Nota redazionale: Il testo pubblicato una prima volta nel maggio 2015 (con il titolo ‘Aggregazione, conflitto, repressione: piccola ricognizione sulle attuali proteste del proletariato giovanile’) contiene vari argomenti di interesse immediato, innanzitutto la ricognizione sulle dinamiche di conflitto e aggregazione del proletariato giovanile, e in secondo luogo la chiarificazione teorica di alcuni punti controversi in merito alla condizione proletaria di fabbrica, la critica precisa e puntuale (in base all’evidenza del dettato inequivocabile dei testi marxisti) dell’idea che nell’economia capitalistica possano esserci delle condizioni (attuali, concrete, reali) di abolizione della legge del valore di scambio proprio nel luogo dove maggiore è il grado di alienazione capitalistica (la fabbrica, il luogo di lavoro).
Se sostenessimo che proprio dentro l’inferno del luogo di lavoro l’uomo, materialmente, smetta di essere una merce, uno strumento al servizio del capitale morto, e diventi invece un produttore associato, cooperativo, libero dalla sua condizione di schiavo salariato, potremmo come minimo essere oggetto di sguardi perplessi da parte dai lavoratori salariati (mentre di sicuro saremmo guardati con stupito compiacimento dagli apologeti del sistema). Un filosofo greco, oltre duemila anni fa, per dimostrare che la verità non esiste, sosteneva con abili sofismi una proposizione e poi anche il suo contrario. Il sofisma viene definito dall’enciclopedia: ‘Ragionamento capzioso, in apparenza logico ma sostanzialmente fallace, caratteristico della scuola sofistica presocratica’. ‘Ogni ragionamento che si sostenga su una ingegnosa o cavillosa coerenza formale”.
I sofismi sono il fragile supporto di argomentazioni fallaci, miranti a sostenere l’assurdo, l’impossibile, l’irreale. Perché qualcuno sente il bisogno, allora, di argomentare il nulla? Facciamo un ipotesi: in una situazione sociale devastata dalla controrivoluzione borghese, immersa nei miasmi del pensiero dominante, la condizione di chi si oppone al sistema è difficile, ricca di amarezza e solitudine, e dunque facilmente preda di tentazioni consolatorie e di miraggi.
Il comunismo, il sogno di una società armonica e libera dalla schiavitù del lavoro salariato, appare lontano dall’orizzonte delle cose realizzabili nel breve termine, mentre tutt’intorno regna il caos e il film horror del capitalismo trionfante. Dunque è prevedibile, è statisticamente probabile, che una parte delle fasce sociali che si oppongono al sistema cerchino delle vie di fuga, anche se impossibili e immaginarie, da una realtà tanto dura e crudele. In fondo solo un rimedio alla sofferenza causata dal fetido spettacolo del capitalismo trionfante.
Le deformazioni fataliste-collassiste nella lettura del divenire storico sono associabili, almeno sul piano psicologico, a quanto abbiamo appena scritto.
L’idea che la logica del valore di scambio dentro i luoghi di lavoro, venga negata, ‘de facto’, dalla collaborazione dei lavoratori nello svolgimento delle mansioni assegnate, e che questa collaborazione non avvenga sotto l’egida della legge del valore di scambio (e soprattutto del comando del capitale) , è sbagliata, è una deformazione della teoria marxista perché, Marx docet ‘’ Il processo di produzione ha inizio con l’acquisto della forza- lavoro per un tempo determinato: e questo inizio si rinnova costantemente, appena viene a scadere il termine di vendita del lavoro, e con esso è trascorso un determinato periodo della produzione, settimana, mese, ecc.’…. Poiché il processo di produzione è insieme processo di consumo della forza-lavoro da parte del capitalista, il prodotto del lavoratore non solo si converte continuamente in merce ma anche in capitale: valore che succhia la forza creatrice di valore, mezzi di sussistenza che acquistano persone, mezzi di produzione che adoperano il produttore. Quindi l’operaio stesso produce costantemente la ricchezza oggettiva in forma di capitale, potenza a lui estranea, che lo domina e lo sfrutta, e il capitalista produce con altrettanta costanza la forza-lavoro in forma di fonte soggettiva di ricchezza, separata dai suoi mezzi di oggettivazione e di realizzazione, astratta, che esiste nella pura e semplice corporeità dell’operaio, in breve, egli produce l’operaio come operaio salariato. Questa costante riproduzione ossia perpetuazione dell’operaio è ‘il sine qua non’ della produzione capitalistica…Il processo di produzione capitalistico, considerato nel suo nesso complessivo, cioè considerato come processo di riproduzione, non produce dunque solo merce, non produce dunque solo plusvalore, ma produce e riproduce il rapporto capitalistico stesso: da una parte il capitalista, dall’altra l’operaio salariato” . Marx, il Capitale.
Dunque l’idea che l’operaio, nel lavoro di fabbrica, nella cooperazione con gli altri operai – cooperazione necessaria all’esecuzione dei compiti affidatigli coercitivamente dall’impresa economico-aziendale – durante il tempo di lavoro subordinato, possa essere libero dai legami della legge del valore di scambio, e quindi non sia totalmente mercificato e alienato, è una idea non contenuta in nessun testo di Marx. Già questo piccolo dettaglio potrebbe bastare per chiudere la questione (almeno all’interno di chi si professa marxista).
Tuttavia proviamo a fornire qualche ulteriore chiarimento in merito alla genesi di questa vera e propria assurdità; ammettiamo che qualche provetto sofista, partendo dalla concezione (anche marxista) dell’ homo faber ( più discutibilmente detto ‘uomo fabbrica/industria‘) si convinca che in fondo anche dentro il luogo fisico della fabbrica capitalistica, sia possibile ritrovare intatta e incorrotta (astraendo dal contesto capitalistico generale) la originaria potenza dell’uomo ‘fabbrica’, il quale, modificando praticamente e cooperativa-mente la natura, per centinaia di migliaia di anni ha appreso e memorizzato un sapere vitale, in grado di farlo evolvere. Dunque, essendoci fra i diversi lavoratori una attività di ‘passaggio’ di strumenti e materiale di lavoro impiegati per lo svolgimento delle proprie mansioni, ecco che nella fabbrica capitalista si manifesterebbe ‘materialmente’, oggettivamente, la reviviscenza del mitico ‘uomo fabbrica’, e dunque della base cooperativa del comunismo (passato/futuro). Un lettore smaliziato comprenderà all’istante che tutto il ragionamento risulta viziato da un logicismo cervellotico, sofistico, stridente con i dati della realtà, segno della difficoltà di operare distinzioni sensate fra i fenomeni di ordine e grado diverso. Come dire: il cane ha quattro zampe, il tavolo ha quattro piedi, il bambino cammina appoggiandosi sulle mani e sui piedi, dunque questi tre enti hanno qualcosa in comune che dovrebbe annullare le loro specifiche caratteristiche, cioè le loro differenze. Il marxismo ha chiuso con le vecchie speculazioni metafisiche, ma di certo non può prescindere dalle regole consolidate del pensiero logico. I tre enti sopraddetti (cane, tavolo, bimbo) sono parte di un insieme, dove vengono raccolti tutti gli enti che poggiano su quattro supporti, ma questo essere parti di un insieme tuttavia non li rende identici. Aristotele si era tanto scervellato per chiarire che i fenomeni potenziali o attuali che siano, andrebbero distinti secondo, classi, categorie, generi, forma, sostanza. Indubbiamente la logica marxista è logica dialettica, infatti la descrizione dei fenomeni non è statica, ma dinamica, dunque ben venga la prefigurazione degli sviluppi impliciti anche nell’attuale regime di fabbrica capitalista. Una eventualità di sviluppo di questo regime è il suo rovesciamento, dunque la fine della condizione lavorativa attuale dove il produttore è consumato dal capitale e i mezzi di produzione adoperano il produttore (e i tempi e i ritmi di lavoro sono determinati dall’impulso non umano dell’accumulazione infinita del capitale). Questa eventualità è molto lontana dall’idea del rovesciamento del valore di scambio dentro l’attuale quadro aziendale capitalistico. Qualcuno potrebbe ricordare il sillogismo kautskiano sulla centralizzazione dei capitali, intesa maldestramente come viatico ineluttabile al socialismo, realizzato senza scontri sociali, senza conquista del potere, quasi una guida con il pilota automatico (meccanicismo eterno).
Il fatto che l’uomo abbia avuto e abbia tuttora la caratteristica di agire sull’ambiente per modificarlo e adattarlo ai propri bisogni, non implica affatto la conseguenza illogica che le mansioni lavorative che avvengono oggi, nelle fabbriche del capitale, siano assimilabili a una cooperazione liberata dalla logica del valore di scambio, dunque operante sotto l’egida del valore d’uso. Innanzitutto perché, lo ripetiamo, il cosiddetto ‘passaggio’ di oggetti e strumenti di lavoro fra gli addetti allo svolgimento di determinate mansioni, avviene coercitivamente, sotto il comando del capitale (ricordiamo la vivida espressione di Marx: l’operaio diventa un appendice del macchinario), e in secondo luogo perché come ben ricordato da Marx, la mercificazione della vita umana raggiunge il suo acme proprio dentro la fabbrica. A ulteriore chiarimento citiamo ancora una volta il passaggio di Marx, in cui è scritto a chiare lettere che il proletario viene usato/adoperato dagli strumenti di lavoro/mezzi di produzione: ” il processo di produzione è insieme processo di consumo della forza-lavoro da parte del capitalista, il prodotto del lavoratore non solo si converte continuamente in merce ma anche in capitale: valore che succhia la forza creatrice di valore, mezzi di sussistenza che acquistano persone, mezzi di produzione che adoperano il produttore”.
