Sindacati di lotta e di sistema come regolarità dialettica
Prendiamo spunto da alcune recenti vicende di cronaca, per ribadire la nostra concezione ‘politica’ del rapporto fra partito e organizzazioni di difesa ‘sindacale’ della classe.
Ci interessa solo delineare e ricordare (in questa sede) il nostro approccio ‘tradizionale’ (nel senso di basato sulla tradizione marxista della corrente) ai problemi delle lotte economiche immediate.
Riproporremo quindi un testo pubblicato nel settembre 2014 , un testo dal titolo ‘Problemi e aspetti dell’attuale situazione delle lotte economiche: sindacato di lotta e sindacato di sistema’.
”Negli ultimi anni la situazione economica dei lavoratori ha fatto dei notevoli balzi all’indietro, anche i diritti legali sanciti dalle norme contrattuali sono stati ulteriormente ridotti, esponendo maggiormente il lavoratore ai ricatti e al dispotismo aziendale. I sindacati con il numero maggiore di iscritti cavalcano queste tendenze generali, opponendo una blanda resistenza, più di facciata che di sostanza. In realtà i sindacati di sistema, in quanto organi funzionali al mantenimento degli equilibri dell’attuale società capitalistica, svolgono necessariamente dei compiti rivolti alla conservazione dell’organismo sociale di cui sono un elemento. Non ha senso meravigliarsi, quindi, per i presunti cedimenti che questi sindacati metterebbero in atto, periodicamente, svendendo i diritti e le posizioni economiche raggiunte dai lavoratori. Il compito assegnato dal sistema capitalista a tali organizzazioni sindacali è la conservazione dei privilegi della classe dominante, agendo dall’interno della classe dei lavoratori salariati, così come il compito assegnato ad altre organizzazioni dell’apparato statale, ad esempio esercito e polizia, è quello di conservare i privilegi della classe dominante agendo dall’esterno della classe subordinata (in veste di minaccia di violenza potenziale o attuale). Osserviamo quindi delle semplici regolarità sistemiche, dei semplici meccanismi di controllo sociale, operanti con modalità diverse, ma finalizzati al comune obiettivo di conservare un certo organismo socio-economico capitalistico. Chiediamoci perché la classe dei lavoratori salariati accetta o subisce l’operato dei sindacati di sistema, condannandosi poi a peggioramenti salariali e normativi periodici. Una prima risposta la troviamo nell’esistenza della cosiddetta ‘aristocrazia operaia ’, una frazione della classe subordinata cui il sistema riesce a garantire condizioni economiche privilegiate rispetto al resto della classe. (1) Tale gruppo sociale riesce a condizionare con la sua visione una parte cospicua della classe, rappresentando la base sociale profonda dei sindacati di sistema: l’aristocrazia operaia può dunque essere definita una vera e propria contro-avanguardia che, a differenza dell’avanguardia proletaria, ha la funzione fondamentale di conservare il meccanismo sociale esistente. Insieme all’aristocrazia operaia agisce l’esercito industriale di riserva dei disoccupati e dei precari, la cui stessa esistenza contribuisce a rintuzzare e tenere basse le richieste di miglioramenti economici degli operai occupati. Questi due fattori rappresentano le basi sociali oggettive, interne alla classe subordinata, all’origine dei sindacati di sistema, tuttavia l’altra base sociale, anch’essa oggettiva, è invece esterna alla classe subordinata, e si trova nel campo della classe borghese; in altre parole nel bisogno di strumenti di controllo sulla classe proletaria, finalizzati alla continuità del dominio borghese. Non diciamo nulla di nuovo affermando questi concetti, tuttavia riteniamo opportuno ripeterli, proprio per fornire un quadro teorico generale alla successiva esposizione. Riportiamo una citazione da un articolo degli anni 50 ‘ New Deal e dirigenze opportuniste ’ comparso in Prometeo ’’ ..di fronte alle sue crisi interne il capitalismo reagisce in tutti i paesi, quale che sia la sovrastruttura politica, in modo unitario e con metodi di intervento, di accentramento e di dirigismo statale che accomunano democrazia e fascismo in un convergente obiettivo di difesa del regime (…) la macchina dell’intervento e della gestione economica statale ha potuto mettersi in moto solo in virtù di una preventiva corruzione opportunistica del movimento operaio (…) fu la dirigenza controrivoluzionaria di questo a fornire le armi teoriche e pratiche necessarie al tamponamento della crisi (…) il fenomeno dell’opportunismo operaio, elemento necessario della difesa capitalistica (…) assume dovunque gli stessi aspetti; ai dirigenti controrivoluzionari dei sindacati il capitalismo non chiede più soltanto di contenere nell’ambito della legalità, della riforma e della collaborazione gli urti di classe, ma di farsi promotori (…) od amministratori (…) di metodi più efficaci (…) di gestione dell’economia ‘. L’opportunismo operaio è definito come elemento necessario della difesa capitalistica, addirittura le sue figure politico-sindacali di rilievo assumono il ruolo di promotori e amministratori di metodi di gestione più efficaci dell’economia. La conservazione del regime borghese si basa dunque sul sostegno diretto e palese delle organizzazioni sindacali prodotte dalla corruzione opportunistica del movimento operaio, dal suo inglobamento nella gestione dell’economia. Abbiamo citato un articolo degli anni 50 che descriveva i processi e le tendenze del capitalismo dell’epoca; ora dobbiamo chiederci se quelle tendenze fondamentali sono cambiate, oppure si sono approfondite. La risposta è scontata, essendo il regime capitalista caratterizzato dalla logica fondamentale dell’auto-conservazione, non è ammissibile che quelle tendenze siano scomparse oppure siano mutate nel loro contrario. L’opportunismo continua a giocare una partita a favore della sopravvivenza del regime borghese, in sinergia con tutti gli altri fattori di sostegno presenti sulla scena storica contemporanea. L’argomento dei contratti, dei sindacati più o meno combattivi, dei peggioramenti delle condizioni di vita dei lavoratori, va quindi trattato, e la sua trattazione può avere un senso politico, solo in una cornice teorica che riconosca il conflitto fra opportunismo e avanguardia proletaria, cioè solo all’interno della realtà del conflitto di classe. Bisogna comprendere e riconoscere l’importanza dei sindacati opportunisti come una semplice funzione di sistema, vedendo nella loro base sociale profonda, data dal combinato micidiale di aristocrazia operaia e esercito industriale di riserva, la causa fondamentale di questa funzione.
Osserviamo ora i principali aspetti del cosiddetto protocollo d’intesa su rappresentanza e rappresentatività, teso a dare applicazione all’accordo del 28 giugno 2011. Riportiamo un passo di tale accordo ‘ Come definito al punto 1 dell’accordo del 28 giugno 2011, la certificazione della rappresentatività delle organizzazioni sindacali, ai fini della contrattazione collettiva di categoria, assume i dati associativi riferiti alle deleghe relative ai contributi sindacali conferite da lavoratrici e lavoratori e i consensi ottenuti (voti espressi) dalle organizzazioni sindacali in occasione delle elezioni delle RSU ’ . Ecco, fino a questo punto sembra che fili tutto liscio, la rappresentatività è democraticamente certificata dal numero di iscritti e dal numero di voti presi dai vari sindacati alle elezioni delle RSU. Abbiamo azzardato l’uso dell’aggettivo democraticamente, anche se bisognerebbe chiedersi quale autonomia di giudizio c’è dietro il voto di un lavoratore, mediamente influenzato dalle idee dominanti della società borghese.
Ma sorvoliamo su questo fastidioso pensiero e continuiamo la lettura, stavolta del punto 3 del protocollo d’intesa ‘ Ai fini della misurazione del voto espresso da lavoratrici e lavoratori nella elezione della rappresentanza sindacale unitaria varranno esclusivamente i voti assoluti espressi per ogni organizzazione sindacale aderente alle confederazioni firmatarie della presente intesa. Lo stesso criterio si applicherà alle RSU in carica, elette cioè nei 36 mesi precedenti la data in cui verrà effettuata la misurazione ’ .
Ecco la pietra dello scandalo contro di cui sono insorte alcune anime belle del sindacalismo di ‘sinistra’. L’argomento usato contro tale capitolo dell’intesa è noto: dove finisce la libertà sindacale se solo le organizzazioni firmatarie possono presentarsi alle elezioni ed essere votate ? In questa obiezione ritroviamo il vizio fondamentale di ogni riformismo: la fuga nell’irrealtà. Chiediamoci quale libertà sindacale può veramente esistere ed agire in contrasto con gli interessi di fondo dell’economia capitalistica dominante; nei fatti, e a dispetto delle illusioni democratiche delle solite anime candide, nei momenti di più acuta crisi economica il sistema tira i remi in barca, cercando di soffocare in anticipo, prima sul piano normativo e poi sul piano della repressione violenta, il pericolo di lotte operaie spontanee (cioè libere dalla cappa del controllo dei sindacati di sistema).
