Nota redazionale: Uno dei concetti marxisti continuamente ripetuti in questo testo del 1958 è quello della totale separazione del salariato dalle condizioni del lavoro. Nell’attuale economia capitalistica trova fondamento una tipologia onnipervasiva di alienazione basata sulla espropriazione dei proletari dai mezzi di produzione, dall’organizzazione della produzione e dai prodotti del lavoro (plus-lavoro, plus-valore, plus-prodotto). Nelle formazioni economico-sociali pre-capitalistiche, successive al comunismo originario, tale separazione non era ancora totale. Il testo del 1958 ha anche il pregio di essere decisamente chiaro in merito alla trasformazione della rivoluzione russa nel successivo ‘mostro/incubo’, che poi è diventata, citiamo ” molto avendo detto a suo tempo sul come la Russia ha dato un feudalesimo di Stato; e poi un capitalismo di Stato, avendo la sua rivoluzione rinnegato il cordone ombelicale con la dinamica mondiale rivoluzionaria della concezione marxista, e uccisa poi l’organizzazione che lo esprimeva”. Dunque la rivoluzione si è trasformata in rinnegamento di qualcosa, ovvero il cordone ombelicale con la dinamica rivoluzionaria mondiale, e uccisione di qualcos’altro, ovvero l’organizzazione che esprimeva questo cordone ombelicale.
La tesi (rivoluzione) si trasforma nella sua antitesi (controrivoluzione), poiché il divenire storico è anche, principalmente, una dialettica degli opposti. In un testo del 1951 vengono impiegati, per definire la trasformazione della rivoluzione, i termini ‘sfigurata’ e ‘tradita’ .
Riportiamo dunque le poche righe di ‘Controrivoluzione maestra’ tratte da ‘Battaglia Comunista’ numero 18 del 1951, in cui si usano quei due aggettivi: ”Se alla rivoluzione di Ottobre e di Lenin è succeduta una controrivoluzione apparentemente incruenta – non vi sono state invasioni restauratrici dal di fuori, né cambiamenti formali al potere e al governo, ma d’altra parte è storia che una serie di purghe tremende hanno debellato masse di militanti operai e di partito, della corrente radicale – è poco dire che, Lenin malato e impotente dal 1922, e morto poi nel 1924, Stalin ha sfigurata e tradita la rivoluzione’‘.
Consideriamo la proposizione appena riportata nelle righe di sopra ” Se alla rivoluzione di Ottobre e di Lenin è succeduta una controrivoluzione”.
Dunque, nel divenire dialettico storico, un ente si è trasformato nel suo contrario (il sogno è stato sfigurato in incubo), in parole povere la rivoluzione è diventata una controrivoluzione, rinnegando ”il cordone ombelicale con la dinamica mondiale rivoluzionaria”, uccidendo poi ”l’organizzazione che lo esprimeva”. Dunque essa, la rivoluzione, è stata ”sfigurata e tradita”. Le cause sociali, politiche ed economiche di questo sfigura-mento/tradimento sono esposte ad esempio in modo dettagliato nel testo del 1954 ”Le grandi questioni storiche della rivoluzione russa”. Possiamo esprimere il concetto anche con la formula sintetica ”la rivoluzione ha perso perché la controrivoluzione ha vinto”. In questo caso viene posto l’accento su una dinamica di scontro fra forze in lotta, con la conseguente vittoria di un contendente e la sconfitta dell’altro. Tuttavia le formule e i modi di dire più diffusi in una certa lingua, inevitabilmente, sono spesso limitativi rispetto ad una trattazione analitica, anche se possono avere l’indubbia utilità di spingere il lettore ad approfondirne il senso pieno con letture di grado analitico superiore.
Abbiamo di recente sostenuto che la spinta fondamentale al mutamento sociale è data dall’esistenza di una società divisa in classi di oppressori e oppressi, cioè in termini analitici dalla presenza di rapporti di produzione che pongono in essere determinate classi sociali dominanti e dominate in permanente conflitto.La lotta di classe, in quanto tratto comune delle società divise in classi (antica, feudale, borghese) accomuna, pur nella concretezza delle differenze specifiche, la Russia del 1917 e la contemporanea società classista.
Buona lettura
‘Il programma comunista’ n. 3, 4, 5 e 6 del 1958
Programma mondiale della forma rivoluzionaria comunista
Raccoglieremo le vele di questa corsa attraverso i termini della questione nazionale e coloniale, che chiama sulla scena tutte le forme o modi di produzione dai più antichi ai più moderni – sulla linea di quanto faceva per la Russia del 1917-21 il classico discorso di Lenin sulla Imposta per natura, ed in attesa di ritornare a fondo su tutti gli aspetti storico-geografici del dramma immenso, che di ora in ora seguiamo – ribattendo i capisaldi dei già utilizzati «Grundrisse» di Marx.
