Riprendiamo con questa pubblicazione l’analisi sull’imperialismo andando alle radici della moderna concezione della guerra, cioè l’esigenza di sterminio e distruzione da parte del regime capitalistico di produzione. Buona lettura.
Nel comunismo primitivo.
Le comunità umane delle origini sono esistite per decine di migliaia d’anni, esse vivevano secondo pratiche e forme di pensiero diverse da quelle dominanti nella nostra epoca. La guerra c’era, ma era altra cosa. Integrazione sociale e naturale e armonia con il tutto erano i cardini del loro sistema di vita, quel sistema che in seguito è stato definito come comunismo delle origini, ha segnato per decine di migliaia d’anni il percorso della nostra specie. In altre parole ha consentito alla specie di esistere e di progredire. Il conflitto con le forze esterne naturali, la lotta quotidiana per migliorare la propria condizione di vita non era esclusa, ma operava dentro una logica diversa da quella delle società contemporanee, una logica di specie di tipo comunitario e funzionale, diciamo pure organica nel senso più alto del termine. L’incontro e a volte lo scontro fra parti diverse esisteva, ma esso operava come dialettica funzionale all’interno dell’organismo sociale e come dialettica non funzionale all’esterno, ma in ogni caso non minacciava di certo l’esistenza della specie umana (come accade nelle società capitaliste).
Nelle società classiste.
Dal momento in cui le società hanno cominciato a dividersi in classi sociali antagoniste, allontanandosi dal comunismo delle origini, l’umanità ha conosciuto l’esperienza della guerra di conquista di territori e d’asservimento di masse umane all’interno della stessa specie, come accadeva nella società antica ed in quella feudale, per giungere, infine, col capitalismo dapprima a delle guerre di sistemazione territoriale idonee a fornire alla società borghese una base nazionale ed a sottomettere i capitalismi rivali alle potenze più attrezzate, guerre che, per quanto combattute con armi più evolute e da masse umane molto più vaste, mobilitate attraverso la leva obbligatoria, assomigliavano ancora –almeno in parte- a quelle antiche per i fini limitati che esse perseguivano, ed infine nella fase imperialista del capitalismo (in Europa: dal 1871 in avanti) a delle guerre globali e ad altissimo potenziale distruttivo il cui fine essenziale non è rappresentato tanto dalla spartizione del mondo tra i diversi briganti imperialisti quanto dal riavvio del processo d’accumulazione attraverso il “bagno di giovinezza” dell’annientamento su vasta scala di capitale costante e variabile.
Le guerre imperialiste.
Le guerre imperialiste, in altre parole, sono essenzialmente delle guerre contro il proletariato anzitutto perché, reagendo alla malattia della crisi che corrode la produzione capitalistica e consentendo all’accumulazione di ripartire agiscono nel senso di prevenire la soluzione rivoluzionaria delle crisi economiche di sovrapproduzione, vale a dire nel senso di tagliare la strada alla rivolta delle masse dei salariati, che, se non intervenisse la mobilitazione bellica, ad un certo punto diventerebbe inevitabile. In secondo luogo perché annientamento di capitale variabile significa annientamento fisico di masse di proletari eccedenti il fabbisogno dell’apparato produttivo. Per questo duplice ordine di motivi le guerre imperialiste non sono dei veri scontri inter-imperialisti, in cui la posta in gioco è la supremazia dell’uno o dell’altro dei contendenti, ma sono degli scontri in cui delle masse umane enormi sono scagliate le une contro le altre da apparati statali conniventi e tra loro coordinati che si limitano ad agitare delle false flags davanti agli occhi della carne da cannone: altro non furono, infatti, le “crociate” anti-feudali messe in campo su entrambi i lati del fronte all’epoca del primo conflitto mondiale e quelle anti-plutocratiche piuttosto che per la difesa della democrazia e del “socialismo” messe in scena nel corso del secondo conflitto mondiale.
