Nota redazionale: Il testo pubblicato una prima volta nel maggio 2015 contiene vari argomenti di interesse immediato, innanzitutto la ricognizione sulle dinamiche di conflitto e aggregazione del proletariato giovanile, e in secondo luogo la chiarificazione teorica di alcuni punti controversi in merito alla condizione proletaria di fabbrica, la critica precisa e puntuale (in base all’evidenza del dettato inequivocabile dei testi marxisti) dell’idea che nell’economia capitalistica possano esserci delle condizioni (attuali, concrete, reali) di abolizione della legge del valore di scambio proprio nel luogo dove maggiore è il grado di alienazione capitalistica (la fabbrica, il luogo di lavoro). Una vecchia illusione operaista spinge qualcuno a pensare che proprio dentro l’inferno del luogo di lavoro (galera aziendale) l’uomo smetta di essere una merce, uno strumento al servizio del capitale morto, e diventi invece un produttore associato, cooperativo, libero dalla sua condizione di schiavo salariato. Questa è una idea senza fondamento, infatti il testo che vi riproponiamo si oppone ad essa con tutta la forza della teoria marxista e della verifica storico-fattuale.
In via generale tutti i tentativi di revisione dei fondamenti teorici del marxismo utilizzano delle pagine o delle singole righe, singole parole in certi casi, tratte dagli stessi testi di Marx, Engels, Lenin e infine della corrente, decontestualizzando o in certi casi deformando esplicitamente lo stesso significato delle parole in relazione al senso globale del testo. Abbiamo in passato assimilato al fenomeno della semiosi illimitata tale operazione di forzatura e travisamento interpretativo di un contenuto teorico, particolarmente epidemico nelle fasi sociali di riflusso della lotta di classe come quella attuale. Gli errori teorici sono una costante derivata dai condizionamenti ideologici della classe dominante, e dalle condizioni del conflitto di classe, tuttavia a loro volta diventano fattore di sviluppo di ulteriori effetti derivati. Poiché gli errori teorici si trasformano in sconfitte pratiche nella lotta di classe.
Anche e soprattutto per questo motivo la corrente (vedere le tesi di Napoli appena ripubblicate) individua un compito fondamentale del partito nella lotta alle deformazioni e ai travisamenti della teoria invariante. L’idea che l’operaio di fabbrica, nella cooperazione con gli altri operai, cooperazione necessaria all’esecuzione dei compiti affidatigli coercitivamente dall’impresa economico-aziendale, durante il tempo di lavoro subordinato, possa essere libero dai legami della legge del valore di scambio, e quindi non sia totalmente mercificato e alienato, è una idea sbagliata in teoria e in pratica. In teoria perché non trova giustificazione nei testi fondamentali del marxismo, e in pratica perché contraddice la realtà sperimentabile ogni giorno nelle galere aziendali del capitale.
Questa deformazione della dottrina marxista costituisce uno dei due presupposti (l’altro è la forte presenza del capitale costante nell’economia) per la costruzione della teoria in cui il comunismo sarebbe già, in modo attuale e non solo potenziale, presente nella struttura economica della nostra società.
Il capitale autonomo e l’indebolimento degli stati borghesi sono gli altri due aspetti di rilievo della deformazione dottrinaria dei fondamentali del marxismo, convergenti, insieme alle precedenti deformazioni, alla conclusione che sia possibile cambiare il sistema per via spontanea, fatalista, gradualista (il capitale uccide se stesso), basandosi sui sofismi apodittici, inverificabili e indimostrabili, di un preteso determinismo assoluto (basato peraltro sull’idea dell’infallibilità della scienza borghese, ma vedere cosa dicono a proposito le tesi di Napoli).
Ultima considerazione, il rapporto fra i processi di centralizzazione e concentrazione e la svalorizzazione/distruzione. Il capitalismo si sviluppa come un processo di centralizzazione e dissoluzione già dall’inizio, quando al contatto con le economie pre-capitalistiche il capitale nascente le demolisce. Nel corso del suo sviluppo l’economia capitalistica si caratterizza per l’elevato grado di concorrenza fra capitali diversi (imprese economico-aziendali), e per la regolare dissoluzione/sconfitta di quelle più deboli a vantaggio di quelle che risultano più forti. Con lo sviluppo e l’acutizzazione dello stato di crisi permanente, il processo di centralizzazione/socializzazione della produzione e di dissoluzione si acutizza a sua volta, con la contrazione della produzione che ogni economia nazionale o area economica sovranazionale vorrebbe scaricare sugli altri.
Il processo di centralizzazione/dissoluzione del capitale (autofagocitazione) diviene esplicito nel fenomeno dell’economia sommersa. L’economia sommersa supera le vecchie regole/norme legali che impediscono il movimento di valorizzazione alle imprese dotate di grande capitale fisso, attraverso la concessione e l’appalto. ‘L’impresa o appaltatore dei lavori, presenta questi caratteri: 1. Non ha un officina, fabbrica, stabilimento proprio, ma a volta a volta installa il ‘cantiere’ e gli stessi uffici in sede posta a disposizione del committente. 2. Può avere degli attrezzi o anche macchine proprie, ma più spesso, dislocandosi in località disparate o lontane, o li noleggia o li acquista e rivende sul posto. 3. Deve in teoria disporre di un capitale liquido da anticipare per materie prime e salari, ma va notato che lo ottiene con facilità dalle banche…’. Proprietà e capitale, cap.12. La moderna impresa senza proprietà. L’appalto e la concessione forme anticipate della evoluzione capitalista presente, vedere Prometeo numeri 10-14 del 1948.
Di fronte a un panorama di impossibilità strutturale di prosecuzione del ciclo di valorizzazione del capitale, stante la persistente sovrapproduzione di merci e sovraccumulazione e svalorizzazione(1) di capitali, L’ECONOMIA SOMMERSA rappresenta uno sbocco temporaneo alla caduta storica permanente del saggio medio di profitto. Da un punto di vista pratico tale branca dell’economia capitalistica si associa ad attività spesso oscure e ‘illegali’, ma soprattutto disperde e diffonde in mille rivoli una porzione del lavoro associato di fabbrica precedente, rendendolo solitario lavoro domestico, a domicilio, svolto in cantine o luoghi di fortuna (smentendo con i fatti anche le idee/illusioni sulla ‘potenza’ associativa del lavoro di fabbrica, capace di sbaragliare la legge del valore di scambio).
L’economia sommersa produce normalmente merci di bassa qualità, funzionali al prolungamento dello sciupio, cioè al consumismo, donando un alito di vita ad una frazione dei capitali in cerca di valorizzazione e monetizzazione del plus-lavoro/plus-valore attraverso la vendita nella sfera della circolazione (seppure nel contesto permanente di sovrapproduzione e caduta del saggio di profitto generale, determinati dalla caduta della domanda, a sua volta determinata dalla legge della miseria crescente).
(1) Svalorizzazione (sovraccumulazione) generale vuol dire eccedenza di capitali di varia specie che perdono il proprio valore precedente o addirittura ogni valore. Fallimento dei loro proprietari. Un capitale inutile poiché incapace di produrre valori, quindi merci che possano essere vendute in modo redditizio, cioè con un margine adeguato di profitto.
Aggregazione, conflitto, repressione: piccola ricognizione sulle attuali proteste del proletariato giovanile
Introduzione
Le condizioni di vita del proletariato giovanile nell’Italia contemporanea sono caratterizzate da due linee di tendenza principali: in primo luogo la precarietà delle prospettive di lavoro, nella certezza di lunghi periodi di disoccupazione, e in secondo luogo la manifestazione di tentativi di aggregazione, in funzione di atti di conflitto con la società capitalistica (per ora da parte di una minoranza, mentre passività e ricerca di soluzioni individuali sono ancora predominanti nella maggioranza). Non crediamo che l’età anagrafica modifichi l’essenza sociale della condizione proletaria, cioè il suo essere alienata ed espropriata dai mezzi di produzione, dal prodotto del proprio lavoro, dai tempi e dalle modalità organizzative in cui questo lavoro si svolge. Il dispotismo parassitario del capitale sussume e ingloba le vite dei proletari, all’interno dell’infernale ambiente aziendale, senza distinzione di età, così come avveniva con rematori delle antiche galere, che erano letteralmente incatenati ai remi dell’imbarcazione. Tuttavia i dati statistici rivelano un maggiore livello percentuale di disoccupazione nelle fasce di età comprese fra la soglia minima dei 18 anni e la soglia massima dei 35 anni (rispetto alle fasce di età successive). Una parte di questi senza-lavoro riesce a sopravvivere con l’assistenza delle famiglie (quando le famiglie sono in grado di provvedere), altrimenti finisce nel giro dei lavori precari o anche nella microcriminalità. La società capitalistica, nata lorda di sangue e fango già dall’inizio, continua imperterrita a produrre masse umane di diseredati e disperati, attratti e respinti al contempo dalle sirene del consumo di merci inutili e dementi, in un folle caleidoscopio di sogni e bisogni omologati e inautentici. L’uomo merce desidera l’oggetto merce, ignaro di essere vittima di una doppia schiavitù (la schiavitù del suo essere una semplice merce dentro il processo di valorizzazione del capitale, e la schiavitù-dipendenza verso i modelli di vita consumistici e individualisti indotti dall’ideologia dominante). L’acutizzazione della crisi economica rappresenta, almeno per una parte della società, un brusco addio al bisogno compulsivo di oggetti inutili, improbabili e ricercati status-symbol di agognate scalate sociali. In fondo alla scaletta dei desideri la legge dell’impoverimento tendenziale, innestata immanentemente nei processi economici dell’organismo capitalistico, ha preteso il suo prezzo dai milioni di proletari ormai superflui rispetto alle esigenze di valorizzazione del capitale. In attesa di una ripresa del ciclo economico, subordinata alla distruzione fisiologica – mediante qualunque mezzo – dell’eccesso di capitale costante ( macchinari, merci, impianti e attrezzature…) e variabile (forza-lavoro umana), la società borghese si trova a dover gestire l’accresciuta conflittualità dei numerosi gruppi di proletari senza riserve, relegati dentro una condizione di semi-digiunatori (mentre le capacità produttive dell’economia sono sottoutilizzate perché la produzione di merci, in questa fase, non determinerebbe un adeguato tasso di redditività per il capitale investito). Il sistema, guidato dalla logica disumana del profitto, non riesce quindi nemmeno a garantire l’adeguato rifornimento di beni elementari di sussistenza a una parte dei suoi schiavi salariati. In questo snodo drammatico si innesta la ribellione di importanti segmenti di proletariato giovanile, in molti casi su obbiettivi di lotta non direttamente classisti (no tav, no dal molin), e tuttavia sintomatici di un primo confuso bisogno di opposizione al sistema. In altri casi il conflitto assume caratteri anarcoidi, disorganizzati e intermittenti, evidenziando ancora una volta la ricorrenza delle forme storiche di lotta caratteristiche delle fasi iniziali di un conflitto sociale più ampio. Probabilmente il passaggio a fasi più acute di conflitto sociale è presentita come una possibilità reale (da parte della classe sociale schiavista), tale presentimento spiegherebbe anche la svolta autoritaria dell’apparato di dominio politico-statale, registrata negli ultimi anni (dittatura della maggioranza parlamentare, prevalenza dell’esecutivo sul parlamento, approvazione di leggi miranti a ridurre i residui ‘diritti’ dei lavoratori e delle organizzazioni sindacali più combattive). Questa svolta autoritaria, per ora concentrata nella sfera politico-legislativa, andrebbe concepita come il preludio al successivo impiego di mezzi di repressione violentemente polizieschi (verificabile qualora il livello del conflitto sociale dovesse ulteriormente acutizzarsi).