La libertà sindacale che può minacciare in questa fase l’equilibrio sistemico è solo quella che si manifesta al di fuori dei canali tradizionali, attraverso il fuoco di lotte nate in modo autonomo dal seno dell’esercito proletario, occupato o di riserva, nei momenti in cui l’impoverimento economico e il dispotismo aziendale e burocratico raggiungono vette insostenibili. In passato le lotte economiche sorte sia da iniziative autonome, sia da iniziative dei sindacati di sistema potevano – in percentuali diverse – offrire qualche miglioramento economico reale, e soprattutto formare delle avanguardie politiche comuniste. Oggi il sindacato di sistema è totalmente irreggimentato nella difesa dell’economia capitalistica, fino a diventare un vero tassello dell’apparato statale di dominio, e quindi non appare più plausibile sostenere che da esso possano partire iniziative di lotta, sia pure miranti alla semplice difesa delle condizioni economiche e dei diritti attuali dei lavoratori. (2) Il partito comunista deve quindi rivolgere la sua attività di propaganda e proselitismo solo (soprattutto) verso quei momenti di lotta operaia che nascono autonomamente, da parte di lavoratori occupati e inoccupati spinti al conflitto da condizioni di vita oggettivamente insostenibili. Sono questi, infatti, i proletari più capaci di liberarsi dai miti e dalle illusioni dominanti nella società capitalistica; sia attraverso le lezioni tratte dall’azione di scontro pratico con il regime borghese, sia attraverso il contatto con la conoscenza rivoluzionaria sedimentata nel partito storico e formale. Nel corso delle lotte spontanee si formeranno degli organismi sindacali nuovi, verosimilmente volti alla difesa effettiva delle condizioni di vita dei propri associati, ed è con questi organismi che il partito può interagire in modo efficace per la propria azione politica (sempre nella distinzione necessaria fra il piano della difesa economica propria degli organismi sindacali, e il piano dell’azione politica specifica del partito comunista, e in considerazione dei processi inclusivi o integrativi a cui sono regolarmente soggetti gli stessi ‘sindacatini’ sotto la pressione del riflusso delle lotte immediate ).(3) Risibile e involontariamente comica appare la pappagallesca imitazione delle soglie di sbarramento parlamentari contenuta in questo capoverso che ora riportiamo ‘ Sono ammesse alla contrattazione collettiva nazionale le federazioni delle organizzazioni sindacali firmatarie del presente accordo che abbiano, nell’ambito di applicazione del contratto collettivo nazionale di lavoro, una rappresentatività non inferiore al 5%, considerando a tal fine la media fra il dato associativo (percentuale delle iscrizioni certificate) e il dato elettorale (percentuale dei voti ottenuti sui voti espressi)’.
Dunque, come per una par condicio con la politica parlamentare nazionale, anche i sindacati potranno aspirare a propri rappresentanti solo a patto di avere una quota di iscritti/votanti non inferiore al 5%. Un modo per tagliare le gambe in anticipo a quegli organismi sindacali nuovi, sorti nel fuoco di lotte spontanee, di cui parlavamo poc’anzi, infatti c’è sempre del metodo nelle apparenti stranezze e follie dell’apparato burocratico-poliziesco, come ad esempio questa soglia del 5%. Da una parte il sistema di dominio borghese, con questo accordo, rende più impermeabili le strutture sindacali esistenti alle infiltrazioni dell’antagonismo operaio, e dall’altra, con una legislazione a hoc, punisce severamente le azioni di lotta che vanno fuori dai canoni consentiti: blocco delle merci in entrata e in uscita, picchetti, scioperi selvaggi e atti similari. Come le guerre preventive degli americani, anche questo doppio fronte di misure svolge una funzione essenzialmente offensiva, colpendo sul nascere l’antagonismo di classe proletario nei luoghi di lavoro.(4) Continuando la lettura del protocollo d’intesa troviamo poco dopo un’altra perla di saggezza, eccola riportata ‘in assenza di piattaforma unitaria, la parte datoriale favorirà, in ogni categoria, che la negoziazione si avvii sulla base della piattaforma presentata da organizzazioni sindacali che abbiano complessivamente un livello di rappresentatività nel settore pari almeno al 50%+1 ‘ .
Cosa dire o aggiungere di più a questa citazione, la regola in oggetto – evidentemente condivisa dalle organizzazioni firmatarie dei datori di lavoro e dei lavoratori – scimmiotta anch’essa il principio maggioritario, prevedendo che basti una soglia di rappresentatività del 50%+1 per intavolare una negoziazione, i cui esiti dovrebbero poi vincolare anche il restante 49% non partecipante. Infatti qualche riga dopo troviamo scritto ‘ I contratti collettivi nazionali di lavoro sottoscritti formalmente dalle organizzazioni sindacali che rappresentino almeno il 50%+1 della rappresentanza (…) saranno efficaci ed esigibili (…) Il rispetto delle procedure sopra definite comporta, infatti, oltre l’applicazione degli accordi all’insieme dei lavoratori e delle lavoratrici, la piena esigibilità per tutte le organizzazioni aderenti alle parti firmatarie della presente intesa ‘.
Il testo appena riportato chiarisce senza ombra alcuna che anche l’eventuale accordo firmato dal 50%+1 delle organizzazioni sindacali vale comunque per l’insieme dei lavoratori, in base al principio maggioritario che informa la nostra superiore società democratica. Il 49% per cento non firmatario dei nuovi contratti si troverà così a dovere accettare le decisioni di altri, quel 51% che ha firmato: in fondo è solo un problema di aritmetica democratica che ogni mente libera da pregiudizi ideologici potrebbe agevolmente comprendere. La libertà è partecipazione diceva il testo di una vecchia canzone, e quindi il coscienzioso proletario dovrà senza ripensamenti partecipare al voto delle rsu, a patto però che il suo candidato preferito faccia parte di un organizzazione sindacale firmataria dell’accordo sulla rappresentatività.(5) Detta organizzazione, a cui va il convinto voto del proletario partecipante, potrà anche negoziare a patto che abbia almeno il 5% di iscritti e votanti, e infine, se proprio non riuscirà o vorrà partecipare alle negoziazioni contrattuali, non cambierà nulla, poiché i contratti collettivi nazionali di lavoro sottoscritti formalmente dalle organizzazioni sindacali che rappresentino almeno il 50%+1 della rappresentanza (…) saranno efficaci ed esigibili per tutti. Ecco servito un buon piatto per tutti i palati affamati di partecipazione e democrazia, ecco finalmente delle regole precise che semplificano la giungla delle sigle sindacali e mettono un freno al caos rivendicativo e contrattuale. Missione compiuta, il capitale ringrazia e può tirare un sospiro di sollievo. In ultima analisi, anche allo scopo di fugare ogni residuo dubbio e ambiguità, noi riteniamo che tale protocollo d’intesa, insieme alla legislazione del lavoro e sindacale-associativa affermatasi negli ultimi 10 anni, abbia prodotto dei cambiamenti definitivi nella natura dei sindacati più rappresentativi. Tale cambiamento va nel senso della possibilità prefigurata decenni addietro dalla nostra corrente:’ “Nelle difficili fasi che presenta il formarsi delle associazioni economiche, si considerano come quelle che si prestano all’opera del partito le associazioni che comprendono solo proletari e a cui gli stessi aderiscono spontaneamente ma senza l’obbligo di professare date opinioni politiche religiose e sociali. Tale carattere si perde nelle organizzazioni confessionali e coatte o divenute parte integrante dell’apparato di Stato”. Bene, il fatto che in un associazione di difesa economica ci siano solo lavoratori salariati, nella fase attuale non implica più una conseguente possibilità di intervento del partito, poiché si è verificata nel frattempo, per la maggioranza di queste associazioni, l’integrazione effettiva nell’apparato di potere dello stato capitalista. Questa circostanza non esclude il contatto con il singolo iscritto, e neppure la possibilità di propaganda e di chiarimento con il lavoratore che dovesse avere dei problemi sul posto di lavoro o dei ripensamenti sul valore della sua associazione sindacale di sistema. Tuttavia deve essere chiaro che il sindacato di sistema, nel suo complesso formale e statutario, è nella fase sociale attuale il primo livello formale di imprigionamento della protesta operaia, il secondo livello formale è incarnato dall’articolazione sinergica di forze di polizia, magistratura e istituti di pena.