Già all’epoca della Comune di Parigi Marx scrisse che la borghesia non si poteva più nascondere sotto un’uniforme nazionale, e che le diverse borghesie nazionali erano tra loro confederate per schiacciare il proletariato. Le due guerre imperialiste che seguirono dimostrarono poi fino in fondo la correttezza di quella diagnosi. Non importa chi vince la guerra, l’importante è che la guerra ci sia e che divori milioni d’uomini a beneficio del capitalismo mondiale. La fisionomia della guerra imperialista, ancora abbozzata nel corso del primo conflitto mondiale, diventò più chiara nel secondo. Nel primo conflitto mondiale la natura imperialista della guerra affiora in superficie e parla attraverso il lungo martirologio dei fanti in trincea, sacrificati senza alcun costrutto strategico dalla tattica che in Italia fu detta delle “spallate” dal gran macellaio Cadorna mentre la pianificazione concordata del conflitto da parte degli Stati e degli Stati Maggiori traspare da taluni provvedimenti militari come l’allontanamento delle trincee e l’intensificazione dei cannoneggiamenti sotto Natale disposti dai comandi [1] per impedire la fraternizzazione delle truppe che indossavano una diversa casacca dopo la “tregua di Natale” [2] e come lo stesso arresto definitivo delle ostilità belliche cui i medesimi comandi furono costretti a addivenire nel 1918 prima che il virus leninista divorasse il cuore della Germania, il che significa che se nel 1871 prussiani e versagliesi furono costretti a confederarsi nel corso del conflitto franco-prussiano di fronte alla Comune di Parigi , la guerra del 1914-18 era pianificata sin dall’inizio allo scopo di prevenire le possibili, nuove Comuni, anche se tale pianificazione, che riuscì solo in parte in quanto il piano saltò nel 1917 in Russia, era occulta. Grazie allo sviluppo dell’aeronautica, delle portaerei e dei bombardieri i civili, i proletari non in divisa delle retrovie e delle città, che erano stati coinvolti solo marginalmente nel massacro del 1914-18, divennero le vittime privilegiate delle carneficine consumatesi tra il 1939 ed il 1945. Abbiamo già rilevato, infatti, che il secondo conflitto mondiale non solo fece molti più morti del primo, ma, soprattutto, fece molti più morti civili.
L’esigenza di sterminio.
Il capitalismo sogna e pratica l’eliminazione delle masse umane non impiegabili con profitto nel processo produttivo, infatti, da molti decenni, stermina con l’arma della fame e della miseria i proletari dei paesi poveri, li costringe a morire di fame, di stenti e di malattia, consapevole che la loro crescita numerica è un potenziale nemico per la propria sicurezza. Nel presente lavoro, tenteremo di dimostrare il passaggio da una prassi bellica incentrata sul tradizionale binomio difesa e offesa, all’attuale guerra di sterminio del capitale contro quella parte di genere umano, non impiegabile ai fini riproduttivi del ciclo economico. Una guerra non dichiarata formalmente, perseguita in comune dai vari aggregati imperialisti che si contendono le sorti del globo, con lo scopo eminentemente economico e politico di dismettere dal processo di valorizzazione del capitale la parte eccedente dell’esercito industriale di riserva (concentrato essenzialmente nelle aree capitalisticamente arretrate).
Il cosiddetto problema della sovrappopolazione di maltusiana memoria si trasforma, alla luce dei fatti, nella semplice esigenza economica d’eliminazione d’interi rami improduttivi della popolazione umana, come accade sempre, d’altronde, in una normale ristrutturazione aziendale. In altre parole, quella parte d’umanità disoccupata, misera, senza riserve patrimoniali, minacciata d’estinzione (e quindi proprio per questo prolifica), è l’obiettivo principale e reale della contemporanea ars bellica capitalista. Un bersaglio che il capitale vuole colpire con il doppio scopo, politico ed economico, di rimuovere una potenziale minaccia alla propria esistenza e, in secondo luogo, per rilanciare il proprio ciclo di valorizzazione sulle macerie della distruzione di capitale costante e variabile (in questo caso soprattutto variabile, vale a dire forza lavoro umana).
