Nota redazionale: Il testo appena riproposto è del 1947, il suo oggetto di analisi, come ben si evince dal titolo, è il ciclo storico dell’economia capitalistica. Nel testo viene subito rimarcata la caratteristica del lavoro associato come momento essenziale di questa economia, insieme alla separazione del prodotto e dei mezzi di produzione dal lavoratore. Mezzi di produzione e prodotto (capitale fisso e circolante, diremmo secondo la vulgata contabile), sono ora in possesso di qualcun altro: ”Quegli che detiene i nuovi mezzi tecnici e si rende possessore dei più complessi strumenti di lavoro che consentono l’opera associata, diviene proprietario del prodotto, ed ai cooperatori della produzione versa una mercede in denaro”.
Il modo di produzione capitalistico si sviluppa già all’interno del feudalesimo: ”Il modo capitalistico di produzione vive già sotto i regimi feudali, semi-teocratici e di monarchia assoluta, ed ha per caratteristica economica il lavoro associato, per cui il singolo operaio non può compiere tutte le operazioni necessarie a confezionare il prodotto e queste invece sono affidate in tempi successivi a vari operatori”.
Il testo descrive in modo vivido la genealogia del nuovo modo di produzione, i contrasti e gli ostacoli affrontati per affermarsi sul piano storico:” Il capitalista ed il salariato sono apparsi, scindendosi dalla figura unitaria dell’artigiano. Ma le leggi della vecchia società feudale impediscono che il processo si generalizzi, immobilizzando in schemi reazionari la disciplina delle arti e dei mestieri, frenando lo sviluppo dell’industria che minaccia la dominante classe dei proprietari terrieri, vincolando il libero flusso delle merci nelle nazioni e nel mondo”.
La rivoluzione borghese nasce come risposta (violenta) ai vincoli e alle pastoie di ogni tipo che ancora frenano la libertà del capitale e della classe sociale ad esso associata:”La rivoluzione borghese sorge da questo contrasto, ed è la guerra sociale che i capitalisti scatenano e conducono per liberare sé stessi dalle servitù e dalle dipendenze dei vecchi ceti dominanti, per liberare le forze della produzione dai vecchi divieti, e per liberare dalle stesse servitù e dagli stessi schemi le masse degli artigiani e dei piccoli possidenti, che devono fornire l’esercito dei salariati e che devono diventare libere di portare al mercato la loro forza di lavoro”.
Soffermiamoci su alcune righe del testo: libero flusso delle merci nelle nazioni e nel mondo…le masse degli artigiani e dei piccoli possidenti, che devono fornire l’esercito dei salariati e che devono diventare libere di portare al mercato la loro forza di lavoro.
Dunque la libertà di circolazione delle merci, su un mercato tendenzialmente globale, e la libertà di vendere la propria energia di lavoro (ai proprietari dei mezzi di produzione) forniscono la cifra iniziale dell’economia capitalistica.
Delle strane libertà, direbbe qualcuno, poiché è di sicuro paradossale che queste ‘libertà’ si traducano nella immediata schiavitù di miliardi di cosiddetti liberi venditori della propria forza-lavoro, naturalmente previa libera circolazione (attraverso territori, nazioni e continenti) di un esercito proletario di riserva, sempre disponibile ad accorrere nei luoghi dove l’economia capitalistica ha più bisogno di forza lavoro da impiegare nei processi produttivi. Essendo i processi produttivi del capitale essenzialmente finalizzati all’appropriazione di plus-lavoro (non retribuito), ne deriva che la libera circolazione di uomini (attraverso territori, nazioni e continenti) è funzionale alla riproduzione del ciclo parassitario dell’economia borghese.