(1)”Essa rappresenta una frazione della classe operaia che è a tutti gli effetti socialmente degenerata (imborghesita) e corrotta. Corrotta non significa che “gode” rispetto al passato di un maggior benessere, in cui si concretizzano gli sbandierati “miglioramenti del tenore di vita operaio”, ma che campa poggiando sullo sfruttamento altrui e approfittando di esso per mantenere un tenore di vita nettamente più elevato del resto degli operai o per accumulare ricchezze. L’arcano del migliorato tenore di vita operaio col progredire del capitalismo, invece, è tutt’uno con la legge della caduta tendenziale del saggio di profitto, e non vi si scopre la diagnosi fasulla di un imborghesimento dell’operaio e quindi dell’eternità del capitalismo, ma, all’opposto, quella della morte certa di esso, soffocato dall’ingorgo delle immense masse di prodotti in cerca di consumatori: “Il modo capitalista di produzione una volta instaurato non può sostenersi se non accrescendo di continuo, non la dotazione di risorse ed impianti atti a una migliore vita degli uomini con minori rischi, tormenti e sforzi, ma la massa delle merci prodotte e vendute (…)L’operaio corrotto è l’operaio che campa, come la piccola borghesia, pappandosi una quota del plusvalore estorto al resto della classe operaia dentro e fuori dalle metropoli imperialiste. Corruzione significa, in altri termini, essere pagati non occasionalmente al di sopra del valore della propria forza-lavoro, significa percepire di più di quanto serve per ricostituire quella forza-lavoro, e talora, ma non necessariamente, anche di più del valore di quanto si produce. Non significa affatto, come ritengono i nostri contraddittori, avere più beni di consumo a disposizione, ossia maggior “benessere”, in quanto la maggiorata massa di beni di consumo può corrispondere e di fatto corrisponde ad un uguale o anche ad un minor valore e, in quest’ultimo caso, ad una maggiore erogazione di plusvalore: prima con 4 ore-lavoro producevo il controvalore del mio consumo e le altre 4 ore se le pappava il capitalismo, adesso con 2 ore-lavoro produco il controvalore di un consumo che include anche auto, stereo e lavatrice, ma il capitalismo si pappa 6 ore. Il mio “maggior benessere” consiste in un’auto, in una lavatrice ed uno stereo svalutati in più di contro ad un’estorsione accresciuta di lavoro non pagato (…)Quindi, rimettendo le cose al loro posto: una minoranza della classe operaia metropolitana (=aristocrazia operaia) è corrotta e imborghesita socialmente e ideologicamente; la maggioranza di essa non è né corrotta né degenerata (=socialmente imborghesita), ma è imborghesita solo dal punto di vista ideologico, nel senso che, pur non avendovi un tornaconto, è succube dell’ideologia borghese, ad essa veicolata da un opportunismo che recluta i suoi quadri sia tra la piccola borghesia sia tra l’aristocrazia operaia. Ecco allora la “base materiale” dell’opportunismo: l’aristocrazia operaia, che, assieme alla piccola borghesia fornisce ad esso materiale umano ed idee. Il resto della classe operaia, la maggioranza, si lascia intossicare da quelle idee non perché condivida gli stessi interessi materiali degli strati operai corrotti e del ceto medio, ma perché agisce e pensa contro i propri interessi materiali, perché agisce e pensa come una cosa della società borghese, come un attrezzo della produzione capitalista. La cosa non dovrebbe stupire quanti hanno appreso l’ABC del marxismo, e cioè che “le idee dominanti sono le idee della classe dominante” (Marx), il che significa che il proletariato, la maggioranza del proletariato professa ideologie contrarie ai suoi interessi storici ed immediati. (…). La sua base materiale sta nello sviluppo gigantesco delle forze produttive che ha alimentato la “floridezza” della produzione industriale degli ultimi 100 anni, e, in particolare, dopo il 1945, ammettendosi che essa abbia reso possibile sia la formazione di un’aristocrazia operaia nel senso proprio del termine, cioè di uno strato corrotto e in parte coincidente con il bonzume politico-sindacale, sia anche il varo di tutta una “gamma di misure riformiste di assistenza e previdenza per il salariato” in generale, che, pur non corrompendo la massa operaia, comunque “creano un nuovo tipo di riserva economica che rappresenta una piccola garanzia patrimoniale da perdere, in un certo senso analoga a quella dell’artigiano e del piccolo contadino”, una garanzia ben misera ed aleatoria, ma che vale a rendere il salariato “esitante ed anche opportunista al momento della lotta sindacale e peggio dello sciopero e della rivolta” (). Queste sono le basi materiali -non certo identiche, ma tra loro parallele- dell’imprigionamento e dell’integrazione dei sindacati nello e da parte dello Stato borghese da un lato, della mancanza di reazioni da parte della massa operaia, tuttora succube degli apparati pseudo-operai affittati allo Stato e dell’ideologia collaborazionista, dall’altro. Da 31 punti per …
(2)‘Poiché nella situazione storica del XVII, XVIII, XIX secolo la rivoluzione capitalista doveva avere forme liberali, nel XX ha forme totalitarie e burocratiche. La differenza dipende non da fondamentali variazioni qualitative del capitalismo, ma da enorme divario di sviluppo quantitativo, come intensità in ogni metropoli, e diffusione sul pianeta. E che il capitalismo alla sua conservazione come al suo sviluppo e ingrandimento adoperi sempre meno ciancia liberale, e sempre più mezzi di polizia e soffocamento burocratico (..) . Dottrina del diavolo in corpo ’, contenuto nella raccolta ‘Imprese economiche di Pantalone, pag. 62.’
(3 ). Quindi, chiosando il testo, i coefficienti utili alla Rivoluzione sono: 1) il contatto del partito con la classe; 2) la pressione dei fatti materiali; 3) la capacità del partito di affermare e proclamare la giusta prospettiva rivoluzionaria. 1 + 2 + 3 = successo della lotta rivoluzionaria (un successo che presuppone come già avvenuta la “ionizzazione sociale” verso il polo rivoluzionario, rappresentato dalle posizioni comuniste, ed anche verso il polo opposto, quello della controrivoluzione). Le “condizioni indispensabili per il successo della lotta rivoluzionaria” sono rappresentate “secondo tutte le tradizioni del marxismo e della Sinistra italiana e internazionale” da tre elementi: 1) “il lavoro e la lotta nel seno delle associazioni economiche proletarie”; 2) la “pressione delle forze produttive contro i rapporti di produzione”; 3) la “giusta continuità teorica, organizzativa e tattica del partito politico” . Da 31 punti per …
(4) ‘…una illusione quella di credere che si possa indurre la classe dominante ed il suo Governo ad un regime normale, a rispettare quelle garanzie che i suoi istituti giuridici lasciano alla libertà di agire degli individui e delle collettività. Non interpretiamo il problema come quello di riportare l’avversario nella legge, nella SUA legge. Questo vorrebbe dire avvalorare l’illusione controrivoluzionaria che l’ambiente della legalità borghese si presti alla lotta di emancipazione delle masse, e se per poco nella nostra azione noi accettassimo di unirci a quei movimenti che hanno come loro patrimonio di teoria e di tattica quel fondamentale errore, noi rovineremmo tutta la nostra propaganda tra le masse, noi cadremmo nell’equivoco di mostrare di assumere o di lasciare assumere l’impegno che se la borghesia rispetterà i limiti delle sue leggi, noi faremo dal canto nostro altrettanto. Ciò vorrebbe dire che l’imperio dell’attuale sistema costituzionale è per noi una situazione desiderabile, vorrebbe dire dimenticare che, secondo la critica marxista, la libertà che esso ostenta di concedere non è altro che una turlupinatura ed una risorsa conservatrice. Ora in bocca ai comunisti non devono trovarsi le frasi stereopatiche e ridicole di libertà di opinione, di diritto individuale, e simili giaculatorie, care alla democrazia borghese ed all’opportunismo socialistoide. Noi dobbiamo anche evitare di incoraggiare le tendenze in taluni elementi, prossimi ai nostri cugini sindacalisti ed anarchici, a cadere nell’abuso piccolo-borghese di quelle frasi, credendo di fare con ciò del puro estremismo. I comunisti sono su ben altro terreno. Essi sanno che nei limiti convenzionali della legalità borghese non si ritornerà più. Essi dichiarano che la storia ha universalmente posto questo dilemma: o se ne esce per realizzare la dittatura aperta della controrivoluzione, o per fondare la dittatura rivoluzionaria del proletariato. Essi non si pongono come obiettivo di riaprire il periodo dei rapporti normali, politici e giuridici – che sarebbe, ove non fosse assurdo, il periodo del ristabilimento pacifico dei poteri e dei privilegi capitalistici – ma di sospingere il trapasso da esso al periodo del potere rivoluzionario del proletariato. I comunisti non dicono alla borghesia: bada che se non rientri nella tua legalità faremo la rivoluzione… per conseguirla. Essi si propongono invece di varcare i limiti del potere borghese con la loro azione rivoluzionaria. Chi, come i socialdemocratici, intende restare sul terreno delle lotte civili, non sarà mai un nostro alleato. Per lottare contro i sistemi della reazione non c’è dunque altra via che organizzarsi per spezzarli, lottando contro di essi senza esclusione di colpi ’. Tratto da Ordine Nuovo”, 26 marzo 1921 CONTRO LA REAZIONE
