Il 10 ottobre scorso veniva proclamata la fine ufficiale della guerra di Gaza. Con la cerimonia di Sharm el-Sheikh in Egitto, un nutrito gruppo di nazioni borghesi e le loro appendici armate, pretendevano di chiudere uno dei capitoli più sudici ed efferati della storia moderna del regime del capitale. Definire “guerra” lo sterminio della popolazione di Gaza può sembrare quasi un eccesso, dato che la combattività di una delle due parti in lotta era bassa e le vittime erano quasi soltanto dalla parte dei palestinesi. Tuttavia ha un senso parlare propriamente di guerra. Infatti le guerre possono essere anche asimmetriche specialmente quando una delle due parti si aspetta una vittoria politica che non viene dal numero delle perdite che si infliggono all’avversario o da quelle che si subiscono. Questo è stato il caso di molte guerre di liberazione nazionale come lo sono state in tempi storicamente abbastanza recenti quelle dell’Algeria o del Vietnam, o anche guerre di altra natura come quella dell’Afghanistan in cui la potenza al vertice della gerarchia imperialistica ha dovuto riconsegnare il paese che aveva invaso ai vecchi governanti borghesi e oscurantisti che aveva rovesciato, dopo vent’anni di un conflitto costosissimo e inconcludente. Anche quella di Gaza è stata dunque una guerra a tutti gli effetti, ma lo è stata soprattutto nel senso che la borghesia di entrambi i campi in conflitto ha combattuto una guerra soprattutto contro il proletariato.
Non è un mai operazione semplice quella di contare i morti ed è sempre straziante per chi ancora è dotato di sensibilità umana in un mondo che sembra volere fare a meno di quella capacità innata dei membri della nostra specie di conoscere e rivivere le sensazioni e i sentimenti degli altri individui che si chiama empatia.
Le stime ufficiali sul numero delle vittime della guerra di Gaza sono agghiaccianti, ma sono con ogni probabilità anche al di sotto del loro numero reale. Secondo le autorità di Hamas le vittime accertate palestinesi dell’esercito israeliano a Gaza dal 7 ottobre del 2023 sono state 68mila. Ma questa cifra esclude i dispersi ancora sotto le macerie degli edifici bombardati e quanti hanno avuto i corpi disintegrati dalle bombe. Ma non basta. Occorre considerare anche quanti sono morti per le cause indirette della guerra. Bisogna domandarsi che fine hanno fatto i feriti che si contano a centinaia di migliaia e che in molti casi non hanno potuto fare ricorso a cure mediche dato che circa il 90% degli ospedali sono stati distrutti o danneggiati e intere schiere di medici e di infermieri sono state uccise (i morti nel personale della sanità a Gaza sono stati oltre 1.300). Poi occorre considerare quanti sono morti a causa della denutrizione o di malattie che si potevano curare a causa della penuria di cibo e di farmaci. La mortalità a Gaza è cresciuta in maniera esponenziale negli ultimi due anni. Come scriveva la Ong italiana Emergency nel marzo del 2025: “un anno fa a Gaza” l’aspettativa di vita “era di 70,5 anni. Oggi si è abbassata a 40 anni”. Un giornale della sinistra borghese israeliana come Haaretz, a inizio dell’estate scorsa, parlava con grande disinvoltura di 100mila morti. Non potremmo stupirci se scoprissimo che in realtà sono molti di più dato che alcuni studi parlano addirittura di oltre 300mila persone che mancherebbero all’appello, cioè oltre il 10% della popolazione totale.
Questo andamento catastrofico della guerra deve indurci a porci una domanda: perché il governo borghese israeliano ha deciso di risolvere la partita contro la fazione borghese palestinese di Hamas passando attraverso la guerra di sterminio della popolazione civile di Gaza? Ci sono molti aspetti storici, economici e sociali, che possono concorrere a dare una risposta a questa domanda, ma ce ne è uno su tutti che per noi prevale sugli altri: il regime del capitale è entrato in una crisi dall’ampiezza senza precedenti e a mano a mano che essa si aggrava diventa sempre più difficile alla classe dominante recuperare il controllo della società che si regge su questo decrepito modo di produzione. Questa incapacità della borghesia di fare fronte alla crisi finirà col fare precipitare il mondo in una guerra generale che, se non verrà impedita dal proletariato, avrà conseguenze catastrofiche come non se ne sono mai viste prima. Resta tuttavia da notare come l’implacabile sterminio della popolazione di Gaza sia stato un messaggio terroristico che la classe capitalista ha lanciato al proletariato mondiale. Non si tratta infatti soltanto di una immane malefatta compiuta dalla borghesia israeliana dato che essa ha potuto contare sul sostegno fattivo di parecchi Stati ai vertici della gerarchia imperialistica mondiale.
VELENO IDEOLOGICO E LE FALSE NARRAZIONI SUL MEDIO ORIENTE
Nei due anni della guerra nella striscia di Gaza, oltre a innumerevoli e atroci sofferenze per la popolazione di quella regione mediorientale abbiamo assistito alla sovrapproduzione di dosi altamente inquinanti di veleno ideologico anche in quelle aree del mondo che si trovano a una certa distanza geografica rispetto al teatro degli eventi bellici. I mass media, cioè il potente apparato di produzione e riproduzione dell’ideologia della classe dominante, hanno svolto un ruolo di primo piano nel tristo lavoro di orientamento delle moltitudini proletarie e piccolo-borghesi a sostegno delle parti in lotta. Gran parte di questo lavoro è consistito nel tentare di radicare nella cosiddetta “opinione pubblica” pregiudizi riguardo la storia recente del Medio Oriente. Questa operazione è stata resa possibile dal fatto che le menzogne e le false rappresentazioni della storia di quell’area geostorica si sono radicate da parecchi decenni attraverso una molteplice opera mistificazione propagandistica sistematica e accanita, attuata da tutte le parti in lotta e dalle rispettive partigianerie. Si rende necessario dunque il tentativo di spiegare l’atroce presente a partire da eventi di grande importanza del passato storico “recente” come l’arrivo in Palestina di successive ondate migratorie di ebrei e la cacciata di una parte consistente delle popolazioni arabe dalle terre che occupavano da secoli, al fine di spiegare le cause della condizione di oppressione nazionale imposta a tutta la componente etnica palestinese.
A questo proposito comunque è opportuno ricordare che tale oppressione si manifesta con diverse gradazioni a seconda che riguardi i palestinesi di Gaza, quelli della Cisgiordania, quelli di Gerusalemme non cittadini israeliani, i palestinesi con la cittadinanza israeliana. Come abbiamo visto i palestinesi gazawi sono quelli ai quali lo Stato di Israele non risparmia alcuna efferatezza e alcuna crudeltà, mentre all’altro polo di questa gradazione dell’oppressione, ai cittadini israeliani palestinesi, cioè i meno sfortunati, viene imposta una discriminazione non sempre troppo blanda. I palestinesi cittadini israeliani sono esentati dal servizio militare e solo in minima parte hanno accesso al pubblico impiego. Un settore nel quale gli arabi-israeliani trovano il massimo inserimento nella società israeliana è quello della sanità. Infatti il 25% dei medici e il 60% dei farmacisti di Israele sono palestinesi. Tuttavia molti lati oscuri confermano la subalternità della popolazione palestinese-israeliana: anche se sono soltanto il 21% della popolazione sono anche le vittime del 70% degli omicidi compiuti in Israele, inoltre mentre fra gli ebrei israeliani la povertà assoluta riguarda meno del 15% delle famiglie, fra gli arabi israeliani questa percentuale sale al 45%. Dati che confermano una situazione generale di oppressione nazionale in linea con lo spirito della legge votata nel 2018 che definisce Israele come lo Stato-Nazione del popolo ebraico, riconosce il diritto autodeterminazione ai soli ebrei e afferma che l’ebraico è la sola lingua nazionale.