La valutazione di ogni forma sociale remota o attuale, prossima o lontana, noi la facciamo contrapponendola alle caratteristiche che la nostra dottrina ha scolpite pel nostro nemicissimo numero Uno: la forma salariale mercantile, ossia il capitalismo. E su tutto si leva come programma dottrinario e come diana di combattimento l’appello per la forma antimercantile di domani di cui alla fine della parte prima di questo scritto abbiamo già data la formula base: non più gli uomini per la demenza della produzione, ma la produzione per la serena pienezza di vita dell’uomo, l’uomo-specie, e se è lecito, poiché partiti dalla ristretta consanguinea orda tribale andiamo oltre la razza e la nazione, l’uomo-umanità.
Prima del sommario elenco delle forme distinte colle stesse parole e frasi di Marx, daremo al teorema storico supremo un’altra espressione rigorosa. La lezione banale del socialismo, come affermato vagamente dai premarxisti e dalle mille posteriori specie di travisatori del marxismo, vuole condannare il capitalismo borghese in quanto «appropriazione» da parte dei singoli di settori di oggetti conquistati alla natura dall’uomo nella serie delle generazioni. La nostra lezione del socialismo è la distruzione del capitalismo in quanto essa è stata «espropriazione» di tutta l’umanità (e soprattutto di quella sua parte in cui il singolo è ridotto alla forma massimamente esaltata dalla ideologia borghese di «libero lavoratore»), «espropriazione» del suo collegamento oggettivo colla natura e col modo in cui l’uomo nella serie delle generazioni ne ha trasformato il campo materiale con una catena di gloriose e dolorose conquiste.
Il legame oggettivo tra le condizioni naturali in cui l’uomo lavora e l’uomo stesso come soggetto singolo e collettivo è ancora vivo nelle forme più antiche che il capitalismo distrugge; muore nella insensata forma borghese in cui il lavoratore ha esistenza meramente subiettiva, e tutto il mondo della natura e delle conquiste della sua specie è messo contro di lui come estraneo, come nemico, come «mostro che lo divora disperdendo l’illusione che il singolo libero possa viverne, divorandolo».
La forma banale della rivoluzione proletaria come una cacciata di usurpatori, che abbiano peccato contro lo Spirito Santo, ha permesso di ridurre la rivendicazione socialista ai risultati più stupidi, in quanto non solo restano nell’ambito della forma borghese mercantile, ma perfino sono fuori del tutto dall’orbita storica che l’umanità o le sue parti descrivono, come la appropriazione sindacale, aziendale, comunale o statale del capitale, accezioni degeneranti e paranoiche della sua appropriazione privata personale.
Nel primo comunismo tribale, si tratti dell’orda nomade o del villaggio fissato sulla superficie agraria, tutto è proprietà, temporanea o stabile, di tutta la comunità. Ogni membro di essa è proprietario o comproprietario rispetto a tutte le condizioni del lavoro, allo stesso titolo degli altri: terra, greggi, primi arnesi del lavoro, prodotti del lavoro. Queste sono un prolungamento materiale del corpo organico dell’uomo e dei suoi arti. La proprietà è prolungamento dell’uomo, come lo strumento della produzione lo è della sua mano prensile. Quest’uomo primitivo esiste oggettivamente nelle relazioni con gli oggetti e la natura, non soggettivamente come oggi nel mito del cittadino deliberante, ma a cui la natura e la sua umana conquista reale sono state chiuse come porte sulla faccia.
Nella seconda forma tribale la proprietà resta comune a tutti, ma vi è una suddivisione temporanea delle condizioni del lavoro tra i gruppi familiari, e tra esse della terra da lavorare. La forma proprietà è in tutti, una forma possesso nei singoli, ma il legame non spezzato tra l’uomo e le condizioni del suo lavoro. La evoluzione è nel senso in cui si è evoluta la famiglia: a monogama, dal matrimonio di gruppo tra i membri dell’orda dei due sessi, alta forma anti-individualista delle «fratrìe» descritte dalla mano maestra di Engels.
Forma della libera proprietà lavoratrice. Forma romana classica. La terra della comunità è parcellata tra i cittadini e le loro famiglie che la lavorano. Una parte della terra resta comune: ager publicus, e tutta la comunità ha facoltà di usarne. Ogni membro della comunità è proprietario. Al centro vi è la città-Stato (polis, civitas) particolarmente guerriera. Il proprietario cittadino è anche soldato combattente. La popolazione cresce, la città conquista nuove terre, che divide ai legionari.