La fase iniziale di sviluppo dell’economia capitalistica si pone dunque sotto il segno (apparente) della libertà: ”E’ questa la prima fase dell’epoca borghese; la parola del capitalismo in economia è quella della libertà illimitata di ogni attività economica, della abrogazione di ogni legge e vincolo posto dal potere politico al diritto di produrre, di comprare, far circolare e vendere qualunque merce cambiabile con denaro, compresa la forza di lavoro. Nella fase liberistica, il capitalismo percorre nei vari paesi i primi decenni del suo grandioso sviluppo. Le intraprese si moltiplicano ed ingigantiscono, le armate del lavoro aumentano progressivamente di numero, le merci prodotte raggiungono quantitativi colossali”.
Tuttavia questa fase (definibile come pieno dispiegamento di alcuni aspetti contenuti solo come potenzialità, nel periodo storico di coesistenza con il feudalesimo) non dura in eterno, infatti ”Le caratteristiche di questo terzo stadio capitalistico, già evidenti nel periodo di preparazione della Prima Guerra Mondiale, sono diventate ancora più patenti dopo di essa. Il sistema capitalistico ha sottoposto ad una revisione importante i canoni che lo ispiravano nella sua fase liberistica. L’espansione sul mercato mondiale delle masse dei prodotti si è accompagnata al tentativo grandioso di controllare il gioco sconvolgente delle oscillazioni dei loro prezzi di collocamento, da cui poteva dipendere il crollo delle colossali impalcature produttive. Le imprese si sindacarono, uscirono dall’individualismo economico, dall’assoluta autonomia della ditta borghese tipica, sorsero i cartelli di produzione, i «trust» si associarono con rigorosi patti le imprese industriali che producevano la medesima merce, al fine di monopolizzare la distribuzione e fissarne i prezzi ad arbitrio. E siccome la maggioranza delle merci costituisce ad un tempo il prodotto venduto da un’industria e la materia prima acquistata da un’altra successiva, sorsero i cartelli «verticali», che controllano, ad esempio, la produzione di determinate macchine, fissando i prezzi di tutti i trapassi, a partire da quelli della originaria industria estrattiva del minerale ferroso. Contemporaneamente si svilupparono e si concentrarono le banche, le quali, appoggiate sui più potenti aggruppamenti capitalistici industriali di ogni paese, controllarono e dominarono i produttori minori ed andarono costituendo in ciascun grande paese capitalistico, in cerchi sempre restringentisi, vere oligarchie del capitale finanziario”.
E dunque arriviamo al ruolo predominante del capitale finanziario e monopolistico, al ruolo delle banche e del debito pubblico, tutti aspetti ben delineati nel lavoro di Marx e poi di Lenin.
La ‘bancocrazia’, un termine usato da Marx nel ‘Capitale’, indica il processo di accentuazione del carattere parassitario del capitalismo, la pura predominanza sociale data dal possesso di capitale monetario-finanziario che assurge a ”sale del mondo”. La pura capacità (talento) di suggere le energie vitali della forza lavoro attraverso il puro possesso di denaro investito in obbligazioni ed azioni di S.P.A (possesso difeso con la violenza latente o cinetica dell’apparato statale), diventa il centro motore dell’universo borghese. Alla figura del borghese imprenditore e capitano d’industria si affianca e sostituisce progressivamente una figura diversa: ” Il borghese non ha più la classica figura del capitano d’industria…Il direttore di fabbrica moderna è anche lui un salariato, più o meno cointeressato ai guadagni, un servo dorato, ma sempre un servo. Il borghese moderno è un tecnico non della produzione, ma dell’affarismo, un riscuotitore di dividendi attraverso un pacchetto di azioni di fabbriche che forse non ha mai visto, un componente della stretta oligarchia finanziaria, un esportatore non più di merci ma di capitali e di titoli capitalistici, fasci di carte che riuniscono nelle sue mani il controllo del mondo”.
Il moderno borghese non è più un tecnico della produzione, ora è diventato un tecnico dell’affarismo, egli riscuote i dividendi sulle azioni o gli interessi sulle obbligazioni, cioè i rendimenti di titoli di proprietà (azioni) o di prestito (obbligazioni) relativi ad imprese dalla forma giuridica di S.P.A, ”che forse non ha mai visto”.
