Mondi caotici

Mondi caotici

“Noi dobbiamo riguardare il presente stato dell’universo come l’effetto del suo stato precedente e come la causa di quello che seguirà.” Pierre Simon de Laplace nell’”Essai pholosophique sur les probabilites”  1814.

Se noi riteniamo corretta tale affermazione abbiamo la risposta del perché …

In apparenza viviamo dentro un mondo segnato da una discreta presenza di fenomeni caotici. Tuttavia a ben osservare, sotto la superficie apparente del caos, si delineano tendenze attrattive e regolarità in grado di farci prevedere, con un buon grado di successo, i possibili scenari di sviluppo degli eventi storici, cioè le alternative storiche possibili sulla base di determinati fattori reali, ovvero le condizioni dello sviluppo del processo rivoluzionario.

Nel corso degli ultimi cinque anni abbiamo tentato di analizzare i principali fenomeni socio-economici e politici del capitalismo, ponendo attenzione alla loro genealogia, alla loro interiore articolazione, e infine al rapporto di interazione del singolo fenomeno con il tutto, quindi con la complessità di cui è una parte componente.

Partendo dalle analisi contenute nel ‘Capitale’, particolarmente nel terzo libro, abbiamo evidenziato il rapporto fra riproduzione allargata, accumulazione, concentrazione e centralizzazione dei capitali, e modifica della composizione (tecnica e organica) del capitale aziendale. Questi processi si svolgono nel quadro economico-aziendale della concorrenza, sospingendo le imprese concorrenti alla continua ricerca di impieghi più efficienti ed efficaci delle risorse tecniche e umane impiegate. La sostituzione del lavoro umano con il macchinario serve ad alleggerire una parte dei costi aziendali, anche se nel medio-lungo termine determina la riduzione percentuale del saggio di profitto ( essendo la forza-lavoro il fattore generatore del plus-valore/profitto). Un effetto derivato dei processi economici anzidetti è la crescita progressiva dell’esercito industriale di riserva di proletari inoccupati, e quindi della miseria crescente (relativa e assoluta) di una parte consistente di proletari. Questo ultimo aspetto è intrecciato al doppio fenomeno del calo della domanda di beni e servizi, particolarmente imponente nei periodi di contrazione del ciclo economico, e allo sviluppo potenziale/attuale della mina sociale della forza-lavoro in eccesso (rispetto ai bisogni di valorizzazione del capitale). Su base economica il vulcano della produzione capitalistica si arena nella palude del mercato, la regolare produzione diventa sovrapproduzione e accelera la comparsa di fenomeni collegati e succedanei. In merito al secondo fenomeno, fermo restando che una riserva proletaria inoccupata è funzionale (fisiologicamente) alle esigenze produttive dell’economia, sia su base temporale (quando si manifesta un ciclo espansivo), sia su base spaziale (quando il capitale ha bisogno di forza-lavoro in un certo luogo), un eccesso di disoccupati diventa invece una mina sociale, pericolosa per l’equilibrio e il ricambio regolare dell’organismo capitalistico. In presenza di questo combinato negativo di cause ed effetti intrecciati, l’organismo socio-economico capitalistico genera degli anticorpi, rappresentati dalle varie forme assumibili (storicamente) dalla distruzione rigeneratrice. Il rituale ciclico di morte e resurrezione dell’accumulazione/valorizzazione del capitale, si manifesta infatti in forme e modi variegati di distruzione del capitale costante e variabile (guerre locali, mondiali, eliminazione di esseri viventi con la fame, le malattie, inflazione, crisi economiche-finanziarie …).

