccanismo infernale, potrà spezzare la catena dello sterminio, liberare la specie umana dalla barbarie programmata del capitale e restituire all’umanità la possibilità di uno sviluppo armonico, libero e non più fondato sull’annientamento.

30 luglio 2025

Una replica a ” IL REGIME CAPITALISTA E L’ESIGENZA DI STERMINIO”

  1. Avatar luca
    luca

    BRAVI,

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