LA QUESTIONE EBRAICA E IL TEMA DELLO STATO POLITICO IN MARX
Se da una parte non abbiamo la pretesa di trattare i temi della questione ebraica e di quella palestinese in maniera esaustiva, dall’altra la nostra corrente politica non può venire meno al compito di cercare di smitizzare i pregiudizi e le false rappresentazioni della storia del Medio Oriente e in particolare di Israele e dei territori palestinesi occupati da quello Stato. Per ragioni di tempo non possiamo ricordare nel dettaglio la genesi e gli sviluppi del movimento sionista che sfociò nel 1948 con la nascita dello Stato di Israele, né possiamo ripercorrere l’ultimo secolo di storia del Medio Oriente andando oltre un sommario riepilogo di fatti di particolare importanza.
La vicenda del Medio Oriente contemporaneo è una delle più complesse materie di studio della storia moderna e contemporanea, resa ancora più complicata anche dalla montagna di falsificazioni e di costruzioni ideologiche rivali che hanno inquinato gran parte della produzione pubblicistica e accademica sull’argomento. Nonostante la grande abbondanza di dati reperiti da documenti d’archivio la cui analisi richiede un ricco apparato di conoscenze linguistiche per pochi esperti, difficilmente gli studi accademici, compresi quelli più scrupolosi, riescono ad arrivare a una ricostruzione accettabile della storia della Palestina moderna. A rendere ancora più complesso il lavoro di comprensione storica sono le posizioni partigiane che impediscono di venire a capo di una spiegazione soddisfacente dei processi storici. A noi che per quanto riguarda la conoscenza del contesto socio-economico dell’area mediorientale e del suo divenire storico ne sappiamo assai di meno degli accademici e degli specialisti, spetta comunque l’arduo compito di fornire una lettura aderente alla realtà dei processi storici alla luce degli svolgimenti dei conflitti di classe, utilizzando il metodo dialettico del materialismo storico. Dunque se dobbiamo rinunciare in questa occasione a un’esposizione sistematica di questo tema, anche se in maniera molto succinta e a rischio di apparire schematici, dobbiamo cercare di soffermarci soprattutto su quanto in genere viene tralasciato da tutti o quasi, ogni volta che si affronta il tema del Medio Oriente.
Occorre dunque partire da alcuni cenni sulla cosiddetta questione ebraica alla quale il giovane Karl Marx dedicò uno scritto nel 1843 dal titolo “Zur Judenfrage”. Stiamo parlando di un’opera redatta da un Marx giovanissimo e dunque per quanto non ci piaccia dilungarci sulle vicende biografiche dei militanti del movimento operaio, in questo caso è utile ricordare che egli godeva di un punto di osservazione privilegiato riguardo alla questione ebraica. Marx era il nipote di due rabbini, a 25 anni aveva accumulato una grande quantità di letture, aveva anche la padronanza di parecchie lingue comprese quelle classiche e aveva ampie conoscenze di storia e in particolare della storia delle religioni, dunque trattava l’argomento con estrema competenza. Marx nel suo saggio si proponeva di negare l’assunto della teoria del teologo e esponente della sinistra hegeliana Bruno Bauer, secondo la quale in uno Stato secolare, cioè non confessionale, la religione non svolgerebbe più un ruolo di rilievo nella vita sociale. Secondo Marx la questione andava capovolta: lo Stato in quanto tale presupponeva la religione anche sotto la costituzione più libera da elementi confessionali come avveniva negli Stati Uniti, dove la religione continuava ad essere un aspetto importante della vita sociale. Dunque, a differenza di quanto sosteneva Bauer, il problema della emancipazione degli ebrei (si ricordi che a quel tempo in molti Stati esistevano ancora i ghetti e ad esempio quello di Roma venne aperto soltanto nel 1848 ed eliminato definitivamente nel 1870) non si limitava all’affermazione del carattere secolare dello Stato, ma richiedeva il superamento dello Stato politico in quanto tale. Questo è un punto fondamentale della teoria marxista in un duplice senso: il programma del comunismo che noi definiamo invariante sin dalla nascita della corrente comunista di cui noi ci riteniamo i più coerenti continuatori, non può non prevedere la fine dello Stato politico e tale superamento del feticcio statale porta con sé la fine di tutti gli antagonismi nazionali e religiosi.
Uno studio storico di grande valore sul tema dell’ebraismo fu lo scritto del trotskista belga Abraham Leon dal titolo “Il marxismo e la questione ebraica”. Abraham Leon morì non ancora 26enne ad Auschwitz nel 1944, ma questo non gli impedì di compiere un lavoro eccellente e assai documentato da un punto di vista storico. Il lavoro di Leon parte dalla funzione degli ebrei nell’Europa nell’alto medioevo in cui svolgevano un importante ruolo di raccordo commerciale con le sponde meridionali del Mediterraneo dominate dagli arabi. Già in quell’epoca secondo Leon gli ebrei costituiscono un “popolo-classe” che svolge una funzione mercantile nel contesto di una formazione economico-sociale come quella feudale che mercantile non è o lo è soltanto marginalmente. Questo coincide con quanto affermava Marx nella sua “Zur Judenfrage” sulla “giudeizzazione del mondo” avvenuta con l’affermazione del capitalismo. Va ricordato anche che il testo di Marx in seguito venne accusato, secondo noi a torto, di antisemitismo. In genere i dottori filistei non possono comprendere la dialettica e nella loro ristrettezza mentale non arrivano a capire che per Marx la “poco eroica società borghese” rappresentava un passo avanti rispetto alla formazione economico-sociale feudale che essa aveva sostituito.
Per Leon la questione dell’emarginazione degli ebrei nella società europea non fu una costante storica, nonostante i 2.000 anni di antisemitismo cristiano verso il “popolo deicida”. Nell’Alto Medioevo gli ebrei erano apprezzati perché viaggiavano e commerciavano con paesi altrimenti sconosciuti e questo permetteva di rendere disponibili conoscenze e merci esotiche altrimenti inattingibili.
Voi tutti sapete benissimo come anche nella Spagna musulmana gli ebrei fossero molto apprezzati e come lo stesso califfo omayyade Abd al-Rahman III, che proclamò il califfato di Cordova nell’anno 929 d.C., inaugurò una politica di accoglienza nei confronti degli ebrei. Ma lo sviluppo dei traffici su grandi distanze e la rinascita delle città dopo l’anno mille portarono cambiamenti notevoli nell’assetto sociale di vaste aree dell’Europa occidentale. In Italia il declino del feudalesimo fu assai precoce e una nuova classe mercantile entrò presto in conflitto con la componente mercantile ebraica. Di qui le prime persecuzioni contro gli ebrei che, iniziate già alla fine del XIII secolo, continuarono nei secoli successivi fino alla ghettizzazione della seconda metà del secolo XVI. Alla fine del secolo XIII si ebbe l’espulsione degli ebrei dall’Inghilterra nella quale vennero riammessi soltanto oltre tre secoli e mezzo dopo con Cromwell. Nel 1309 vennero espulsi dalla Francia. Come sappiamo nel 1492 i re cattolici espulsero gli ebrei anche dalla Spagna. Lo stesso accadde in Sicilia nel 1510 e poco dopo l’intera Italia meridionale vide sparire del tutto la presenza ebraica.