I blocchi geo-storici che si confrontano sulla scena globale, non sono la causa dell’attuale guerra cronica, bensì dei semplici attori recitanti il ruolo assegnatogli dal modo di produzione capitalista (un modo di produzione conflittuale, antagonista, che ha la necessità immanente di annientare quantità eccedenti di mezzi e persone per ovviare alla crisi da sovrapproduzione e alla caduta tendenziale del saggio di profitto). In quanto tali i contendenti imperialisti sono una semplice espressione scenica, degli attori diligenti di quella sceneggiatura obbligata scritta dall’unico regista reale: il modo di produzione capitalista. Sotto il velo della pace apparente, seguita all’ultimo conflitto mondiale, la guerra non ha mai smesso di operare con la sua funzione di supporto al dominio economico-politico della classe borghese internazionale. L’obiettivo della distruzione di forza-lavoro eccedente è stato raggiunto con le armi principali dell’impoverimento, della fame, della malattia, e in parallelo, ma in forma secondaria, attraverso guerre convenzionali locali, coinvolgenti variamente i tradizionali predoni imperialisti.
La moderna guerra imperialista, il cui fine principale è la distruzione di forza-lavoro eccedente, rispetto alle esigenze di valorizzazione del capitale, si dispiega su un piano diverso dalle vicende belliche delle precedenti guerre mondiali, il suo modo di operare è difficilmente percepibile in modo palese dalle masse sfruttate. Il segreto è parte integrante e premeditata di questa moderna guerra imperialista, in cui la dimensione di distruzione e di genocidio è sapientemente velata dalla cortina fumogena della morte naturale per fame, malattia, eventi climatici nefasti e via discorrendo. Nessuno deve sospettare che il capitale ha il bisogno vitale di sterminare la sovrappopolazione da esso stesso prodotta, nessuno deve percepire la vera natura del meccanismo infernale che si nasconde dietro le mille banalità rassicuranti dell’ideologia dominante.
Il dominio ideologico borghese.
La manipolazione mediatica, il controllo sociale articolato attraverso la famiglia, la scuola e le altre forme della vita associata, hanno la funzione oggettiva di veicolare il pensiero dominante e la sua distorsione e banalizzazione della realtà nelle coscienze dei moderni sudditi di sua maestà il capitale. Manipolare le coscienze, favorire la formazione di una percezione deformata dei fatti reali, offuscare la vista dei propri sudditi: è in questo modo che il potere nasconde la propria esistenza ed esercita l’antica arte del segreto. Ripetiamolo ancora una volta, il segreto è un importante mezzo connaturato alla pratica del dominio, una condizione preliminare della sua efficacia operativa e della sua sopravvivenza. Il potere dunque agisce nell’ombra, le sue intenzioni vanno celate alle masse, perfino la sua esistenza deve essere negata affinché l’oggetto del dominio non abbia mai la possibilità di concepire una rivolta contro la vera causa della propria sventura.
Abile mistificatrice e manipolatrice, la sfera del potere capitalista, soprattutto nella sua essenziale articolazione statale, si ammanta d’ombra e di nebbia per irretire e ingannare le masse proletarie schiavizzate. Violenza coercitiva e terrore di stato, servizi segreti, segreto di stato e ragion di stato sono in successione operativa i mezzi e i fini dell’apparato statale borghese, in cui, tuttavia, solo la ragion di stato rappresenta lo scopo, mentre gli altri aspetti elencati sono essenzialmente dei mezzi, impiegati in vista della conservazione dell’ordine sociale borghese.
Accumulazione, concentrazione, centralizzazione, forza lavoro eccedente: l’origine dell’esigenza di distruzione e di sterminio da parte del capitale nella dottrina marxista.