Parte prima: i dati numerici e statistici come pretesto per la richiesta di investimenti di capitale ‘produttivo’ e quindi per la creazione di nuova occupazione salariata e sfruttata
Secondo i dati ISTAT la disoccupazione giovanile, a marzo 2015 risale oltre il 43%. In Puglia e Calabria le percentuali sfiorano addirittura il 60%. Questi dati sono candidamente commentati da un giornale borghese nel seguente modo ‘ L’entrata in vigore del jobs act , dunque, sembra non avere avuto effetti positivi sul tasso di disoccupazione’. Ma sembra, continuando a leggere l’articolo, che i tecnici dell’ISTAT siano convinti che è ancora presto per poter vedere l’effetto della riforma del lavoro sull’andamento del mercato. Sarebbe interessante comprendere quale effetto potrebbe sortire il jobs act sul tasso di occupazione giovanile, dal momento che solo un ritorno a processi produttivi scarsamente meccanizzati, tipici degli albori del capitalismo, o addirittura un ritorno al feudalesimo, potrebbe determinare una nuova domanda di forza-lavoro umana da parte delle imprese. In verità il jobs act non ha mai avuto lo scopo di creare nuova domanda di lavoro, aspetto difficilmente realizzabile in una economia industriale altamente tecnologizzata, automatizzata, robotizzata; in cui il peso del capitale costante è enormemente superiore al peso del capitale variabile (lavoro salariato). Lo scopo ultimo del jobs act era ed è quello di creare le condizioni di una maggiore subordinazione del proletariato al comando del capitale; nei luoghi di lavoro e sul mercato del lavoro. Anche la successiva riforma del premier Renzi, denominata ‘la buon scuola’, ha lo scopo preciso di ottenere un maggiore livello di subordinazione del personale della scuola al dispotismo del capitale, in questo caso incarnato nella maschera di carattere del dirigente scolastico, novella figura fatale a cui lo stato del capitale conferisce pieni super poteri discrezionali e terrorizzanti di assunzione e licenziamento. Inoltre, travalicando e superando la semplice ricerca iniziale di maggiori livelli di subordinazione del personale dipendente, la riforma della scuola introduce, con l’obbligo delle quattrocento ore di alternanza scuola-lavoro per gli studenti, un vero e proprio elemento di obbligo coercitivo al lavoro gratuito. In altre parole un vero e proprio ritorno alle esperienze storiche del lavoro forzato. Esperienze non tanto lontane, se si pensa al grande numero di esseri umani costretti a lavorare fino alla morte dai regimi totalitari del capitale che hanno segnato il secolo scorso (Nazismo, Stalinismo, Maoismo, la Cambogia di Pol Pot). Torniamo ai dati numerici, secondo le proiezioni statistiche riferite al periodo di marzo 2015, la percentuale di occupazione si attesta intorno al 55,5%. Tali dati forniscono il pretesto per le stucchevoli dichiarazioni dei soliti noti esponenti politici e sindacali, che pur partendo da toni e argomentazioni apparentemente differenti, confluiscono poi nella comune richiesta di nuovi investimenti di capitale. Leggiamo cosa dice ironicamente – a tal proposito – Amadeo Bordiga ‘Crisi, miseria, disoccupazione. Colpa del governo, che ha a sua disposizione una ricetta tanto semplice e non la vuole applicare: l’investimento. Qui, tutta la politica e l’economia politica dei formidabili partiti che in Italia rappresentano le classi operaie…Si investe quando si trasforma denaro in capitale. Nel roseo mondo borghese chi ha ricchezza di troppo, chi ha accumulato tanto denaro che non riesce a consumarlo…che fa? Investe…compra macchine, compra uno stabilimento, compra materie prime, compra forze di lavoro operaie adoperabili e produttive, vende i nuovi prodotti , realizza altri profitti, forma altro capitale che investirà ulteriormente…investire significa dunque aggiungere alla facoltà che hanno i borghesi di un paese di sfruttare la classe operaia, una ulteriore facoltà di farlo…la campagna per l’accumulazione e l’investimento è campagna per lo sfruttamento del lavoratore.‘ Imprese economiche di pantalone, pagina 121, 122, 123. Il testo riportato risale agli anni 50, questo aspetto dovrebbe farci riflettere sulle costanti economico-sociali in cui si dibatte il modo di produzione capitalistico, a distanza di oltre mezzo secolo e anche oltre, dato che la base della critica alla richiesta del segretario cgil dell’epoca ( Di Vittorio), è il capitale di Marx pubblicato già nel 1867. Scrive infatti Marx ‘ Qualunque sia la forma sociale del processo di produzione, questo o dev’essere continuativo o deve sempre tornar a percorrere periodicamente gli stessi stadi. Come una società non può smettere di consumare, così non può smettere di produrre. Quindi ogni processo sociale di produzione, considerato in un nesso continuo e nel fluire costante del suo rinnovarsi, insieme processo di riproduzione. Le condizioni della produzione sono insieme condizioni della riproduzione…. Nessuna società può produrre in continuazione, cioè riprodurre, senza riconvertire in continuazione una parte dei suoi prodotti in mezzi di produzione ossia in elementi di una produzione nuova. Rimanendo uguali per ogni altro verso le circostanze, la società può riprodurre o conservare la propria ricchezza sulla stessa scala soltanto reintegrando in natura per esempio i mezzi di produzione cioè mezzi di lavoro, materie prime, materie ausiliarie consumati durante l’anno, con una quantità eguale di nuovi articoli dello stesso genere, che vengono distaccati dalla massa annua dei prodotti e vengono incorporati di nuovo nel processo di produzione’. Il Capitale Primo libro, capitolo 21. Le circostanze elementari della produzione, indipendentemente dalla forma sociale in cui essa si svolge (modi di produzione), pongono in essere la doppia esigenza del consumo finalizzato al soddisfacimento dei bisogni e la conseguente necessità della continuità del processo produttivo degli oggetti finalizzati all’uso, cioè al soddisfacimento dei bisogni. La produzione deve quindi non solo creare gli oggetti d’uso, ma anche riprodurre una parte dei suoi prodotti in mezzi di produzione, cioè mezzi di lavoro, materie prime, materie ausiliarie precedentemente consumati durante cicli economici annuali passati. La contabilità in partita doppia esprime il consumo dei fattori produttivi pluriennali/capitale costante (automezzi, macchinari, attrezzature …) con il termine ammortamento, ovvero la quota di costo annuo corrispondente alla perdita di valore di un cespite ammortizzabile, causata dalla senescenza (invecchiamento determinato dall’uso ripetuto, ma anche dal semplice inutilizzo o mancanza di manutenzione ), obsolescenza ( superamento dal punto di vista tecnologico), e dalla cosiddetta inadeguatezza del mezzo tecnico alle nuove dimensioni aziendali:‘ Quanto più a lungo dura il mezzo di lavoro, quanto più lentamente si logora, tanto più a lungo il valore-capitale costante rimane fissato in questa forma d’uso. Ma qualunque sia il grado della sua durevolezza, la proporzione in cui esso cede valore sta sempre in rapporto inverso al suo tempo totale di funzione. Se di due macchine di pari valore una si logora in cinque anni, l’altra in dieci, la prima nello stesso spazio di tempo cede il doppio di valore della seconda. Questa parte del valore-capitale fissata nel mezzo di lavoro circola come ogni altra. Abbiamo visto in generale che l’intero valore-capitale si trova in una circolazione costante e perciò in questo senso ogni capitale è capitale circolante. Ma la circolazione della parte di capitale qui considerata è particolare. In primo luogo, essa non circola nella sua forma d’uso, ma soltanto il suo valore circola, e ciò fa gradatamente, un po’ alla volta, nella misura in cui da essa passa nel prodotto che circola come merce. Durante l’intera sua durata di funzione, una parte del suo valore rimane sempre fissata in essa, autonoma rispetto alle merci che essa serve a produrre. Per questa peculiarità questa parte del capitale costante acquista la forma di capitale fisso. Al contrario, tutte le altre parti costitutive materiali del capitale anticipato nel processo di produzione, in opposizione ad essa costituiscono: capitale circolante o fluido (successiva postilla in fondo)’. Marx , capitolo 8 del secondo libro del capitale. In ogni caso il consumo/ammortamento di questi elementi del capitale costante implica, nella stessa contabilità in partita doppia, la creazione di un fondo d’ammortamento del bene strumentale che si svalorizza e perde la sua possibilità di utilizzo originaria. Tale fondo d’ammortamento, da un punto di vista contabile rappresenta una passività dello stato patrimoniale aziendale, in quanto rettifica in diminuzione il valore originario di quell’elemento del capitale costante specificamente indicato (fabbricati, attrezzature e impianti, macchinari, automezzi…). Da un altro punto di vista contabile, contemporaneamente e simmetricamente, il fondo ammortamento rappresenta un salvadanaio virtuale in cui si accumula annualmente il valore necessario a riacquistare (o a ricostruire in economia) un bene dalle caratteristiche tecniche equivalenti. Resta il fatto molto pratico che la produzione dei beni di consumo viene compiuta con dei mezzi di produzione, lavoro, strumenti, arnesi, materie, che devono poi essere ricostituiti alla fine di un certo ciclo economico, se si vuole consentire la continuità del processo produttivo degli oggetti d’uso necessari alla vita umana. Tuttavia abbiamo parlato del fatto che ‘Qualunque sia la forma sociale del processo di produzione, questo o dev’essere continuativo o deve sempre tornar a percorrere periodicamente gli stessi stadi’. Scendiamo ora nei particolari dell’attuale modo di produzione capitalistico, e tentiamo di individuare in che cosa si differenzia dal modello elementare del processo di produzione che ‘o dev’essere continuativo o deve sempre tornar a percorrere periodicamente gli stessi stadi’. Il modello economico del ciclo della riproduzione semplice capitalistica viene così esposto da Marx ‘Se la produzione ha forma capitalistica, l’avrà anche la riproduzione. Come nel modo