Ragioniamo su alcuni passi del capitolo 12 del libro primo del capitale.
”Ma che cos’è che produce il nesso fra i lavori indipendenti dell’allevatore di bestiame, del conciatore, del calzolaio? L’esistenza dei loro rispettivi prodotti come merci. E invece che cos’è che caratterizza la divisione del lavoro di tipo manifatturiero? Che l’operaio parziale non produce nessuna merce «Ma non c’è più nessuna cosa che si possa designare come retribuzione naturale del lavoro d’un singolo. Ogni operaio produce solo una parte di un tutto, e poiché ogni parte per se stessa non ha valore od utilità, non c’è nulla che l’operaio possa prendere dicendo: questo è il mio prodotto, e voglio conservarlo per me » (Labour defended against the claims of Capital, Londra, 1825, p. 25). Autore di questo eccellente scritto è il già citato TH. HODGSKIN.”
Nota: le prime righe vanno collegate alla citazione successiva fatta da Marx (di TH. Hodgskin). Dunque, l’operaio parziale, non producendo come l’artigiano una merce, ma solo una porzione di merce, non può dire il mio prodotto finito vale 10, e nemmeno può dire conservo per me il mio prodotto. Come si vede il senso delle righe iniziali si può chiarire solo leggendo le righe successive. Egli (l’operaio parziale) non produce una merce, ma non perché non vengano, nei processi di lavoro interni alla fabbrica, in quel certo momento, prodotte merci, e quindi non valga il valore di scambio. Ecco la risposta di Marx nella riga successiva.
”È solo il prodotto comune degli operai parziali che si trasforma in merce. La divisione del lavoro all’interno della società è mediata dalla compra e vendita dei prodotti di differenti branche di lavoro; la connessione fra i lavori parziali nella manifattura è mediata dalla vendita di differenti forze-lavoro allo stesso capitalista, il quale le impiega come forza-lavoro combinata” (MARX).
Nota: anche queste righe di Marx sono esplicite, Il prodotto comune si trasforma in merce e i lavori parziali che sono interconnessi fra di loro, hanno come elemento di base di essere la ”vendita di differenti forze-lavoro allo stesso capitalista, il quale le impiega come forza-lavoro combinata” (MARX).
Dunque il capitale usa la merce lavoro ‘come forza-lavoro combinata (Marx)’, pienamente soggetta al valore di scambio, anche se ”l’operaio parziale non produce nessuna merce (Marx)”, perché al suo posto la produce il gruppo di lavoro”È solo il prodotto comune degli operai parziali che si trasforma in merce (Marx)”.
Nota: Cosa significa nella manifattura questo essere un gruppo di lavoro, è forse una forma organizzativa che anticipa il comunismo? Riportiamo le righe successive di Marx:”Originariamente l’operaio vende la sua forza-lavoro al Capitalista perché gli mancano i mezzi materiali per la produzione d’una merce: ma ora la sua stessa forza-lavoro individuale vien meno al suo compito quando non venga venduta al capitale; essa funziona ormai soltanto in un nesso che esiste soltanto dopo la sua vendita, nell’officina del capitalista. L’operaio manifatturiero, reso incapace per la sua stessa costituzione naturale a fare qualcosa d’indipendente, sviluppa una attività produttiva ormai soltanto come accessorio dell’officina del capitalista”…”Come sulla fronte del popolo eletto stava scritto che esso era proprietà di Geova, così la divisione del lavoro imprime all’operaio manifatturiero un marchio che lo bolla a fuoco come proprietà del capitale”. ..”Non solo i particolari lavori parziali vengono suddivisi fra diversi individui, ma l’individuo stesso vien diviso, vien trasformato in motore automatico d’un lavoro parziale Dugald Stewart chiama gli operai delle manifatture « automi viventi.., che vengono adoprati per lavori parziali a (Works, ed. da Sir W. Hamilton, Edimburgo, vol. VIII, 1855, Lectures ecc., p. 318)., realizzandosi così l’insulsa favola di Menenio Agrippa che rappresenta un uomo come null’altro che frammento del suo stesso corpo”. (Marx)
Nel tredicesimo capitolo del capitale, Marx passa a descrivere la condizione operaia, dopo l’artigianato e la manifattura, nella grande industria. Nella grande industria le cose cambiano ancora radicalmente: si passa dalla cooperazione soggettiva (fra gli operai parziali) vigente nella manifattura, alla cooperazione oggettiva fra macchinari nel sistema di macchine, che costituisce “in sé e per sé un solo grande automa”: “combinazione di macchine operatrici parziali”, in cui l’operaio diventa un appendice della macchina, isolato dai suoi stessi compagni (libro primo (vol. 2) pp. 79-80 e sgg., ed. Editori Riuniti). Marx fa innumerevoli esempi (il primo quello della macchina delle buste da lettera). Ma possiamo trovare esempi contemporanei: nella industria automobilistica italiana, in cui ancora negli anni ’50, si vedevano gruppi di operai “parziali” affaccendarsi attorno ad un’autovettura, in cooperazione fra loro, alle immagini attuali, in cui si vede un unico operaio davanti ad uno schermo che controlla un macchinario – mostro con i tentacoli, come lo chiama Marx, vale a dire un moderno robot.
Non a caso, Marx con una capacità di previsione incredibile, descrive la futura organizzazione del lavoro all’interno della grande industria: vedere, p. 83, in cui parla del“mostro meccanico, che riempie del suo corpo intieri edifici di fabbriche e la cui forza demoniaca … esplode poi nella folle e febbrile danza turbinosa dei suoi innumerevoli organi di lavoro…”
“Nella manifattura l’articolazione del processo lavorativo sociale è puramente soggettiva, è una combinazione di operai parziali; nel sistema delle macchine la grande industria possiede un organismo di produzione del tutto oggettivo, che l’operaio trova davanti a sé, come condizione materiale di produzione già pronta”(p. 88).
Ciò ha tutta una serie di grandi conseguenze. Oltre alla possibilità di introdurre nella fabbrica il lavoro dei minori e delle donne, per cui il capo famiglia diventa “mercante di schiavi” (p. 99), il prolungamento della giornata lavorativa, l’intensificazione del lavoro, e per quello che qui ci interessa modifica “il carattere del corpo lavorativo sociale”; viene cioè “soppressa la base tecnica su cui si fonda la divisione del lavoro nella manifattura” (p.126):“Nella manifattura e nell’artigianato, l’operaio si serve dello strumento, nella fabbrica è l’operaio che serve la macchina. (…) Nella manifattura gli operai costituiscono le articolazioni di un meccanismo vivente. Nella fabbrica esiste un meccanismo morto indipendente da essi, e gli operai gli sono incorporati come appendici umane (..). Il lavoro alla macchina intacca in misura estrema il sistema nervoso, sopprime l’azione molteplice di muscoli e confisca ogni libera attività fisica e mentale” (128-129).
La cooperazione fra operai nella manifattura lascia il passo alla divisione gerarchica fra gli operai in manovali e sorveglianti del lavoro:“in soldati semplici dell’industria e in sottufficiali dell’industria”, (p. 130) all’interno del regime di fabbrica in cui si crea una disciplina da caserma (p. 130 e sg.).
Dunque l’essenziale dei processi interni, tecnici, della produzione capitalistica non è dato dalla negazione della legge del valore di scambio, ipotizzata erroneamente in considerazione del reale passaggio di oggetti e strumenti che avviene fra operaio e operaio, o fra operaio e macchina, in apparenza indipendentemente dal precedente scambio di un salario contro un certo tempo di lavoro; l’essenziale è il consumo della forza lavoro, all’interno di un processo lavorativo in cui sono i mezzi di produzione che adoperano il produttore. Il precedente scambio di forza-lavoro in cambio di un salario, non viene negato in nessuna frazione successiva di tempo di lavoro interno alla fabbrica, poiché in ogni istante di impiego la forza lavoro operaia viene consumata, e obbligata a farsi adoperare dai mezzi di produzione, e in fondo l’atto formale di compravendita traccia la sostanza del senso del successivo tempo di lavoro alienato (una merce al servizio del capitale, per l’intero tempo previsto dal contratto, le cui abilità e capacità di lavoro sono sussunte dentro il lavoro morto cristallizzato in mezzi di produzione che adoperano il produttore ). Marx sostiene solo che il capitalismo ha consentito lo sviluppo delle forze produttive , attraverso il superamento delle piccole unità di produzione artigiane, predominanti nell’economia feudale, a vantaggio della manifattura, la quale implica la divisione del lavoro in precedenza svolto in toto dall’artigiano. La divisione del precedente lavoro svolto da un artigiano fra più operai cooperanti è l’unico dato di fatto reale, esso è assimilabile alla logica cooperativa dell’homo faber del comunismo primitivo solo attraverso una errata (sofistica, cervellotica) argomentazione priva di rigore logico, incapace di operare le necessarie distinzioni fra i differenti fenomeni dell’esperienza. Ancora di più, non basterà rovesciare l’attuale logica capitalistica finalizzata alla produzione di merci (inglobanti un quantum di plus-lavoro/plusvalore, da monetizzare nella sfera della circolazione/distribuzione), pensando poi di poter impiegare senza radicali modificazioni l’attuale lavoro associato di fabbrica.