(5)’Noi considerammo di fondamentale importanza per il Capitale questo imprigionamento delle associazioni economiche nello Stato riconoscendovi la risposta dialettica alla riconosciuta e ribadita necessità che il Partito influenzi la lotta sindacale come stadio indispensabile per ogni ulteriore movimento rivoluzionario. La borghesia insomma, sottomettendo i sindacati alla politica dello Stato capitalista, si difende dalla minaccia della Rivoluzione soprattutto perché in tal modo impedisce, ritarda ed ostacola così l’attività dei marxisti e degli stessi operai combattivi nelle lotte economiche (…) Nessuna illusione, dunque, di poter “riconquistare” i sindacati tricolore e di farli risorgere come organismi di classe attraverso la semplice sostituzione dei vertici: “Nelle difficili fasi che presenta il formarsi delle associazioni economiche, si considerano come quelle che si prestano all’opera del partito le associazioni che comprendono solo proletari e a cui gli stessi aderiscono spontaneamente ma senza l’obbligo di professare date opinioni politiche religiose e sociali. Tale carattere si perde nelle organizzazioni confessionali e coatte o divenute parte integrante dell’apparato di Stato” (potrà mai prendere vita un movimento più vasto di attacco ai poteri politici borghesi. La Sinistra chiamerà questa mutazione “radicali modificazioni del rapporto sindacale”. Queste modificazioni radicali non dipendono da alcuna mutazione delle contraddizioni inerenti il modo di produzione capitalistico e neppure dal carattere della lotta economica del proletariato. Le modificazioni radicali si riferiscono solo all’inquadramento dei sindacati da parte dello Stato, alla loro integrazione più o meno formale nelle funzioni dello Stato borghese come manifestazione da un lato dell’attuazione della fase imperialista del Capitale, coincidente con la sua sempre maggiore concentrazione e con la corrispondente centralizzazione politica, e dall’altro della completa integrazione politica della socialdemocrazia e dello stalinismo nella struttura politico-sociale ed organizzativa della borghesia. Questa integrazione dell’opportunismo è un fatto sociale e non solo politico: “L’opportunismo è un fatto sociale, un compromesso tra le classi che avviene in profondità, e sarebbe follia non vederlo…” da 31 punti per …
Postilla
Abbiamo postulato la possibilità che dalle lotte operaie sorgenti al di fuori della cappa di controllo dei sindacati di sistema si sviluppino delle associazioni sindacali di lotta, realmente orientate alla difesa delle condizioni di vita dei propri associati. Abbiamo anche ipotizzato che in queste strutture formali il partito possa svolgere più agevolmente l’azione di contatto con la classe. Tuttavia questa circostanza è inevitabilmente temporanea e transitoria, poiché si deve supporre che il regime borghese non resti indifferente alla presenza di forze sindacali antagoniste, attivando ben presto delle azioni di inglobamento e di repressione. Quindi, così come un infezione viene progressivamente circoscritta dalla produzione di anticorpi, così anche l’infezione sociale del sindacato di lotta sarà rapidamente sottoposta a interventi di contenimento e sterilizzazione. Questo aspetto va attentamente considerato per non rischiare di sopravvalutare le possibilità di azione politica prima sottolineate.
Prima parte: aspetti e dettagli riguardanti i peggioramenti economici e normativi recenti
Proviamo a fare qualche commento prendendo spunto da un articolo contenuto nell’inserto ‘Affari e Finanza ’ del quotidiano ‘La Repubblica ’, del 24 febbraio 2014, a firma Marcello De Cecco. Il titolo dell’articolo è significativo ‘Ecco il Jobs Act sotto il vestito (quasi ) niente ‘ . L’articolo esordisce con una (forse) involontaria sottovalutazione delle percentuali reali dei senza lavoro, poiché riporta un dato (12% – 13%), riferibile solo ai disoccupati ufficiali, cioè agli iscritti nelle liste dei centri provinciali per l’impiego e nelle agenzie private di collocamento. In realtà il numero percentuale dei soggetti che per sfiducia non si iscrive neppure in queste liste è almeno pari a quello dei disoccupati ufficiali, come ha riconosciuto lo stesso ISTAT, inoltre la massa dei precari che lavora solo per pochi mesi nel giro di un anno è anch’essa paragonabile percentualmente ai disoccupati ufficiali, e quindi il dato riportato nell’articolo è sottostimato, poiché andrebbe probabilmente moltiplicato per tre o anche di più ( i dati riportati da repubblica del 2 aprile 2014 sono i seguenti: totale occupati 22.216.000, disoccupati 3.307.000, inattivi dai 15 ai 64 anni 14.365.000). Vediamo comunque cosa scrive De Cecco ‘Ormai lo dicono tutti e da parecchio che la disoccupazione è il problema più grave dell’economia e della società italiana. Dal già orrendo 12% del presente arriverà, si prevede, al 13% quest’anno, come risultato di spinte di lungo periodo al declino tipiche del nostro paese ’. Dunque la disoccupazione ( sottostimata ) viene inquadrata nel quadro di spinte di lungo periodo al declino del nostro paese, traduciamo: la ristrutturazione degli assetti capitalistici mondiali sta riposizionando in basso il nostro paese, in altre parole la competizione fra capitali sta svalutando la porzione di plus-valore assegnata alla classe borghese italica, impoverendo i cosiddetti ceti medi e condannando alla precarietà e alla disoccupazione percentuali crescenti di popolazione. Ma leggiamo cosa viene scritto dopo le righe appena riportate: ‘ In altri tempi e in altri luoghi, ma ancora oggi, la disoccupazione giovanile ai livelli italiani induce primavere arabe e rivolte religiose. Qui non è successo finora grazie all’ammortizzatore famiglia, che però è una diga in cui già si vedono pericolose falle, per il cedimento dell’occupazione dei capifamiglia e del pauroso crescere della disoccupazione di lungo periodo. ‘ Possiamo permetterci di condividere questa parte dell’articolo, poiché riconosce, o meglio è costretta a riconoscere, la causa sociale fondamentale (l’ammortizzatore famiglia), che ha finora disinnescato la protesta di massa. La stampa borghese, quando proprio non può evitarlo, utilizza inconsapevolmente le categorie di analisi marxista, e quindi descrive i fatti sociali con lucidità e realismo, anche se poi ricade nell’ideologia quando deve proporre delle soluzioni alle criticità precedentemente individuate. Ecco un esempio di soluzione ideologica che ripropone la: ‘necessità di rilanciare la domanda interna, ora che si è visto che nemmeno le tanto ammirate esportazioni italiane hanno più tanto fiato in corpo ’. Il giornalista economico, spinto dalla coazione a ripetere i dogmi dell’ideologia mercantilista, propone una soluzione involontariamente paradossale, poiché la cura suggerita (rilancio della domanda) è anche uno degli aspetti della malattia. Ovvero rilancio della domanda per consentire al capitale di trasformare in denaro la merce prodotta (la merce in cui è incorporato il prezioso plus-lavoro/plus-valore), allo scopo di far ripartire il ciclo infinito di valorizzazione, reinvestendo in una nuova produzione di merci il denaro appena incassato (M-D-M : D-M-D). Tuttavia, la sequenza infinita di valorizzazione si scontra da sempre con le interiori contraddizioni dell’economia capitalistica ( caduta tendenziale del saggio di profitto, sovrappopolazione, impoverimento…), e quindi appare irrealistico riproporre una cura che nei fatti è anche parte attiva delle cause della malattia ( un po’ come gettare benzina sul fuoco). La domanda interna non può ripartire quando milioni di potenziali consumatori sono privi di reddito, ma essi sono privi di reddito perché le aziende non hanno più bisogno del loro lavoro, in quanto il capitale tecnico, le