di produzione capitalistico il processo lavorativo si presenta solo come mezzo del processo di valorizzazione, così la riproduzione si presenta come semplice mezzo per riprodurre come capitale, cioè come valore che si valorizza, il valore anticipato… Se per esempio quest’anno la somma di denaro anticipata di 1200 € si è convertita in capitale e ha prodotto un plusvalore di 240 €, essa deve ripetere la stessa operazione l’anno prossimo e così via. Il plusvalore, come incremento periodico del valore del capitale ossia frutto periodico del capitale nel suo procedere, assume la forma di un reddito che nasce dal capitale. Se questo reddito serve al capitalista solo come fondo di consumo ossia se viene consumato periodicamente come è periodicamente ottenuto, ha luogo, eguali rimanendo le altre circostanze, la riproduzione semplice. Il processo di produzione ha inizio con l’acquisto della forza- lavoro per un tempo determinato: e questo inizio si rinnova costantemente, appena viene a scadere il termine di vendita del lavoro, e con esso è trascorso un determinato periodo della produzione, settimana, mese, ecc. Ma l’operaio viene pagato soltanto dopo che la sua forza-lavoro ha operato e ha realizzato in merci tanto il proprio valore che il plusvalore. Quindi l’operaio ha prodotto tanto il plusvalore, che momentaneamente consideriamo solo come fondo di consumo del capitalista, quanto il fondo del proprio pagamento, cioè il capitale variabile, prima che questo gli rifluisca in forma di salario; ed egli viene occupato soltanto finché lo riproduce costantemente’.Il Capitale Primo libro, capitolo 21. Abbiamo visto che in ogni ‘forma sociale’ della produzione una parte del prodotto, ovvero delle energie impiegate, deve permettere il ripristino dei mezzi di produzione necessari per consentire ulteriori cicli produttivi, poiché ‘Come una società non può smettere di consumare, così non può smettere di produrre’ Marx, e la produzione è condizionata dall’uso di determinati mezzi che si logorano, perdendo funzionalità d’impiego efficace. Nel modo capitalistico di produzione, tuttavia, ‘ il processo lavorativo si presenta solo come mezzo del processo di valorizzazione, così la riproduzione si presenta come semplice mezzo per riprodurre come capitale, cioè come valore che si valorizza, il valore anticipato’Marx. Il valore anticipato , il capitale, si valorizza attraverso il furto legalizzato (al di là di ogni obiezione sofistica) di tempo di lavoro (plus-lavoro), incorporato nella merce sotto forma di plus-valore. ‘Il plusvalore, come incremento periodico del valore del capitale ossia frutto periodico del capitale nel suo procedere, assume la forma di un reddito che nasce dal capitale. Se questo reddito serve al capitalista solo come fondo di consumo ossia se viene consumato periodicamente come è periodicamente ottenuto, ha luogo, eguali rimanendo le altre circostanze, la riproduzione semplice‘ Marx. Ammettiamo che il costo (il valore) dei fattori produttivi (costanti e variabili) consumati nel processo produttivo (salari, ammortamento immobilizzazioni, materie prime, forza motrice…) sia pari a 10, e alla fine del ciclo di produzione e di circolazione-distribuzione delle merci il valore realizzato con la vendita sul mercato sia di 12. Il plus-valore, al netto della parte relativa alla semplice riproduzione del valore consumato ammonterà quindi a 2. Quando questo ‘reddito’ ciclico serve al capitalista solo per il consumo personale, allora ci troviamo di fronte alla riproduzione semplice (del capitale investito). Questo ‘fondo di consumo’ viene denominato, nelle aziende individuali, generalmente con il nome ‘titolare c/prelevamenti extra-gestione’, ed è inserito nella sezione delle attività patrimoniali (i fattori produttivi fissi e circolanti), dove fa da rettifica e contraltare all’utile d’esercizio registrato invece nella opposta colonna delle passività, dove sono inserite le fonti di finanziamento (capitale proprio e di debito). Il mistero gaudioso del cosiddetto utile non viene spiegato nella contabilità in partita doppia, ferma all’apparenza fenomenica e alla pura tautologia dei costi e ricavi aziendali e alle relative e corrispondenti uscite ed entrate monetarie. L’utile c’è e basta, come nell’esempio precedente, quando l’input iniziale del valore di 10 si trasforma in un output di 12. Un puro differenziamento aritmetico-contabile fra dati partenza e dati di arrivo di un certo ciclo economico-aziendale, a cui il ragioniere non è tenuto a prestare troppa attenzione. Torniamo ora al fattore segretamente coinvolto nella creazione di questo differenziamento, cioè il lavoratore salariato, secondo Marx ‘ Il processo di produzione ha inizio con l’acquisto della forza- lavoro per un tempo determinato: e questo inizio si rinnova costantemente, appena viene a scadere il termine di vendita del lavoro, e con esso è trascorso un determinato periodo della produzione, settimana, mese, ecc. Ma l’operaio viene pagato soltanto dopo che la sua forza-lavoro ha operato e ha realizzato in merci tanto il proprio valore che il plusvalore’ Marx . L’acquisto di forza-lavoro, per un tempo particolare, coincide con l’inizio del processo di produzione, tuttavia l’operaio viene pagato alla fine del ciclo in cui ha riprodotto in merci sia il valore del salario da ricevere che il plus-valore per il capitale. Nella fase di impiego della sua forza-lavoro egli è paragonabile ad uno strumento a disposizione del suo acquirente capitalista; egli (il proletario) ha infatti venduto in modo formalmente libero una porzione del suo tempo giornaliero di vita, ed in seguito a questa cessione di tempo di vita (e di corrispondente energia vitale utilizzabile dall’azienda sotto forma di forza di lavoro), ogni porzione di esistenza lavorativa di fabbrica ricade pienamente, in un tempo di acquisto e vendita di se stesso, una vera e propria mercificazione racchiusa nella clausola leonina di scambio iniziale propostagli dal capitale. In questo senso, forse, va letta la precedente citazione di Marx : ‘questo inizio si rinnova costantemente, appena viene a scadere il termine di vendita del lavoro, e con esso è trascorso un determinato periodo della produzione, settimana, mese, ecc. La mercificazione della vita del proletario si rinnova costantemente, poiché si rinnova sempre‘ Il processo di produzione (che) ha inizio con l’acquisto della forza- lavoro per un tempo determinato‘ MARX. Se il processo produttivo e riproduttivo del capitale è totalmente dominato dalla legge del valore di scambio mercantile, oltretutto nella forma del patto leonino della compravendita di forza-lavoro x+1 in cambio di un salario x, allora solo la rottura da un punto di realtà esterno al processo economico-aziendale, cioè dal punto politico della lotta di classe proletaria per la distruzione dell’apparato di potere della classe borghese, può consentire la ‘transizione’ a un nuovo modo di produzione. A riprova delle inestricabili caratteristiche di mercificazione immanenti alla produzione e riproduzione capitalistica, riportiamo ancora un passo del capitolo 21 del primo libro del capitale ‘Nel quarto capitolo abbiamo visto che per trasformare denaro in capitale non bastava che ci fossero la produzione e la circolazione delle merci. Bisognava prima che si trovassero l’uno di fronte all’altro come acquirente e venditore qua il possessore di valore ossia denaro, là il possessore della sostanza che crea il valore; qua il possessore di mezzi di produzione e di mezzi di sussistenza, là il possessore di nient’altro che forza-lavoro. Dunque il fondamento realmente dato, il punto di partenza del processo di produzione capitalistico è stato il distacco fra il prodotto del lavoro e il lavoro stesso, fra le condizioni oggettive del lavoro e la forza lavorativa soggettiva. Ma attraverso la pura e semplice continuità del processo cioè attraverso la riproduzione semplice, quel che all’inizio era solo punto di partenza, torna sempre ad esser prodotto di nuovo e viene perpetuato come risultato proprio della produzione capitalistica. Da una parte il processo di produzione converte continuamente in capitale, cioè in mezzi di valorizzazione e di godimento per il capitalista, la ricchezza dei materiali. Dall’altra parte l’operaio esce costantemente dal processo come vi era entrato: fonte personale di ricchezza, ma spoglio di tutti i mezzi per realizzare per sé questa ricchezza. Poiché prima della sua entrata nel processo il suo stesso lavoro è stato alienato a lui, appropriato al capitalista e incorporato al capitale, durante il processo il suo lavoro si oggettiva costantemente in prodotti altrui. Poiché il processo di produzione è insieme processo di consumo della forza-lavoro da parte del capitalista, il prodotto del lavoratore non solo si converte continuamente in merce ma anche in capitale: valore che succhia la forza creatrice di valore, mezzi di sussistenza che acquistano persone, mezzi di produzione che adoperano il produttore. Quindi l’operaio stesso produce costantemente la ricchezza oggettiva in forma di capitale, potenza a lui estranea, che lo domina e lo sfrutta, e il capitalista produce con altrettanta costanza la forza-lavoro in forma di fonte soggettiva di ricchezza, separata dai suoi mezzi di oggettivazione e di realizzazione, astratta, che esiste nella pura e semplice corporeità dell’operaio, in breve, egli produce l’operaio come operaio salariato. Questa costante riproduzione ossia perpetuazione dell’operaio è ‘il sine qua non’ della produzione capitalistica…Il processo di produzione capitalistico, considerato nel suo nesso complessivo, cioè considerato come processo di riproduzione, non produce dunque solo merce, non produce dunque solo plusvalore, ma produce e riproduce il rapporto capitalistico stesso: da una parte il capitalista, dall’altra l’operaio salariato ‘ Marx. La lunga citazione chiarisce senza ombra di dubbio che il ‘sine qua non’ della produzione capitalistica è la riproduzione e perpetuazione dell’operaio, cioè del rapporto capitalistico alienato e reificato in cui ‘ il prodotto del lavoratore non solo si converte continuamente in merce ma anche in capitale: valore che succhia la forza creatrice di valore, mezzi di sussistenza che acquistano persone, mezzi di produzione che adoperano il produttore’ Marx. Il capitalismo ha il merito di avere favorito un certo grado di sviluppo delle forze produttive, segnando il passaggio dalla precedente forma chiusa, feudale e artigiana dell’economia, alla forma industrializzata contemporanea, ad uso intensivo di macchinario e tecnologia. Il superamento dell’alienazione insita nel modo di produzione capitalistico non consiste, tuttavia, nel ritorno al passato della produzione artigianale delle isole chiuse, bensì nell’uso a scopi umani del capitale costante che ora si erge invece come un freddo mostro ‘ che succhia la forza creatrice di valore, mezzi di sussistenza che acquistano persone, mezzi di produzione che adoperano il produttore’. Quindi innanzitutto scomparsa dell’operaio salariato, della legge del valore, del mercato, della moneta, della produzione su base aziendale e concorrenziale, a vantaggio di un piano economico-sociale di specie.