I periodi di crisi accentuano il grado di conflittualità fra i fratelli coltelli borghesi (a livello di semplice concorrenza aziendale, di contesa fra aree economiche infra nazionali, di lotta commerciale fra economie nazionali, o di confronto geo-politico fra aggregati/alleanze sovranazionali). Ognuno tenta di fregare il vicino, di assimilare le sue quote di mercato, i suoi capitali, le sue masse di produttori di plusvalore. In ‘Chaos imperium’ abbiamo ricordato che le potenze capitalistiche più forti cercano con vari pretesti (diffusione della democrazia e difesa dei diritti umani ad esempio), di appropriarsi delle risorse naturali del sottosuolo (petrolio) delle potenze più deboli. Il controllo delle aree petrolifere, delle risorse idriche, delle vie commerciali, può consentire anche a potenze in declino (gli USA) di mantenere una posizione di egemonia globale. Tuttavia il mutamento dei rapporti di forza fra gli attori emergenti dell’economia globale, nei confronti del traballante imperium americano, rende problematica, per quest’ultimo attore, la possibilità di mantenere il trono dell’egemonia. Il debito pubblico e privato americano corrisponde oggi al valore del debito pubblico mondiale, nel giro di dieci anni il debito pubblico USA è raddoppiato. La presenza di una forte componente debitoria, in associazione a un elevato grado di investimenti finanziari, insieme a una elevata incidenza del capitale costante nei processi produttivi, segnala l’esistenza di un capitalismo maturo, vicino alla senescenza. Le economie emergenti possono inizialmente dare un alito di vita a questo cadavere ambulante, offrendo ai suoi capitali in cerca di valorizzazione, delle enormi riserve di forza lavoro a basso costo. Tuttavia nel corso del tempo anche nelle economie emergenti si modifica la composizione organica del capitale aziendale, queste economie diventano adulte, si industrializzano, e allora il cadavere ambulante riparte alla ricerca (ma questa volta insieme alle nuove potenze economiche) di nuovi pascoli di valorizzazione (in altre aree geo-economiche). Il ciclo vitale delle economie emergenti, poiché avviene dentro la cornice di un capitalismo globale senescente, è più breve, più veloce del ciclo di vita delle prime economie capitalistiche. Il caso cinese è esemplare, in pochi decenni la Cina ha racchiuso lo sviluppo che in altre economie è durato un paio di secoli. Afflitta anch’essa da un pesante debito (pubblico e soprattutto privato), ma dotata di maggiori possibilità di investimento di capitali in giro per il mondo, essa percorre delle strade che gli USA difficilmente possono inseguire con successo. La ricetta che accomuna tutti i Players capitalistici, di fronte alla caduta del saggio di profitto e alla crisi, è, inizialmente, l’incremento dello sfruttamento della forza lavoro ancora occupata (plus-lavoro assoluto e relativo). Anche l’aumento della pressione tributaria, inteso come uno strumento per trasferire quote di reddito, risparmio e patrimonio, dalla classe proletaria al capitale finanziario titolare del debito pubblico (quindi per pagare gli interessi sulle cedole), si configura come sfruttamento aggiuntivo indiretto (rispetto a quello direttamente operato nei processi produttivi). Molti economisti borghesi ora riscoprono Keynes, richiedendo a viva voce l’intervento della mano pubblica nella economia, dopo decenni di retorica liberista. In realtà la loro conversione è solo la testimonianza dell’ingranaggio di sempre fra Stato ed economia. Il capitale nasce statale e non smette mai di essere supportato nel corso dei secoli dalle politiche economiche e fiscali, dalla legislazione amica, e infine dalla articolazione poliziesca e giudiziaria fondamentale per il rispetto delle norme. Il supporto di uno stato nazione al capitale nazionale si manifesta in due modi fondamentali: all’interno del territorio nazionale, come capacità di imporre il rispetto delle norme che regolano i rapporti di dominazione/subordinazione fra le classi sociali; e all’esterno del territorio come capacità di negoziazione diplomatica e di proiezione economica e militare a difesa degli interessi della propria borghesia. Questo schema esclude parzialmente gli stati vassalli di altri stati (imperiali), in questo caso il doppio supporto al capitale nazionale di cui parlavamo sopra, è subordinato, viene dopo, la soddisfazione degli interessi dello Stato guida imperiale. La presenza militare italiana in Afganistan ne è un esempio. In questo senso potremmo anche convenire sulla teoria del capitale autonomo, ma al rovescio: uno stato nazione (vassallo) può essere costretto a rendersi autonomo dagli interessi del proprio capitale nazionale, per soddisfare i diktat di una alleanza a guida di uno stato imperiale (e quindi gli interessi del capitale supportato dallo stato imperiale). I rapporti di forza fra conglomerati di potenza strutturale e sovra-strutturale sono soggetti, nel corso della storia, a modificazioni, determinate da fattori economico-sociali e politico-militari. Le capacità produttive della struttura economica sono collegate alla potenza militare e al peso politico di una sovrastruttura statale, mentre le strategie interne e internazionali di un conglomerato ( sintesi di struttura/sovrastruttura) hanno lo scopo di assicurare alla borghesia (quindi al capitale) la non interruzione del processo di appropriazione di plusvalore (dentro il territorio nazionale e anche al di fuori di esso). I giocatori imperiali utilizzano senza scrupoli tutte le armi a loro disposizione, anche l’arma geopolitica del ‘divide et impera’, alias politica del caos, alias destabilizzazione, alias ‘regime chance’ (cambio di regime). Le tendenze di sviluppo del confronto fra potenze capitalistiche sono basate sull’azione dei moderni bestioni statali, i quali si muovono in base alle esigenze della rete di interessi della propria borghesia. In definitiva questi bestioni si rafforzano per concentrare sotto un unico comando mezzi militari e truppe, risorse naturali e capacità produttive, per poi controllare con mezzi adeguati il potenziale aumento del grado di conflitto interno, causato dalle contraddizioni del capitalismo (caduta del saggio medio di profitto, miseria crescente, incremento dell’appropriazione di plus-lavoro assoluto e relativo) e per difendere dalle minacce esterne (di altri bestioni statali/fratelli coltelli) gli interessi della propria borghesia.