macchine, le attrezzature , gli impianti hanno progressivamente sostituito la forza –lavoro umana. Se i mezzi di produzione che costituiscono il corpo tecnico delle aziende fossero un bene sociale, quest’ultima circostanza ( il capitale costante che prevale sul capitale variabile) sarebbe una benedizione per l’umanità, poiché significherebbe meno tempo di lavoro medio per tutti. Eppure le cose nel mondo vanno in un altro senso, e allora anche il povero giornalista economico che scrive sul quotidiano della borghesia ‘liberal’ nostrana deve arrampicarsi sugli specchi per raccontare di soluzioni che non risolvono nulla. Jobs act , esordisce con questa formula il nostro nuovo capo del governo, scusate, il premier Renzi. Un esordio linguistico che mostra tutta la pochezza culturale e anche, se vogliamo, la grossolanità del personaggio, come se il ricorso alle ormai abusate parole della lingua anglosassone fosse titolo di merito o di modernità. Il problema è che il vuoto e la stupidità della formula linguistica impiegata, celano purtroppo l’annuncio di ulteriori peggioramenti delle condizioni di vita dei proletari. Leggiamo cosa scrive in proposito il nostro ardito giornalista economico ‘ Sul problema della disoccupazione e del lavoro in generale, che pareva posto come primo tra tutti quelli di cui farsi carico da parte del nuovo leader, ci è stata da tempo fornita una espressione americana, che dovrebbe suggerire come affrontarlo, mediante ricorso ad un Jobs Act. A chi conosce un po’ la realtà americana tale espressione porta soprattutto un messaggio insolito per i nostri climi: si tratta di introdurre il trattamento del problema del lavoro spostando il fuoco dell’analisi dal mercato del lavoro considerato come mercato unico ai vari lavori (onde Jobs che è plurale) di cui esso si compone, ciascuno con le proprie peculiari condizioni di domanda e offerta ’ . Fino a questo punto l’articolo si limita a descrivere il progetto implicito nella nuova fraseologia renziana, assumendo come punto fondamentale di questo progetto il passaggio dal mercato unico dei lavori ai mercati differenziati; questi ultimi relativi ai diversi lavori presenti nella vasta realtà economica italiana. Bisogna chiedersi se tale passaggio non sia già in atto da tempo nella struttura economica del paese, ovvero se il progetto di Renzi non sia altro che una formalizzazione politico-legislativa di tendenze capitalistiche immanenti. In fondo questi presunti innovatori e rottamatori sono costretti sempre ad amministrare un sistema economico-sociale con le sue rigidità non eludibili, rigidità di vitale importanza per il ciclo di valorizzazione del capitale. Non è una novità che la massa di lavoratori salariati, da cui viene estratto quotidianamente il plus-lavoro/plus-valore, debba normalmente essere elastica e flessibile, cioè disponibile a farsi sfruttare nei modi più adeguati alla congiuntura economica e alla lotta per la concorrenza in cui è inserita l’azione delle aziende capitalistiche. L’importante però è far credere ai gonzi che questa vecchia minestra riscaldata sia invece una proposta moderna e innovativa, all’altezza delle sfide e delle gravi emergenze di bilancio del paese. In nome di questa truffaldina e canagliesca mistificazione della realtà, nel dicembre 2011, i lavoratori dipendenti si sono ritrovati a dover andare in pensione mediamente a 67 anni; così, da un momento all’altro, senza che i sindacati di sistema battessero ciglio e nella quasi totale inerzia delle vittime del provvedimento dell’allora ministra Fornero, è passato un peggioramento epocale delle condizioni di vita dei lavoratori. In quella situazione la scusa ufficiale era che bisognava raffreddare lo spread, e quindi un po’ di anni di schiavitù salariata in più, prima del pensionamento, non erano neanche da discutere. Non vogliamo però lasciarci trascinare dalla vis polemica o dall’indignazione, e quindi riprendiamo serenamente la lettura dell’articolo, notando ad un certo punto una strana critica verso il Jobs act renziano ‘ il lavoro e l’occupazione regrediscono dall’essere il portato delle condizioni che il governo e le istituzioni economiche riescono ad assicurare al paese con opportune misure macroeconomiche ( che agiscono sulla domanda e sull’offerta aggregate ) a essere invece una congerie di interventi settoriali e microeconomici. Ogni categoria di Jobs – questo è il messaggio – ha il suo mercato, con condizioni di domanda e offerta peculiari sulle quali si deve intervenire partitamente ‘. Bene, come notavamo prima, il lamento del giornalista trascura il dato reale sulle dinamiche immanenti all’economia capitalistica, e rimpiange i bei tempi andati in cui le sane politiche macroeconomiche potevano operare unitariamente sulla domanda e sull’offerta del mercato nazionale del lavoro. Ora, a prescindere dall’opinabilità di questa rappresentazione della situazione di un tempo, appare anche sinceramente patetico il disorientamento del giornalista verso l’estrema coerenza capitalistica della proposta renziana. Cosa può fare un amministratore del sistema economico-sociale capitalistico se non assecondare le istanze di fondo di questo sistema: tentando di guidare i processi in atto, cioè realmente esistenti, verso condizioni di regolarità e di funzionamento equilibrato ed efficace ? La tendenza alla frammentazione del mercato del lavoro è una costante del meccanismo capitalistico, essa ha la funzione di dividere e indebolire il fronte operaio occupato, per poi abbassare mediamente i livelli retributivi, cioè il costo della forza-lavoro. Questa costante quindi non è una novità, è invece una tappa del conflitto permanente che la classe borghese conduce contro l’avversario di classe proletario, e in modo specifico costituisce una risposta al persistente problema della caduta ‘storica’ del saggio medio di profitto. Frammentando il fronte del lavoro in base ai parametri geografici e territoriali di insediamento delle aziende, dividendo poi ulteriormente la contrattazione in base ai settori economici di riferimento, si otterrà alla fine una elasticità del mercato del lavoro potenzialmente suscettibile di attirare nuovi investimenti di capitali. Così, il molto moderno e giovane premier Matteo Renzi, nuovo salvatore della patria in pericolo, se vogliamo, in fondo, sul piano del mercato del lavoro fa le stesse cose di un commerciante che offre a prezzi speciali le sue merci ai clienti di passaggio; anche se in questo caso l’offerta speciale riguarda la vita lavorativa di milioni di proletari. Torniamo ora al nostro simpatico giornalista, perché nelle righe finali del suo articolo emergono dei dubbi e delle fosche previsioni sugli scenari futuri del cosiddetto sistema-paese ’ a un paese ormai affamato di occupazione, a giovani disoccupati per una metà del loro totale, ai famosi due milioni di giovani che cercano lavoro, non si può da parte di un governo (…) fornire solo una prospettiva di riforme di lungo periodo (…) ricordiamo che il nostro paese ha iniziato la sua storia unitaria con dieci anni di guerra civile, condotta con una violenza da entrambe le parti che ha avvelenato la vicenda nazionale fino ad oggi ‘. Il senso che traspare dalle ultime righe dell’articolo è un preoccupato avvertimento ai poteri politici borghesi affinché non sottovalutino lo scontento sociale attuale e soprattutto potenziale; il paragone storico fra l’incerto presente e il lontano passato, cioè i dieci anni di guerra civile che una parte dei libri storia definisce ancora con il termine fuorviante ‘brigantaggio’, è un dettaglio rivelatore della capacità massima di visione sociologica consentita a un pensiero che resta dentro l’orizzonte borghese. Il giornalista avverte gli ipotetici e potenti interlocutori, forse gli stessi vertici politico-governativi attuali, che al momento essi navigano in acque perigliose e oscure, e addirittura ben presto potrebbero naufragare sugli scogli dello scontro sociale acuto, come da precedenti vicende storiche documentate. In ultima analisi l’articolo che era iniziato con un richiamo alla progressiva riduzione dell’ammortizzatore sociale familiare, e ai rischi di proteste sociali conseguenti, termina con un ulteriore avvertimento che ruota sugli stessi argomenti. I dieci anni di guerra civile, 1861-1871, furono violenti e feroci fuor di misura, la ricerca storica recente sta tentando di rivedere il significato di quelle vicende, riconoscendo anche un valore di resistenza e di ribellione sociale all’azione dei gruppi di cosiddetti briganti. Resta il dato di fatto, storicamente