(1) A un certo punto, nel capitolo 22, viene descritta la situazione economico-aziendale in cui il plusvalore viene riconvertito in capitale: ‘Adoperare plusvalore come capitale ossia ritrasformare plusvalore in capitale significa accumulazione del capitale…Esaminiamo questo procedimento in primo luogo dalla visuale del singolo capitalista. La produzione annua deve fornire in primo luogo tutti quegli oggetti (valori d’uso) coi quali si debbono reintegrare le parti materiali del capitale consumate nel corso dell’anno. Detratti questi, rimane il prodotto netto o plus prodotto nel quale ha sede il plusvalore. E in che cosa consiste questo plus prodotto? Forse in cose destinate a soddisfare i bisogni e le voglie della classe dei capitalisti, che quindi passano nel suo fondo di consumo? Se tutto fosse qui, il plusvalore verrebbe speso fino in fondo in bagordi e si avrebbe soltanto una riproduzione semplice. Per accumulare si deve trasformare in capitale una parte del plus prodotto. Ma, se non si fanno miracoli, si possono trasformare in capitale solo quelle cose che si possono adoperare nel processo lavorativo, cioè mezzi di produzione e inoltre cose con le quali l’operaio può sostentarsi, cioè mezzi di sussistenza. Di conseguenza, una parte del plus-lavoro annuo deve essere stata adoperata nella produzione di mezzi addizionali di produzione e di sussistenza, in più della quantità che era richiesta per la reintegrazione del capitale anticipato….Considerata in concreto, l’accumulazione si risolve in riproduzione del capitale su scala progressiva. Il ciclo della riproduzione semplice si scambia e si trasforma, per dirla con il Sismondi, in una spirale…La legge dello scambio porta con sé l’eguaglianza solamente dei valori di scambio delle merci che sono date via l’una per l’altra, e addirittura porta con sé fin da principio la differenza dei loro valori d’uso; non ha assolutamente nulla a che fare con il consumo di quelle merci, che ha inizio soltanto quando la transazione è stata conclusa e completata. La trasformazione originaria del denaro in capitale si compie dunque in accordo esattissimo con le leggi economiche della produzione delle merci e con il diritto di proprietà che ne deriva. Ma ciò malgrado essa ha per risultato: 1. che il prodotto appartiene al capitalista e non all’operaio; 2. che il valore di questo prodotto include, oltre il valore del capitale anticipato, un plusvalore, che all’operaio è costato lavoro, ma al capitalista non è costato nulla, e che tuttavia diventa proprietà legittima del capitalista; 3. che l’operaio ha conservato la sua forza-lavoro e la può vendere di nuovo, se trova un compratore. La riproduzione semplice è soltanto la ripetizione periodica di questa prima operazione; ogni volta si trasforma denaro in capitale, sempre di nuovo. Dunque la legge non viene infranta, anzi, al contrario, viene ad avere l’occasione di attuarsi durevolmente. E non cambia niente il fatto che la riproduzione semplice venga sostituita dalla riproduzione su scala allargata, dall’accumulazione. Con la prima il capitalista dà fondo all’intero plusvalore, con la seconda egli dà prova della sua virtù civica, consumandone soltanto una parte e trasformando il resto in denaro’. Marx, Capitolo 22 del primo libro del capitale. La contabilità aziendale in partita doppia definisce il plusvalore riconvertito in capitale, cioè accumulato, con il termine ‘autofinanziamento’; ovvero la capacità dell’impresa di finanziare l’acquisto dei nuovi fattori produttivi con l’utile d’esercizio (parsimoniosamente sottratto all’autoconsumo). Il termine ‘utile d’esercizio’ è il contenitore semantico del plus-valore /pluslavoro, in altre parole il lessema allude al classico profitto aziendale. Dal punto di vista di questa contabilità aziendale, l’autofinanziamento, cioè la riproduzione su scala allargata del processo di produzione del capitale, viene considerato innanzitutto come una fonte di finanziamento alternativa al capitale di debito, cioè al finanziamento esterno (Banche, fornitori..). Nella dottrina economicoaziendale si reputa che un rapporto ottimale, cioè equilibrato, fra fonti interne e fonti esterne di finanziamento, dovrebbe aggirarsi intorno alle percentuali di 60/40. Cioè 60% di capitale proprio e 40% di capitale di debito. Chiaramente 70/30 sarebbe ancora meglio e così via. Da un punto di vista tecnico-contabile sussiste tuttavia l’impossibilità numerica di raggiungere un rapporto 100/0, poiché nelle passività dello stato patrimoniale ritroviamo comunque (almeno nel bilancio redatto con criteri non civilistici) le poste rettificatrici del capitale fisso, cioè i fondi di ammortamento e le poste rettificatrici del capitale circolante ( fondi rischi su crediti…), o addirittura il fondo di accumulo del tfr. Quindi, anche in assenza di debiti reali, cioè innanzitutto i debiti verso i fornitori, i mutui passivi, i debiti per imposte e i debiti per scoperto di conto corrente bancario, il rapporto capitale proprio/capitale di debito non può quasi mai diventare 100/0, per i motivi squisitamente virtuali -contabili sopraesposti (ovvero la presenza di poste contabili virtuali come i fondi ammortamento o i fondi rischi, i quali pure non essendo debiti reali verso un soggetto creditore, sono nondimeno delle passività che impediscono, da un punto di vista puramente aritmetico-contabile, il raggiungimento del rapporto 100/0 a favore del capitale proprio rispetto al capitale di debito). Riflettiamo sul percorso che porta dalla riproduzione semplice alla riproduzione allargata ‘La produzione annua deve fornire in primo luogo tutti quegli oggetti (valori d’uso) coi quali si debbono reintegrare le parti materiali del capitale consumate nel corso dell’anno. Detratti questi, rimane il prodotto netto o plus prodotto nel quale ha sede il plusvalore. E in che cosa consiste questo plus prodotto? Forse in cose destinate a soddisfare i bisogni e le voglie della classe dei capitalisti, che quindi passano nel suo fondo di consumo? Se tutto fosse qui, il plusvalore verrebbe speso fino in fondo in bagordi e si avrebbe soltanto una riproduzione semplice. Per accumulare si deve trasformare in capitale una parte del plus prodotto’ Marx. La riproduzione allargata, nata ingenuamente nella mente di qualche economista dalla parsimonia e dalla temperanza della classe dei capitalisti, si innesta invece nella dinamica accumulativo concorrenziale dell’economia capitalistica: fare impresa (come si dice oggi), fronteggiare la concorrenza delle merci e dei servizi delle altre aziende presenti sul mercato, navigare quindi con possibilità di vita e di successo in questo mercato, allontanando al contempo il classico rischio d’impresa della chiusura e del fallimento, significa allargare incessantemente i propri spazi di intervento economico-aziendale, conquistare nuove fette di mercato, reinvestire una parte degli utili nell’acquisto di nuovi mezzi di produzione (capitale variabile/salari e capitale costante/macchinario). Anche nuovi apporti di capitale da parte dei soci o del proprietario individuale potrebbero assolvere il compito di aumentare le dimensioni aziendali ( in vista della lotta per la concorrenza). Il fenomeno economico dell’accumulazione sta quindi alla base della successiva concentrazione, cioè alla base del fenomeno della crescita di valore del capitale iniziale a mezzo della trasformazione ‘in capitale una parte del plus prodotto’. Anche la centralizzazione, pur derivando dall’assimilazione/incorporazione di una o più aziende da parte di un altra, per cui diversi capitali individuali perdono la loro preesistente indipendenza legale/gestionale, rappresenta comunque – dal punto di vista puramente economico – un ampliamento del valore capitale impiegato (costante e variabile) sottoposto al comando dispotico del singolo capitalista/amministratore/ dirigente aziendale. (1)‘Con la produzione sociale viene meno il capitale monetario. La società ripartisce forza-lavoro e mezzi di produzione nelle diverse branche. I produttori possono anche ricevere dei buoni di carta, mediante i quali prelevano dalle scorte sociali di consumo una quantità corrispondente al loro tempo di lavoro. Questi buoni non sono denaro. Essi non circolano‘. Marx , capitolo 18 del secondo libro del capitale. ‘Se si immagina la società non capitalista ma comunista, innanzi tutto cessa interamente il capitale monetario, dunque anche i travestimenti delle transazioni che per suo mezzo si introducono. La cosa si riduce semplicemente a ciò, che la società deve calcolare in precedenza quanto lavoro, mezzi di produzione e mezzi di sussistenza essa può adoperare, senza danno, in branche le quali, come la costruzione di ferrovie ad esempio, per un tempo piuttosto lungo, un anno o più, non forniscono né mezzi di produzione né mezzi di sussistenza, né un altro qualsiasi effetto utile, ma al contrario sottraggono alla produzione totale annua lavoro, mezzi di produzione e mezzi di sussistenza’. Marx , capitolo 16 del secondo libro del capitale.