Se le comunità ebraiche vennero cancellate quasi del tutto dall’Europa occidentale, non avvenne la stessa cosa nella parte orientale del Vecchio Continente. La Polonia del XVI secolo, sottolineava Leon, era un paese dove gli ebrei trovavano ancora accoglienza. Sempre nel XVI secolo con l’espansione dello Stato russo e la conquista di territori appartenuti alla Polonia in Ucraina e Bielorussia, in cui erano presenti fiorenti comunità ebraiche, si andò radicando una presenza strutturata dell’elemento giudaico anche in Russia. L’integrazione degli ebrei nell’impero russo fu sempre un fatto assai problematico. A metà del XVII secolo, durante una rivolta cosacca in Ucraina vennero uccise centinaia di migliaia di ebrei. Alla fine del secolo XVIII la zarina Caterina II avviò la creazione delle cosiddette “zone di residenza” nelle quali venne confinata la popolazione ebraica. Il XIX secolo vide un progressivo inasprimento della condizione ebraica nell’impero zarista, specialmente nel periodo di regno dello zar Alessandro II. L’assassinio di quest’ultimo nel 1881 scatenò un’ondata di pogrom che provocò un notevole flusso migratorio di ebrei che dalla Russia si diresse principalmente verso gli Stati Uniti e in piccola parte anche verso la Palestina. Dunque a partire da quell’epoca si verificarono le sei Aliyah (plurale Aliyot) cioè le ondate immigratorie che si svilupparono fra il 1881 e il 1948 e che fecero sì che la popolazione ebraica della Palestina raggiungesse i 650 mila abitanti. A determinare un aumento significativo degli immigrati ebrei dell’Europa Orientale in Palestina furono anche le leggi restrittive all’immigrazione adottate da vari paesi. Negli Stati Uniti il Johnson-Reed Act del 1924 ridusse a un numero irrisorio la quota di immigrazione legale dai paesi dell’Europa Orientale e in tal modo deviò i flussi migratori ebraici e determinò un’impennata dell’immigrazione in Palestina nella quarta e quinta Aliyah con le quali si passò da 90mila ebrei del 1923 ai 450.000 mila del 1939. La maggior parte degli ebrei di queste due ondate di immigrazione provenivano dalla Polonia dove nel corso degli anni ’30 l’affermazione dell’antisemitismo aveva contribuito a rendere impossibile la vita degli ebrei grazie alla creazione di una rete di cooperative promosse dallo Stato polacco che si riprometteva di promuovere i commercianti e la classe media polacca attraverso una rete di interessi che escludesse e mettesse ai margini le attività della componente giudaica della popolazione.
La sesta Aliyah che va dal 1939 al 1948 venne chiamata anche “Aliyah illegale” perché il Regno Unito impose severe restrizioni all’immigrazione ebraica in Palestina. Questo proprio nel momento in cui si consumò lo sterminio di una parte consistente della popolazione ebraica europea ad opera essenzialmente della Germania nazista, ma non senza la collaborazione di altri Stati e soprattutto non senza la complicità delle potenze capitalistiche che nella seconda guerra mondiale fecero parte del fronte antifascista.
Sappiamo bene come l’ascesa al potere del nazismo in Germania aveva avuto come effetto immediato un incremento notevole delle persecuzioni nei confronti degli ebrei in Germania. Con le leggi di Norimberga del 1935 si era stabilita una distinzione fra Reichsbürger, cioè “cittadino del Reich” e Staatsangehöriger, ovvero “suddito dello Stato”. Circa mezzo milione di ebrei che appartenevano alla seconda categoria persero di fatto la cittadinanza. A questi si aggiunsero altri 200mila ebrei austriaci i quali si trovarono nella stessa condizione giuridica in seguito all’annessione dell’Austria al Terzo Reich. Come era inevitabile, molti ebrei cercarono di emigrare dal territorio del Reich in ogni maniera senza escludere la possibilità di entrare in maniera illegale in altri paesi. Nel luglio del 1938 si svolse a Evian, in Francia, una conferenza internazionale convocata dal presidente statunitense Franklin D. Roosevelt, alla quale parteciparono i rappresentanti di 32 nazioni per discutere della situazione degli ebrei in fuga dalla Germania. Nessuna delle grandi potenze si dimostrò disposta ad accogliere gli ebrei come rifugiati. Non lo fecero gli Stati Uniti fedeli al Johnson-Reed Act che venne rimosso soltanto nel 1965 che mantennero la possibilità di immigrare soltanto per poche migliaia di persone l’anno, non lo fece la Gran Bretagna che anzi rifiutò di aprire la Palestina agli ebrei, non lo fece neanche la Francia che era il paese che ospitava la conferenza e che col suo rifiuto dimostrò anche l’inconsistenza delle sue pretese di presentarsi come paese leader dell’Europa continentale. Soltanto la Repubblica Dominicana e il Costa Rica si dimostrarono disposti a offrire asilo a un numero non irrisorio di ebrei. Il fallimento di Evian dimostrò quanto poco le potenze democratiche erano disposte ad offrire una via d’uscita agli ebrei salvandoli dal tragico destino che per loro si andava profilando. Allo stesso tempo l’esito di Evian fu sfruttato abilmente dal regime nazista a fini propagandistici: “Se nessuno vuole gli ebrei, perché dovremmo tenerli noi?”, fu il Leitmotiv della propaganda nazista. In seguito ad una nuova legge nel 1941 tutti gli ebrei “sudditi dello Stato” persero anche formalmente la cittadinanza. Lo sterminio di milioni di ebrei durante la seconda guerra mondiale, portato avanti dal regime nazista, fu possibile anche grazie a questo atteggiamento di cinica indifferenza dei governi borghesi di fronte alle persecuzioni e alla politica di emarginazione. Dunque la Germania nazista non fu l’unico responsabile dello sterminio degli ebrei il quale ebbe come corresponsabili a tutti gli effetti anche le altre grandi potenze capitalistiche mondiali. Per quanto possano apparire spesso fuori luogo, equivoci e anche pacchiani i paragoni fra le nefandezze compiute dal regime nazista e quelle compiute oggi da Israele, a noi non stupiscono, né ci appassionano, dato che c’è sempre qualcuno in prima linea a occuparsi del lavoro meno gradito per conto dell’insieme delle nazioni borghesi: ieri era Hitler, oggi è Israele che, come ha detto anche il cancelliere tedesco Mertz, “compie il lavoro sporco per noi”. Nel caso di Gaza, esattamente come per gli ebrei tedeschi 87 anni fa, non c’è stata alcuna grande potenza che si sia proposta in maniera seria di impedire lo sterminio. In questo noi non possiamo trovare altro che l’ordinario cinismo di tutte le guerre capitalistiche le quali assumono sempre più il carattere di sterminio di intere popolazioni pur di salvaguardare gli interessi generali del capitale. Eppure è proprio dai genocidi e dalle pulizie etniche che nascono nuovi genocidi e pulizie etniche. Gli ebrei europei sopravvissuti alla seconda guerra mondiale non avevano molti posti dove andare e con ogni mezzo riuscirono ad aprirsi un varco per confluire in Palestina anche attraverso la lotta armata contro le forze mandatarie britanniche. La guerriglia dell’Irgun e della Lehi (Leji) conosciuta come Banda Stern (Banda de Stern) compì il lavoro preparatorio per spianare la strada alla nascita dello Stato in cui secondo uno slogan rivelatosi in gran parte illusorio “gli ebrei non si sarebbero sentiti più diversi in quanto ebrei”. Spesso si parla di Israele come di un artefatto del colonialismo. In realtà Israele fu il risultato di un movimento nazionale prodotto da decenni di politica imperialistica e nacque nel 1948 come Stato capitalistico pienamente maturo in un contesto geostorico in gran parte ancora semifeudale. Fu allora l’immaturità politica del nazionalismo arabo, conseguenza dell’arretratezza sociale complessiva della regione mediorientale, a favorire l’affermazione dei fini perseguiti da mezzo secolo dal sionismo.