inconfutabile, che fra le principali determinanti sociali ed economiche che spinsero più di trentamila meridionali a scegliere permanentemente la strada della guerriglia, ci fu l’aggravamento delle condizioni di vita susseguenti alla conquista piemontese. Il perspicace giornalista compie il paragone storico fra il nostro presente e quel lontano passato proprio per confermare le ragioni dell’allarme lanciato nel suo articolo. Tuttavia non ci sono rimedi efficaci contro i pericoli profetizzati dal giornalista, così come non ci sono misure che possano realizzare la famosa quadratura del cerchio, e fintanto che il capitalismo continua a impestare l’aria con la sua carcassa putrescente, rimane ancora persistente la presenza sul suo capo della spada di Damocle della rivoluzione (determinata in via principale dagli aspetti mostruosi di questa decomposizione cadaverica). Torniamo ora alle mirabilie del nuovo volenteroso amministratore del capitale, il signor Renzi, il quale ottiene, in una recente visita a Londra, le sincere congratulazioni della comunità finanziaria ivi residente. Riportiamo alcuni passi di un articolo contenuto nella repubblica del 2 aprile ’14 , leggendo trascuriamo pure i toni agiografici del giornalista, la cosa essenziale è la notizia che i capitali internazionali intendono ritornare ad investire nel bel paese ‘Gli investimenti in Italia sono ripartiti giurano gli italiani della comunità di Londra…I segnali sono positivi, è cominciato un flusso di denaro verso l’Italia e il grosso passa dalla city, centro economico del mondo ’. Dunque, il capitale finanziario internazionale, dopo avere scommesso sul default dell’Italia, ora individua invece buone possibilità di investimento nella nostra economia, riportiamo un nuovo passo dell’articolo ‘ Renzi incontrerà i giganteschi fondi d’investimento internazionale che operano a Londra. A cominciare da Blackrock, che gestisce 5 trilioni di dollari e controlla il 4 per cento del mercato globale…Ci saranno anche Fidelity, Pinko, Schroeder, miliardi di euro controllati in tutto il pianeta. Saranno molto più critici degli italiani, avverte Serra (l’amico finanziere di Renzi). Chiederanno subito: perché dobbiamo credere a lei dopo essere stati presi in giro da quelli venuti prima di lei ?. Gente che non fa sconti e che aveva messo in ginocchio l’Italia nel 2011 scommettendo sul default ‘. Gli annunci di Renzi sulla riforma del mercato del lavoro, sembra suggerire l’articolo, hanno fatto il miracolo di ridare fiducia agli investitori internazionali, rimettendo il nostro paese al centro dell’attenzione dei maggiori fondi d’investimento mondiali. Onore al merito, quindi, per il nostro abile politico, pronto a promettere maggiore flessibilità e produttività del lavoro, Jobs act e meno burocrazia, per attirare l’attenzione del capitale internazionale e invogliarlo a investire nel nostro paese invece che in Cina o in India. Vediamo cosa dichiara davanti a imprenditori e manager italiani, nel salone dell’ambasciata di Groven Square ‘ Voglio ascoltare voi, il mio obiettivo è aumentare i posti di lavoro e la competitività. Cosa mi suggerite per arrivare subito al risultato? Perché dobbiamo fare presto, ogni giorno in Italia è come se chiudesse un azienda con mille dipendenti ’. Guarda caso gli imprenditori gli suggeriscono di continuare sulla strada intrapresa con questo Jobs Act, e così l’articolista di repubblica può concludere ‘ Alla fine dell’incontro il premier si convince di essere sulla strada giusta. Il pacchetto lavoro non cambierà nella sua parte sostanziale, cioè nella formula che prevede una dose robusta di flessibilità con i tre anni di contratto a termine e gli otto rinnovi …c’è bisogno della crescita. ‘ Di nuovo la regola aurea fondata su basse paghe, maggiore flessibilità e meno diritti: in una parola più sfruttamento e dispotismo aziendale. Normalmente l’accoppiata appena menzionata, in previsione delle proteste e dei disordini che potrebbe provocare in una parte del corpo sociale, è prudentemente assistita da un irrobustimento della legislazione repressiva e dei mezzi di coercizione. In Italia, tuttavia, sembra che il problema per ora non si ponga ancora in questi termini. L’assenza di reazioni significative da parte della classe operaia, ha molto rassicurato gli investitori internazionali (probabilmente è il fattore decisivo nella nuova fiducia che essi riservano al nostro paese). Diciamo pure che Renzi è stato promosso dai mercati finanziari, e adesso, con la quasi totale acquiescenza dei lavoratori e delle loro organizzazioni sindacali e politiche, potrà incominciare a rimboccarsi le maniche e fare il duro lavoro che il capitale globale gli affida. Quasi 150 anni addietro Marx scriveva delle righe ancora attuali, perfettamente adeguate alla comprensione della contemporanea recita politica e delle motivazioni permanenti degli attori politici borghesi, variamente carismatici e intercambiali al momento opportuno, secondo gli interessi e le convenienze del capitale. Scrive Marx , ‘L’ accumulazione capitalistica piuttosto produce in continuazione, ed esattamente in rapporto alla propria energia e alla propria entità, una popolazione operaia relativa, cioè eccedente le esigenze medie di valorizzazione del capitale, quindi superflua, ossia supplementare (..) Con l’accumulazione del capitale che essa stessa produce, la popolazione operaia produce quindi in quantità sempre più grande i mezzi per la sua propria eccedenza relativa. E’ questa una legge della popolazione specifica del modo di produzione capitalistico, come in effetti ogni particolare modo di produzione storico possiede le proprie particolari leggi della popolazione, storicamente valide (..) Tuttavia, mentre una sovrappopolazione operaia è il prodotto necessario dell’accumulazione ossia dello sviluppo della ricchezza su fondamento capitalistico, questa sovrappopolazione diviene a sua volta la leva dell’accumulazione capitalistica, anzi diviene condizione d’esistenza del modo di produzione capitalistico. Essa costituisce un esercito industriale di riserva disponibile che appartiene integralmente al capitalista, così come se questi l’avesse tirato su a proprie spese, e genera per le sue variabili esigenze di valorizzazione un materiale umano da sfruttare che è disponibile in ogni momento (..) Il capitale pag. 458, 459.
Dunque, un esercito industriale di riserva, disponibile in ogni momento per le esigenze di valorizzazione del capitale, esso si sposta all’occorrenza nei rami della produzione più bisognosi di forza lavoro da usare, e così, come una mandria di bestiame è spostata nei pascoli più verdi e rigogliosi dal pastore oculato, anche il materiale umano proletario, infine, è attirato incessantemente nei verdi pascoli del capitale, dove un salario da fame gli consentirà, temporaneamente, di sopravvivere (almeno fino al prossimo ciclo di espulsione determinato dalla variazione della composizione del capitale). Intere masse umane di senza riserve, sospinte energicamente dalla fame e dall’indigenza, si spostano periodicamente verso questi verdi pascoli del capitale, dove si ripete il rito dell’estrazione di plus-lavoro insieme alla mercificazione delle loro esistenze. Ora bisogna considerare che anche i capitali finanziari si spostano dove le condizioni di redditività, e quindi il costo del lavoro, sono più favorevoli alla cosiddetta remunerazione del capitale investito. I due movimenti sono integrati e complementari, l’uno si alimenta dell’altro e viceversa. L’abilità di Renzi è consistita nel perseguire con estrema coerenza la logica intrinseca della domanda e dell’offerta che domina il mercato del lavoro, affermando senza mezzi termini che solo maggiori tassi di sfruttamento della forza-lavoro avrebbero invogliato i capitali a trasferirsi nell’economia italiana. Lo scambio implicito che il premier propone alla classe dei lavoratori dipendenti, e da questi, sembra, tacitamente accettato, è più lavoro in cambio di retribuzioni e diritti inferiori. Anche il tam tam mediatico sulla crescente disoccupazione ha solo lo scopo di creare una giustificazione ideologica preventiva, consentendo alla cosiddetta riforma del mercato del lavoro di essere accettata dalle vittime principali, cioè il lavoratori, come una necessità ineluttabile.
Vediamo ora come è presentato il complesso di misure normative definito ‘Jobs act’, in una intervista ad una ‘esperta in diritto e sicurezza del lavoro, docente e formatore qualificato, nonché autrice di numerosi saggi sul tema. (redazione Leggioggi.it).