Postilla: Scopriamo cosa scrive Marx a proposito della distinzione, canonicamente riportata anche negli attuali libri di testo scolastici, fra attivo immobilizzato e attivo circolante (cioè fra fattori produttivi a lungo o breve ciclo di utilizzo, e sulla loro relazione con i termini capitale costante e capitale variabile). ‘Ritorniamo a Ricardo. 1) La caratteristica del capitale variabile è che una parte di capitale determinata, data (dunque, in quanto tale, costante), una data somma di valore (assunta come uguale al valore della forza lavoro, sebbene qui sia indifferente che il salario sia pari, maggiore o minore del valore della forza-lavoro) viene scambiata contro una forza che si valorizza, che crea valore, la forza—lavoro, la quale non soltanto riproduce il suo valore pagato dal capitalista, ma insieme produce anche un plusvalore, un valore non presente prima e non acquistato attraverso un equivalente. Questa proprietà caratteristica della parte di capitale sborsata in salario, che la distingue toto coelo (sotto ogni aspetto) dal capitale costante come capitale variabile, scompare quando la parte di capitale sborsata in salario viene considerata puramente dal punto di vista del processo di circolazione e appare così come capitale circolante di fronte al capitale fisso sborsato in mezzi di lavoro. Ciò risulta già dal fatto che essa viene posta allora in una categoria — quella del capitale circolante — insieme ad una parte costitutiva del capitale costante, quella sborsata in materiale di lavoro, in contrapposizione ad un’altra parte costitutiva del capitale costante, quella sborsata in mezzi di lavoro. Qui si prescinde completamente dal plusvalore, cioè appunto dalla circostanza che trasforma in capitale la somma di valore sborsata. Si prescinde altresì dal fatto che la parte di valore che il capitale sborsato in forza-lavoro aggiunge al prodotto, è prodotta ex novo (dunque è anche realmente riprodotta), mentre la parte di valore che la materia prima aggiunge al prodotto non viene prodotta ex novo, non realmente riprodotta, ma unicamente mantenuta nel valore del prodotto, conservata, e perciò riappare soltanto come parte costitutiva del valore del prodotto. La differenza, quale si presenta ora dal punto di vista della contrapposizione di capitale circolante e capitale fisso, consiste soltanto in ciò: il valore dei mezzi di lavoro impiegati per la produzione di una merce entra soltanto in parte nel valore della merce, e perciò viene anche sostituito soltanto in parte con la vendita della merce, perciò in generale viene sostituito soltanto pezzo per pezzo e gradualmente. D’altro lato, il valore della forza-lavoro e degli oggetti di lavoro (materie prime ecc.) spesi per la produzione di una merce entra interamente nella merce e perciò viene interamente sostituito con la vendita della merce. In questo senso, rispetto al processo di circolazione, una parte del capitale si presenta come fissa, l’altra come fluida o circolante. Si tratta, in ambedue i casi, di un trasferimento nel prodotto di valori dati, anticipati, e della loro sostituzione mediante la vendita del prodotto. La differenza consiste ora soltanto in ciò, se il trasferimento del valore, e perciò la sostituzione del valore, avviene gradualmente e pezzo per pezzo, oppure in una sola volta. Così viene eliminata la distinzione assolutamente decisiva tra capitale variabile e capitale costante, cioè tutto il segreto della formazione del plusvalore e della produzione capitalistica, vengono eliminate le circostanze che trasformano determinati valori, e le cose in cui essi si presentano, in capitale. Tutte le parti costitutive del capitale si distinguono ormai soltanto per il modo di circolazione (e la circolazione della merce ha, naturalmente, a che fare soltanto con valori dati, già presenti); e un modo particolare di circolazione è comune al capitale sborsato in salario e alla parte di capitale sborsata in materie prime, semi-lavorati, materie ausiliarie, in contrapposizione alla parte di capitale sborsata in mezzi di lavoro. Si comprende perciò perché l’economia politica borghese per istinto si attenesse strettamente alla confusione di Smith tra le categorie «capitale costante e variabile» e le categorie «capitale fisso e circolante», e per un secolo, di generazione in generazione, la ripetesse pappagallescamente e in modo acritico. Per essa, la parte di capitale sborsata in salario non si distingue più dalla parte di capitale sborsata in materia prima, e si distingue solo formalmente dal capitale costante, sia che esso venga fatto circolare pezzo per pezzo o interamente, attraverso il prodotto. Con ciò è seppellito d’un colpo il fondamento per la comprensione del movimento reale della produzione capitalistica, e perciò dello sfruttamento capitalistico. Si tratta soltanto della ricomparsa di valori anticipati. Marx , capitolo 11 del secondo libro del capitale.
Parte seconda: il plus-valore come fattore di reddito e come fattore di accumulazione, note sul problema del rovesciamento virtuale/potenziale dei dati reali della produzione su base capitalistica.
Il plusvalore appare come fattore doppio, da una parte fonte di reddito per la classe sfruttatrice, e dall’altra come inevitabile origine di ulteriori cicli di accumulazione del capitale. Riprendiamo il confronto con il testo di Marx ‘ Nel capitolo precedente abbiamo considerato il plusvalore, e rispettivamente il plus-prodotto, soltanto come fondo di consumo individuale del capitalista, e in questo capitolo l’abbiamo finora considerato soltanto come un fondo di accumulazione. Però esso non è né l’uno né l’altro, ma l’uno e l’altro allo stesso tempo. Una parte del plusvalore viene consumata dal capitalista come reddito, un’altra viene adoperata come capitale, cioè accumulata…Ma chi compie questa divisione è il proprietario del plusvalore, il capitalista. Quindi essa è atto della volontà del capitalista. Si dice che egli risparmia quella parte del tributo da lui riscosso che egli accumula, per il fatto che non se la mangia, cioè per il fatto che egli esercita la sua funzione di capitalista, cioè la funzione di arricchirsi’. Karl Marx, Il Capitale, Libro I, capitolo 22.