Sono questi fasci di carte ( oggigiorno ormai ridotti a puri bit digitali) che conferiscono ai componenti ‘‘della stretta oligarchia finanziaria”…”il controllo del mondo” (in stretta sinergia/cooperazione con la forza dell’ideologia dominante e con la violenza latente/cinetica incarnata nell’apparato statale borghese).
Date per assodate queste precedenti considerazioni, poniamo per assurdo una domanda: può ipotizzarsi un movimento senza limiti del capitale totale in capitale denaro? E se questa ipotesi è da escludere, allora cosa potrebbe accadere di fronte a una generale tendenza alla ‘finanziarizzazione‘ del capitale? Proponiamo come risposta alcune righe del ‘Capitale’: ”La trasformazione dell’intero capitale in capitale denaro senza che ci sia della gente che acquista e valorizza i mezzi di produzione nella cui forma è presente il capitale totale, a prescindere dalla parte relativamente piccola dello stesso che esiste in denaro – tutto ciò è naturalmente assurdo. E racchiude l’assurdità ancora più grande che, sulla base del modo di produzione capitalistico, il capitale possa produrre interesse senza funzionare come capitale produttivo, cioè senza creare il plusvalore di cui l’interesse non è che una parte; che il modo di produzione capitalistico possa fare il suo corso senza la produzione capitalistica. Se un numero eccessivo di capitalisti volesse convertire il suo capitale in capitale denaro, la conseguenza ne sarebbe un’enorme svalorizzazione del capitale denaro e un’enorme caduta del saggio dell’interesse; molti si troverebbero immediatamente nell’impossibilità di vivere del loro interesse; sarebbero quindi costretti a ritrasformarsi in capitalisti industriali”. MARX, Il Capitale, Libro III, Parte I, Sez. V, cap. XXIII, Interesse e utile d’impresa, UTET, Torino, 1987, pag. 476
Dunque si torna al dato fondamentale dell’economia capitalistica, la produzione capitalistica è produzione di plus-valore, il quale viene poi suddiviso in profitto, interesse e rendita. Quando la caduta del saggio di profitto induce una parte significativa del capitale totale a cercare un rifugio nell’investimento finanziario, e quindi si intravede una tendenza alla ‘trasformazione dell’intero capitale in capitale denaro senza che ci sia della gente che acquista e valorizza i mezzi di produzione’, allora ne può solo conseguire ‘un’enorme svalorizzazione del capitale denaro e un’enorme caduta del saggio dell’interesse’.
Forse queste analisi ‘ottocentesche’ sono utili per comprendere la base delle attuali turbolenze bancarie e finanziarie che si addensano su Eurolandia. Questo è un tema che ci accingiamo a sviluppare nel prosieguo della nota redazionale. La crisi finanziaria mondiale del 2008 ha evidenziato solo le persistenti difficoltà di funzionamento dell’economia capitalistica, innanzitutto nella sfera produttiva dell’industria. Nel settore del credito, Bruxelles e i Governi dei diciannove paesi membri dell’Euro-zona, hanno tentato di riportare le più grandi banche europee in una situazione di stabilità. Tuttavia i problemi persistono. In Italia, un grosso istituto di credito deve ricorrere al sostegno di Stato. Il problema dei debiti inesigibili delle banche italiane ed europee dunque permane. A livello di normativa europea, dalla crisi bancaria di Cipro del 2013, qualcosa è cambiato. Una nuova legge stabilisce che in caso di crisi bancarie, sono preclusi i prestiti pubblici fino a quando i possessori di obbligazioni e i correntisti non si assumano il compito del salvataggio interno, cioè la copertura delle perdite.