Tale intervista è stata rilasciata alla fine di maggio 2014, e quindi tiene conto dell’iter parlamentare ormai giunto alle sue fasi conclusive, il giornalista chiede ‘In generale, quali sono le tipologie di contratti toccate dal decreto che il governo sta convertendo in legge a suon di voti di fiducia?
La risposta è la seguente: ‘Il D.L. 34/2014, che dovrà essere convertito in legge entro maggio 2014, va a modificare il contratto a termine, il contratto di somministrazione a tempo determinato e l’apprendistato ’.
Altra domanda, altra risposta: quali sono le modifiche più importanti per i contratti a termine?
‘Il decreto che si sta convertendo va a modificare il D. Lgs. 368/2001 e successive modifiche, che regola il contratto a termine, il quale prevede, in primo luogo, l’innalzamento da uno a tre anni, comprensivi di un massimo di cinque proroghe (8 proroghe nel testo originario del decreto-legge), della durata del rapporto a tempo determinato (anche in somministrazione) che non necessita dell’indicazione della causale per la sua stipulazione. A fronte dell’eliminazione della causale, viene introdotto un “tetto” all’utilizzo del contratto a tempo determinato, stabilendo che il numero complessivo di rapporti di lavoro a termine costituiti da ciascun datore di lavoro non può eccedere il limite del 20% dei lavoratori a tempo indeterminato alle sue dipendenze (criterio più restrittivo rispetto al “20% dell’organico complessivo” previsto nel testo originario del decreto-legge). Il superamento del limite comporta solo una sanzione amministrativa; mentre nel testo originario del decreto-legge non prevedeva alcuna conseguenza per il superamento del tetto. Il limite del 20% non trova applicazione nel settore della ricerca, limitatamente ai contratti a tempo determinato che abbiano ad oggetto esclusivo lo svolgimento di attività di ricerca scientifica, i quali possono avere durata pari al progetto di ricerca al quale si riferiscono. Inoltre, è stata prevista una disciplina transitoria che (fermi restando comunque i diversi limiti quantitativi stabiliti dai vigenti contratti collettivi nazionali) per i datori che alla data di entrata in vigore del decreto-legge occupino lavoratori a termine oltre tale soglia, l’obbligo di adeguamento al tetto legale del 20% scatta a decorrere dal 2015, sempre che la contrattazione collettiva (anche aziendale) non fissi un limite percentuale o un termine più favorevoli ’.
Riflettiamo su alcune delle informazioni legislative contenute nella risposta dell’esperta in diritto e sicurezza del lavoro; in primo luogo, per quanto riguarda i contratti a termine, registriamo l’allungamento della loro durata da uno anno a tre anni. Quindi, in seguito ai cambiamenti prodotti da questa norma, il datore di lavoro potrà impiegare per un periodo maggiore il lavoratore con contratti a tempo determinato. Una bella conquista sindacale per i lavoratori e per i giovani in cerca di lavoro. Tuttavia sembra che l’allungamento della durata da uno a tre anni, e l’eliminazione della causale che limitava il tempo determinato a specifiche tipologie di lavoro, sia compensato e mitigato dal tetto del 20%, in altre parole dall’obbligo per le aziende di impiegare del personale con contratti a tempo determinato nei limiti del 20% del personale assunto con contratti a tempo indeterminato. Eppure questo ‘tetto all’utilizzo del contratto a tempo determinato ’ , non costituisce un miglioramento reale del quadro normativo, poiché ‘Il superamento del limite comporta solo una sanzione amministrativa ’.
Concludiamo riportando la risposta dell’esperta di diritto e sicurezza del lavoro alla seguente domanda: davvero il decreto lavoro costituisce un passo avanti rispetto alla legge Fornero?
‘A mio avviso, non si può assolutamente dire che quella legge è meglio di un’altra; ciò vale anche per l’attuale decreto e la riforma Fornero. Ogni legge ha una sua ratio ’.
L’intervista continua con una domanda di sapore politico, riportiamola per intero insieme alla risposta. Domanda: chi ha ragione? il MoVimento 5 Stelle a denunciare un incremento del precariato, o il governo che difende i maggiori posti che si potranno creare?
Risposta: ‘Dal mio modesto punto di vista, dal Governo Monti ad oggi, compreso anche il Governo Renzi, sembra ritenere che il problema principale del mercato del lavoro in Italia sia la rigidità dei contratti, non la carenza di domanda. Perciò, nonostante nel solo 2013 si siano persi 413mila posti di lavoro (dati Istat), il primo pezzo del tanto annunciato Jobs Act è una ulteriore flessibilizzazione dei contratti di lavoro, con la possibilità di rinnovare quelli a termine fino a cinque volte in tre anni ’.
Viva la sincerità di questa risposta, cosa possiamo aggiungere alle chiare parole dell’esperta se non la piccola considerazione che la flessibilizzazione è una esigenza basica dell’economia capitalistica, e quindi i funzionari politici del capitale si muovono come il cane dell’esperimento di Pavlov (il quale iniziava a salivare al semplice suono di una campanella, poiché, in precedenza gli avevano servito il pasto sempre in associazione con quel suono). Anche i funzionari politici del capitale, una volta al governo, iniziano subito a salivare per riflesso condizionato norme e decreti per estendere ai limiti della realtà la flessibilizzazione della forza-lavoro.
Parte seconda: sindacalismo di lotta e processi di inclusione sistemica (il caso del rimpianto riformista per l’intervento dello stato nell’economia)
Affronteremo adesso, leggendo un articolo scaricato dalla rete, il riflesso speculare della nostalgia per le politiche macro-economiche di intervento pubblico già manifestatesi nell’articolo di Marcello De Cecco. In questo caso, tuttavia, la fonte dell’accorato rimpianto per i bei tempi andati non è un giornalista di un quotidiano della borghesia liberal-progressista come Repubblica, ma addirittura una penna che scrive per il sito Lavoro & Conflitto, collegato strettamente al sindacalismo di base. Partiamo da un semplice ragionamento, la società capitalistica è divisa in due classi fondamentali, la borghesia e il proletariato, e lo stato è lo strumento burocratico-poliziesco che permette alla borghesia di dominare, in ultima istanza, la classe avversaria. Abbiamo scritto in ultima istanza perché sappiamo benissimo che anche altri fattori (ad esempio le idee della classe borghese) giocano un ruolo nei processi di dominazione, tuttavia la funzione principale nel risiko capitalista del potere spetta all’apparato statale. (1)
Leggiamo ora cosa viene scritto e pubblicato l’8 marzo sul sito Lavoro e conflitto, ‘La spending review targata Cottarelli vuole fare cassa e disegnare una pubblica amministrazione con compiti ridotti e al servizio dell’impresa. Si cancella in sostanza il concetto dello stato erogatore di servizi pubblici con la cancellazione del welfare per recuperare risorse per il fantomatico ripianamento del debito pubblico, per il 90% in mano a soggetti privati (…) Oltre che sui lavoratori pubblici, la scure si abbatterà con particolare virulenza sulle aziende a capitale totalmente pubblico o misto pubblico/privato, sulle società cioè controllate o partecipate dagli enti locali, Regioni, Province e comuni. Si tratta delle aziende fornitrici dei servizi pubblici locali, trasporti, luce, gas, acqua, farmacie, assistenza all’infanzia ai disabili agli anziani, tanto per citarne solo alcune, in tutto 7.065, che secondo la commissione alla Spending Review pesano ben oltre il 4% sul PIL (..) I dipendenti pubblici e la sanità sono tra le vittime sacrificali da offrire sull’altare del nuovo modello sociale tutto improntato all’ideologia del mercato; tagli ai servizi, esuberi, mobilità, blocco dei contratti e “armonizzazione” al livello retributivo più basso (…) Peccato del nostro paese abbia già conosciuto enormi processi di privatizzazione: dal 1985 al 2012 sono passate ai privati aziende pubbliche per un valore pari a 157 miliardi di euro un record tutto italiano, che ha significato la fine dell’intervento diretto dello stato in economia, con il regalo dell’Alfa Romea alla FIAT, della Telecom ai famosi capitani coraggiosi, della Soc. Autostrade alla famiglia Benetton, dell’ALITALIA ai patrioti capitanati da Colaninno, con i risultati noti a tutti: speculazioni fortunate per loro, fallimenti e migliaia di posti di lavoro distrutti, licenziamenti, degrado dei servizi e aumenti delle tariffe per tutti noi! Ma quello che dimostra come il discorso sulle privatizzazioni nulla abbia a che fare con la riduzione del debito pubblico è dimostrato dal fatto che esso, dal 1992, anno della fase più massiccia delle privatizzazioni, al 2012 esso è passato da 850 miliardi di euro a più di 2100 miliardi! ‘.