Torniamo dunque al problema della libertà della volontà: il capitalista compie la divisione del plus-prodotto in reddito e capitale accumulato come atto formale della sua volontà, ma questo avviene, tuttavia, sotto i condizionamenti potenti di un meccanismo economico-sociale a cui la sua volontà deve infine adeguarsi se non vuole soccombere, o affondare, nel mare magno della lotta per la concorrenza (insieme all’azienda posseduta e amministrata),rinunciando quindi anche all’apparenza formale della sua libera volontà di imprenditore. La sottomissione reale della volontà del singolo capitalista/amministratore/dirigente alle leggi immanenti della economia capitalistica, si trasforma, dialetticamente, nella condizione necessaria di una complementare libertà formale/apparente della sua volontà: ‘E solo in quanto egli è capitale personificato, la sua propria necessità transitoria è insita nella necessità transitoria del modo di produzione capitalistico; ma i motivi che lo spingono non sono il valore d’uso o il godimento, bensì il valore di scambio e la moltiplicazione di quest’ultimo’. Karl Marx, Il Capitale, Libro I, capitolo 22. Ora i motivi che lo spingono, come capitale personificato, vanno al di là della semplice ricerca del valore d’uso dei beni prodotti, l’essenziale sta invece nel valore di scambio, nella massa delle merci prodotte, assimilatrici di plus-lavoro/plus-valore (2), realizzato come successivo ricavo di vendita ed entrata di denaro nella fase della circolazione-distribuzione (3) ( denaro prontamente reinvestito nel ciclo produttivo e riproduttivo semplice o allargato):‘Il capitalista è rispettabile solo come personificazione del capitale; in tale qualità condivide l’istinto assoluto per l’arricchimento proprio del tesaurizzatore. Ma ciò che in costui si presenta come mania individuale, nel capitalista è effetto del meccanismo sociale, all’interno del quale egli non è altro che una ruota dell’ingranaggio. Oltre a ciò, lo sviluppo della produzione capitalistica rende necessario un aumento continuo del capitale investito in un’impresa industriale, e la concorrenza impone a ogni capitalista individuale le leggi immanenti del modo di produzione capitalistico come leggi coercitive esterne. Lo costringe ad espandere continuamente il suo capitale per mantenerlo, ed egli lo può espandere soltanto per mezzo dell’accumulazione progressiva. Dunque, in quanto tutto il suo fare è soltanto funzione del capitale che in lui è dotato di volontà e di coscienza, il proprio consumo privato è considerato dal capitalista come furto ai danni dell’accumulazione del suo capitale, allo stesso modo che nella contabilità all’italiana le spese private figurano sulla pagina del dare del capitalista di contro al suo capitale. L’accumulazione è la conquista del mondo della ricchezza sociale. Essa estende, oltre la massa del materiale umano sfruttato, anche il dominio diretto e indiretto del capitalista….Accumulazione per l’accumulazione, produzione per la produzione, in questa formula l’economia classica ha espresso la missione storica del periodo dei borghesi. Non si è illusa neppur un istante sulle doglie che accompagnano il parto della ricchezza, ma a che lamentarsi di ciò che è necessità storica? È vero che per l’economia classica il proletario conta solo come macchina per la produzione di plusvalore, ma anche il capitalista conta per essa solo come macchina per la conversione di questo plusvalore in plus-capitale, ed essa ne prende molto sul serio la funzione storica’. Karl Marx, Il Capitale, Libro I, capitolo 22.
Il capitalista, viene qui definito una macchina per la conversione del plusvalore in plus-capitale, la concorrenza impone (infatti) a ogni capitalista individuale le leggi immanenti del modo di produzione capitalistico come leggi coercitive esterne. Lo costringe ad espandere continuamente il suo capitale per mantenerlo, ed egli lo può espandere soltanto per mezzo dell’accumulazione progressiva.(4) In un altra parte del testo Marx definisce il capitalista una maschera di carattere, obbligata, sotto la pressione feroce della lotta per la concorrenza, a recitare la parte assegnatagli dalle leggi economiche immanenti del capitale. In questo quadro descrittivo il salariato e il capitalista sono accomunati, dunque, dall’essere una pura e semplice funzione al servizio del capitale: il salariato come produttore di plusvalore, il capitalista come convertitore del plus-valore in plus-capitale. Tuttavia il capitale, nel suo processo di manifestazione, pone in essere le condizioni materiali per il suo superamento, aprendo lo spazio storico-sociale alla possibilità di un cambio di orizzonte. Se questo cambio dovesse trasformarsi in realtà, passando dalla condizione potenziale alla condizione di attualità, saranno le successive fasi della lotta di classe a poterlo stabilire; così come sarà la vittoria o la sconfitta della classe proletaria a determinare il destino della nostra specie. Nulla è limpido e scontato sul piano storico, soprattutto l’idea di un progresso lineare è stata ripetutamente smentita dalle vicende documentate di ritorno alla barbarie o di scomparsa di intere civiltà (vedere cosa scrive a tal proposito Trotzkj, nel 1921). Tuttavia Marx ricorda che il capitalista‘ Come fanatico della valorizzazione del valore egli costringe senza scrupoli l’umanità alla produzione per la produzione, spingendola quindi a uno sviluppo delle forze produttive sociali e alla creazione di condizioni materiali di produzione che sole possono costituire la base reale d’una forma superiore di società il cui principio fondamentale sia lo sviluppo pieno e libero di ogni individuo‘. Karl Marx, Il Capitale, Libro I, capitolo 22. Bisogna ponderare attentamente la frase appena letta: ‘condizioni materiali di produzione che sole possono costituire la base reale d’una forma superiore di società’ . Se il significato contenuto nella frase non da adito a molte interpretazioni, come ci sembra verosimile, allora dobbiamo ritenere che il senso ultimo sia riassumibile in questa forma: lo sviluppo delle forze produttive sociali poste in essere dall’economia capitalistica, pone in essere anche le condizioni per il possibile superamento di questa economia. Si sottolinea il termine possibile, all’interno della frase, poiché esso lungi dall’essere una espressione accidentale, racchiude invece tutta la drammaticità di una visione storica non meccanicistica e finalistica, bensì aperta a sviluppi e ad alternative anche nefaste per il futuro dell’umanità. Il superamento della mercificazione e dell’alienazione capitalistica del lavoro sono una delle possibilità materiali poste in essere sulla scacchiera della storia, accanto ad essa c’è la possibilità alternativa del baratro della mineralizzazione del pianeta e della estinzione della specie. In altre parole Marx sostiene che il capitalismo ha creato le condizioni materiali (macchinario, lavoro associato, cooperazione e divisione del lavoro) per una forma superiore di società, ma esse potranno costituire la base reale di questa società migliore solo quando saranno rimossi i rapporti di produzione capitalistici. La possibilità che il macchinario, il capitale costante, venga trasformato da fattore di asservimento a molla per la liberazione dell’essere umano dal tempo di lavoro salariato, non è inscritta ineluttabilmente nella vicenda storica, e quindi la sua attualizzazione è solo una eventualità, non una certezza assoluta. Abbiamo smesso di credere nella metafisica, allora non dobbiamo confondere il materialismo storico e dialettico con un sostituto della stessa metafisica, propugnando forme taumaturgiche di determinismo assoluto che sostituiscono lo studio reale delle determinanti causali, degli attrattori anticaotici agenti nell’orizzonte degli eventi storico-sociale. Il rifiuto dell’indeterminismo nichilista non può significare, in altre parole, l’esaltazione alternativa di posizioni teleologiche, finalistiche, scientiste, posizioni scioccamente convinte di possedere la chiave di lettura assoluta (e non approssimata) dei vari piani di realtà.
(2) ‘L’essenziale per la determinazione del capitale variabile — e perciò per la trasformazione in capitale di una qualsivoglia somma di valore — è che il capitalista scambia una determinata grandezza di valore data (e, in questo senso, costante) [contro forza lavoro; egli scambia valore] contro forza creatrice di valore; una grandezza di valore contro produzione di valore, auto-valorizzazione. Che il capitalista paghi il lavoratore in denaro o in mezzi di sussistenza, non cambia nulla a questa determinazione essenziale. Cambia soltanto il modo di esistenza del valore da lui anticipato, che una volta esiste nella forma del denaro con cui il lavoratore compera per sé sul mercato i suoi mezzi di sussistenza, un’altra volta nella forma di mezzi di sussistenza che consuma direttamente. La produzione capitalistica sviluppata presuppone di fatto che il lavoratore venga pagato in denaro, come in generale presuppone il processo di produzione mediato dal processo di circolazione, dunque la economia monetaria. Ma la creazione del plusvalore — cioè la capitalizzazione della somma di valore anticipata — non scaturisce né dalla forma di denaro né dalla forma naturale del salario o del capitale sborsato nell’acquisto di forza-lavoro. Essa scaturisce dallo scambio di valore contro forza creatrice di valore, dalla conversione di una grandezza costante in una variabile’. Marx, secondo libro del capitale.
(3)‘Entro la sfera della circolazione, il capitale dimora come capitale- merce e capitale monetario. I due processi della sua circolazione consistono nel suo trasformarsi dalla forma di merce in forma di denaro e dalla forma di denaro in forma di merce. La circostanza che la trasformazione della merce in denaro sia qui insieme realizzo del plusvalore incorporato nella merce, e che la trasformazione del denaro in merce sia insieme trasformazione o ritrasformazione del valore-capitale nella figura dei suoi elementi di produzione, non muta proprio nulla al fatto che questi processi, come processi di circolazione, sono processi delle semplici metamorfosi delle merci. Tempo di circolazione e tempo di produzione si escludono scambievolmente. Durante il suo tempo di circolazione, il capitale non opera come capitale produttivo e perciò non produce merce né plusvalore. Se consideriamo il ciclo nella forma più semplice, cosicché l’intero valore-capitale ogni volta entri d’un colpo da una fase nel l’altra, è evidente allora che il processo di produzione, perciò anche la auto-valorizzazione del capitale, fino a che dura il suo tempo di circolazione, è interrotto e che il rinnovamento del processo di produzione sarà più o meno rapido secondo la lunghezza di questo. Se, al contrario, le differenti parti del capitale percorrono il ciclo una dopo l’altra, cosicché il ciclo dell’intero valore-capitale si compia successivamente nel ciclo delle sue singole porzioni, è chiaro che quanto più lunga è la permanenza costante delle sue parti aliquote nella sfera della circolazione, tanto più piccola dev’essere la sua parte che opera costantemente nella sfera della produzione. L’espansione e contrazione del tempo di circolazione opera perciò come limite negativo sulla contrazione o espansione del tempo di produzione o dell’estensione in cui un capitale di data grandezza opera come capitale produttivo’ .Marx , capitolo 5 del secondo libro del capitale.