Lo Stato di Israele nacque con una guerra contro sette paesi arabi e il successo della Haganah, la forza di difesa ebraica trasformatasi in seguito in esercito israeliano, venne garantito anche dall’appoggio dell’Unione Sovietica di Stalin e della Cecoslovacchia che, con l’operazione Balak rifornì il nascente esercito israeliano di armi di ogni genere compresi gli aerei caccia Messerschmitt Avia S-199 (versione ceca dei noti velivoli tedeschi). L’Urss riconobbe il nuovo Stato il 17 maggio, ovvero soltanto tre giorni dopo la proclamazione di indipendenza del 14 maggio del 1948. Lo scopo di Stalin era quello di contrastare gli interessi britannici nella regione mediorientale, mentre il Regno Unito nella prima guerra arabo-israeliana fece di tutto per sostenere la coalizione araba che assicurava maggiori garanzie per i propri interessi nella regione. Dunque sbaglia chi vede nella nascita di Israele un prodotto esclusivo del Regno Unito e della dichiarazione Balfour del 1917 che pure autorizzò la creazione di un cosiddetto “focolaio ebraico” in Palestina. In seguito la politica britannica fu assai ambigua e anche perdente: giocò sui contrasti fra arabi e israeliani nella logica del dividi et impera, ma alla fine, specialmente dopo la “crisi di Suez del 1956” dovette cedere il passo insieme alla Francia all’influenza predominante degli Stati Uniti e in posizione di secondo piano dell’Urss.
Riguardo ai primi tempi del mandato britannico sulla Palestina, istituito all’indomani della prima guerra mondiale e del disfacimento dell’Impero Ottomano, occorre ricordare come il sorgere della prima presenza comunista in Palestina incominciò a manifestarsi con un atteggiamento genuinamente internazionalista. Sebbene molti dei militanti comunisti fossero ebrei, il Partito Socialista dei Lavoratori nato nel 1919, nell’aprile del 1921 assunse il nome di Partito Comunista Ebraico, sezione del Partito Comunista di Palestina. Il primo maggio del 1921 il partito organizzò una manifestazione non autorizzata fra Jaffa e Tel Aviv. La manifestazione in cui la partecipazione fu molto scarsa (presero parte circa 55 persone) venne turbata da scontri con una manifestazione sionista. I comunisti si rifugiarono nel quartiere arabo di Manshiye a Giaffa dove in seguito dal violento intervento delle forze di sicurezza britanniche due di loro vennero uccisi. In un comunicato del Comitato Esecutivo del Partito Comunista Palestinese distribuito il primo maggio del 1921 si leggeva: «I lavoratori ebrei sono qui per vivere con voi, non venuti per perseguitarvi, ma a vivere con voi. Loro sono pronti a combattere al vostro fianco contro il nemico capitalista, che sia ebreo, arabo o inglese. Se il capitalista vi incita contro i lavoratori ebrei, lo fa proteggere sé stesso da voi. Non cadete nella trappola; il lavoratore ebreo, che è un soldato della rivoluzione, è venuto a porgere la propria mano da compagno, per resistere ai capitalisti inglesi, ebrei e arabi… Vi chiamiamo a combattere contro i ricchi che stanno svendendo la loro terra e i suoi abitanti agli stranieri. Abbasso le baionette inglesi e francesi; abbasso i capitalisti arabi e stranieri».
Queste posizioni internazionaliste, nei successivi 104 anni non hanno mai più avuto alcuna possibilità di affermarsi in Palestina e non sono mai riuscite ad avere un seguito di massa. A prevalere fu il sionismo, un’ideologia reazionaria che riuscì ad ammantarsi di una veste progressista per preparare un terreno favorevole all’immigrazione dei tanti ebrei dell’Europa Orientale che erano fortemente influenzati dalle teorie socialiste del movimento operaio. Se Israele, in linea coi caratteri ideologici del sionismo doveva essere uno Stato eretto su una base economica capitalistica, allo stesso tempo non si potevano attrarre facilmente i proletari dell’Europa Orientale per lavorare in un’azienda guidata da un proprietario capitalista. Allora ecco che per loro venne ideata l’azienda agraria collettiva del kibbutz. All’interno di tale unità produttiva i rapporti erano completamente collettivistici. I profitti aziendali venivano ripartiti fra i lavoratori che mangiavano in mense collettive e crescevano in comune i figli. Si trattava almeno all’interno del kibbutz di un’organizzazione collettivista anche nella distribuzione. Ma rispetto al resto del mondo il kibbutz navigava nel mare mercantile con le stesse caratteristiche di qualsiasi altra azienda privata. A pensarci bene il sionismo nel perseguire la costruzione dello Stato di Israele ha camminato nella direzione contraria a quella indicata da Marx e che prevedeva proprio il superamento dello Stato politico. Per questo possiamo considerare sia il sionismo che Israele come prodotti della controrivoluzione borghese che da un secolo regna sovrana in tutto il mondo.
La sconfitta araba del 1948 fu pagata soprattutto dalla popolazione palestinese che subì una gigantesca pulizia etnica, nota in arabo come Nakba. Con essa oltre 700mila palestinesi vennero espulsi dalle loro terre per mezzo del terrore e di eccidi spaventosi come quello del villaggio di Deir Yassin con la morte di oltre 100 civili palestinesi. Centinaia di migliaia di discendenti di quei profughi vivono ancora nei campi dove vennero ospitati i loro nonni e bisnonni in Cisgiordania, in Giordania, in Siria e in Libano e fino a poco tempo fa in quelli di Gaza, cancellati nelle note vicende belliche di questi ultimi due anni. Passare tutta la vita in campo profughi non è una cosa degna di un’esistenza umana. Decine di migliaia di persone sono ammassate in spazi molto angusti.
Le condizioni igieniche sono precarie. A questo si deve aggiungere che i campi profughi sono stati spesso luoghi in cui sono stati compiuti massacri spaventosi con parecchie migliaia di morti come quelli del settembre del 1970 in Giordania (il famoso “settembre nero”), quello di Tal al-Zaatar in Libano nel 1976 e quelli Sabra e Shatila nel 1982. Tutti questi massacri con parecchie migliaia di morti palestinesi vennero compiuti da eserciti o da milizie arabe e soltanto nel caso di Sabra e Shatila la complicità di Israele li rese possibili.
Si dice spesso, con accenti non privi di retorica, che la nascita dello Stato di Israele abbia inferto una ferita insanabile nel cuore della nazione araba. Se nella stessa regione ci furono due movimenti nazionali e se soltanto uno dei due vinse la sua partita storica, era inevitabile che, sempre restando nell’ambito borghese, non potessero non alimentarsi gli odi reciproci.
L’ascesa dapprima del nazionalismo panarabo e in seguito la reazione alla nascita di Israele, furono alla base dell’espulsione delle popolose comunità ebraiche residenti nei paesi arabi per mezzo di pogrom e di pressioni governative. Il risultato fu che circa 800mila ebrei lasciarono i paesi dove i loro veri avi avevano vissuto per secoli per ritrovarsi in breve tempo in una terra straniera, anche piuttosto povera, in cui avrebbero avuto la magra consolazione di ritenerla la patria presuntiva dei loro avi mitologici evocati dal racconto della Torah. Ma l’aspetto sociale e politico di questa pulizia etnica fu anche che lo Stato d’Israele in pochi anni vide più che raddoppiata la sua popolazione.