La variazione inversamente proporzionale fra parte costante e parte variabile del capitale, determinata dall’accumulazione e dalla concentrazione economico-aziendale di determinati capitali iniziali, e dall’azione del concomitante progresso tecnico-scientifico applicato ai processi produttivi, espelle periodicamente forza lavoro proletaria da alcuni rami dell’economia, rendendola d’altronde disponibile per ulteriori impieghi in altri rami in quel momento in espansione e rapido sviluppo. Il capitale di Marx ci conduce all’interno di un modello di spiegazione della realtà del movimento economico moderno, si tratta di un modello scientifico che inquadra, sulla base di osservazioni empiriche e sullo studio di dati storico-fattuali, suffragati da ampia e articolata documentazione, le caratteristiche e le condizioni necessarie perché il processo di produzione e valorizzazione del capitale possa venire alla luce e continuare ad esistere. La periodicità dei cicli economici di espansione e contrazione, con il corollario di tutti i fenomeni annessi e conseguenti, costituisce la regola di questo sistema economico. Dato e assunto quest’aspetto come un fenomeno regolare e ineliminabile della moderna economia capitalista, si tratta poi di comprendere come si sviluppi, in un certo periodo storico determinato e specifico, il movimento alterno di espansione e contrazione dell’economia.
Diamo per assodato che oltre una certa soglia quantitativa, l’esercito industriale di riserva inizi a rappresentare un problema di ordine politico per la stabilità del regime borghese. Quella soglia quantitativa è superata nelle fasi di contrazione, in altre parole nei momenti in cui molti rami dell’economia globale incontrano difficoltà e impedimenti nella realizzazione di profitti adeguati ai propri investimenti di capitali. Quest’incapacità di realizzare profitti adeguati può essere definita, seguendo la traccia marxista, ‘caduta tendenziale del saggio medio di profitto ’, ed è determinata dalle stesse cause che sono all’origine della crescita della forza lavoro eccedente, cioè la modificazione del rapporto fra parte costante e parte variabile del capitale. Alla fine di un ciclo economico di valorizzazione del capitale, nei vari rami della produzione, si manifesta il fenomeno della saturazione, esso significa grossi quantitativi di merci invendute, mezzi tecnici inutilizzati e forza lavoro in eccedenza: in altre parole è la crisi da sovrapproduzione. A questo punto la classe borghese si pone il doppio problema di come far ripartire l’economia, realizzando adeguate condizioni di profitto ai propri capitali, e di come garantire sicurezza e stabilità al proprio regime sociale schiavista, disinnescando la mina del surplus di forza lavoro proletaria disoccupata o occupata a metà. Il dato quantitativo che costituisce un ostacolo e un problema, di ordine sia politico sia economico, è dunque la sovrappopolazione operaia e l’eccesso di mezzi tecnici di produzione. Le guerre moderne, al di là delle cause scatenanti contingenti e formali, ma anche al di là delle ragioni di potenza e di predominio che le accomunano con quelle del passato, mostrano oggi una caratteristica nuova, poiché esse sono soprattutto, oggettivamente, una funzione collegata alla necessità economica di distruzione di mezzi tecnici, merci e forza lavoro eccedente.
“Produzione progressiva di una sovrappopolazione relativa ossia di un esercito industriale di riserva.
L’accumulazione del capitale che in origine si presentava solo come suo ampliamento quantitativo si compie, come abbiamo visto, in un continuo cambiamento qualitativo della sua composizione, in un costante aumento della sua parte costitutiva costante a spese della sua parte costitutiva variabile. Il modo di produzione specificamente capitalistico, lo sviluppo della forza produttiva del lavoro ad esso corrispondente, il cambiamento della composizione organica del capitale che ne deriva non soltanto vanno di pari passo con il progresso dell’accumulazione o con l’aumento della ricchezza sociale. Essi procedono con rapidità incomparabilmente maggiore, perché l’accumulazione semplice ossia l’estensione del capitale complessivo è accompagnata dalla centralizzazione dei suoi elementi individuali, e la rivoluzione tecnica del capitale addizionale è accompagnata dalla rivoluzione tecnica del capitale originario. Con il procedere dell’accumulazione la proporzione fra la parte costante del capitale e quella variabile varia quindi; se in origine era di 1:1, ora diventa 2:1, 3:1, 4:1, 5:1, 7:1, ecc., cosicchè, aumentando il capitale, invece della metà del suo valore complessivo si convertono in forza-lavoro progressivamente 1/3, 1/4, 1/5, 1/6, 1/8, ecc., e all’incontro si convertono in mezzi di produzione 2/3, ¾, 4/5, 5/6, 7/8, ecc. (K. Marx – IL CAPITALE libro I cap. XXIII pag. 688, La legge generale dell’accumulazione capitalistica, Ed. Editori Riuniti 1980).
