La guerra capitalistica con i suoi orrori, i suoi lutti e con le sue dure conseguenze per i lavoratori, anche quando si svolge in aree geografiche lontane, non lascia mai indifferenti i proletari. Non è un caso dunque se il disgusto e l’indignazione diffusi fra le masse lavoratrici per l’immane massacro di Gaza abbia indotto diverse organizzazioni sindacali italiane cosiddette “di base” a proclamare uno sciopero generale. Lo sciopero del 22 settembre, in quasi due anni dall’inizio della guerra a Gaza, è la prima iniziativa in cui si fa appello alla classe lavoratrice. Un fatto significativo, indipendentemente dalle riserve che si possono nutrire per le direzioni di quelle organizzazioni sindacali. Evidentemente i lavoratori hanno manifestato un’istanza che i sindacati hanno dovuto accogliere. L’adesione delle diverse organizzazioni allo sciopero non è stata simultanea, confermando la pessima abitudine del sindacalismo “di base” di non concordare azioni unitarie che possano coinvolgere un ampio numero di lavoratori, ma ha visto diverse sigle aggiungersi all’iniziativa in un secondo tempo, una volta che hanno constatato la disponibilità di consistenti settori di salariati di aderire allo sciopero. Quando la lista delle organizzazioni di base si è allungata, è intervenuta la Cgil che con una mossa a sorpresa ha convocato un’altra giornata di sciopero per il 19 settembre, favorendo la frammentazione delle iniziative di lotta contro la guerra di Gaza e dividendo i lavoratori.
Negli ultimi mesi, a mano a mano che la mattanza dei palestinesi di Gaza assumeva il carattere dello sterminio, si è assistito allo sviluppo di un movimento internazionale che ha guadagnato in tempi rapidi sia ampiezza che visibilità. Questo movimento, tutto all’insegna della bandiera nazionale palestinese, per quanto motivato da una comprensibile ripulsa per gli orrori della guerra, ha assunto connotati politici indistinti e confusionari (se non alle volte addirittura equivoci!) che riflettono la sua natura interclassista. Una parte cospicua di quanti partecipano a questo movimento si sente spinta da motivazioni “etiche” e da un profondo sgomento provocato dalla mostruosa carneficina della popolazione inerme. Il movimento per la Palestina ha trasformato tali motivazioni “etiche” in una lista di rivendicazioni che rientrano tutte nell’ambito delle compatibilità della politica borghese e dei mezzi che le sono propri. Molti manifestanti chiedono ai loro governi di applicare sanzioni nei confronti dello Stato di Israele e di riconoscere lo Stato di Palestina. In sostanza questo movimento invoca il “ripristino” delle “regole del diritto internazionale”, cioè di quello che per noi marxisti è sempre stato una ratifica a posteriori dei rapporti di forza fra le potenze capitalistiche. Alcune frange dello stesso movimento, ispirate da una posizione politica “antisionista”, si pongono invece obiettivi apparentemente più radicali come quello di “liberare la Palestina dal fiume al mare”, distruggere lo Stato di Israele ed eliminare da quel territorio la presenza “sionista” (cioè ebraica), ossia sul piano dell’appoggio incondizionato alla cosiddetta “resistenza palestinese” rappresentata in primo luogo da Hamas, cioè dalla sua organizzazione più forte sia in termini di consistenza numerica degli aderenti che di forza militare.
A determinare la potenza di questa organizzazione è stato il forte sostegno internazionale da parte di alcune potenze della regione mediorientale e la sua affiliazione all’organizzazione dei “Fratelli Musulmani”. Non ci stupisce che in una fase di avanzata decrepitezza del regime sociale del capitale, la giusta istanza di porre fine all’infame oppressione nazionale imposta dallo Stato capitalista di Israele alla componente etnica palestinese, sia stata incanalata verso forze politiche borghesi retrograde e oscurantiste in senso religioso, presentandosi dunque in maniera così lontana dalle caratteristiche tipiche dei movimenti di liberazione dall’oppressione coloniale che hanno caratterizzato gli anni ’50 e ’60 del secolo scorso. Se Hamas non assomiglia al Fronte Nazionale di Liberazione algerino che si connotava come “laico e progressista” è perché allora la stagione delle rivoluzioni nazionali non si era ancora conclusa e la borghesia dei popoli coloniali doveva prendere le distanze anche da un punto di vista ideologico dalle vecchie classi sociali dominanti precapitalistiche che con loro ruolo sociale e col loro vetusto apparato di idee, non avevano saputo opporre una valida resistenza alle potenze europee. Noi sappiamo bene che la borghesia, in ogni parte del mondo si è trovata al potere liquidando le vecchie classi dominanti e per fare fronte alla nuova insidia rappresentata dal proletariato, ha dovuto rinnegare quei caratteri di laicismo, progressismo e illuminismo che aveva assunto in passato, e così si è riscoperta presto bigotta, reazionaria e oscurantista. Ma al di là di tali caratteristiche ideologiche è soprattutto la funzione sociale della borghesia palestinese a precludere per noi marxisti qualsiasi possibilità di appoggio alle sue manovre politiche e militari. Essa è soggetta a Israele in Cisgiordania e sotto la forma di Autorità Nazionale Palestinese svolge il ruolo di gendarme per conto dello Stato dominante e della sua politica segregazionista, mentre a Gaza e altrove, sotto la guida di Hamas, opera per conto delle potenze regionali, esponendo le masse proletarie palestinesi ai massacri operati dall’esercito di Israele, per scopi assai lontani dai loro interessi di classe.