Una cosa che si dimentica spesso quando si parla del trauma della Nakba è che mentre la Haganah nel 1948 occupava una parte cospicua del territorio della Palestina andando ben oltre il limite del territorio che l’Onu aveva previsto per la nascita di uno “Stato ebraico”, la Striscia di Gaza e la Cisgiordania venivano occupati rispettivamente dall’Egitto e dalla Transgiordania (attuale Giordania) impedendo così la nascita dello Stato palestinese pure previsto dalle Nazioni Unite. Questo aspetto deve essere messo in evidenza quando ci si confronta con un racconto spesso confuso e falsato dei fatti che vuole Israele figlio della politica coloniale britannica che sarebbe la causa della divisione dei paesi arabi incapaci di diventare un’unica nazione a causa del retaggio del colonialismo. In realtà il colonialismo ebbe un effetto nella mancata nascita di uno Stato unitario arabo, nel senso che contribuì a fomentare le rivalità interarabe, mentre paradossalmente i paesi arabi dimostrarono una certa unità – in realtà soltanto di facciata – quando si trattava di combattere una guerra contro Israele.
L’occupazione militare giordana ed egiziana sulle parti della Palestina non occupate dallo Stato di Israele, non favorì per parecchi anni la nascita di organizzazioni politiche (e di conseguenza anche militari) che si proponessero l’obiettivo di dare vita a un movimento nazionale palestinese. La Giordania e l’Egitto non avevano alcuna intenzione di cedere la sovranità sulla Cisgiordania e su Gaza. Dopo la rivoluzione egiziana degli Ufficiali Liberi egiziani del 1952 e l’ascesa al potere del presidente panarabista Gamal Abd al-Naser, (noto come Nasser), si ebbero momenti di forte tensione che prepararono la guerra arabo-israeliana del 1956 in cui la “progressista” Israele si schierò con le vecchie potenze coloniali contro la nazionalizzazione del canale di Suez da parte dello Stato egiziano. In quel caso furono le pressioni congiunte di Stati Uniti e Urss, per una volta d’accordo, a costringere Francia, Gran Bretagna e Israele a tornare sui loro passi. In seguito Nasser fomentò alcune azioni di guerriglia di gruppi palestinesi contro Israele a partire da Gaza che si risolsero perlopiù in scontri di frontiera. Ma il panarabismo era espressione di una classe borghese nata già decrepita che vedeva le masse arabe come il maggior pericolo per i propri privilegi.
La nascita delle organizzazioni di guerriglia che si proponevano liberare la Palestina da Israele risale agli anni ’60. L’Olp si formò nel 1964, cinque anni dopo la nascita in Kuwait di Fatah, l’organizzazione guidata da Yasser Arafat che ne assumerà la direzione negli anni successivi. La catastrofe per gli arabi della “Guerra dei sei giorni” e il contestuale grande successo per Israele che riuscirà a compiere notevoli conquiste territoriali, spingeranno nuove ondate di profughi palestinesi fuori dalla loro terra e questo darà impulso allo sviluppo di nuove organizzazioni irredentiste come il Fronte Popolare di Liberazione della Palestina (FPLP) e il Fronte Democratico di Liberazione della Palestina (FDLP) i quali risentiranno entrambi una impostazione ideologica stalinista e di influenze maoiste. Da un punto di vista storico tali organizzazioni si possono considerare come espressione di un nazionalismo laico progressista di impronta piccolo-borghese.
Negli anni successivi le lotte sociali dei palestinesi rifugiati nei campi profughi di Giordania e Libano furono dirompenti per il mondo arabo. Mentre nel caso della Giordania l’ascesa delle lotte delle masse palestinesi sfociarono nella già ricordata insurrezione stroncata in maniera feroce con la sanguinosa repressione nota come “Settembre nero” del 1970, nel caso del Libano contribuirono non poco alla deflagrazione della guerra civile che dal 1975 al 1990 insanguinò il Paese dei Cedri.
Le guerre e le finte “paci” borghesi per lunghi decenni hanno avuto come scopo principale quello di contenere in maniera preventiva l’indocilità delle masse diseredate arabe. La guerra del Kippur del 1973, l’invasione israeliana del Libano nel 1982, hanno agito come diversivi che hanno deviato la rabbia dei proletari palestinesi verso obiettivi estranei alla loro classe. Anche gli accordi di Oslo del 1993 e la nascita dell’Autorità Nazionale Palestinese, furono ispirati dalla necessità per entrambe le borghesie, israeliana e palestinese, di contenere il sollevamento della prima Intifada. La nascita di un bantustan palestinese peraltro frammentato perché privo di continuità territoriale ha permesso di dilazionare i tempi per una nuova esplosione sociale come fu quella che si è manifestata con la seconda intifada provocata nel 2000 dalla passeggiata sulla spianata delle moschee di Gerusalemme dell’allora premier israeliano Ariel Sharon, il quale seppe sfruttare abilmente a proprio vantaggio il rafforzamento delle formazioni politiche islamiste palestinesi che erano nate negli anni ’80 e si erano sviluppate nel frattempo grazie all’aiuto di Israele allo scopo di contrastare l’affermazione dei partiti nazionalisti laici i quali erano stati fortemente indeboliti grazie anche ai numerosi omicidi mirati dei loro quadri più significativi compiuti da Israele. I media chiamano questi omicidi mirati “esecuzioni extragiudiziali”. Da ricordare l’uccisione del grande scrittore palestinese Ghassan Kanafani ucciso a Beirut nel 1972 con un auto-bomba in cui trovò la morte anche la sua nipote sedicenne. Kanafani era all’epoca il principale responsabile del FPLP in Libano. Nel 2001 fu invece la volta dell’eliminazione sempre in un attentato a Damasco di Abu Ali Mustafa, il segretario generale dello stesso FPLP. Lo politica israeliana di rafforzare l’elemento politico religioso in seno al movimento palestinese fu una scelta consapevole e di indubbia efficacia. Per i movimenti dell’Islam radicale quello che conta è l’appartenenza religiosa e l’elemento ebraico in Terrasanta (Gerusalemme è il terzo luogo santo per l’Islam) è visto come un’offesa contro Dio e i negatori dell’esistenza di quest’ultimo come siamo noi miscredenti sono assai poco numerosi in quelle contrade.
Hamas, il cui nome per esteso è Movimento della Resistenza Islamica, nacque nel 1987. Venne fondata dallo sceicco Ahmed Yassin e da Abdel Aziz al-Rantisi, liberati l’anno prima dalle carceri israeliane in seguito a un accordo fra Israele e una scissione del FPLP. Il movimento nei primi anni perseguì una politica di creazione di una rete solidaristica religiosa secondo il modello dei Fratelli Musulmani ai quali il movimento pure si richiama. Nel 1992 venne fondato il braccio militare del movimento noto come Brigate Izz al-Din al-Qassam. Nella seconda intifada Hamas assunse progressivamente un ruolo egemone portando a segno numerosi attentati suicidi contro obiettivi israeliani in cui si prendevano spesso di mira i civili. In questa pratica controrivoluzionaria Hamas venne imitata da quasi tutte le organizzazioni palestinesi, compreso il FPLP che inviò diversi suoi giovani militanti a una morte certa per colpire obiettivi né militari, né governativi, i quali non potevano avere alcun significato di classe. Unica eccezione, pagata a caro prezzo da questa organizzazione, fu l’attentato riuscito contro il ministro del turismo israeliano Rehvam Zeevi nel 2001 in ritorsione all’assassinio di Mustafa. In seguito Ahmed Saadat , il leader del FPLP succeduto a Mustafa venne arrestato dopo l’assedio israeliano della Muqata, l’edificio presidenziale palestinese a Ramallah, nel 2002 e venne rinchiuso nella prigione palestinese di Gerico. In seguito, nel 2006 gli israeliani prelevarono Saadat dalla prigione di Gerico con un’azione violenta in cui ci furono due morti e numerosi feriti fra le guardie penitenziarie e i detenuti palestinesi.