Qui di seguito è di nuovo sottolineato il nesso fra centralizzazione aziendale dei capitali e rivoluzionamento del modo di produzione, nel suo collegamento con il processo inesorabile di riduzione della forza lavorativa e con il corrispettivo incremento dei mezzi di produzione tecnici.
“E’ l’accumulazione capitalistica che costantemente produce, precisamente in proporzione della propria energia e del proprio volume, una popolazione operaia relativa, cioè eccedente i bisogni medi di valorizzazione del capitale, e quindi superflua ossia addizionale.” (opera citata p. 690).
Il surplus di forza-lavoro proletaria inutilizzata diviene, quindi, una caratteristica ineliminabile e tendenzialmente crescente del processo produttivo del capitale, la cui pericolosità per l’equilibrio sociale borghese pone la classe dominante di fronte al feroce dilemma della scelta del mezzo più adeguato alla disattivazione di questa minaccia che è sociale e politica insieme. Il malcontento sociale, infatti, superata una certa soglia di manifestazione genericamente distruttiva (vandalismo, ribellismo anarcoide, devianza sistemica di massa…), potrebbe prima o poi canalizzarsi sui binari ben più pericolosi della lotta politica, in altre parole, sfociare sul piano del rovesciamento rivoluzionario del potere politico esistente. Si tratta di una possibilità storico-sociale dipendente da una molteplicità di fattori concomitanti, fra i quali non ultimo l’incontro fra la determinazione risoluta di larghi strati proletari nel chiudere i conti con la schiavitù borghese, e la lucida conoscenza rivoluzionaria racchiusa nel partito storico.
La guerra, intesa come distruzione di forza lavoro eccedente, diventa così il rimedio mortale principale per risollevare le altalenanti sorti dell’economia capitalista, e ridare qualche attimo di vita apparente al cadavere che ancora cammina.
Riprendere Il Capitale di K. Marx, nel contesto di un’elaborazione teorica sulla guerra, può sembrare superfluo, eppure solo mostrando i nessi fra forza lavoro in eccedenza, leggi di rapporto, evoluzione e composizione del capitale complessivo, si può comprendere pienamente il fenomeno del cosiddetto ‘esercito industriale di riserva ’, e il rapporto dialettico che esso intrattiene con il modo di produzione capitalista: in altre parole, l’esercito di riserva proletario disoccupato, va visto come opportunità positiva per il capitale di ricatto verso la forza lavoro occupata, da una parte, e al contempo, dall’altra parte, come possibilità negativa di disordini sociali e minacce all’ordine borghese.
Dato che in regime economico capitalista la massa di proletari disoccupati, parzialmente occupati, o addirittura mai occupati, aumenta tendenzialmente a dismisura, in ragione dell’inesorabile rapporto di sviluppo, inversamente proporzionale, fra la parte costante e la parte variabile del capitale, allora anche i rischi politici di instabilità e di rottura fatale del dominio borghese vanno letti e intesi come una costante non solo ineliminabile, ma anche suscettibile di crescita e di ampliamento, di pari passo con la centralizzazione dei capitali e la crescita delle capacità produttive.