Abbiamo volutamente riportato quasi per intero l’articolo al fine di ben documentare il suo senso complessivo, abbiamo poi sottolineato quelle parti del discorso in cui ricorrono i termini stato e pubblico, contrapposti alla parola privato, per indicare come in questo discorso la contraddizione di fondo della società capitalista venga presentata come quella fra pubblico e privato. Scopriamo cosa dice invece un nostro testo degli anni 50 ‘’Marx dopo aver trattato il modo con cui il prodotto sociale si divide fra le tre classi base (proprietari del suolo, capitalisti, proletari), formandone il provento economico (meno esattamente il reddito): rendita, profitto, salario, dopo aver dimostrato che il passaggio della prima allo stato non muterebbe l’ordinamento capitalistico, e che nemmeno tutto il passaggio del plusvalore allo stato uscirebbe dai limiti della forma di produzione (in quanto lo sperpero di lavoro vivo ossia l’alto sforzo e tempo di lavoro resterebbero gli stessi per la forma aziendale e mercantile del sistema) conchiude la parte strettamente economica così: [Ciò che caratterizza il modo di produzione capitalista è che la produzione di plusvalore è lo scopo diretto e il motivo determinante della produzione. Il capitale produce essenzialmente capitale, ma non lo fa che producendo plusvalore, Marx ]. Ma la causa non sta per nulla nella esistenza del capitalista, o della classe capitalista, che non solo sono puri effetti, ma effetti non necessari. [Nella produzione capitalista, la massa dei produttori diretti trova davanti a sé il carattere sociale della produzione sotto forma di una autorità meticolosa e di un meccanismo sociale completamente ordinato e gerarchizzato (id est: burocratizzato) ma questa autorità non appartiene ai suoi detentori che in quanto personificazione delle condizioni del lavoro di fronte al lavoro, e non come nei modi di produzione antichi, in quanto padroni politici o teocratici. Tra i rappresentanti di tale autorità i capitalisti, i proprietari di mercanzia, regna la più completa anarchia, nella quale il processo sociale di produzione prevale unicamente come legge naturale, onnipotente in confronto dell’arbitrio individuale, Marx]. (..) Tutto era ben chiaro da allora, e poteva il capitalista o la classe capitalista cessare qua o là di personificare il capitale, che questo sarebbe rimasto, di fronte a noi, contro di noi, quale meccanismo sociale quale onnipotente legge naturale della produzione. ‘‘ Falsa risorsa dell’attivismo’1952.
Bene, il testo è relativo al periodo degli anni 50, una fase storica in cui era molto viva e potente nella classe operaia la convinzione che nello stato russo si incarnasse la quintessenza del socialismo. Anche quell’illusione con il tempo si è sciolta come neve al sole, ma il suo rimpianto si riverbera ancora oggi, in forme diverse e inconsapevoli, nelle dichiarazioni politico-sindacali e negli scritti di vari soggetti. Torniamo all’articolo, esso descrive determinati processi di ristrutturazione capitalistica dell’economia, riportando dei dati numerici oggettivi, tuttavia non comprende che il passaggio dal pubblico al privato o anche viceversa, in una società capitalistica non significano altro che un semplice mutamento di abito, e toccano quindi solo l’apparenza esteriore del dominio di classe, questo mutamento di abito è funzionale al ciclo economico contingente e alle esigenze permanenti di valorizzazione del capitale ( il keinesismo, l’intervento pubblico è solo l’altra faccia della deregulation tatcheriana-reganiana ). Allora ribadiamo una verità elementare, il capitale, sia che indossi la veste pubblica, sia che indossi la veste privata, conserva sempre inalterata la sua carica di sfruttamento e di dominio di classe. Non si possono rimpiangere l’intervento dello stato in economia, le aziende a capitale totalmente pubblico oppure le società controllate o partecipate dagli enti locali, Regioni, Province e comuni, poiché in certe fasi della sua esistenza il modo capitalistico di produzione, per motivi di ordine puramente ciclici, cioè economici e politici insieme, è costretto a trasferire l’amministrazione di alcuni rami dell’economia direttamente al suo apparato statale. Questa circostanza viene spesso mistificata dai socialdemocratici e dagli stalinisti come la prova della presenza di elementi di socialismo dentro l’economia capitalistica. Tale postulato oltre ad essere ridicolo è anche assurdo, perché economia pubblica ed economia privata sono solo le due facce della stessa medaglia capitalista, ed anche l’attuale tendenza all’uniformità degli inquadramenti giuridici dei lavoratori del pubblico impiego e del privato dovrebbe far riflettere coloro che ancora oggi si abbeverano alle favole demo-staliniste. Non è importante la presenza della figura del capitalista privato, già definito da Marx una semplice maschera di carattere, un attore della recita sociale, poiché come scriveva la nostra corrente nel 1952 ‘poteva il capitalista o la classe capitalista cessare qua o là di personificare il capitale, che questo sarebbe rimasto, di fronte a noi, contro di noi, quale meccanismo sociale quale onnipotente legge naturale della produzione ’. Il capitale è un rapporto sociale di dominazione, che si estrinseca in un meccanismo sociale di coercizione e alienazione degli esseri umani; esso si perpetua attraverso l’azione dell’apparato statale, il quale lungi dal rappresentare gli interessi della collettività rispetto al cattivo privato, è invece lo strumento burocratico-poliziesco fondamentale per la continuità del dominio di classe borghese. L’ingenuo articolista rimpiange le aziende di stato, il capitale pubblico e le società controllate o partecipate dagli enti locali, non avvedendosi che il lavoratore salariato pubblico non è meno schiavo del lavoratore salariato privato, così come i milioni di proletari sovietici non erano meno schiavi dei milioni di lavoratori occidentali.
Soltanto alla fine l’articolista riesce ad esprimere delle considerazioni parzialmente vicine alla realtà dei fatti, anche se tali considerazioni sono inficiate dall’idealismo di chi si meraviglia dei capitalisti che da anni hanno scelto di arraffare il più possibile profitti senza curarsi di rischiare in proprio, come se l’esigenza di valorizzazione del capitale dovesse percorrere solo i sentieri canonici del rischiare in proprio contenuti nei manuali scolastici di economia aziendale. Riportiamo comunque la parte finale dell’articolo’ Questi dati chiariscono il vero scopo delle privatizzazioni: dare ossigeno e soccorrere il sistema produttivo e finanziario italiano che non è in grado di competere a livello internazionale, avendo da anni scelto di arraffare il più possibile profitti senza curarsi di rischiare in proprio, di migliorare il servizio, andando alla ricerca del facile guadagno fino al limite massimo dello sfruttamento e del basso costo del lavoro, oggi battuto su questa strada dai paesi ad economie emergenti. Imprenditori bollettari dunque che cercano di continuare a macinare profitti là dove, senza rischi, il guadagno è certo: tutti infatti siamo costretti a pagare salatissime bollette, poiché non possiamo fare a meno dei servizi pubblici essenziali ’.
Apprezziamo il pathos contenuto nelle righe sopraindicate, tuttavia continuiamo a chiederci dove risiede lo scandalo denunciato dal sindacalista, non è forse fisiologico, nella fase senile del capitalismo, che il profitto venga ricercato in tutti i modi percorribili nella realtà economica data; ovvero impieghi finanziari, basso costo del lavoro, evasione fiscale e operazioni similari; possiamo davvero scandalizzarci se la volpe nel pollaio si comporta in un certo modo con le galline ?
(1) “ La critica rivoluzionaria, non lasciandosi incantare dalle apparenze di civiltà e di sereno equilibrio dell’ordine borghese, aveva da tempo stabilito che anche nella più democratica repubblica lo stato politico costituisce il comitato di interessi della classe dominante […]Lo stato politico, anche e soprattutto quello rappresentativo e parlamentare costituisce una attrezzatura di oppressione. Esso può ben paragonarsi al serbatoio delle energie di dominio della classe economica privilegiata, adatto a custodirle allo stato potenziale nelle situazioni in cui la rivolta sociale non tende ad esplodere, ma adatto soprattutto a scatenarle sotto forma di repressione di polizia e di violenza sanguinosa non appena dal sottosuolo sociale si levano i fremiti rivoluzionari”. Forza,violenza, dittatura. Prometeo 1947.