Il temine ‘grande gioco’ racchiude l’essenza della lotta per il potere.

Si parla beninteso di un gioco mortale, dai cui esiti può dipendere la distruzione di un giocatore, o addirittura del gioco stesso (guerra/apocalisse nucleare). Ai nostri giorni il grande gioco è innanzitutto lotta per il controllo delle risorse naturali, delle vie commerciali e del plus-lavoro di milioni di schiavi salariati globali. A tal fine il complesso militare industriale dei maggiori stati capitalistici (con annesso e funzionale apparato tecnico-scientifico) si rafforza, e concentra in se stesso la potenza necessaria a rendere effettuali (Machiavelli) le decisioni volte a tutelare la rete di interessi parassitari della propria borghesia (in termini aziendalistici correnti la sua vision e mission) , subordinando alla propria autorità immensi territori, grandi masse umane, e altri stati ridotti alla condizione di vassallaggio. Un articolo del 1951 (‘Libidine di servire’) definisce il gioco imperialistico ‘Big Dance’. Ovvero la grande danza fra gli immensi mostri statali dell’attuale epoca monopolistico-finanziaria, avvinghiati, come dice il testo del 1951, in una gara spietata di parassitismo.

Quando agli inizi del 2000 la Federazione Russa ha ripreso a muoversi con maggiore autonomia sulla scena internazionale, rivendicando una parte del proprio passato di superpotenza, il blocco capitalistico a guida USA ha ripetutamente cercato l’affondo militare per inibire sul nascere le ambizioni del rivale capitalistico.