Forma germanica. La città vi ha minore importanza che nella romana. I capifamiglia vivono lontani (sono terre meno fertili e popoli poco densi ancora seminomadi) e si riuniscono solo periodicamente per deliberare e spartirsi o sorteggiarsi a turno le terre. Lo Stato non è accentrato.
In queste forme l’uomo lavoratore è ben legato alle condizioni del suo lavoro. Ruppero tale legame oggettivo la forma schiavista e il servaggio della gleba (orrori esecrati per il liberalismo borghese)? La risposta della nostra dottrina è profonda. Lo schiavo e il servo della gleba sono meno brutalmente del moderno lavoratore libero tagliati via dalle condizioni del loro lavoro. Quando le tribù libere nel loro errare o nel loro stabilirsi geografico divengono troppo numerose per la estensione disponibile, sorge tra esse la lotta. La guerra è un fenomeno di divisione del lavoro; alcuni componenti l’orda, forse gli addetti alla caccia che comporta una lotta cruenta, sono adibiti a difendere la vita e il lavoro di tutti. Debellata una tribù nemica, quale la sua sorte? Engels espone come tra gli antichi americani aborigeni essa veniva sterminata; questo salvava la tribù vittoriosa dalla miscela del sangue, ma soprattutto, deterministicamente, dal triste avvenire della divisione in classi e del sorgere del potere statale. Nella forma europea-romana sorge la schiavitù. Ma come la terra è spartita tra i cittadini che sono tutti agricoltori e soldati, lo saranno i prigionieri dopo aver seguito i carri del trionfo dell’unità superiore, la città-comunità. La schiavitù ha forma privata, in Europa.
Nel lungo corso storico i liberi si dividono tra patrizi e plebei (la distinzione di origine nella dottrina di Marx è che i plebei hanno la piena proprietà quiritaria della terra che lavorano e un godimento sull’ager publicus, che è prima amministrato e poi conquistato in parte come proprietà dei patrizi, sorgendo la grande proprietà terriera); ma tutti possono essere proprietari di schiavi.
Lo schiavo è considerato come una parte oggettiva delle condizioni di lavoro del libero che con la sua terra lo ha conquistato in battaglia. Ma lo schiavo, in questa forma obiettiva e passiva, non è tagliato via dalla terra e dal suo frutto; egli ne mangia col padrone, e per ragioni della nuova divisione sociale del lavoro e nel comune interesse l’uno avrà da mangiare fino a che ne abbia l’altro. Lo schiavo è ridotto alle condizioni dell’animale da gregge che il padrone difende e nutrisce, e (da che l’antropofagia nelle sue rare apparizioni è scomparsa) serve, come dice la stessa Genesi, da collaboratore dell’uomo così come il bue, ma non dà riserva di carne come questo.
Dobbiamo sorvolare le altre stimmate della forma romana. La città prevale sulla campagna per ragioni di direzione politica e militare, ma il lavoro agricolo è più nobile di quello artigiano della civiltà (il contrario nel Medioevo). Progressivamente le famiglie urbane e le gentes nobili, che si richiamano idealmente alle stirpi delle tribù originarie pure, non sono più definite dalla ereditarietà del sangue, ma da circoscrizioni territoriali di distretti di residenza a cui tutti i liberi accedono. Ciò nelle mirabili costituzioni dei demos ateniesi e dei comizi romani, che la ignobile età capitalista ha solo copiato, senza saper salire più oltre, e senza liberarsi dal corporativismo medioevale di mestiere se non in teoria (e dicasi ciò di intere schiere di pseudo-marxisti obliosi del fatto che lo supererà solo l’abolizione della divisione sociale del lavoro).
Riprendiamo l’arduo sentiero dei «Grundrisse» e diciamo della forma germanica. Anche in questi popoli comparve lo schiavo-prigioniero di guerra, ma forse solo al servizio dei condottieri. La servitù si delineò più tardi e soprattutto quando l’onda di quei popoli vaganti ruppe il legame unitario dello Stato imperiale romano, garanzia suprema di stabilità del lavoratore libero sulla sua terra, ossia del suo umano legame colle condizioni del suo lavoro, sola e più nobile espressione delle libertà che l’umanità abbia fin qui conosciuta. Il servaggio, che il cretino borghese tanto disprezza, è forma che più che da un atto di forza nasce da una divisione consensuale di compiti sociali. Il membro dell’orda teutonica passato dal carro alla terra è divenuto pacifico: non ha lo Stato e la patria del legionario-contadino romano. Egli non potrebbe più lavorare o almeno raccogliere il prodotto del suo sudore, se non si accomandasse ad un signore guerriero, in una forma classista a Stato assai poco accentrato. Il servo lavora la terra e il suo signore trae la spada e versa il suo sangue perché la terra sia sicura. Ne mangiano insieme il prodotto.