(4)’Tutto il carattere della produzione capitalistica è determinato dalla valorizzazione del valore-capitale anticipato, dunque, in primo luogo, dalla produzione di quanto più plusvalore è possibile; in secondo luogo però (vedi Libro I, capitolo. XXII), dalla produzione di capitale, dunque dalla trasformazione di plusvalore in capitale. L’accumulazione o produzione su scala allargata, che appare come mezzo per una produzione sempre più estesa di plusvalore, cioè per l’arricchimento del capitalista come scopo personale di questo, ed è compresa nella tendenza generale della produzione capitalistica, diviene però in seguito mediante il suo sviluppo, come è stato mostrato nel primo Libro, una necessità per ogni capitalista individuale. Il costante ingrandimento del suo capitale diviene condizione per la conservazione del capitale stesso. Ma non dobbiamo ritornare oltre su quanto è stato in precedenza sviluppato’. Marx , capitolo 2 del secondo libro del capitale.
Parte terza: il conflitto di classe e il proletariato giovanile, ulteriori note sul problema del rovesciamento virtuale/potenziale dei dati reali della produzione su base capitalistica.
Abbiamo tentato di considerare, sia nella premessa che nella prima parte del testo, gli aspetti generali e comuni al resto della classe delle lotte proletarie giovanili, individuando nondimeno un ambito particolare e specifico di queste lotte nella resistenza al lavoro forzato e gratuito (diffusosi negli ultimi anni nella forma ingannevole degli stage e dell’alternanza scuola/lavoro. Il veicolo agente di queste pratiche di moderno schiavismo giovanile è la scuola media superiore, ovvero l’apparato statale borghese in quanto difensore e fautore attivo degli interessi economici capitalistici ( di cui la scuola è un articolazione funzionale, con il compito sociale di inquadrare ideologicamente i proletari e ora, soprattutto, di fornire coercitivamente forza-lavoro gratuita al sistema delle imprese). Questo aspetto è stato affrontato in un testo presente nel nostro sito dal titolo ‘Fatti e misfatti della riforma scolastica di Renzi’, quindi non è il caso di tornarci sopra, mentre può essere interessante scoprire quali reazioni ha determinato nei soggetti direttamente coinvolti (studenti, scuole, sindacati). Tuttavia prima di continuare vorremmo riepilogare il percorso teorico e i passaggi precedenti. Siamo partiti dal problema del conflitto sociale di classe nella sua articolazione proletaria giovanile, impattando sui soliti problemi della crisi e della disoccupazione, riprendendo poi il tema degli investimenti e la sua critica, contenuta nel testo ‘Imprese economiche di Pantalone’. Gli investimenti di capitale (costante e variabile), riproposti anche oggi da governo e sindacati come un toccasana per il problema ‘disoccupazione’, sono invece un mezzo potente di incremento dell’accumulazione capitalistica, fondato sulla riproduzione allargata del ciclo economico-aziendale, e quindi dello sfruttamento, sia su un piano qualitativo (intensificazione della produttività del lavoro a causa dell’acquisto di nuovo macchinario…), sia sia su un piano quantitativo (impiego limitato di nuova forza-lavoro). L’autofinanziamento (ovvero il profitto reimpiegato in investimenti aziendali di capitale fisso e circolante), o addirittura il finanziamento da parte di terzi ( banche, dilazioni di pagamento dai fornitori, prestiti statali…), sono un fattore di estensione del raggio d’azione dell’economia capitalistica e delle sue interiori contraddizioni ( soprattutto la tendenza alla caduta del saggio medio di profitto, determinata dalla sostituzione del capitale variabile (forza-lavoro creatrice di plus-valore e quindi di profitto) con il capitale costante (macchinario e tecnologia, cioè mezzi di lavoro tecnici non in grado creare un valore aggiuntivo a quello inizialmente immesso nel ciclo di produzione). La contraddizione è insita nel processo economico capitalistico, in quanto l’incremento del capitale costante, mentre da una parte aumenta la produttività di una singola porzione di tempo di lavoro, dall’altra riduce il numero dei salariati, cioè il tempo di di lavoro necessario per produrre la stessa quantità di merci (ma la forza-lavoro salariata è anche l’unica fonte di creazione di plusvalore e quindi di profitto). Riprendiamo ancora una volta Marx, che chiarisce, nel secondo libro del capitale, che ‘la forza—lavoro, la quale non soltanto riproduce il suo valore pagato dal capitalista, ma insieme produce anche un plusvalore, un valore non presente prima e non acquistato attraverso un equivalente. Questa proprietà (è) caratteristica della parte di capitale sborsata in salario, che la distingue toto coelo (sotto ogni aspetto) dal capitale costante come capitale variabile’. Nel tentativo di chiarire questo aspetto basilare della fallacia insita nelle richieste di nuovi investimenti, provenienti dai soliti noti (cioè dal personale politico-sindacale della borghesia), abbiamo poi ritenuto necessario chiarire sulla base del testo di Marx (secondo libro del capitale), la mistificazione occultatrice nascosta nell’impiego dei termini ‘capitale fisso e capitale circolante’, come equivalenti dei concetti economici racchiusi nelle parole capitale costante e capitale variabile. Anche in questo caso è il plus-valore, cioè uno dei fondamenti del rapporto sociale di produzione borghese, che viene occultato e rimosso, quando si assimila la quota di capitale monetario destinata all’acquisto di forza-lavoro (salari), alla quota di capitale monetario destinata all’acquisto di materie prime, materiali di consumo, energia motrice (cioè agli elementi destinati a trasformarsi in merce nel giro di un periodo infra-annuale, e per questo motivo definiti capitale circolante, in opposizione al capitale fisso, costituito invece dagli strumenti di lavoro impiegati per periodi di tempo normalmente superiori ad un anno). Riproponiamo allora una parte delle considerazioni già riportate nella postilla presente in fondo alla prima parte del nostro lavoro: ‘ La differenza, quale si presenta ora dal punto di vista della contrapposizione di capitale circolante e capitale fisso, consiste soltanto in ciò: il valore dei mezzi di lavoro impiegati per la produzione di una merce entra soltanto in parte nel valore della merce, e perciò viene anche sostituito soltanto in parte con la vendita della merce, perciò in generale viene sostituito soltanto pezzo per pezzo e gradualmente (ammortamento). D’altro lato, il valore della forza-lavoro e degli oggetti di lavoro (materie prime ecc.) spesi per la produzione di una merce entra interamente nella merce e perciò viene interamente sostituito con la vendita della merce. In questo senso, rispetto al processo di circolazione, una parte del capitale si presenta come fissa, l’altra come fluida o circolante’. Marx , capitolo 11 del secondo libro del capitale. Nelle pagine precedenti abbiamo tentato anche di delineare delle risposte al problema del rovesciamento virtuale/potenziale dei dati reali della produzione su base capitalistica, tale problematica tenteremo di collegarla, in questa parte terza, alla lotta di classe (in modo particolare alle lotte di quella frazione di proletariato qualificabile con il termine giovanile). Non si tratta, chiaramente, solo di un attributo di tipo anagrafico, ma di una condizione socio-economica con caratteristiche ancora più disagiate e precarie (mediamente) di quelle delle altre frazioni di classe. Portiamo quindi il focus dell’analisi su queste caratteristiche socio-economiche, mostrando sulla base di alcuni grafici reperibili in rete, le cui fonti sono i vari istituti di studi e statistiche italiani ed europei.I grafici (che qui non mostriamo) evidenziano una successione discendente nell’Unione Europea, che parte dalla Svezia per finire alla Grecia. Questa successione discendente è importante per dimostrare numericamente la storica tendenza dell’economia capitalistica a svilupparsi in modo ineguale, sia in relazione alle economie nazionali, sia in relazione alle aree e ai territori presenti all’interno di queste economie nazionali. Questo dato appare verosimile anche in presenza dei contemporanei fenomeni di aggregazione e ricomposizione degli interessi nazionali borghesi, intorno ad aree di attrazione funzionali alla competizione globale: ad esempio l’Unione Europea e la recente Unione Euroasiatica. Dai dati riportati si evidenzia il maggiore grado di occupazione presente nelle economie del nord e del centro, e il minore grado di occupazione nei paesi mediterranei, o in parte dell’est Europa. Altre ricerche statistiche evidenziano la situazione del marzo 2013, e appaiono molto utili per conoscere le percentuali di disoccupazione globale e parziale in Europa. Anche qui ritroviamo dei dati relativi alle economie europee, e anche in questo caso incappiamo nella classica differenza fra economie forti e economie deboli. La Germania ad esempio ha un tasso di disoccupazione giovanile, compreso nella fascia di età 15/24 anni del 7,6%, l’Italia invece ha un tasso del 38,4%, mentre la Spagna ha addirittura un tasso del 55,9% e la Grecia del 59,1%. Non è neppure il caso di prendere sul serio le previsioni della commissione UE sull’evoluzione dei dati dal 2013 al 2014. Oggi, nel giugno 2015, sappiamo che erano decisamente ottimistiche. Qualche considerazione sugli effetti polarizzatori della centralizzazione dei capitali andrebbe fatta, sembra molto plausibile, infatti, che lo sviluppo economico ineguale sia direttamente collegato a questa tendenza immanente dell’economia capitalistica. In un altro lavoro presente sul sito (Dalla guerra come difesa e offesa….), abbiamo tuttavia affrontato il tema della concentrazione e centralizzazione, per ogni dubbio in merito rimandiamo quindi alla lettura di quel testo. Altri grafici evidenziano la ripartizione ineguale