E’ banale ricordare che tempi e ritmi di lavoro, organizzazione dei reparti e degli uffici, e soprattutto cosa produrre e quanto produrre, in un modello economico-sociale diverso saranno radicalmente antitetici rispetto all’attuale modello.
Il sofisma che tenta di dimostrare che il comunismo sarebbe già, in modo attuale e non solo potenziale, presente nella struttura economica della nostra società, è dunque un chiaro segnale di un pensiero utopico, espressione anche del turbamento causato dall’attuale periodo controrivoluzionario in alcune persone, e del conseguente bisogno di compensazioni illusorie (il paradiso dietro l’angolo). Le chiare righe del testo di Marx (Il Capitale) che vi proponiamo smentiscono questo errore teorico, senza ombra di dubbio, a chiare lettere, e senza possibilità di appello per ulteriori sofismi: ‘ Il processo di produzione ha inizio con l’acquisto della forza- lavoro per un tempo determinato: e questo inizio si rinnova costantemente, appena viene a scadere il termine di vendita del lavoro, e con esso è trascorso un determinato periodo della produzione, settimana, mese, ecc. Ma l’operaio viene pagato soltanto dopo che la sua forza-lavoro ha operato e ha realizzato in merci tanto il proprio valore che il plusvalore’. Marx (Il Capitale) . L’acquisto di forza-lavoro, per un tempo particolare, coincide con l’inizio del processo di produzione, tuttavia l’operaio viene pagato alla fine del ciclo in cui ha riprodotto in merci sia il valore del salario da ricevere che il plus-valore per il capitale. Nella fase di impiego della sua forza-lavoro egli è paragonabile ad uno strumento a disposizione del suo acquirente capitalista; egli (il proletario) ha infatti venduto in modo formalmente libero una porzione del suo tempo giornaliero di vita, ed in seguito a questa cessione di tempo di vita (e di corrispondente energia vitale utilizzabile dall’impresa sotto forma di forza di lavoro), ogni porzione di esistenza lavorativa di fabbrica ricade pienamente, in un tempo di acquisto e vendita di se stesso, una vera e propria mercificazione racchiusa nella clausola leonina di scambio iniziale propostagli dal capitale. In questo senso, forse, va letta la precedente citazione di Marx : ‘questo inizio si rinnova costantemente, appena viene a scadere il termine di vendita del lavoro, e con esso è trascorso un determinato periodo della produzione, settimana, mese, ecc”. La mercificazione della vita del proletario si rinnova costantemente, poiché si rinnova sempre‘ Il processo di produzione (che) ha inizio con l’acquisto della forza- lavoro per un tempo determinato‘ MARX.
Il capitale autonomo e l’indebolimento degli stati borghesi sono gli altri due aspetti di rilievo della deformazione dottrinaria dei fondamentali del marxismo,convergenti, insieme alle precedenti deformazioni, alla conclusione che sia possibile cambiare il sistema per via spontanea, fatalista, gradualista (il capitale uccide se stesso), basandosi sui sofismi apodittici, inverificabili e indimostrabili,di un preteso determinismo assoluto (basato peraltro sull’idea dell’infallibilità della scienza borghese, ma vedere cosa dicono a proposito le tesi di Napoli).
Il lettore che abbia la pazienza di spulciare le pagine del nostro sito, troverà vari articoli dedicati alle posizioni da noi definite ‘collassiste/fataliste-meccaniciste’. Ad esempio nel maggio / giugno 2015 abbiamo pubblicato ‘Storia e dialettica’ e ‘Alcune critiche alle letture collassiste dei fenomeni sociali’, nell’autunno 2015 ‘Scienza, tecnologia e apparato militare-industriale’.Inoltre nella home page, in alto, è possibile leggere due testi che raccolgono il materiale dedicato al presunto ‘indebolimento degli stati borghesi’, e al cosiddetto ‘capitale autonomo‘. Anche l’articolo del maggio 2015, ripubblicato nel mese di aprile 2018, sotto il titolo ‘Sul presunto rovesciamento della legge del valore di scambio…’ è utile per comprendere e seguire una modulazione particolare del leitmotiv ‘comunismo già esistente’, che si collega in via indiretta alle conclusioni del filone ‘collassista/fatalista-meccanicista’. Senza volere ripetere le argomentazioni critiche contenute nei testi appena ricordati, ma anche le critiche presenti in altri articoli del sito, si può comunque concludere che oltre alla caratteristica di sminuire il ruolo del partito, questo filone di pensiero utilizza delle procedure dimostrative apodittiche (nel senso che i nuovi concetti, sono autosufficienti e autoreferenziali, quindi non richiedono la comprova di altri testi, e soprattutto la comprova dei fatti storici). Così è detto e così deve essere. Sulla base di questa ultima peculiarità, siamo propensi a concludere che in assenza della comprova dei dati storici, il lettore che condivide le suddette verità apodittiche, deve possedere almeno un elevato grado di fede personale nella fonte che comunica, cosa che implica un rapporto di tipo prevalentemente profetico-carismatico fra il fedele lettore e il creatore/diffusore delle inverificabili teorie collassiste/fataliste.
Se il processo produttivo e riproduttivo del capitale è totalmente dominato dalla legge del valore di scambio mercantile, oltretutto nella forma del patto leonino della compravendita di forza-lavoro x+1 in cambio di un salario x, allora solo la rottura da un punto di realtà esterno al processo economico-aziendale, cioè dal punto politico della lotta di classe proletaria per la distruzione dell’apparato di potere della classe borghese, può consentire la ‘transizione’ a un nuovo modo di produzione.
Il capitale autonomo e l’indebolimento degli stati borghesi sono gli altri due aspetti di rilievo della deformazione dottrinaria dei fondamentali del marxismo,convergenti, insieme alle precedenti deformazioni, alla conclusione che sia possibile cambiare il sistema per via spontanea, fatalista, gradualista (il capitale uccide se stesso), basandosi sui sofismi apodittici, inverificabili e indimostrabili,di un preteso determinismo assoluto (basato peraltro sull’idea dell’infallibilità della scienza borghese, ma vedere cosa dicono a proposito le tesi di Napoli).
Ultima considerazione, il rapporto fra i processi di centralizzazione e concentrazione e la svalorizzazione/distruzione. Il capitalismo si sviluppa come un processo di centralizzazione e dissoluzione già dall’inizio, quando al contatto con le economie pre-capitalistiche il capitale nascente le demolisce. Nel corso del suo sviluppo l’economia capitalistica si caratterizza per l’elevato grado di concorrenza fra capitali diversi (imprese economico-aziendali), e per la regolare dissoluzione/sconfitta di quelle più deboli a vantaggio di quelle che risultano più forti. Con lo sviluppo e l’acutizzazione dello stato di crisi permanente, il processo di centralizzazione/socializzazione della produzione e di dissoluzione si acutizza a sua volta, con la contrazione della produzione che ogni economia nazionale o area economica sovranazionale vorrebbe scaricare sugli altri.
Il processo di centralizzazione/dissoluzione del capitale (autofagocitazione) diviene esplicito nel fenomeno dell’economia sommersa. L’economia sommersa supera le vecchie regole/norme legali che impediscono il movimento di valorizzazione alle imprese dotate di grande capitale fisso, attraverso la concessione e l’appalto. ‘L’impresa o appaltatore dei lavori, presenta questi caratteri: 1. Non ha un officina, fabbrica, stabilimento proprio, ma a volta a volta installa il ‘cantiere’ e gli stessi uffici in sede posta a disposizione del committente. 2. Può avere degli attrezzi o anche macchine proprie, ma più spesso, dislocandosi in località disparate o lontane, o li noleggia o li acquista e rivende sul posto. 3. Deve in teoria disporre di un capitale liquido da anticipare per materie prime e salari, ma va notato che lo ottiene con facilità dalle banche…’. Proprietà e capitale, cap.12. La moderna impresa senza proprietà. L’appalto e la concessione forme anticipate della evoluzione capitalista presente, vedere Prometeo numeri 10-14 del 1948.