Non ci stupisce tuttavia che componenti del movimento per la Palestina, ben inseriti nel sindacalismo “di base”, che si proclamano addirittura marxisti, si schierino dalla parte della cosiddetta “resistenza palestinese”. Non è inconsueto trovare nella storia, a partire dagli inizi del Novecento, episodi in cui nelle fasi in cui si faceva più forte la reazione, alcune tendenze politiche e sindacali che fiancheggiano il movimento operaio, hanno cercato nel sostegno alla guerra borghese un espediente per surrogare la temporaneamente scarsa propensione dei lavoratori alla lotta.
Nonostante le nostre riserve riguardo alle caratteristiche del movimento per la Palestina e ai fini che si propone e ai metodi che adotta per perseguirli, dobbiamo prendere atto che esso esiste e che non sarà facile che esso intraprenda la strada che noi auspichiamo: quello di un movimento classista contro la guerra borghese che trovi un modo efficace per ostacolare e infine fermare i conflitti in corso e impedire, al loro primo manifestarsi, quelli futuri. Per ottenere questo risultato non si tratta di fare appello alle pulsioni emotive e alla ripulsa morale della guerra e dei suoi massacri. Si tratta piuttosto di fare scendere in campo la classe lavoratrice che nello sterminio di Gaza riconosce la minaccia della borghesia mondiale nei suoi confronti. Ma come si dovrebbe schierare il proletariato di fronte alle guerre nell’epoca imperialista?
Il lavoro in campo sindacale dei marxisti deve consistere nel definire una tattica finalizzata a portare avanti nello stesso tempo sia la lotta per gli interessi immediati dei lavoratori, i cui bisogni vitali sono stati pesantemente compressi dalla crisi capitalistica, che l’opposizione più ferma alla guerra in tutte le fasi di preparazione e su tutti i fronti di combattimento. Questi obiettivi sono legati da un intreccio inestricabile. Non si riusciranno a fermare i massacri di Gaza con scioperi di una sola giornata, facendo appello alla disponibilità dei lavoratori a rinunciare a un giorno di stipendio del loro già magro salario per ragioni meramente “etiche”. Mentre non è affatto un fine “indegno” quello di lottare per forti aumenti salariali e per la riduzione dell’orario di lavoro, per riconquistare almeno una parte del plusvalore relativo prodotto dai lavoratori e sottratto negli ultimi anni dall’intensificazione dello sfruttamento nelle fabbriche. Parimenti non c’è nulla di disonorevole nel rivendicare il salario pieno per i disoccupati che sono costretti a una vita di stenti. I lavoratori devono essere chiamati a lottare per il salario perché in tal modo sottrarranno risorse al riarmo, potranno estendere con maggiore convinzione gli scioperi nel tempo, colpendo con più durezza l’industria di morte degli armamenti, impedendo l’approvvigionamento di armi degli eserciti già in guerra. In tal modo i lavoratori svilupperanno col tempo la consapevolezza che lottare contro la guerra con determinazione non significherà affatto affidare la propria forza a organizzazioni sindacali parassitarie e inconseguenti che la useranno per scioperi rituali e inconcludenti. La classe proletaria riconoscerà sé stessa e la sua forza a mano a mano che svilupperà un’azione coerente per i propri fini di classe. Per fare questo essa dovrà cercare la sua unità al di sopra dei confini nazionali in una dimensione internazionale che abbracci l’intero pianeta.