La sintesi è che in tutte queste forme il lavoratore resta attaccato alle condizioni del suo lavoro. Lo schiavo ed il servo non vanno in guerra, ma combattono per lui oltre che per se stessi il cittadino libero, plebeo o patrizio (fanteria e cavalleria), o il cavaliere medievale, mettendo in gioco la vita perché il legame tra l’uomo e le condizioni del suo lavoro non venga dal nemico infranto.
Comunismo primitivo totale, comunismo a rotazione di possessi, libera proprietà lavoratrice, schiavitù, servitù della gleba.
La serie continua nel modo capitalista. Poiché da tutti i lati esso ci ammorba, inutile è il descriverlo. Marx è ben altro che uno degli economisti intenti a trovargli leggi eterne che i felloni di domani vorranno imporre allo stesso socialismo. Marx descrive la fine e morte del mondo capitalista imputandogli di avere, in opposizione a tutte le forme passate come alla futura comunista, per primo ed unico, attuato il crimine contro natura di tagliare la carne dell’uomo vivo dalle condizioni oggettive della sua vita e attività, che si attuano nel suo lavoro; e questo ribadisce con colpi da muscoloso artiere, inchiodandolo alla sua totale infamia ed immancabile rivoluzionaria distruzione.
Questo continente immenso, dove la forma sociale umana è nata, sarebbe messo fuori da questo arco colossale gettato a cavallo dei millenni! Ciò non potrebbe essere che follia di chi abbia letto il marxismo come generato solo nel seno della società borghese, facendo una sterile copia della liberazione del salariato dal borghese, ricalcata dai tipi retorici di quella dello schiavo dal padrone, o del servo dal nobile, o del suddito dal monarca.
Lo stesso contenuto reale e dottrinale anima nella costruzione di Marx la serie asiatica e quella europea.
Essa parte dalle due forme di comproprietà e compossesso della tribù primigenia: ma al sovrapporsi di tribù a tribù si sostituisce, in gran massima, la formazione anticipata di un potere centrale sovrapposto a tutte le tribù. Per lo storico idealista questo centro prenderà le forme del Dio, del Mito, della casta sacerdotale, del Profeta, dell’Eroe, del Condottiero, del Re, dell’Imperatore Figlio del Cielo. Per noi la differenza, che non muta la linea universale della grande serie, sta nel maggiore pericolo che per la originaria pacifica fratrìa rappresentò non la umana unità vicina, ma piuttosto l’ira della natura, la carestia, la inondazione, il cataclisma tellurico. Da questo una peculiare divisione del lavoro per cui la comunità di villaggio fu condotta a rendere tributo di una parte del prodotto del suo lavoro alla unità centrale che regolava i fiumi e ordinava il territorio con i primi grandiosissimi lavori pubblici. Sorsero così prima Stato, Magistrature Gerarchiche, Eserciti civili – come forse il lontano esercito di Vigili, per la Guerra alla Natura, che avrà la umanità di domani…
Sorsero anche da queste forme la libera proprietà contadina, ma non così fortemente tutelata dal potere centrale come nelle forme europee classiche; la schiavitù e il servaggio. Ma gli schiavi furono schiavi più dello Stato, rappresentato nella sua anche utile funzione dal Despota (che nasce dalla grande leggendaria figura del Patriarca; da cui la definizione di forma asiatica patriarcale), che de ricchi privati, e quando una nobiltà locale volle premere sui servi della gleba, il potere monarchico e amministrativo lottò contro di essa. La forma del Re capo della classe che lavora (Trotzky) non è del resto ignota all’Europa: la calunniata Italia del Sud fu teatro di dure lotte contro i baroni (debellati da due secoli e più, e mal risuscitati ai fini elettorali, in questo secondo e più lurido mezzo Novecento da puzzolenti demagoghi che osano parlare di Marx e di Lenin) condotte dai Re svevi, angioini e spagnoli in parallelo a rivolte vere e proprie dei villaggi agrari e delle folle urbane.