Di fronte a un panorama di impossibilità strutturale di prosecuzione del ciclo di valorizzazione del capitale, stante la persistente sovrapproduzione di merci e sovraccumulazione e svalorizzazione(1) di capitali, L’ECONOMIA SOMMERSA rappresenta uno sbocco temporaneo alla caduta storica permanente del saggio medio di profitto. Da un punto di vista pratico tale branca dell’economia capitalistica si associa ad attività spesso oscure e ‘illegali’, ma soprattutto disperde e diffonde in mille rivoli una porzione del lavoro associato di fabbrica precedente, rendendolo solitario lavoro domestico, a domicilio, svolto in cantine o luoghi di fortuna (smentendo con i fatti anche le idee/illusioni sulla ‘potenza’ associativa del lavoro di fabbrica, capace di sbaragliare la legge del valore di scambio).
L’economia sommersa produce normalmente merci di bassa qualità, funzionali al prolungamento dello sciupio, cioè al consumismo, donando un alito di vita ad una frazione dei capitali in cerca di valorizzazione e monetizzazione del plus-lavoro/plus-valore attraverso la vendita nella sfera della circolazione (seppure nel contesto permanente di sovrapproduzione e caduta del saggio di profitto generale, determinati dalla caduta della domanda, a sua volta determinata dalla legge della miseria crescente).
Post scriptum: vorremmo fare una candida domanda ai teorizzatori della negazione del valore di scambio; avete costruito, partendo da due righe di Marx, che si limitavano solo a ricordare che la merce prodotta dall’industria capitalistica è il risultato della cooperazione di operai diversi (parziali), un grattacielo di ragionamenti che, guarda caso, il povero Marx non aveva mai lontanamente immaginato, e che di conseguenza non è rintracciabile in nessuna pagina della sua mastodontica produzione. Dunque si tratta di novità, scoperte teoriche, aggiornamenti, non presenti nei testi di Marx e nemmeno nella pubblicistica della corrente degli anni 40, 50. 60, 70 (e neppure in quella dei primi tre decenni del secolo scorso). Allora, ed ecco la domanda, avete forse voi avuto la bravura di completare la teoria marxista, a cui mancava ancora la parte sulla negazione del valore di scambio realizzata attraverso la cooperazione degli operai parziali?
(1) Svalorizzazione (sovraccumulazione) generale vuol dire eccedenza di capitali di varia specie che perdono il proprio valore precedente o addirittura ogni valore. Fallimento dei loro proprietari. Un capitale inutile poiché incapace di produrre valori, quindi merci che possano essere vendute in modo redditizio, cioè con un margine adeguato di profitto.
Postilla: brani scelti dal capitolo 12 del libro primo del Capitale di Marx
Anche la manifattura dei panni e tutta una serie di altre manifatture sono sorte dalla combinazione di differenti mestieri sotto il comando di uno stesso capitale
Ma intanto circostanze esteriori inducono ben presto ad utilizzare altrimenti il concentramento degli operai nello stesso ambiente e la contemporaneità dei loro lavori.
Dunque la manifattura ha origine, cioè si elabora dal lavoro artigianale, in duplice maniera. Da un lato, parte dalla combinazione di mestieri di tipo differenti, autonomi, i quali vengono ridotti a dipendenza e unilateralità fino al punto da costituire ormai soltanto operazioni parziali del processo di produzione d’una sola e medesima merce che si integrano reciprocamente. D’altro lato la manifattura parte dalla cooperazione di artigiani dello stesso tipo, disgrega uno stesso mestiere individuale nelle sue differenti operazioni particolari, e le isola e le rende indipendenti fino al punto che ciascuna di esse diviene funzione esclusiva d’un operaio particolare. Quindi la manifattura, da una parte introduce o sviluppa ulteriormente la divisione del lavoro in un processo di produzione; dall’altra parte combina mestieri prima separati. Ma qualunque ne sia il punto particolare di partenza, la sua figura conclusiva è sempre la stessa: un meccanismo di produzione i cui organi sono uomini.
Per intendere esattamente la divisione del lavoro nella manifattura è d’importanza essenziale tener fermo ai punti seguenti: in primo luogo, qui l’analisi del processo di produzione nelle sue fasi particolari coincide completamente con la disgregazione d’una attività artigianale nelle sue differenti operazioni parziali. Composta o semplice l’operazione rimane artigianale, e quindi dipendente dalla forza, dalla abilità, dalla sveltezza e dalla sicurezza dell’operaio singolo nel maneggio del suo strumento. Il mestiere rimane la base. Questa base tecnica ristretta esclude una analisi realmente scientifica del processo di produzione, poiché ogni processo parziale percorso dal prodotto dev’essere eseguibile come lavoro parziale artigianale. E proprio perché a questo modo l’abilità artigianale rimane fondamento del processo di produzione, ogni operaio viene appropriato esclusivamente ad una funzione parziale, e la sua forza-lavoro viene trasformata nell’organo di tale funzione parziale, vita natural durante. Infine questa divisione del lavoro è una specie particolare della cooperazione, e molti dei suoi vantaggi scaturiscono dalla natura generale della cooperazione, e non da questa sua forma particolare.
La manifattura produce infatti il virtuosismo dell’operaio parziale riproducendo all’interno dell’officina la separazione originale e naturale dei mestieri che ha trovato nella società, e spingendola sistematicamente all’estremo. D’altra parte la sua trasformazione del lavoro parziale nella professione a vita d’un uomo corrisponde all’istinto di società più antiche di rendere ereditari i mestieri, di fossilizzarli in caste o di ossificarli in corporazioni, quando determinate condizioni storiche generino una variabilità dell’individuo incompatibile con il sistema delle caste. Le caste e le corporazioni derivano dalla stessa legge di natura che regola la divisione delle piante e degli animali in specie e sottospecie, solo che ad un certo grado di sviluppo l’ereditarietà delle caste o l’esclusività delle corporazioni viene decretata come legge della società
D’altra parte, la continuità d’un lavoro uniforme distrugge la forza di tensione e di slancio degli spiriti vitali, che trovano ristoro e stimolo nel variare dell’attività stessa.
Quella simultaneità deriva, certo, dalla forma cooperativa generale del complessivo, però la manifattura non solo trova presenti le condizioni della cooperazione, ma le crea in parte per la prima volta, scomponendo l’attività di tipo artigianale. D’altra parte essa raggiunge questa organizzazione sociale del processo lavorativo solo saldando uno stesso operaio ad uno stesso particolare.
Poiché il prodotto parziale di ogni operaio parziale è insieme nulla più d’un grado particolare di sviluppo dello stesso manufatto, quel che un operaio consegna all’altro, oppure un gruppo di operai consegna all’altro gruppo, è la materia prima di quest’ultimo operaio o gruppo. Il risultato del lavoro dell’uno costituisce il punto di partenza del lavoro dell’altro. Quindi un operaio occupa qui l’altro direttamente. Il tempo di lavoro necessario per raggiungere l’effetto utile prefisso in ogni processo parziale viene accertato in base all’esperienza, e il meccanismo complessivo della manifattura poggia sul presupposto che in un tempo di lavoro dato si raggiunga un risultato dato. Solo con questo presupposto i differenti processi di lavoro che si integrano reciprocamente possono continuare ininterrottamente, uno accanto all’altro nel tempo e nello spazio. È evidente che questa diretta dipendenza reciproca dei lavori e quindi dei lavoratori, costringe ogni singolo individuo ad adoperare per la sua funzione solo il tempo necessario, e che così si genera una continuità, uniformità, regolarità, un ordine « Quanto maggiore la varietà degli artefici in ogni manifattura.., tanto maggiore l’ordine e la regolarità di ogni lavoro. Questo dev’essere compiuto necessariamente in meno tempo, la fatica dev’essere minore » (The Advantages of the East India Trade, p. 68) e in ispecie anche una intensità di lavoro molto differenti da quelle del mestiere indipendente o anche della cooperazione semplice. Nella produzione delle merci, il fatto che si adoperi per una merce soltanto il tempo di lavoro socialmente necessario per la sua produzione, si presenta in genere come costrizione esterna della concorrenza, perché, per esprimerci superficialmente, ogni singolo produttore deve vendere la merce al suo prezzo di mercato. Invece nella manifattura la fornitura di una data quantità di prodotti entro un tempo di lavoro dato diventa legge tecnica dello stesso processo di produzione
Macchinario specifico del periodo della manifattura rimane l’operaio complessivo stesso, combinato di molti operai parziali. Le differenti operazioni che il produttore d’una merce compie alternandole e che s’intrecciano nell’insieme del suo processo di lavoro, lo impegnano in varie maniere. In una operazione egli deve sviluppare più forza, in un’altra più destrezza, nella terza più attenzione mentale, ecc., e lo stesso individuo non possiede allo stesso grado tutte queste qualità. Dopo che le diverse operazioni sono state separate, rese indipendenti ed isolate, gli operai vengono suddivisi, classificati e raggruppati a seconda delle loro qualità prevalenti. Le loro particolarità naturali costituiscono il tronco sul quale s’innesta la divisione del lavoro, ma poi la manifattura sviluppa, una volta che sia stata introdotta, forze-lavoro che per natura sono adatte soltanto a una funzione particolare unilaterale. Allora il lavoratore complessivo possiede tutte le qualità produttive a uno stesso grado di virtuosismo e le spende allo stesso tempo nella maniera più economica, in quanto tutti i suoi organi, individualizzati in particolari operai o gruppi di operai, li adopera esclusivamente per le loro funzioni specifiche « Il padrone della manifattura può procurarsi, dividendo il manufatto in parecchie operazioni diverse, ognuna delle quali richiede gradi differenti di destrezze di forza, quella precisa quantità di forza e di destrezza che corrisponde ad ogni operazione. Se invece un solo operaio avesse da eseguire tutto il manufatto, lo stesso individuo dovrebbe possedere abilità sufficiente per le operazioni più delicate e forza sufficiente per le operazioni più faticose » (CH. BABBAGE, On the Economy ecc., cap. XIX).. L’unilateralità e perfino l’imperfezione dell’operaio parziale diventano perfezione di lui come uno delle membra dell’operaio complessivo Per esempio, sviluppo unilaterale di certi muscoli, deformazione delle ossa, ecc.. L’abitudine di compiere una funzione unilaterale lo trasforma nel l’organo di tale funzione, che opera sicuramente e naturalmente, mentre il nesso del meccanismo complessivo lo costringe ad operare con la regolarità della parte d’una macchina Il signor Wm. Marshall, general manager d’una manifattura di vetrerie, risponde molto giustamente alla domanda d’un commissario inquirente sul come si mantenesse viva la laboriosità fra i ragazzi ch’egli impiegava: « Non possono trascurare il loro lavoro: appena abbiano incominciato a lavorare non possono non continuare a lavorare; sono proprio come parti di una macchina » (Child. Empl. Comm., Fourth Report, 1865, p. 247)..