Questa fraternizzazione fra proletari dovrà essere perseguita anche nei casi in cui essa risulta più difficile da conseguire. Come è assai arduo tentare di unire il proletariato ucraino e quello russo dopo tre anni e mezzo di guerra, assai più arduo è superare la distanza che separa il proletariato ebraico israeliano da quello palestinese sul quale pesa anche una soffocante oppressione nazionale. Per fare questo occorre comprendere la natura di questa oppressione che, pur essendo nata nella fase coloniale del mandato britannico, in seguito, con la nascita di Israele ha acquisito una natura assai diversa. Nel 1948 il nuovo Stato nacque sulla base di quella che in tempi più recenti è stata definita dal diritto borghese come “pulizia etnica” nei confronti di gran parte della popolazione palestinese. Infatti gli ebrei arrivati in Palestina non andavano a occupare il territorio per apprestarsi a uno sfruttamento di natura coloniale. Il sionismo facendosi Stato ha creato una realtà di capitalismo avanzato in cui la popolazione ebraica aveva uno status ben diverso da quello dei dominatori coloniali che appartenevano a una fase precedente della storia del capitalismo. Nella dominazione di natura imperialistica l’etnia dominante si divide in borghesi e proletari e nei confronti della nazione dominata talora non pone altra alternativa che l’assimilazione o la pulizia etnica e lo sterminio. Si deve ricordare che alla Nakba palestinese, seguì nei mesi successivi una corrispondente anche se più frammentata pulizia etnica dell’elemento ebraico dalla quasi totalità dei paesi arabi. Anche questo era a sua volta un segnale del passaggio alla fase dell’imperialismo dell’intera area mediorientale. Quanti auspicano la distruzione di Israele e l’espulsione della popolazione ebraica tacciata di essere un’escrescenza coloniale, sottacciono un elemento essenziale: il proletariato ebraico israeliano, nella stragrande maggioranza dei casi nato in Palestina, non ha una metropoli coloniale nella quale tornare. Per questo il programma di Hamas della distruzione di Israele e dell’eliminazione fisica degli ebrei è espressione di un atteggiamento del tutto identico e speculare a quello dell’attuale governo di Israele nei confronti dei palestinesi. Si tratta in entrambi i casi della ordinaria e conseguente espressione del nazionalismo borghese nella fase imperialistica.
Il programma che la Sinistra Comunista Internazionale offre al proletariato è agli antipodi rispetto ai mostruosi proponimenti delle borghesie di ogni paese e di ogni nazionalità. L’unità del proletariato al di sopra dei confini deve porsi sempre contro la classe borghese nel suo complesso. Infatti la classe dominante capitalistica è internazionale per natura anche se si avvale ancora dello Stato nazionale per ripartirsi profitti e rendite e dividere il proletariato. Per realizzare l’unità fra proletari palestinesi ed ebrei israeliani occorre che i secondi si contrappongano alla propria borghesia rifiutando ogni collaborazione con l’oppressione nazionale e il sistema dell’apartheid imposto ai loro fratelli di classe. Ma questo processo di avvicinamento fra lavoratori non potrà realizzarsi se essi non sentiranno il sostegno da parte del proletariato internazionale che con le sue lotte potrà mettere in panne la macchina internazionale della guerra dal di dentro, intralciandola all’interno di ogni paese.
Lo sciopero del 22 è stato un primo passo che potrà avere conseguenze positive soltanto se sarà seguito da iniziative di maggiore estensione e di ben altro spessore, che si pongano nel quadro della lotta internazionale dei lavoratori. In caso contrario, il movimento per la Palestina, arrestandosi al piano della ripulsa “etica” dei massacri, senza proporre soluzioni di classe a una guerra che ha la sua radice nel sistema economico capitalistico, indulgerà facilmente nella colpevolizzazione del “popolo” oppressore al quale si ascriveranno le reali responsabilità del suo governo. Il risultato sarà la richiesta di una punizione collettiva per gli israeliani e per gli ebrei facendo prevalere l’anima del vecchio antisemitismo che non è affatto assente in questo movimento. Non è niente affatto allarmistico prevedere che un simile movimento, se resterà intrappolato dalle correnti ideologiche borghesi, verrà strumentalizzato dalle potenze capitalistiche ai fini della preparazione ideologica delle guerre future. Soltanto la lotta del proletariato internazionale potrà impedire questa deriva e noi puntiamo su una ben più audace scommessa: fermare la guerra e aprire la strada al rovesciamento della classe capitalistica e di tutti i suoi Stati grandi o piccoli che siano.
24 settembre 2025
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