Leggiamo cosa scrive Marx: «L’accumulazione di capitale da prestito consiste semplicemente nel sedimentarsi del denaro come denaro suscettibile d’essere prestato. Questo processo è ben diverso dalla reale trasformazione in capitale; non è se non accumulazione di denaro in una forma in cui esso è convertibile in capitale. Ma questa accumulazione, come si è dimostrato, può esprimere momenti assai diversi dalla accumulazione reale. Dato un allargamento costante di quest’ultima, quella accumulazione allargata di capitale denaro può in parte esserne il prodotto, in parte essere il risultato di momenti che la accompagnano pur essendone totalmente diversi, e infine persino di arresti nell’accumulazione reale. Essendo l’accumulazione di capitale da prestito dilatata da fattori che sono bensì indipendenti dalla reale accumulazione, ma tuttavia l’accompagnano, è inevitabile che in determinate fasi del ciclo si verifichi pletora di capitale denaro, e che questa pletora aumenti via via che si sviluppa il credito. Con essa deve al contempo svilupparsi la necessità di spingere il processo di produzione al di là delle sue barriere capitalistiche: eccesso di commercio, eccesso di produzione, eccesso di credito. E tutto ciò deve sempre avvenire, nello stesso tempo, in forme che provocano un contraccolpo.» MARX, Il Capitale, Libro III, Parte seconda, sezione quinta, cap. XXXII, Capitale denaro e capitale reale, UTET, Torino, 1987, pag. 637.
Torniamo dunque al problema della accumulazione/crescita del capitale finanziario e creditizio (‘sedimentarsi del denaro come denaro’), e alla differenza fra accumulazione reale e ‘L’accumulazione di capitale da prestito’. In modo particolare Marx ricorda che i due tipi di accumulazione possono svilupparsi in parallelo, coincidere nei segni + o – (incremento/decremento), ma spesso ‘l’accumulazione allargata di capitale denaro’ può essere il corollario e succedaneo ‘di arresti nell’accumulazione reale’. La sfera dell’investimento finanziario ( ‘L’accumulazione di capitale da prestito’) può dunque sostituire la reale trasformazione del denaro in capitale aziendale (produttivo di plus-valore), quando i tassi di rendimento (saggio di profitto) nell’economia industriale (produttiva di merci e servizi) sono insoddisfacenti.
Tuttavia la ‘pletora di capitale denaro’, non può prolungarsi all’infinito nello spazio-tempo economico, così come l’interesse sui titoli di prestito (obbligazioni) delle S.P.A non può essere pagato (agli obbligazionisti) in assenza di un utile d’esercizio aziendale reale (e quindi di un plus-valore convertito in ricavi di vendita nella sfera della circolazione-distribuzione). Questo il senso economico del collegamento inscindibile fra plus-valore, profitto aziendale, interesse finanziario e rendita. Dunque, questo il senso delle righe in cui Marx spiega che la pletora di capitale denaro è correlata all’aumento del credito, e che tali incrementi (denaro e credito) non sono altro che il segnale della ricerca di ulteriore valorizzazione/accumulazione allargata da parte del capitale totale. Una situazione che implica un solo tipo di risposta: ‘Con essa deve al contempo svilupparsi la necessità di spingere il processo di produzione al di là delle sue barriere capitalistiche: eccesso di commercio, eccesso di produzione, eccesso di credito’. Si torna al punto di partenza, vulcano della produzione versus palude del mercato.
Tuttavia, per spingere il processo di produzione oltre le contingenti barriere capitalistiche, è necessario distruggere un quantum di capitale costante e variabile in eccesso, quindi è necessario porre le basi materiali ed economiche per un rilancio su larga scala del ciclo produttivo (sulle macerie del passato), poiché un ‘eccesso di commercio, eccesso di produzione, eccesso di credito’… deve sempre avvenire, nello stesso tempo, in forme che provocano un contraccolpo’.