Poiché le diverse funzioni dell’operaio complessivo sono più o meno semplici o composte, basse o elevate, i suoi organi, cioè le forze-lavoro individuali, richiedono diversissimi gradi di preparazione ed hanno quindi diversissimi valori. Perciò la manifattura sviluppa una gerarchia delle forze-lavoro alla quale corrisponde una scala dei salari. Se da una parte l’operaio individuale viene appropriato e annesso per la vita ad una funzione unilaterale, anche le diverse operazioni del lavoro vengono adattate a quella gerarchia di abilità naturali ed acquisite Il dott. Ure, nella sua apoteosi della grande industria, percepisce i caratteri peculiari della manifattura più nettamente degli economisti precedenti che non avevano il suo interesse polemico e perfino dei suoi contemporanei, per esempio il Babbage, che certo gli è superiore come matematico e meccanico, ma tuttavia concepisce la grande industria veramente solo dal punto di vista della manifattura. L’Ure osserva: «L’appropriamento degli operai a ciascuna operazione particolare costituisce la sostanza della distribuzione dei lavori». D’altra parte designa tale distribuzione come «adattamento dei lavori alle differenti capacità individuali » e definisce infine tutto il sistema manifatturiero come «un sistema di graduazioni secondo il grado dell’abilità », «una divisione del lavoro secondo i diversi gradi di abilità ecc. » (URE, Philosophy of Manufactures, pp. 19-22, passim). . Però ogni processo produttivo esige certe manipolazioni semplici, delle quali è capace ogni uomo, così com’è per natura. Anche queste vengono ora sciolte dalla loro fluida connessione coi momenti più sostanziosi dell’attività e vengono ossificate in funzioni esclusive.
Quindi la manifattura genera in ogni mestiere che afferra una classe di cosiddetti operai senza abilità, la quale era rigorosamente esclusa nella conduzione a tipo artigianale. Certo, la manifattura sviluppa fino al virtuosismo, a spese della capacità lavorativa complessiva, la specializzazione resa del tutto unilaterale; ma comincia anche a fare una specializzazione della mancanza di ogni evoluzione. Accanto alla graduazione gerarchica, ecco la separazione semplice degli operai in abili e non abili. Per questi ultimi, le spese di tirocinio scompaiono del tutto; per i primi esse diminuiscono, in confronto dell’artigiano, in conseguenza della semplificazione della funzione. In entrambi i casi diminuisce il valore della forza-lavoro «Ogni artigiano che.., veniva messo in istato di perfezionarsi con la pratica in una operazione singola.., diventava un operaio più a buon mercato » (URE, Philosophy cit., p. 19). . Si hanno eccezioni in quanto la scomposizione del processo di lavoro genera nuove funzioni comprensive che nella conduzione artigianale non si avevano o non si avevano nello stesso volume. La svalorizzazione relativa della forza-lavoro, che deriva dalla scomparsa o dalla diminuzione delle spese di tirocinio, implica immediatamente una più alta valorizzazione del capitale, poiché tutto ciò che abbrevia il tempo necessario alla riproduzione della forza-lavoro, prolunga il dominio del plus-lavoro.
4. DIVISIONE DEL LAVORO NELLA MANIFATTURA E DIVISIONE DEL LAVORO NELLA SOCIETÀ.
Abbiamo considerato prima l’origine della manifattura; poi i suoi elementi semplici, cioè l’operaio parziale e il suo strumento; infine il suo meccanismo complessivo. Ora toccheremo in breve il rapporto fra la divisione manifatturiera del lavoro e la divisione sociale del lavoro, la quale costituisce la base generale di ogni produzione di merci.
Se si tiene presente soltanto il lavoro per sé preso, si può designare la separazione della produzione sociale nei suoi grandi generi, come agricoltura, industria, ecc., come divisione del lavoro in generale; la ripartizione di questi generi di produzione in specie e sottospecie, come divisione del lavoro in particolare; e infine la divisione del lavoro entro una officina come divisione del lavoro in dettaglio La divisione del lavoro parte dalla separazione delle professioni meno somiglianti giungendo progressivamente fino a quella divisione nella quale più operai si dividono la confezione d’un solo identico prodotto, come nella manifattura (STORCH, Cours d’Économie Politique, ed. di Parigi vol. I, p. 173). « Presso i popoli giunti a un certo grado di civiltà incontriamo tre generi di divisione del lavoro: la prima, che chiamiamo generale, introduce la divisione dei produttori in agricoltori, manifatturieri e commercianti, e corrisponde alle tre branche principali del lavoro nazionale; la seconda, che si potrebbe chiamare particolare, è la divisione di ogni branca di lavoro in specie…; finalmente la terza divisione del lavoro, che si potrebbe chiamare divisione dell’operazione del lavoro ossia divisione del lavoro in senso proprio, è quella che si determina nei singoli mestieri e nelle singole professioni… e si afferma nella maggior parte delle manifatture e delle officine (SKARBEK, Théorie des Richesses Sociales, Parigi, 1829, t. I, pp. 84-85).
Ma che cos’è che produce il nesso fra i lavori indipendenti dell’allevatore di bestiame, del conciatore, del calzolaio? L’esistenza dei loro rispettivi prodotti come merci. E invece che cos’è che caratterizza la divisione del lavoro di tipo manifatturiero? Che l’operaio parziale non produce nessuna merce «Ma non c’è più nessuna cosa che si possa designare come retribuzione naturale del lavoro d’un singolo. Ogni operaio produce solo una parte di un tutto, e poiché ogni parte per se stessa non ha valore od utilità, non c’è nulla che l’operaio possa prendere dicendo: questo è il mio prodotto, e voglio conservarlo per me » (Labour defended against the claims of Capital, Londra, 1825, p. 25). Autore di questo eccellente scritto è il già citato TH. HODGSKIN.
È solo il prodotto comune degli operai parziali che si trasforma in merce. La divisione del lavoro all’interno della società è mediata dalla compra e vendita dei prodotti di differenti branche di lavoro; la connessione fra i lavori parziali nella manifattura è mediata dalla vendita di differenti forze-lavoro allo stesso capitalista, il quale le impiega come forza-lavoro combinata. La divisione del lavoro di tipo manifatturiero presuppone la concentrazione dei mezzi di produzione in mano ad un solo capitalista, la divisione sociale del lavoro presuppone la dispersione dei mezzi di produzione fra molti produttori di merci indipendenti l’uno dall’altro.
Quindi quella stessa coscienza borghese che celebra la divisione del lavoro a tipo manifatturiero, l’annessione a vita dell’operaio ad una operazione di dettaglio e la subordinazione incondizionata dell’operaio parziale al capitale, esaltandole come una organizzazione del lavoro che ne aumenta la forza produttiva, denuncia con altrettanto clamore ogni consapevole controllo e regolamento sociale del processo sociale di produzione, chiamandolo intromissione negli inviolabili diritti della proprietà, nella libertà e nell’autodeterminantesi « genialità » del capitalista individuale. È assai caratteristico che gli entusiasti apologeti del sistema delle fabbriche, polemizzando contro ogni organizzazione generale del lavoro sociale, non sappiano dire niente di peggio, fuorché: tale organizzazione trasformerebbe in una fabbrica tutta la società.