La svolta degli inizi del secolo se non annullò del tutto i risultati degli accordi Oslo – una piccola parte della Cisgiordania rimaneva e rimane sotto il controllo dell’ANP – ebbe tuttavia la conseguenza di creare uno scollamento fra la borghesia laica palestinese di Ramallah legata a Fatah e gran parte delle masse palestinesi che nel 2005 alle elezioni generali dettero la vittoria ad Hamas.
L’egemonia di Hamas sulla Striscia di Gaza spinse il premier israeliano Sharon a preparare una ritirata strategica. Entro la fine del 2005 vennero smantellati gli insediamenti israeliani e venne ritirata la presenza militare dell’Idf. Il blocco che venne imposto a Gaza la trasformò in una grande prigione ma – elemento di non secondaria importanza – non fu soltanto Israele a sigillare il territorio di Gaza. Una parte del confine della Striscia è in comune con l’Egitto e bisogna ricordare che nessun regime al potere al Cairo ha mai pensato di rompere il blocco aprendo il valico di Rafah. Nel 2011 quando al Cairo si creò un vuoto di potere dopo la caduta del rais Mubarak, la prima preoccupazione dell’esercito fu di mantenere stretto il controllo sul posto di frontiera di Rafah. Il terrore dello Stato profondo egiziano, il quale mantenne la sua continuità nonostante il cambiamento di regime, era che le formazioni armate palestinesi potessero dilagare nel paese con effetti destabilizzanti.
Nel 2007 Hamas assumeva in potere a Gaza rovesciando il governo di Fatah con le armi. Da allora fino al 7 ottobre del 2023 Hamas ha gestito il potere come uno Stato di fatto, grazie ai finanziamenti delle monarchie petrolifere del Golfo come il Qatar, i cui trasferimenti di denaro sono stati resi possibili grazie anche al placet del governo israeliano. Inoltre andava considerato l’appoggio sotterraneo, ma non troppo, dell’Iran. Da quel momento incomincia una corsa al riarmo che Hamas ha potuto realizzare col consenso di Israele. Il perché di questo atteggiamento si spiega anche con le dichiarazioni esplicite di Netanyahu che ha sempre considerato Hamas una risorsa: infatti un nemico integralista religioso era quanto di meglio potesse esserci per garantire anche l’appoggio dell’opinione pubblica moderata israeliana a governi sempre più spostati a destra e inclini a risolvere le questioni politiche col continuo ricorso alla forza militare. Ma tale prevalenza della destra quasi ininterrottamente al potere in Israele da decenni non è altro che l’espressione di equilibri interni alla classe dominante di quel paese in rapporto ai cambiamenti economici e sociali dell’area mediorientale che hanno visto l’affermarsi di diverse potenze regionali come l’Iran, la Turchia, gli Emirati Arabi Uniti e l’Arabia Saudita. La massa dei salariati nella regione ha raggiunto i 120 milioni, una cifra non paragonabile ai tempi in cui per Israele fu un facile gioco tenere sotto controllo il Medio Oriente grazie alla propria forza militare. Ora anche altre potenze come la Turchia e l’Iran hanno raggiunto una forza militare considerevole e noi sappiamo bene come la guerra sia sempre la migliore panacea per impedire al proletariato di sollevarsi e di porre la questione del potere.
La sollevazione del 7 ottobre ha cause che affondano le radici nell’assetto sociale di Gaza e nelle durissime condizioni di vita dei suoi abitanti. Poi la crescita di una generazione di giovani che non ha conosciuto altra realtà che quella del blocco del piccolo lembo di terra dove era costretta a vivere ha fatto il resto. Fra il 2007 e il 2023 diverse volte le milizie palestinesi avevano attaccato Israele, talora replicando agli omicidi mirati messi a punto dai servizi segreti israeliani, col lancio di missili. Le dure repliche di Israele avevano provocato migliaia di morti e distruzioni significative nella Striscia di Gaza come avvenne nel 2009, nel 2012, nel 2016 e nel 2021. Nel frattempo il regime di Hamas su Gaza era stato inflessibile nel reprimere ogni agitazione di carattere economico dei lavoratori, mentre i flussi di denaro avevano permesso di creare un verso e proprio esercito di soldati di mestiere, l’arruolamento nelle cui fila veniva visto dai giovani gazawi come una buona alternativa alla disoccupazione.
La riuscita dell’attacco del 7 ottobre che ha preso alla sprovvista le forze di difesa israeliane e ha provocato oltre mille morti in campo israeliano, trova diverse spiegazioni non tutte in contraddizione fra loro. In quel momento l’esercito israeliano aveva dislocato gran parte delle sue forze i Cisgiordania dove temeva la possibilità di una insurrezione dovuta alle condizioni sempre più assurde imposte alla popolazione palestinese dall’occupazione. Questo aveva comportato l’indebolimento delle difese attorno al muro di Gaza. L’altra spiegazione possibile è che il governo israeliano fosse a conoscenza della preparazione dell’attacco, ma non avesse fatto nulla per impedirlo al fine di scatenare una guerra feroce contro Gaza e dare avvio alla pulizia etnica. Anche ammesso che questa tesi sia sostenibile risulta difficile pensare che il governo israeliano avesse valutato in maniera realistica le gravi conseguenze dell’attacco.
Da parte nostra si impone comunque una valutazione della natura dell’attacco del 7 ottobre e della guerra che Hamas e le altre formazioni politiche palestinesi satelliti hanno portato avanti in questi due anni. Il cosiddetto “Asse della resistenza” che oltre a Hamas, comprendeva in principio l’Iran, il regime siriano di Assad, i libanesi sciiti di Hezbollah, gli Huthi dello Yemen non condivideva gli stessi obiettivi, anche se a parole tutti si pronunciavano per l’obiettivo, almeno per ora non troppo realistico, della distruzione di Israele. Ma mentre per l’Iran e gli Huthi l’obiettivo poteva essere quello di ritardare l’avvicinamento fra Arabia Saudita e Israele sul modello degli Accordi d’Abramo già firmati dal governo di Gerusalemme con gli Emirati Arabi Uniti e con il Bahrein, per Hamas il disegno era verosimilmente quello di tentare di trascinare lo “Stato ebraico” in una guerra talmente catastrofica che ne avrebbe messo a dura prova la coesione interna e avrebbe potuto aprire la strada al suo collasso. Se le cose stavano così non ci si dovrebbe stupire neanche che Hamas avesse calcolato conseguenze tanto catastrofiche per la popolazione di Gaza. Ma c’è anche un altro aspetto che va tenuto in considerazione: quale è il futuro che prospetta Hamas per la popolazione ebraica di Israele? Una pulizia etnica uguale e contraria a quella subita dai palestinesi quasi 80 anni fa? Uno sterminio come quello ancora in corso a Gaza? In ogni caso ogni prospettiva di questo genere non è accettabile per noi comunisti. Anche in Israele esiste un proletariato, per i 4/5 la popolazione di Israele è nata sul suo territorio, e non è certo una colpa per un lavoratore ebreo nascere in una terra da dove la generazione di suo nonno o del suo bisnonno ha scacciato la popolazione palestinese. A noi comunisti non spetta trovare colpe da attribuire ai proletari di determinate nazione. A noi comunisti spetta piuttosto il compito di perseguire il rovesciamento della borghesia in ogni paese unendo i proletari al di là delle frontiere statali e nazionali. Per questo, come non è accettabile in alcun modo l’infame oppressione fatta subire alla componente etnica palestinese, allo stesso modo non ha alcuna plausibile giustificazione da un punto di vista proletario un attacco come quello del 7 ottobre che ha preso di mira la popolazione civile israeliana e fra questa anche i proletari israeliani che dei lavoratori palestinesi sono i fratelli di classe.