Il sistema del credito (bancario/finanziario) viene dialetticamente interpretato da Marx sia come fattore di sviluppo capitalistico, sia come espressione delle interiori contraddizioni di questo sviluppo: «Se il sistema del credito appare come leva principale della sovrapproduzione e sovra-speculazione nel commercio, ciò accade solo perché il processo di riproduzione, che è per sua natura elastico, viene qui spinto al suo limite estremo, e vi è spinto appunto perché una gran parte del capitale sociale viene impiegata da coloro che non ne sono i proprietari, e che, quindi, si lanciano nell’impresa con ben altro spirito del proprietario effettivo, il quale, se e in quanto agisce in prima persona, tiene sempre d’occhio tremando di paura i limiti del suo capitale privato. Ne risulta solo con chiarezza che la valorizzazione del capitale basata sul carattere antagonistico della produzione capitalistica non permette che fino a un certo punto il vero, libero sviluppo, quindi costituisce di fatto un ceppo e una barriera immanente della produzione, che il sistema del credito spezza di continuo. Perciò il sistema creditizio accelera lo sviluppo materiale delle forze produttive e la formazione del mercato mondiale, che il modo di produzione capitalistico ha il compito storico di creare, fino a un certo livello, come fondamento materiale della nuova forma di produzione. Nello stesso tempo, il credito affretta le violente eruzioni di questo antagonismo, le crisi, quindi gli elementi dissolventi del vecchio modo di produzione.
I due caratteri immanenti del sistema del credito: il fatto, da un lato, di sviluppare quella che è la molla della produzione capitalistica, l’arricchimento mediante sfruttamento di lavoro altrui, fino al più puro e colossale sistema di gioco ed imbroglio e di limitare sempre più il numero dei pochi che sfruttano la ricchezza sociale; il fatto, d’altro lato, di costituire la forma di transizione a un nuovo modo di produzione – è questa ambivalenza che dei principali araldi del credito, da Law fino a Isaac Péreire, fa un così piacevole miscuglio di ciarlatano e di profeta.»
MARX, Il Capitale, Libro III, Parte prima, sezione quinta, cap. XXVII, Il ruolo del credito nella produzione capitalistica, UTET, Torino, 1987, pag. 558 – 559.
Le voci su una imminente acutizzazione delle varie patologie del sistema creditizio europeo non devono dunque sortire eccessiva meraviglia, infatti uno degli aspetti del credito è quello di ”affretta(re) le violente eruzioni di questo antagonismo, le crisi, quindi gli elementi dissolventi del vecchio modo di produzione”.
Sul piano economico industriale, nelle crisi, le cose si sviluppano in questo modo: ”Per quanto riguarda la sovrabbondanza di capitale industriale che viene in luce nelle crisi, si deve inoltre osservare: Il capitale merce è in sé, nello stesso tempo, capitale denaro, cioè una data somma di valore espressa nel prezzo della merce. Come valore d’uso, è una determinata quantità di determinati oggetti d’uso, e nel momento della crisi questa quantità è presente in eccesso. Ma come capitale – denaro in sé, come capitale – denaro potenziale, esso va soggetto a costante espansione e contrazione. Alla vigilia della crisi e nel suo ambito, il capitale merce è contratto nella sua qualità di capitale – denaro potenziale: rappresenta per chi lo possiede e per i suoi creditori (come pure in quanto garanzia per cambiali e prestiti) meno capitale denaro che al tempo in cui era stato comprato e in cui erano state concluse le operazioni di sconto e di pegno basate su di esso. Se tale dev’essere il senso dell’affermazione che in tempi di crisi il capitale – denaro di un paese è ridotto, ciò equivale a dire che i prezzi delle merci sono caduti. D’altronde, un tale crollo dei prezzi non fa che compensare la loro precedente lievitazione.» MARX, Il Capitale, Libro III, Parte II, sezione V, cap. XXX, Capitale denaro e capitale reale, UTET, Torino, 1987, pag. 617 – 618
Il ciclo storico dell’economia capitalistica
Il modo capitalistico di produzione vive già sotto i regimi feudali, semi-teocratici e di monarchia assoluta, ed ha per caratteristica economica il lavoro associato, per cui il singolo operaio non può compiere tutte le operazioni necessarie a confezionare il prodotto e queste invece sono affidate in tempi successivi a vari operatori.