L’anarchia della divisione sociale del lavoro e il dispotismo della divisione del lavoro a tipo manifatturiero sono portato l’una dell’altro nella società del modo capitalistico di produzione; invece forme di società precedenti ad essa, nelle quali la separazione dei mestieri prima si è sviluppata spontaneamente, poi s’è cristallizzata e infine è stata consolidata legislativamente, offrono da una parte il quadro d’una organizzazione del lavoro sociale secondo un piano, e autoritaria, ma d’altra parte escludono completamente la divisione del lavoro entro l’officina, oppure la sviluppano solo su scala infima o solo sporadicamente e casualmente» « Si può… stabilire, come principio generale, che, quanto meno l’autorità presiede alla divisione del lavoro nell’interno della società, tanto più la divisione del lavoro si sviluppa nell’interno della fabbrica, e vi è sottoposta all’autorità di uno solo. Così l’autorità nella fabbrica e quella nella società, in rapporto alla divisione del lavoro, sono in ragione inversa l’una dell’altra » (KARL MARX, Misère de la Philosophie ecc., pp. 130-131 ).
Per esempio, quelle piccole comunità indiane antichissime, che in parte continuano ancora ad esistere, poggiano sul possesso in comune del suolo, sul collegamento diretto fra agricoltura e mestiere artigiano e su una divisione fissa del lavoro, che serve come piano e modello dato quando si formano nuove comunità. Esse costituiscono complessi produttivi autosufficienti il cui territorio produttivo varia da cento acri a qualche migliaio. La massa principale dei prodotti viene prodotta per il fabbisogno immediato della comunità stessa, non come merce; quindi la produzione stessa è indipendente dalla divisione del lavoro mediata dallo scambio delle merci nel complesso generale della società indiana. Solo l’eccedenza dei prodotti si trasforma in merce e in parte anche questo avviene, a sua volta, soltanto nelle mani dello Stato, al quale da tempi immemorabili affluisce una quantità determinata, come censo in natura. Le differenti parti dell’India hanno differenti forme di comunità. Nella forma più semplice, la comunità coltiva la terra in comune e ne di vide i prodotti fra i membri della comunità stessa; e ogni famiglia cura la filatura e la tessitura ecc. come mestiere domestico secondario. Accanto a questa massa occupata omogeneamente troviamo « l’abitante principale », che è giudice, poliziotto ed esattore in una sola persona; il contabile, che tiene i conti del lavoro agricolo e segna nel catasto e registra tutto quel che riguarda tale attività; un terzo funzionario che persegue i delinquenti e protegge i viaggiatori forestieri e li accompagna da un villaggio all’altro; l’uomo del confine, che fa la guardia ai confini della comunità contro le comunità vicine; l’ispettore delle acque, che distribuisce l’acqua dai serbatoi comuni per fini agricoli; il bramino, che compie le funzioni del culto religioso; il maestro, che insegna ai bambini della comunità a leggere e a scrivere, sulla sabbia; il bramino del calendario, un astrologo che indica i tempi della semina e del raccolto e le ore fauste e infauste per ogni parti colare lavoro agricolo; il fabbro e il falegname, che fanno e riparano tutti gli strumenti agricoli; il vasaio, che fa tutto il vasellame per il villaggio; il barbiere, il lavandaio per la pulitura delle vesti; l’argentiere e qua e là il poeta, che in alcune comunità sostituisce l’argentiere e in altre il maestro. Questa dozzina di persone vien mantenuta a spese di tutta la comunità. Se la popolazione cresce, viene impiantata in terreno vergine una nuova comunità che segue il modello dell’antica. Il meccanismo della comunità ci mostra che c’è una divisione del lavoro secondo un piano; ma vi sarebbe impossibile una divisione del lavoro di tipo manifatturiero, perché il mercato del fabbro, del falegname, ecc., rimane inalterato, e tutt’al più, a seconda delle differenze di grandezza dei villaggi, ci sono due o tre fabbri, vasai, ecc. invece di uno Lieut. Col. MARK WILKS, Historical Sketches of the South of India, Londra, l810_17, vol. I, pp. 118—20. In GEORGE CAMPBELL, Modern India, Londra, 1852, Si trova una buona rassegna delle differenti forme delle comunità indiane.. «Qui la legge che regola la divisione del lavoro della comunità opera con l’inviolabile autorità d’una legge naturale, e ogni particolare artigiano, come il fabbro, ecc., compie tutte le operazioni pertinenti alla sua arte secondo i modi tramandati, ma indipendentemente e senza riconoscere nessuna qualsiasi autorità entro la sua officina. L’organismo produttivo semplice di queste comunità autosufficienti che si riproducono costantemente nella stessa forma e, quando per caso sono distrutte, si ricostruiscono nello stesso luogo e con lo stesso nome « In questa semplice forma ..sono vissuti da tempi immemorabili gli abitanti del paese. I confini dei villaggi sono stati alterati solo raramente; e benchè i villaggi stessi abbiano talvolta sofferto gravi danni o siano stati addirittura devastati da guerre, carestie, epidemie, hanno conservato lo stesso nome, gli stessi confini, gli stessi interessi e perfino le stesse famiglie attraverso i secoli. Gli abitanti non si preoccuppano per la caduta o la divisione dei regni; finchè il villaggio rimane intero, non si preoccupano di sapere quale potenza sarà padrona, o a quale sovrano sarà devoluto: la sua economia interna rimane immutata » (Th. STAMFORD RAFFLES, late Lieut. Gov. of Java, The History of Java, Londra, 1817, vol. I, p. 285)., ci dà la chiave per capire il segreto dell’immutabilità delle società asiatiche, che fa un contrasto così forte con la costante dissoluzione e il costante riformarsi degli Stati asiatici e con l’incessante cambiare delle dinastie. La struttura degli elementi fondamentali economici della società non viene toccata dalle tempeste della regione delle nubi della politica.
Le leggi delle corporazioni, come abbiamo osservato già prima, impedivano sistematicamente, limitando all’estremo il numero dei garzoni che potevano essere impiegati da un singolo maestro artigiano, che questi si trasformasse in capitalista. Così pure, il maestro artigiano poteva impiegare garzoni soltanto ed esclusivamente nell’arte nella quale egli stesso era maestro. La corporazione respingeva gelosamente ogni usurpazione da parte del capitale mercantile, l’unica forma libera di capitale che le si contrapponesse. Il mercante poteva comprare tutte le merci; ma non poteva comprare il lavoro come merce. Era tollerato soltanto come Verleger dei prodotti (Colui che acquista i prodotti dagli artigiani, commissionandoli loro, e li rivende sul mercato; non c’è equivalente italiano o francese). Se circostanze esterne provocavano una divisione progressiva del lavoro, le corpo razioni esistenti si scindevano in sottospecie oppure nuove corporazioni venivano a porsi accanto alle antiche, ma tuttavia senza che diversi mestieri venissero raccolti in una sola officina. Dunque l’organizzazione corporativa, per quanto la separazione, l’isolamento e il perfezionamento dei mestieri che le sono propri siano fra le condizioni materiali d’esistenza del periodo manifatturiero, escludeva la divisione del lavoro di tipo manifatturiero. Nel complesso e in genere, l’operaio e i suoi mezzi di produzione rimanevano legati fra di loro come la chiocciola è unita al suo guscio; così veniva a mancare il primo fondamento della manifattura, cioè la indipendenza acquisita dai mezzi di produzione, come capitale, nei confronti dell’operaio.
Mentre la divisione del lavoro nel complesso di una società, mediata o meno dallo scambio delle merci, appartiene alle formazioni economiche della società più differenti fra loro, la divisione manifatturiera del lavoro è creazione del tutto specifica del modo di produzione capitalistico.
5. IL CARATTERE CAPITALISTICO DELLA MANIFATTURA
La presenza d’un certo numero di operai sotto il comando dello stesso capitale costituisce il punto di partenza naturale tanto della cooperazione in generale, quanto della manifattura. Viceversa, la divisione manifatturiera del lavoro fa diventare necessità tecnica l’aumento del numero di operai che viene adoprato. Ora è la divisione del lavoro esistente a prescrivere il minimo di operai che il singolo capitalista deve adoprare. D’altra parte, i vantaggi d’una divisione ulteriore hanno una condizione: l’ulteriore aumento del numero degli operai, che ormai può avvenire solo per multipli. Ma con la parte costitutiva variabile del capitale deve aumentare anche quella costante; oltre il volume delle condizioni comuni di produzione, come edifici, fornaci, ecc. deve crescere in ispecie, e molto più rapidamente del numero degli operai, la materia prima. La massa di questa materia prima che vien consumata in un tempo dato da una quantità data di lavoro aumenta nella stessa proporzione dell’aumento della forza produttiva del lavoro in conseguenza della sua divisione. Dunque: aumento del volume minimo di capitale nelle mani del singolo capitalista, ossia aumento della trasformazione in capitale dei mezzi di sussistenza e dei mezzi di produzione sociali, è una legge che scaturisce dal carattere tecnico della manifattura « Non basta che il capitale necessario alla suddivisione dei mestieri » (bisognerebbe dire: i mezzi di sussistenza e di produzione a ciò necessari) « esista già nella società è necessario inoltre che sia accumulato nelle mani degli imprenditori in proporzioni sufficientemente considerevoli per render loro possibile il lavoro su grande scala… A misura che la divisione aumenta, l’occupazione costante d’uno stesso numero di operai esige un capitale sempre più considerevole in strumenti, materie prime, ecc. » (STORCH, Cours d’Èconomie Politique, ed. di Parigi, [1823] Vol. I, pp. 250-251). « La concentrazione degli strumenti di produzione e la divisione del lavoro sono inseparabili l’una dall’altra quanto lo sono, nel regime politico, la concentrazione dei poteri pubblici e la divisione degli interessi privati » (KARL MARX , Misère de la Philosophie, p. 134 )..