La realtà mostruosa dello sterminio di Gaza è stata il prodotto dell’ordinaria politica borghese nell’attuale fase storica del regime di dominazione del capitale. Lo dimostra anche la propaganda che su ogni lato del fronte ha fatto di tutto per confondere le menti e per convincere la cosiddetta opinione pubblica che ci fossero motivi accettabili per un massacro tanto assurdo. Ma uno degli obiettivi della propaganda è stato anche di minimizzare quanto stava succedendo, lontano da testimoni capaci di comunicare con l’esterno della Striscia di Gaza e i pochi che c’erano sono stati regolarmente eliminati fisicamente. Il genocidio di Gaza, che accettiamo di chiamarlo così anche se il termine nasce nell’ambito del diritto borghese, è stato il vero monumento che la società borghese contemporanea ha dedicato alla tanto incensata “libertà di stampa” dato che in due anni sono stati uccisi oltre a decine di migliaia di innocenti anche 250 giornalisti.
Tuttavia c’è un aspetto che per la nostra classe nemica vale ancora di più di tutta la somma di questi orrori messi insieme: come non era mai successo in passato, è stato dimostrato davanti agli occhi di tutto il mondo che per compiere un genocidio non c’è neanche bisogno di un regime fascista. La guerra di sterminio di Gaza è stata compiuta da un regime democratico, che al suo interno garantisce la libertà di parola e di stampa, ovviamente fino a quando non disturbano troppo. Si è visto come i cittadini di Israele abbiano potuto protestare contro la guerra anche nelle piazze e perfino sotto casa del primo ministro Netanyahu. Gli entusiasti cantori delle virtù della democrazia hanno scritto come questo non avrebbe potuto succedere sotto un regime dittatoriale. Un giornalista e scrittore italiano si è spinto a dire che non si poteva protestare sotto le case di Stalin, di Hitler, di Mussolini o di Pol Pot. Il fatto la democrazia sia diventato quello spettacolo che serve a rendere presentabile e accettabile ogni nefandezza è la riprova di quanto sia integrale la bancarotta del regime borghese liberal-democratico e della borghesia nel suo complesso.
D’altronde la nostra corrente, tracciando un bilancio della fase storica che si era conclusa con la seconda guerra mondiale, constatò in un testo (“Tracciato d’impostazione”), come la sconfitta militare delle potenze fasciste avesse generalizzato il fascismo stesso da un punto di vista politico, economico e sociale. Da allora anche l’involucro politico democratico, per quanto risponda nel modo migliore alle esigenze di funzionamento di una società capitalistica sviluppata in senso economico e tecnologico, non cambia i termini della questione per quanto riguarda l’essenza totalitaria del regime borghese. In quel testo del 1946 scrivemmo: “Lo svolgimento politico dei partiti della classe borghese in questa fase contemporanea, come fu chiaramente stabilito da Lenin nella critica dell’imperialismo moderno, conduce a forme di più stretta oppressione, e le sue manifestazioni si sono avute nell’avvento dei regimi che sono definiti totalitari e fascisti. Questi regimi costituiscono il tipo politico più moderno della società borghese e vanno diffondendosi attraverso un processo che diverrà sempre più chiaro in tutto il mondo”. Più avanti nello stesso testo leggiamo: “Negazione della prospettiva che, dopo la sconfitta dell’Italia, della Germania e del Giappone, si sia aperta una fase di ritorno generale alla democrazia; affermazione all’opposto che alla fine della guerra si accompagna una trasformazione nel senso e col metodo fascista del governo borghese negli stati vincitori, anche e soprattutto se vi partecipano partiti riformisti e laburisti. Rifiuto di presentare come rivendicazione interessante la classe proletaria quel ritorno – illusorio – alle forme liberali”.
Perché a quell’epoca, ormai 80 anni fa la corrente della Sinistra Comunista parlò di ritorno illusorio alle forme liberali?
Questa domanda merita una risposta non breve e non banale. Cominciamo da un punto essenziale per descrivere una mutazione definitiva dei rapporti di forza fra le di classi all’interno del regime capitalistico. Il carattere totalitario del regime borghese nella fase dell’imperialismo si manifesta nella distruzione sistematica del movimento operaio, la quale si realizza, nelle fasi di maggiore acuzie della lotta di classe, con la soppressione dei partiti politici e dei sindacati proletari e avviene, nelle fasi di normalità, per mezzo della subordinazione dei sindacati al regime capitalista attraverso mille forme. Il risultato è che nei nostri tempi la “normalità” della vita politica del regime borghese, si caratterizza per la totale assenza di ogni manifestazione dell’indipendenza del proletariato come classe.
Inoltre c’è un altro aspetto rispetto alla ricostruzione della fase dell’avvento del fascismo in Italia, intendiamo del regime di Benito Mussolini per capirci, che molta storiografia borghese o anche stalinista ha trascurato o messo per lo meno in sordina. La fine del vecchio ordinamento liberale dello Stato italiano nel 1922 non avvenne per mezzo di un rovesciamento violento, ma fu il risultato della consegna del potere al partito fascista da parte della grande borghesia e del vecchio ceto politico liberale, i quali avevano constatato l’inadeguatezza del vecchio assetto istituzionale, per fare fronte all’ascesa delle lotte del proletariato. Così quando, dopo la cosiddetta “marcia su Roma”, Mussolini ebbe l’incarico dal re di formare il nuovo governo e si presentò in parlamento per ottenere la fiducia, egli, che poteva contare su poco più del 10% dei deputati, ottenne il sostegno di una maggioranza schiacciante. A votarlo furono soprattutto gli elementi dei partiti liberali. Alcuni di questi esponenti liberali che votarono a favore del governo di Mussolini erano ancora vivi alla fine della guerra, al momento della restaurazione “democratica”, ed ebbero ruoli di primo piano nel regime della neonata Repubblica Italiana. Due presidenti della repubblica come Enrico De Nicola e Giovanni Gronchi e due presidenti del consiglio dei ministri come Ivanoe Bonomi e Alcide De Gasperi, leader indiscusso della Democrazia Cristiana e personaggio centrale della vita politica italiana del secondo dopoguerra, fino alla sua morte avvenuta nel 1954.
Il perché la classe borghese finì nelle braccia del fascismo si deve al fatto che neanche tre mesi prima della “Marcia su Roma”, in Italia si ebbe uno sciopero generale in cui i proletari inquadrati dai maggiori sindacati dei lavoratori, ma sotto la guida politica del Partito Comunista d’Italia che allora era diretto dalla Sinistra Comunista, riuscirono a paralizzare il paese. Tale sciopero assunse il carattere di vera e propria guerra civile a causa dell’azione congiunta della forza repressiva dello Stato e delle violenze squadriste dei fascisti. Gli scontri furono assai cruenti in parecchie città con numerosi morti e feriti. La borghesia ebbe paura e maturò la convinzione che per schiacciare il proletariato ci fosse bisogno di un esperto di movimento operaio come Mussolini e di un movimento reazionario come il Partito Nazionale Fascista, che fu la prima organizzazione politica dall’Unità d’Italia (raggiunta soltanto nel 1970) che dette alla classe dominante un partito strutturato sul modello di quelli operai.