“Quindi la popolazione operaia produce in misura crescente, mediante l’accumulazione del capitale da essa stessa prodotta, i mezzi per render sè stessa relativamente eccedente. E’ questa una legge della popolazione peculiare del modo di produzione capitalistico, come di fatto ogni modo di produzione storico particolare ha le proprie leggi della popolazione particolari, storicamente valide”. (opera citata pag. 691)
“Ma se una sovrappopolazione operaia è il prodotto necessario della accumulazione ossia dello sviluppo della ricchezza su base capitalistica, questa sovrappopolazione diventa, viceversa, la leva dell’accumulazione capitalistica e addirittura una delle condizioni d’esistenza del modo di produzione capitalistico. Essa costituisce un esercito industriale di riserva disponibile che appartiene al capitale in maniera così completa come se quest’ultimo l’avesse allevato a sue proprie spese, e crea per i mutevoli bisogni di valorizzazione di esso il materiale umano sfruttabile sempre pronto, indipendentemente dai limiti del reale aumento della popolazione.” (opera citata pag. 692)
Dunque, questo esercito industriale di riserva, disponibile in ogni momento per le esigenze di valorizzazione del capitale, si sposta all’uopo nei rami della produzione più bisognosi di forza lavoro da impiegare, e così, come una mandria di bestiame viene fatta spostare nei pascoli più verdi e rigogliosi dal pastore oculato, anche il materiale umano proletario, infine, sarà attirato incessantemente nei verdi pascoli del capitale, dove un salario da fame gli consentirà, temporaneamente, di sopravvivere (almeno fino al prossimo ciclo di espulsione determinato dalla variazione della composizione del capitale). Intere masse umane di senza riserve, sospinte potentemente dalla fame e dall’indigenza, si muoveranno verso questi verdi pascoli del capitale, dove si ripeterà il rito dell’estrazione di plus-lavoro insieme alla mercificazione delle loro povere vite. Alla base dell’infame regime capitalista, la fame da lupi per il plus-lavoro assilla la mente anonima del capitale, e costringe gli attori della scena sociale ad una danza macabra che si conclude solo quando il ciclo di valorizzazione è stato soddisfatto.
Il proletariato, costretto ad una forma larvale d’esistenza – in quanto sussunto e incorporato all’interno delle altalenanti vicende del ciclo industriale – sconta sotto forma d’incertezza, precarietà e impoverimento la colpa sociale di non sapersi emancipare dalla condizione di semplice classe esistente in funzione dei bisogni di valorizzazione del capitale. La mancanza di lavoro, l’interminabile ricerca di una qualsivoglia occupazione, non importa se precaria e sottopagata, non sono l’eccezione, viceversa, rappresentano la base stessa del moderno modo di produzione.
Di grand’attualità appaiono le considerazioni che Marx introduce nella stessa pagina del capitale prima citata, esse sfatano preventivamente il vuoto brusio sulle cause della crisi, sulla finanza cattiva contrapposta all’economia reale buona e sul presunto ruolo decisivo del credito nella genealogia della crisi contemporanea. “La superficialità dell’economia politica traspare tra l’altro dal fatto che essa fa dell’espansione e della concentrazione del credito, che sono semplici sintomi dei periodi alterni del ciclo industriale, la causa di tali cicli. Esattamente come i corpi celesti, una volta ricevuto un determinato movimento, lo ripetono incessantemente, così anche la produzione sociale, una volta ricevuto quel movimento di alterna espansione e contrazione alternantisi, lo rinnova costantemente. Effetti diventano a loro volta cause, e le alterne vicende di tutto il processo, che riproduce costantemente le proprie condizioni, assumono la forma della periodicità. Una volta consolidata quest’ultima, perfino l’economia politica riesce a concepire la produzione di una popolazione eccedente relativa, cioè eccedente riguardo al bisogno medio di valorizzazione del capitale, come condizione vitale dell’industria moderna”. (K. Marx, Il Capitale, Libro I, cap. XXIII, pag. 693, Editori Riuniti 1980)
La guerra, nella fase cronica o acuta, come realtà potenziale o attuale, è il vero orizzonte in cui si concretizza la risoluzione delle contraddizioni interne al modo di produzione capitalistico. Inoltre, essendo ormai prioritario il problema della insostenibilità dell’attuale massa di forza lavoro proletaria in eccesso ( in eccesso per i parametri di regolare funzionamento socio-economico del Moloch capitalista ), appare secondario, nella genealogia della guerra, l’aspetto del conflitto tradizionale inteso come scontro inter-imperialistico di potenze per la conquista di spazi vitali, materie prime e mercati. Non neghiamo una presenza residuale di tale aspetto, tuttavia, da un punto di vista funzionale e sistemico – per il capitale – lo scopo oggettivo, principale, della guerra è oggi lo sterminio di forza lavoro eccedente; di conseguenza si deve anche immaginare una qualche forma di collusione e complicità di fondo, fra i blocchi economici e politici capitalistici contemporanei, contro il proletariato mondiale. La guerra, dunque, sia nella fase cronica (attuale) che in quella acuta (futura), assolve una funzione oggettiva di tipo sistemico, mirante al riequilibrio temporaneo dei parametri economico-sociali alterati dalle stesse contraddizioni prodotte dallo sviluppo antagonistico del modo di produzione su base capitalista.