Come nella cooperazione semplice, anche nella manifattura il corpo lavorativo in funzione è una forma d’esistenza del capitale. Il meccanismo sociale di produzione composto di molti operai parziali individuali appartiene al capitalista. La forza produttiva che deriva dalla combinazione dei lavori appare quindi come forza produttiva del capitale. La manifattura in senso proprio non solo assoggetta l’operaio, prima indipendente, al comando e alla disciplina del capitale, ma crea inoltre una graduazione gerarchica fra gli operai stessi. Mentre la cooperazione semplice lascia inalterato nel complesso il modo di lavorare del singolo, la manifattura rivoluziona questo modo di lavorare da cima a fondo, e prende alla radice la forza-lavoro individuale. Storpia l’operaio e ne fa una mostruosità favorendone, come in una serra, la abilità di dettaglio, mediante la soppressione d’un mondo intero d’impulsi e di disposizioni produttive, allo stesso modo che negli Stati del La Plata si macella una bestia intera per la pelle o per il grasso. Non solo i particolari lavori parziali vengono suddivisi fra diversi individui, ma l’individuo stesso vien diviso, vien trasformato in motore automatico d’un lavoro parziale Dugald Stewart chiama gli operai delle manifatture « automi viventi.., che vengono adoprati per lavori parziali a (Works, ed. da Sir W. Hamilton, Edimburgo, vol. VIII, 1855, Lectures ecc., p. 318)., realizzandosi così l’insulsa favola di Menenio Agrippa che rappresenta un uomo come null’altro che frammento del suo stesso corpo Di fatto, fra i coralli, ogni individuo costituisce lo stomaco di tutto il gruppo. Ma gli apporta materia nutritiva, invece di togliergliene come faceva il patrizio romano.. Originariamente l’operaio vende la sua forza-lavoro al Capitalista perchè gli mancano i mezzi materiali per la produzione d’una merce: ma ora la sua stessa forza-lavoro individuale vien meno al suo compito quando non venga venduta al capitale; essa funziona ormai soltanto in un nesso che esiste soltanto dopo la sua vendita, nell’officina del capitalista. L’operaio manifatturiero, reso incapace per la sua stessa costituzione naturale a fare qualcosa d’indipendente, sviluppa una attività produttiva ormai soltanto come accessorio dell’officina del capitalista «L’operaio che porta nel suo braccio un mestiere intero può andare dappertutto ad esercitare la sua industria e trovare dei mezzi di sussistenza; l’altro (quello della manifattura) è soltanto un accessorio che, separato dai suoi confratelli, non ha più nè capacità nè indipendenza, e che si trova costretto ad accettare la legge che si ritiene conveniente imporgli » (STORCH, Cours d’Économie Politique, ed. di Pietroburgo, 1815, vol. I, p. 204).. Come sulla fronte del popolo eletto stava scritto ch’esso era proprietà di Geova, così la divisione del lavoro imprime all’operaio manifatturiero un marchio che lo bolla a fuoco come proprietà del capitale.
Mentre la divisione del lavoro nel complesso di una società, mediata o meno dallo scambio delle merci, appartiene alle formazioni economiche della società più differenti fra loro, la divisione manifatturiera del lavoro è creazione del tutto specifica del modo di produzione capitalistico.
Le cognizioni, l’intelligenza e la volontà che il contadino o il mastro artigiano indipendente sviluppano, anche se su piccola scala, allo stesso modo che il selvaggio esercita come astuzia personale tutta l’arte della guerra, ormai sono richieste soltanto per il complesso dell’officina. Le potenze intellettuali della produzione allargano la loro scala da una parte perchè scompaiono da molte parti. Quel che gli operai parziali perdono si concentra nel capitale, di contro a loro A. FERGUSON, History of Clvil Society, p. 281: «Il primo può aver guadagnato quello che l’altro ha perduto».,
Questa contrapposizione delle potenze intellettuali del processo di produzione agli operai, come proprietà non loro e come potere che li domina, è un prodotto della divisione del lavoro di tipo manifatturiero. Questo processo di scissione comincia nella cooperazione semplice, dove il capitalista rappresenta l’unità e la volontà del corpo lavorativo sociale di fronte ai singoli operai; si sviluppa nella manifattura, che mutua l’operaio facendone un operaio parziale; si completa nella grande industria che separa la scienza, facendone una potenza produttiva indipendente, dal lavoro e la costringe a entrare al servizio del capitale «L’uomo di scienza e l’operaio produttivo sono separati da ampio tratto, e la scienza, invece di aumentare, in mano all’operaio, la sua forza produttiva a suo favore, gli si è quasi dappertutto contrapposta… La conoscenza diviene uno strumento che può esser separato dal lavoro e contrapposto ad esso » (W. THOMPSON. A Inquiry into the Principles of the Distribution of Wealth, Londra, 1824, p. 274)..
Nella manifattura l’arricchimento di forza produttiva sociale da parte dell’operaio complessivo e quindi del capitale, è la conseguenza dell’impoverimento delle forze produttive dell’operaio. «L’ignoranza è madre tanto dell’industria quanto della superstizione. La riflessione e la fantasia sono soggette ad errare; ma un’abitudine di muovere la mano o il piede in certo modo è indipendente dall’una e dall’altra. Quindi le manifatture prosperano di più dove meno si consulta la mente, di modo che la officina può esser considerata come una macchina le cui parti sono uomini» A. FERGUSON, History of Civil Society, p. 280.. Di fatto, attorno alla metà del secolo XVIII, alcune manifatture adopravano di preferenza per certe operazioni semplici, che però costituivano segreti di fabbrica, proprio dei semiidioti J. D. TUCKETT, A History of the Past and Present State of the Lab Population, Londra, 1846, vol. I, p. 148. .
«Le capacità mentali della grande maggioranza degli uomini », scrive A. Smith, «sono formati necessariamente dalle loro operazioni quotidiane. L’uomo che spende tutta la vita eseguendo poche operazioni semplici.., non ha nessuna occasione di esercitare le sue capacità mentali… Generalmente, diventa stupido e ignorante quanto è possibile a creatura umana». E dopo aver descritto la ottusità dell’operaio parziale lo Smith continua: «L’uniformità della sua vita stazionaria corrompe naturalmente anche il coraggio della sua mente… Corrompe perfino l’energia del suo corpo e lo rende incapace di applicare la sua forza con slancio e con perseveranza al di fuori del l’occupazione particolare per la quale è stato allevato. Così la destrezza dell’operaio nel suo particolare lavoro sembra acquistata a spese delle sue virtù intellettuali, sociali e militari; ma questo è lo stato al quale devono necessariamente ridursi i poveri che lavorano (the labiouring poor), cioè la gran massa del popolo, in ogni società industriale e incivilita» A. SMITH, Wealth of Nations, libro V, cap. I, art. 11.
La cooperazione fondata sulla divisione del lavoro, ossia la manifattura, è alla sua origine una formazione spontanea e naturale. Appena ha raggiunta una certa consistenza e una certa ampiezza di esistenza, diventa la forma consapevole, deliberata secondo un piano e sistematica, del modo di produzione capitalistico. La storia della manifattura vera e propria mostra come la divisione del lavoro che le è peculiare, in un primo momento raggiunga sperimentalmente le forme confacenti al suo scopo, quasi alle spalle delle persone che agiscono, ma poi tenda a tener fermo tradizionalmente alla forma ormai trovata, come vi tendeva il mestiere delle corporazioni; e in alcuni casi, vi tiene fermo per secoli interi.
Mediante l’analisi della attività artigiana, la specializzazione degli strumenti di lavoro, la formazione degli operai parziali, il loro raggruppamento e la loro combinazione in un meccanismo complessivo, la divisione manifatturiera del lavoro crea la articolazione qualitativa e la proporzionalità quantitativa dei processi sociali di produzione, crea quindi una determinata organizzazione del lavoro sociale, sviluppando così una nuova forza produttiva sociale del lavoro. Come forma specificamente capitalistica del processo di produzione sociale, — e sulle basi date non poteva svilupparsi altro che nella forma capitalistica, — la divisione manifatturiera del lavoro è soltanto un metodo particolare per generare plusvalore relativo, ossia per aumentare a spese degli operai l’autovalorizzazione del capitale, quel che si suoi chiamare ricchezza sociale, «Wealth of Nations», ecc. Essa non solo sviluppa la forza produttiva sociale del lavoro a favore del capitalista invece che a favore dell’operaio ma la sviluppa mediante lo storpiamento dell’operaio individuale. Produce nuove condizioni di dominio del capitale sul lavoro. Se dunque da una parte essa si presenta come progresso storico e momento necessario di sviluppo nel processo della formazione economica della società, dall’altra parte si presenta come un mezzo di sfruttamento incivilito e raffinato.