della disoccupazione giovanile nelle tre aree economico-geografiche dell’Italia. Nel Sud si addensa il 51 % del fenomeno, mentre al centro e al nord viene riservato rispettivamente il 18% e il 31% del residuo fenomeno della disoccupazione. Tale evidenza numerica riafferma ulteriormente la regola dello sviluppo ineguale dell’economia capitalistica, confermando la tendenza ‘storica’ alla minore crescita del sud rispetto alle altre due aree, attraverso il contraltare del maggiore livello di disoccupazione giovanile. I dati raccolti ed elaborati dalle principali agenzie statistiche risentono tuttavia di una sottostima del fenomeno, vediamo perché: nella categoria dei disoccupati non viene inclusa quella parte di giovani definiti “NEET” (Not Engaged in Education, Employment or Training). Si tratta di quei giovani (compresi in Italia tra i 15 e i 29 anni) che non studiano, non lavorano, non si formano e che non cercano lavoro. In base alle stime della BCE questi sarebbero 7,5 milioni in Europa, cioè il 12,9 % dei giovani. In Italia ammonterebbero a circa 700.000 mila unità. Considerando che la popolazione italiana compresa tra i 15 ed i 29 anni ammonta a circa sei milioni di individui, si può ben dedurre che 700.000 mila unità, aggiunte al numero di giovani disoccupati regolarmente iscritti nei centri per l’impiego provinciali, o iscritti nelle liste delle agenzie di somministrazione, costituisce un fattore di crescita dei dati precedentemente presentati. Un altro tipo di interpretazione distorsiva è dato dal fatto che nella categoria statistica “inattivi” rientrano oltre tre milioni e mezzo di giovani italiani che studiano o sono coinvolti in percorsi formativi (quindi non sono ancora inseribili nel mercato del lavoro, e dunque non possono essere catalogati in parte o in tutto come disoccupati). La finzione consiste nel fingere di ignorare che spesso la scuola è solo un area di parcheggio sostitutiva di un lavoro che non c’è, e quindi una parte dei giovani impegnati nello studio oltre l’età dell’obbligo scolastico, è di fatto impegnata in una attività che abbandonerebbe volentieri se solo ci fosse una alternativa di lavoro apprezzabile. Qualche simpatico apologeta dell’esistente continua a sostenere che anche ammessa questa circostanza, non si può dimenticare che finalmente in Italia inizia a diffondersi l’alternanza scuola-lavoro, e quindi il numero dei finti studenti/disoccupati veri, non è comunque così alto come sembra, poiché bisogna considerare i contratti di lavoro in apprendistato. In effetti solo una parte infima della disoccupazione giovanile è attribuibile a questa non corrispondenza fra competenze offerte e competenze richieste. Passiamo ora al problema dell’incidenza numerica del lavoro precario, su di esso è ancora più difficile reperire dei dati sicuri, ipotizziamo, in base ai dati dell’Istat del mese di luglio del 2013, che su oltre 22 milioni di lavoratori italiani, siano oltre dieci milioni i lavoratori precari. Un precario guadagna dal 20% al 33% in meno nella retribuzione netta mensile rispetto a un collega non precario. Dal 2004, dopo l’entrata in vigore della legge Biagi, la crescita dei contratti a termine in Italia è stata febbrile, soprattutto per i giovani. Nel 2015 supera ormai il 50% del totale. Una situazione fluida e nebbiosa, dove è difficile individuare e scindere il libero professionista volontario, dal finto e involontario, come lo definisce l’Istituto italiano di statistica (involontario è il lavoratore che accetta di lavorare col part-time o con la partita Iva “in mancanza di occasioni di impiego a tempo pieno”). Sono cose note, o almeno parzialmente note: disoccupazione, lavoro precario, finti contratti di consulenza e prestazione di servizi, e quindi finte partite Iva. Le strade del ricatto al moderno proletariato giovanile e meno giovanile sono varie, ma conducono tutte a una condizione di vita difficile, precaria, sottopagata e infine spietatamente sottomessa al dispotismo aziendale capitalistico. Chiediamoci cosa producono, a livello di conflitto sociale, questi processi di intensificazione dello sfruttamento della forza-lavoro e del suo assoggettamento schiavistico al comando del capitale. In Polonia, ad esempio è stata organizzata una assemblea nazionale dei lavoratori precari nell’ambito delle celebrazioni del 23 maggio 2015, denominata giornata del precario. L’assemblea nazionale si è svolta a Varsavia, accompagnata da giornate di azione nelle settimane precedenti. La campagna MY, PREKARIAT (me , il precario) è stata lanciata a partire da un sindacato autonomo polacco, anche con una mobilitazione on-line. Nella pubblicizzazione della campagna di lotta si invitano i soggetti interessati ‘a progettare manifesti, slogan, per registrare le canzoni, fare memes, video-clip, e di segnalare bisogni ed esigenze rispetto ai casi di sopraffazione sul lavoro’. Dalla rete invece riportiamo parte di una notizia: Il 30 Maggio, 2015, a Milano, dei giovani Stavano distribuendo volantini, all’ingresso dell’Esposizione universale, contro il precariato e le condizioni contrattuali dei dipendenti di Expo’. Non ci interessa fare la cronaca precisa dei fatti, ma solo indicare delle tendenze sociali di scontro già in atto, se pure a livello ancora minoritario. ‘Il processo di produzione capitalistico…produce e riproduce il rapporto capitalistico stesso: da una parte il capitalista, dall’altra l’operaio salariato’ (Marx), al contempo riproduce anche le condizioni potenziali della rabbia e della ribellione dei soggetti umani stritolati dentro l’inesorabile e spietato mattatoio sociale capitalistico. Una condizione di vita alienata e mercificata può tuttavia determinare delle reazioni di rigetto, ora noi pensiamo che solo da queste reazioni, dalla loro estensione su un piano sociale sempre più ampio, sfociante infine in obiettivi e programmi politici rivoluzionari, possa porsi il risolvimento del problema del rovesciamento virtuale/potenziale dei dati reali della produzione su base capitalistica. La classe proletaria, stritolata nel disumano meccanismo sociale capitalistico, può trasformarsi dal puro aggregato statistico-quantitativo della classe in sé, nella forza rivoluzionaria della classe per sé, guidata dal suo organo partito, ‘perché solo quando nel campo della classe si è formato l’organo energetico che è il partito la classe diventa tale e si avvia ad assolvere il compito che le assegna la nostra dottrina della storia(5). La repressione della turbolenza sociale prodotta dalla risposta proletaria, nel corso della storia si è mossa su un piano complementare e sincronico alla minaccia condotta all’apparato di dominio borghese:”Quando i primi regimi fascisti sono apparsi e si sono presentati alla più immediata e banale interpretazione come una riduzione e una abolizione delle cosiddette garanzie parlamentari e legalitarie, si trattava in effetti puramente, in dati paesi, di un passaggio della energia politica di dominio della classe capitalistica dallo stato virtuale allo stato cinetico…’ Prometeo 1947. Quando le condizioni sociali e politiche, sulla spinta della polarizzazione generale dello scontro di classe, saranno ormai favorevoli alla lotta rivoluzionaria ‘per la vittoria sarà necessario avere un partito che meriti al tempo stesso la qualifica di partito storico e di partito formale, ossia che si sia risolta nella realtà dell’azione e della storia la contraddizione apparente – e che ha dominato un lungo e difficile passato – tra partito storico, dunque quanto al contenuto (programma storico, invariante), e partito contingente, dunque quanto alla forma, che agisce come forza e prassi fisica di una parte decisiva del proletariato in lotta’(6).
(5)‘La nostra formula centralismo organico voleva appunto dire che non solo il partito è un particolare organo della classe, ma per di più è solo quando esso esiste che la classe agisce come organismo storico e non solo come una sezione statistica che ogni borghese è pronto a riconoscere. Marx, nella ricostruzione storicamente fondamentale e irrevocabile di Lenin, non solo dice di non avere scoperto le classi, ma nemmeno la lotta fra le classi, e indica come connotato inconfondibile della sua originale teoria la dittatura del proletariato: questo vuole appunto dire che solo a mezzo del partito comunista il proletariato potrà pervenire alla sua dittatura. Le due nozioni, dunque, di partito e di classe non si contrappongono numericamente perché il partito è piccolo e la classe è grande, ma storicamente e organicamente; perché solo quando nel campo della classe si è formato l’organo energetico che è il partito la classe diventa tale e si avvia ad assolvere il compito che le assegna la nostra dottrina della storia’. Appunti per le tesi sulla questione di organizzazione. 1964.
(6)’Quando dalla invariante dottrina facciamo sorgere la conclusione che la vittoria rivoluzionaria della classe lavoratrice non può ottenersi che con il partito di classe e la dittatura di esso, e sulla scorta di parole di Marx affermiamo che prima del partito rivoluzionario e comunista il proletariato è una classe, forse per la scienza borghese, ma non per Marx e per noi; la conclusione da dedurne è che per la vittoria sarà necessario avere un partito che meriti al tempo stesso la qualifica di partito storico e di partito formale, ossia che si sia risolta nella realtà dell’azione e della storia la contraddizione apparente – e che ha dominato un lungo e difficile passato – tra partito storico, dunque quanto al contenuto (programma storico, invariante), e partito contingente, dunque quanto alla forma, che agisce come forza e prassi fisica di una parte decisiva del proletariato in lotta. Questa sintetica messa a punto della questione dottrinale va riferita anche rapidamente ai trapassi storici che sono dietro di noi’. ‘Considerazioni sull’organica attività del partito…’.