A questo fatto tecnico derivato dalle nuove scoperte ed invenzioni, corrisponde il fatto economico che la produzione delle manifatture e delle fabbriche vince per maggiore rendimento e minor costo del prodotto quella della bottega dell’artigiano, ed il fatto giuridico che il lavoratore non è più padrone del prodotto del suo lavoro, e non può porlo a suo vantaggio sul mercato. Quegli che detiene i nuovi mezzi tecnici e si rende possessore dei più complessi strumenti di lavoro che consentono l’opera associata, diviene proprietario del prodotto, ed ai cooperatori della produzione versa una mercede in denaro.
Il capitalista ed il salariato sono apparsi, scindendosi dalla figura unitaria dell’artigiano. Ma le leggi della vecchia società feudale impediscono che il processo si generalizzi, immobilizzando in schemi reazionari la disciplina delle arti e dei mestieri, frenando lo sviluppo dell’industria che minaccia la dominante classe dei proprietari terrieri, vincolando il libero flusso delle merci nelle nazioni e nel mondo.
La rivoluzione borghese sorge da questo contrasto, ed è la guerra sociale che i capitalisti scatenano e conducono per liberare sé stessi dalle servitù e dalle dipendenze dei vecchi ceti dominanti, per liberare le forze della produzione dai vecchi divieti, e per liberare dalle stesse servitù e dagli stessi schemi le masse degli artigiani e dei piccoli possidenti, che devono fornire l’esercito dei salariati e che devono diventare libere di portare al mercato la loro forza di lavoro.
E’ questa la prima fase dell’epoca borghese; la parola del capitalismo in economia è quella della libertà illimitata di ogni attività economica, della abrogazione di ogni legge e vincolo posto dal potere politico al diritto di produrre, di comprare, far circolare e vendere qualunque merce cambiabile con denaro, compresa la forza di lavoro.
Nella fase liberistica, il capitalismo percorre nei vari paesi i primi decenni del suo grandioso sviluppo. Le intraprese si moltiplicano ed ingigantiscono, le armate del lavoro aumentano progressivamente di numero, le merci prodotte raggiungono quantitativi colossali.
L’analisi data da Marx nel Capitale di questo classico tipo di economia capitalistica libera da qualunque vincolo statale, e delle leggi del suo svolgimento, fornisce la spiegazione delle crisi di sovrapproduzione a cui conduce la corsa senza freni al profitto, e delle brusche ripercussioni per cui l’eccesso dei prodotti e la caduta del loro prezzo determinano periodiche ondate di dissesto nel sistema, chiusura e fallimento di imprese, rovesciamento nella nera miseria di falangi di lavoratori.
A queste sue insanabili contraddizioni economiche, nel complicato processo storico pieno di multiformi aspetti locali, di avanzate e di ritorni, di ondate e di contro-ondate, il capitalismo come classe sociale ha la possibilità di reagire? Secondo la classica critica marxista, la classe borghese non possiederà mai una sicura teoria e conoscenza scientifica del divenire economico, e per la stessa sua natura e ragione di essere non potrà instaurare una disciplina delle strapotenti energie da essa suscitate, simile nel classico paragone al mago che non poteva dominare le potenze infernali evocate.
Ma ciò non va scolasticamente interpretato nel senso che manchi al capitalismo ogni possibilità di prevedere e di ritardare, per lo meno, le catastrofi a cui lo conducono le sue stesse vitali esigenze. Esso non potrà rinunziare alla necessità di produrre sempre di più, e nel suo secondo stadio esplicherà senza freni il suo compito di potenziare la mostruosa macchina della produzione, ma potrà lottare per il collocamento di una massa sempre maggiore di prodotti, che minaccerebbe di soffocarlo, ingrandendo fino ai limiti del mondo conosciuto il mercato del loro smercio. Esso entra così nella sua terza fase, quella dell’imperialismo, che presenta nuovi fenomeni economici e nuovi riflessi, che valgono ad offrire certe soluzioni alle crisi parziali e successive dell’economia borghese.
Questa fase non era certo impreveduta per Marx, perché sviluppo della produzione capitalistica e collegamento dei mercati lontani sono fenomeni originariamente e storicamente paralleli: e dialetticamente proprio la scoperta delle grandi vie di comunicazione commerciale è stato uno dei fattori principali del trionfo del capitalismo.