Se abbiamo fatto questa lunga digressione non è certo perché ci sia in noi compagni che veniamo da una penisola in mezzo al Mediterraneo una particolare predilezione a parlare del nostro paese, ma perché l’Italia fu a lungo un importante laboratorio politico che produsse correnti politiche e forme istituzionali da esportazione. Il fascismo è nato in Italia ma venne esportato in Germania e Spagna e poi il suo sistema sindacale corporativo si generalizzò a tutti i paesi capitalistici, mentre l’Unione Sovietica e paesi del falso comunismo arrivarono a un risultato analogo per altra via. Più recentemente anche il populismo di Silvio Berlusconi, col suo forte legame coi media, fu un modello da esportazione. L’attuale capo del governo italiano è anch’essa nella sua bassezza un modello che ha un certo successo all’estero. Se questo accade è perché la miope borghesia italiana, a causa della sua debolezza, sente spesso mancare la terra sotto i piedi e deve anticipare il ricorso alle risorse più estreme per tenere in piedi il suo dominio di classe.
Resta il fatto che nel 1924, un celebre filosofo italiano di orientamento liberale come Guido De Ruggiero ammetteva la fine del liberalismo, cioè del movimento politico di cui faceva parte.
Questa nostra lettura del fenomeno del fascismo e la nostra svalutazione del principio democratico sono aspetti costitutivi della nostra strategia politica. A noi non interessa fare come tanti partiti, organizzazioni o sindacati “di sinistra” (o considerati anche di “estrema sinistra”) che fanno di tutto pur di svalutare il carattere democratico di Israele e affermare il carattere “fascista” o “nazista” di quello Stato. A noi interessa invece sottolineare come l’attuale fase socialmente regressiva del capitalismo abbia creato le condizioni adatte da un punto di vista politico, ideologico e militare per passare su larga scala alla guerra di sterminio vista come una necessità economica dello stesso regime sociale borghese. La borghesia mondiale che è per eccellenza una classe internazionale, non può fare a meno, al di là della propria frammentaria coscienza, di seguire quel cammino che la conduce a un conflitto generale su scala planetaria che consenta di eliminare le merci, i capitali e la forza lavoro in eccesso per avviare una nuova fase di accelerata accumulazione capitalistica. La classe dominante internazionale non è del tutto consapevole di questo evento che troverà presto o tardi sulla sua strada. Se questo succede è perché essa, per le contraddizioni che sono intrinseche al suo essere sociale, non può presentarsi come classe generale per tutta società che essa dirige. In questo senso lo svolgimento della prossima fase storica deve vedere il proletariato pronto a non cadere nelle trappole della mobilitazione politica e ideologia alla guerra.
A questo proposito dobbiamo ricordare che oggi il campo proletario parte da una posizione di forte svantaggio. Anche in occasione della prima guerra mondiale, in Europa, partiti e sindacati operai aderirono alla guerra borghese offrendo la Union Sacrée della nazione alla classe dominante. Questo accadde in Francia e in Germania dove i partiti operai aderirono con entusiasmo alla guerra fra gli Stati stringendosi in un abbraccio mortale alla loro classe dominante nazionale e accettando di mandare i proletari a morire a milioni per la gloria del feticcio oscurantista e imputridito della Patria. In Italia l’adesione politica alla guerra da parte del Partito Socialista fu meno esplicita. La direzione opportunista del partito si rifugiò dietro l’ambigua ed equivoca formula del “né aderire, né sabotare”. Questa posizione non costituì affatto un impedimento all’entrata in guerra dell’Italia. Ma alcune correnti del sindacalismo svolsero un ruolo di primo piano nella preparazione del clima politico e nella diffusione del veleno ideologico per favorire la guerra. Questo fu il caso, ricco di insegnamenti, del cosiddetto “sindacalismo rivoluzionario”, una corrente presente nell’Unione Sindacale Italiana (USI), un sindacato di orientamento anarchico nato nel 1912 il quale si poneva talora su posizioni più combattive della Confederazione Generale del Lavoro (CGL) la quale era controllata dal Partito Socialista Italiano. Nel 1914 come è noto Benito Mussolini lasciò il Partito Socialista e la direzione del suo principale organo di stampa il quotidiano l’“Avanti!”. Tuttavia non si può parlare di una vera scissione del partito. Le cose andarono diversamente con l’Usi in cui si affermò una corrente interventista sindacalista rivoluzionaria che si scontrò con la componente anarco-sindacalista che, sia pure a fatica, prese il sopravvento. L’anarchico Armando Borghi, dirigente di rilievo dell’Usi dovette procedere alla misura dell’espulsione degli interventisti convertitisi al nazionalismo. Fu una misura estrema e anche assai autoritaria per un libertario, ma era ispirata comunque da un intento assai lodevole. Molti elementi del sindacalismo interventista nel dopoguerra finirono per confluire nel movimento fascista, mentre altri si unirono allo schieramento antifascista. Il Partito Comunista d’Italia, nato nel gennaio del 1921, invece rifiuterà ogni fronte politico non soltanto coi partiti antifascisti ma anche con gli altri partiti operai che col loro atteggiamento imbelle spalancarono le porte al fascismo. Il PCd’I si pose sempre l’obiettivo del rovesciamento del regime borghese e per fare questo non era possibile alcuna alleanza con partiti opportunisti o peggio ancora apertamente borghesi anche se “antifascisti”. La nascita del movimento fascista fu per la nostra corrente quanto di più nefando potesse accadere, non tanto perché poneva la lotta su un terreno come quello della violenza sul quale il proletariato avrebbe potuto vincere, ma perché aprì la strada a quell’antifascismo che del fascismo stesso fu l’esecutore testamentario.
La prima guerra mondiale riuscì a imporsi dunque attraverso la penetrazione del nazionalismo interventista dentro il movimento operaio, orientando in maniera reazionaria i suoi partiti e i suoi sindacati. Questo insegnamento deve essere prezioso per il proletariato che si trova di nuovo di fronte all’avvio di una fase di riarmo che sfocerà inevitabilmente in una guerra catastrofica. La differenza col passato è però che il proletariato oggi è ancora più sottomesso alle istituzioni statali e al controllo ideologico e politico della classe nemica. Un aspetto che renderà più aspro il cammino della classe proletaria per contrastare la preparazione bellica, per ostacolare lo scoppio della guerra e, una volta che questa dovesse scoppiare comunque, trasformarla in rivoluzione. La potente sovrastruttura imperialistica consente in questo senso alla borghesia di giocare d’anticipo nel contrastare il processo della costituzione del proletariato in partito e dunque in classe per lottare per i propri fini economici immediati e per i propri obiettivi storici. Il proletariato mondiale molto presto sarà chiamato comunque a dare battaglia per i propri interessi, per difendere le proprie condizioni di vita che saranno minacciate dalla crisi e dalla corsa al riarmo. Al duplice scopo di intralciare la folle corsa della borghesia verso la guerra e chiamare masse operaie sempre più ampie alla lotta, urge avanzare con determinazione le rivendicazioni di forti aumenti salariali, della riduzione dell’orario di lavoro e del salario ai disoccupati. Allo stesso tempo occorre fare saltare tutti i piani di riarmo europeo estendendo il più possibile il fronte unico sindacale di massa per fare sì che il proletariato scopra nella lotta la sua immensa forza per ora imbrigliata in uno stato di latenza. Attraverso la strada della lotta contro i preparativi della guerra generale del capitale, impegnandosi ad agire per la propria sopravvivenza, il proletariato imparerà a riconoscersi come classe e a esprimere lo strumento del partito comunista internazionale che assumerà la forma di un cervello collettivo della classe, che saprà orientarla sulla strada della rivoluzione monoclassista, monopartitica, anonima e internazionale, che per mezzo della dittatura rivoluzionaria del proletariato sarà la levatrice di una società superiore senza classi, senza guerre, senza mercato, senza denaro e senza Stato.
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