18/12/2025
[1] i comandanti dei rispettivi eserciti […] negli anni di guerra successivi ordinarono bombardamenti di artiglieria proprio alla vigilia di Natale per assicurarsi che non si verificassero più interruzioni nei combattimenti” (Roberto de Mattei, “La «tregua di Natale» del 1914”, http://www.corrispondenzaromana.it).
[2] “La notte di Natale 1914, nelle trincee del fronte occidentale (Francia e Belgio) ci fu una tregua. Si trattò di una eccezionale circostanza dettata dalla spontaneità di un sentimento di fratellanza universale, più forte persino del rombo dei cannoni. Non la ordinarono i comandi supremi che, di contro, fecero di tutto per condannarla ed accertarsi che mai più si ripetesse in futuro. I soldati di entrambe le fazioni uscirono allo scoperto, si abbracciarono, fumarono, cantarono insieme, si scambiarono doni e organizzarono persino delle estemporanee partite di calcio. Gli Stati Maggiori coinvolti nel conflitto fecero di tutto anche per nascondere l’accaduto e cancellarne ogni traccia o memoria – recentemente però sono emerse dagli archivi militari di tutta Europa, lettere, diari e persino fotografie che sanciscono inequivocabilmente che la tregua, anche se non ufficiale, avvenne realmente e si protrasse addirittura per più giorni, nel periodo Natalizio del 1914” (“La tregua di Natale”, http://www.lagrandeguerra.net). “Il giorno di Natale del 1914, nel primo anno della prima guerra mondiale, i soldati tedeschi, inglesi e francesi disobbedirono ai loro superiori e fraternizzarono con «il nemico» lungo due terzi del fronte occidentale. Le truppe tedesche innalzarono alberi di Natale fuori delle trincee con le scritte «Buon Natale» «Voi non sparate, noi non spariamo». A migliaia, le truppe attraversarono la terra di nessuno su cui giacevano sparsi corpi in decomposizione. Cantarono i canti di Natale, si scambiarono le foto dei cari rimasti a casa, condivisero le razioni, giocarono a calcio, arrostirono persino alcuni maiali. I soldati abbracciarono gli uomini che solo poche ore innanzi cercavano di uccidere. Si misero d’accordo per avvertirsi se i superiori li avessero obbligati a imbracciare le loro armi e di mirare in alto. Agli alti comandi, di entrambe le parti, vennero i brividi. Stava succedendo il disastro: soldati che dichiarano la loro fratellanza e che rifiutano di combattere. I generali, da tutte e due le parti, dichiararono questo pacificarsi spontaneo come tradimento e pertanto conforme alla corte marziale. Entro marzo 1915 il movimento di fraternizzazione era stato sradicato e la macchina di morte rimessa completamente all’opera” (“La tregua di Natale”, http://www.disinformazione.it).
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