Ma l’analisi delle caratteristiche di questa terza fase, in coerenza completa col metodo marxista, venne data da Lenin nel suo classico studio su L’imperialismo come più recente fase del capitalismo.
Le caratteristiche di questo terzo stadio capitalistico, già evidenti nel periodo di preparazione della Prima Guerra Mondiale, sono diventate ancora più patenti dopo di essa. Il sistema capitalistico ha sottoposto ad una revisione importante i canoni che lo ispiravano nella sua fase liberistica. L’espansione sul mercato mondiale delle masse dei prodotti si è accompagnata al tentativo grandioso di controllare il gioco sconvolgente delle oscillazioni dei loro prezzi di collocamento, da cui poteva dipendere il crollo delle colossali impalcature produttive. Le imprese si sindacarono, uscirono dall’individualismo economico, dall’assoluta autonomia della ditta borghese tipica, sorsero i cartelli di produzione, i «trust» si associarono con rigorosi patti le imprese industriali che producevano la medesima merce, al fine di monopolizzare la distribuzione e fissarne i prezzi ad arbitrio.
E siccome la maggioranza delle merci costituisce ad un tempo il prodotto venduto da un’industria e la materia prima acquistata da un’altra successiva, sorsero i cartelli «verticali», che controllano, ad esempio, la produzione di determinate macchine, fissando i prezzi di tutti i trapassi, a partire da quelli della originaria industria estrattiva del minerale ferroso. Contemporaneamente si svilupparono e si concentrarono le banche, le quali, appoggiate sui più potenti aggruppamenti capitalistici industriali di ogni paese, controllarono e dominarono i produttori minori ed andarono costituendo in ciascun grande paese capitalistico, in cerchi sempre restringentisi, vere oligarchie del capitale finanziario.
Questo, nella definizione di Lenin, assume sempre più carattere parassitario.
Il borghese non ha più la classica figura del capitano d’industria organizzatore e suscitatore di energie nuove in base a risorse e segreti della nuova tecnica, ad intelligente abilità organizzativa delle moderne forme di lavoro associato. Dio nella sua fabbrica, come nell’antico regime lo era il feudatario nelle sue terre, romantico creatore della fusione di energie tra il meccanismo di cui possiede il segreto ed i lavoratori che, prima del padrone devono in lui riconoscere il capo.
Il direttore di fabbrica moderna è anche lui un salariato, più o meno cointeressato ai guadagni, un servo dorato, ma sempre un servo. Il borghese moderno è un tecnico non della produzione, ma dell’affarismo, un riscuotitore di dividendi attraverso un pacchetto di azioni di fabbriche che forse non ha mai visto, un componente della stretta oligarchia finanziaria, un esportatore non più di merci ma di capitali e di titoli capitalistici, fasci di carte che riuniscono nelle sue mani il controllo del mondo.
La classe dominante, sempre soggetta al dinamismo della concorrenza tra ditte imprenditrici, quando si sente sulla soglia della rovina trova alla concorrenza un limite nei nuovi schemi monopolistici, e dalle sue grandi centrali dell’affarismo bancario decreta la sorte delle singole imprese, fissa i prezzi, vende sotto prezzo, quando convenga al raggiungimento dei suoi scopi, fa oscillare paurosamente valori speculativi, e tenta con sforzi grandiosi di costituire centrali di controllo e di infrenamento del fatto economico, negando la incontrollata libertà, mito delle prime teorie economiche capitalistiche.
Per intendere il senso dell’estremo sviluppo di questa terza fase del capitalismo mondiale, si deve, seguendo Lenin, porla in rapporto al corrispondente svolgimento delle forze politiche che l’accompagna, fissare il rapporto tra capitale finanziario monopolistico e Stato borghese, stabilire le sue relazioni con le tragedie delle grandi guerre imperialistiche e con la tendenza storica generale alla oppressione nazionale e sociale.
«Prometeo», n° 5, Gennaio-febbraio 1947