Anche nella serie asiatica appare prima la città in cui il potere centrale ha i suoi nodi di «genio civile e militare» e appare come nel Medioevo europeo l’artigianato manifatturiero urbano. Prima che in Europa, vi appare la moneta ed il mercato interno, ed anche internazionale. Prima che in Europa, appesantiscono la società le classi intellettuali e colte, adoratrici insaziabili del sistema mercantile monetario, e ritarda solo una loro denunzia cosciente da parte della feconda classe manuale che, come primo fece Babeuf dopo la Rivoluzione francese, mette nella storia la Forza contro la Ragione – denunzia cui il contadino è impotente.
Tuttavia oggi la Forza sorge dal basso in sommovimenti formidabili, ed in un momento storico in cui i senza-riserva occidentali, i tagliati-fuori dalle condizioni naturali del loro lavoro, i proletari, sembrano avere dimenticato il lancio dei sassi della rivolta contro gli istruiti, i qualificati di burocratico grado, i pretoriani e gli sgherri statali e di classe di tutte le specie.
Unica via mondiale della dittatura antimercantile
Non abbiamo avuto bisogno di ricordare come la forma slava sia l’anello di congiunzione tra quella d’Europa e quella d’Asia, molto avendo detto a suo tempo sul come la Russia ha dato un feudalesimo di Stato; e poi un capitalismo di Stato, avendo la sua rivoluzione rinnegato il cordone ombelicale con la dinamica mondiale rivoluzionaria della concezione marxista, e uccisa poi l’organizzazione che lo esprimeva.
L’odio del contadino cinese ed orientale contro il mercantilismo interno e straniero che tartassa il suo collegamento al poco cibo che gli lascia la terra, trova a pilotarlo nella difficile via un poco numeroso proletariato industriale asiatico che dalle città – che hanno tuttavia scritto pagine di ribellione non seconde a nessuna tradizione europea – si ponga alla testa della rivoluzione.
L’aiuto della Russia proletaria rivoluzionaria sarebbe davvero stato bastevole a far trionfare anche nella Cina di oggi la dittatura dei proletari ormai sciolti da ogni legame colle condizioni di lavoro, ossia «aventi da perdere nella rivoluzione solo le loro catene, e il mondo da guadagnare» – il mondo dell’oggettività natural-tecnologica – se la controrivoluzione capitalista nei suoi trionfi dopo la prima guerra imperialista non fosse pervenuta, come sempre traditori aiutando, a tagliare il legame tra le dense masse dei proletari europei e il proletariato russo.
La tesi leninista della sintonia tra la lotta contro il capitale imperialista dei lavoratori delle metropoli e dei servi colorati di Oriente avrebbe trionfato, ma negli anni cruciali tra il 1917 e il 1923 lo scontro supremo fu perduto, e la storia dovrà riproporlo domani.
Non dovrà essere dubbio allora, se si sarà saputa vincere la battaglia della teoria, che descrivere il capitalismo nella sua profonda essenza come separazione del lavoratore dalle condizioni del lavoro non significa inserire in una scienza passiva una fredda definizione, ma significa, per il comunismo dialettico, lanciare la consegna incendiaria per la lotta distruttiva del sistema capitalista. Il lavoratore è tagliato fuori dal suo legame con la terra, gli arnesi di lavoro ed il prodotto del lavoro, perché non può più allungare le sue mani su nessuna di queste condizioni; egli è ridotto a una funzione soggettiva morta e perduta perché può toccare una sola cosa: quel pugno di luridi soldi che è il suo salario, e che solo è la sua proprietà.
La caratterizzazione marxista del modo capitalista nei termini che abbiamo trattato, e che mettono al di sopra di esso tutte le forme storiche più antiche in cui l’uomo non era gettato fuori dalla natura e ridotto a strumento del mostruoso Automa della Produzione, esprime che la dittatura proletaria rivoluzionaria dovrà avere un solo bersaglio: il nefando meccanismo mercantile e monetario. Mancando a questo, sarà vittoria del mostro capitalista e non del socialismo, come in Russia è stato. Ma lo scontro si riproporrà ad un proletariato mondiale e inter-razziale che di questo disastro avrà tratta la decuplicata forza di domani.
Base necessaria di questo ciclo immancabile è la sintonia della dottrina tra l’iter storico della razza bianca e quello delle razze di colore, sintonia che va ritrovata tutta nelle Tavole fondamentali della rivoluzione già stabilite da un secolo da Carlo Marx – che non ci consentiamo di elevare da Profeta a portavoce della classe espropriata dal Capitale del suo prolungamento nella Natura e nella Vita – al cospetto delle quali saranno oggi disonorati e sterminati domani i bestemmiatori.
‘Il programma comunista’ n. 3, 4, 5 e 6 del 1958