La Russia, tuttavia, aveva già dimostrato in Cecenia, ma anche negli episodi di lotta al terrorismo sul proprio territorio (teatro Dubrovka) una risoluta determinazione a contrastare ogni forma di destabilizzazione/intimidazione. Tuttavia nell’agosto 2008 viene ancora tentato l’affondo, e l’Ossezia del sud, una repubblica indipendentista filorussa, formalmente parte della Georgia, nazione alleata degli USA, viene occupata dalle truppe georgiane. La risposta russa è brutale, tempestiva ed efficace, infatti dopo poche ore una colonna corazzata russa penetra da nord e sbaraglia le forze georgiane in Ossezia, mentre nei giorni successivi una punta corazzata giunge a pochi km dalla capitale georgiana Tbilisi. Solo una decisione politica ferma i carri russi dalla conquista della città di Tbilisi. Nel 2014, dopo il ‘regime change’ filo occidentale di Kiev, la Russia si riprende la Crimea e la base di Sebastopoli, senza colpo ferire, vanificando l’ennesimo affondo ‘occidentale’ contro i suoi interessi geopolitici. In seguito, la guerra dell’esercito ucraino contro le autoproclamate repubbliche filorusse di Lugansk e Donetz, nonostante i successi iniziali, si trasforma alla fine di agosto 2014 in una catastrofe militare per il governo di Kiev. Anche in questo caso l’affondo militare, fondamentalmente anti-russo, non giunge a segno. La vicenda siriana è storia recente, in essa la Federazione Russa ha giocato la carta militare in un territorio lontano dai propri confini, contribuendo a vanificare i progetti di ‘regime change’ dei propri avversari imperiali, salvaguardando, aumentando e ampliando al contempo le proprie basi aeree e navali in Siria (con l’effetto collaterale del rimescolamento di alcune carte del grande gioco, si pensi solo al riposizionamento della Turchia, all’Egitto, all’Iraq, al Qatar e al governo orientale della Libia). L‘appoggio alle truppe curde siriane da parte degli U.S.A.  o ancora la protezione di non meglio identificati ribelli democratici siriani in un area ai confini con la Giordania, sono mosse difficili da comprendere, in un quadro di sostanziale sconfitta del ‘regime change’. Con queste azioni gli USA e i suoi residui alleati forse si propongono di tenere un piede in Siria, nel tentativo di disturbare l’opera (e gli interessi geopolitici) del blocco di forze avversarie (milizie hezbollah libanesi e irachene, Pasdaran iraniani, Esercito Siriano, Esercito Russo) ormai palesemente vincitrici sui campi di battaglia contro le variegate schiere di ‘ribelli’ più o meno moderati.

Proprio in questi giorni viene condotta una campagna militare dall’esercito siriano, con l’ausilio dell’aviazione russa e siriana, per espugnare la provincia di Idlib, eliminando l’ultima presenza di rilievo di milizie jihadiste. In contemporanea si sta svolgendo l’azione militare della Turchia contro il cantone curdo di Afrin e più a est di Mambij. Tale circostanza deve far riflettere sulle conseguenze ‘caotiche’ della strategia USA in Siria, che pur di ostacolare con tutti i mezzi (esclusa l’autodistruzione nucleare) l’avversario apparato militare industriale russo, ha equipaggiato e assistito le milizie curde siriane YPG, sottovalutando gli interessi  opposti dell’alleato turco (membro della NATO) e la sua determinazione (coincidente, per altri motivi, con quella del governo siriano) di impedire la nascita di una entità statale curda ai propri confini( in altre parole, dal punto di vista turco, la nascita di un’entità statale borghese curda autonoma, concorrente) . Dunque il risultato paradossale, se vogliamo caotico, della strategia USA in Siria, è attualmente quello di spingere il proprio alleato turco (membro della NATO) a entrare in conflitto con le forze curde dell’YPG, peraltro sostenute e appoggiate dagli USA come elemento chiave del proprio intervento e della propria presenza in Siria.

In conclusione lo sviluppo conflittuale delle relazioni fra grandi potenze statali capitalistiche si svolge sul filo del rasoio, le provocazioni militari e gli incidenti si susseguono, e sembra prevedibile che questo trend debba aumentare nei prossimi mesi, anche se appare ragionevole ritenere che l’equilibrio del terrore nucleare spinga alla fin fine a più miti consigli i fautori (soprattutto nel blocco a guida USA) di un confronto inter-imperialistico all’ultimo sangue, alias guerra totale.

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