Aggregazione, conflitto, repressione: piccola ricognizione sulle attuali proteste del proletariato giovanile
Introduzione
Le condizioni di vita del proletariato giovanile nell’Italia contemporanea sono caratterizzate da due linee di tendenza principali: in primo luogo la precarietà delle prospettive di lavoro, nella certezza di lunghi periodi di disoccupazione, e in secondo luogo la manifestazione di tentativi di aggregazione, in funzione di atti di conflitto con la società capitalistica (per ora da parte di una minoranza, mentre passività e ricerca di soluzioni individuali sono ancora predominanti nella maggioranza). Non crediamo che l’età anagrafica modifichi l’essenza sociale della condizione proletaria, cioè il suo essere alienata ed espropriata dai mezzi di produzione, dal prodotto del proprio lavoro, dai tempi e dalle modalità organizzative in cui questo lavoro si svolge. Il dispotismo parassitario del capitale sussume e ingloba le vite dei proletari, all’interno dell’infernale ambiente aziendale, senza distinzione di età, così come avveniva con rematori delle antiche galere, che erano letteralmente incatenati ai remi dell’imbarcazione. Tuttavia i dati statistici rivelano un maggiore livello percentuale di disoccupazione nelle fasce di età comprese fra la soglia minima dei 18 anni e la soglia massima dei 35 anni (rispetto alle fasce di età successive). Una parte di questi senza-lavoro riesce a sopravvivere con l’assistenza delle famiglie (quando le famiglie sono in grado di provvedere), altrimenti finisce nel giro dei lavori precari o anche nella microcriminalità. La società capitalistica, nata lorda di sangue e fango già dall’inizio, continua imperterrita a produrre masse umane di diseredati e disperati, attratti e respinti al contempo dalle sirene del consumo di merci inutili e dementi, in un folle caleidoscopio di sogni e bisogni omologati e inautentici. L’uomo merce desidera l’oggetto merce, ignaro di essere vittima di una doppia schiavitù (la schiavitù del suo essere una semplice merce dentro il processo di valorizzazione del capitale, e la schiavitù-dipendenza verso i modelli di vita consumistici e individualisti indotti dall’ideologia dominante). L’acutizzazione della crisi economica rappresenta, almeno per una parte della società, un brusco addio al bisogno compulsivo di oggetti inutili, improbabili e ricercati status-symbol di agognate scalate sociali. In fondo alla scaletta dei desideri la legge dell’impoverimento tendenziale, innestata immanentemente nei processi economici dell’organismo capitalistico, ha preteso il suo prezzo dai milioni di proletari ormai superflui rispetto alle esigenze di valorizzazione del capitale. In attesa di una ripresa del ciclo economico, subordinata alla distruzione fisiologica – mediante qualunque mezzo – dell’eccesso di capitale costante ( macchinari, merci, impianti e attrezzature…) e variabile (forza-lavoro umana), la società borghese si trova a dover gestire l’accresciuta conflittualità dei numerosi gruppi di proletari senza riserve, relegati dentro una condizione di semi-digiunatori (mentre le capacità produttive dell’economia sono sottoutilizzate perché la produzione di merci, in questa fase, non determinerebbe un adeguato tasso di redditività per il capitale investito). Il sistema, guidato dalla logica disumana del profitto, non riesce quindi nemmeno a garantire l’adeguato rifornimento di beni elementari di sussistenza a una parte dei suoi schiavi salariati. In questo snodo drammatico si innesta la ribellione di importanti segmenti di proletariato giovanile, in molti casi su obbiettivi di lotta non direttamente classisti (no tav, no dal molin), e tuttavia sintomatici di un primo confuso bisogno di opposizione al sistema. In altri casi il conflitto assume caratteri anarcoidi, disorganizzati e intermittenti, evidenziando ancora una volta la ricorrenza delle forme storiche di lotta caratteristiche delle fasi iniziali di un conflitto sociale più ampio. Probabilmente il passaggio a fasi più acute di conflitto sociale è presentita come una possibilità reale (da parte della classe sociale schiavista), tale presentimento spiegherebbe anche la svolta autoritaria dell’apparato di dominio politico-statale, registrata negli ultimi anni (dittatura della maggioranza parlamentare, prevalenza dell’esecutivo sul parlamento, approvazione di leggi miranti a ridurre i residui ‘diritti’ dei lavoratori e delle organizzazioni sindacali più combattive). Questa svolta autoritaria, per ora concentrata nella sfera politico-legislativa, andrebbe concepita come il preludio al successivo impiego di mezzi di repressione violentemente polizieschi (verificabile qualora il livello del conflitto sociale dovesse ulteriormente acutizzarsi).
Parte prima: i dati numerici e statistici come pretesto per la richiesta di investimenti di capitale ‘produttivo’ e quindi per la creazione di nuova occupazione salariata e sfruttata
Secondo i dati ISTAT la disoccupazione giovanile, a marzo 2015 risale oltre il 43%. In Puglia e Calabria le percentuali sfiorano addirittura il 60%. Questi dati sono candidamente commentati da un giornale borghese nel seguente modo ‘ L’entrata in vigore del jobs act , dunque, sembra non avere avuto effetti positivi sul tasso di disoccupazione’. Ma sembra, continuando a leggere l’articolo, che i tecnici dell’ISTAT siano convinti che è ancora presto per poter vedere l’effetto della riforma del lavoro sull’andamento del mercato. Sarebbe interessante comprendere quale effetto potrebbe sortire il jobs act sul tasso di occupazione giovanile, dal momento che solo un ritorno a processi produttivi scarsamente meccanizzati, tipici degli albori del capitalismo, o addirittura un ritorno al feudalesimo, potrebbe determinare una nuova domanda di forza-lavoro umana da parte delle imprese. In verità il jobs act non ha mai avuto lo scopo di creare nuova domanda di lavoro, aspetto difficilmente realizzabile in una economia industriale altamente tecnologizzata, automatizzata, robotizzata; in cui il peso del capitale costante è enormemente superiore al peso del capitale variabile (lavoro salariato). Lo scopo ultimo del jobs act era ed è quello di creare le condizioni di una maggiore subordinazione del proletariato al comando del capitale; nei luoghi di lavoro e sul mercato del lavoro. Anche la successiva riforma del premier Renzi, denominata ‘la buon scuola’, ha lo scopo preciso di ottenere un maggiore livello di subordinazione del personale della scuola al dispotismo del capitale, in questo caso incarnato nella maschera di carattere del dirigente scolastico, novella figura fatale a cui lo stato del capitale conferisce pieni super poteri discrezionali e terrorizzanti di assunzione e licenziamento. Inoltre, travalicando e superando la semplice ricerca iniziale di maggiori livelli di subordinazione del personale dipendente, la riforma della scuola introduce, con l’obbligo delle quattrocento ore di alternanza scuola-lavoro per gli studenti, un vero e proprio elemento di obbligo coercitivo al lavoro gratuito. In altre parole un vero e proprio ritorno alle esperienze storiche del lavoro forzato. Esperienze non tanto lontane, se si pensa al grande numero di esseri umani costretti a lavorare fino alla morte dai regimi totalitari del capitale che hanno segnato il secolo scorso (Nazismo, Stalinismo, Maoismo, la Cambogia di Pol Pot). Torniamo ai dati numerici, secondo le proiezioni statistiche riferite al periodo di marzo 2015, la percentuale di occupazione si attesta intorno al 55,5%. Tali dati forniscono il pretesto per le stucchevoli dichiarazioni dei soliti noti esponenti politici e sindacali, che pur partendo da toni e argomentazioni apparentemente differenti, confluiscono poi nella comune richiesta di nuovi investimenti di capitale. Leggiamo cosa dice ironicamente – a tal proposito – Amadeo Bordiga ‘Crisi, miseria, disoccupazione. Colpa del governo, che ha a sua disposizione una ricetta tanto semplice e non la vuole applicare: l’investimento. Qui, tutta la politica e l’economia politica dei formidabili partiti che in Italia rappresentano le classi operaie…Si investe quando si trasforma denaro in capitale. Nel roseo mondo borghese chi ha ricchezza di troppo, chi ha accumulato tanto denaro che non riesce a consumarlo…che fa? Investe…compra macchine, compra uno stabilimento, compra materie prime, compra forze di lavoro operaie adoperabili e produttive, vende i nuovi prodotti , realizza altri profitti, forma altro capitale che investirà ulteriormente…investire significa dunque aggiungere alla facoltà che hanno i borghesi di un paese di sfruttare la classe operaia, una ulteriore facoltà di farlo…la campagna per l’accumulazione e l’investimento è campagna per lo sfruttamento del lavoratore.‘ Imprese economiche di pantalone, pagina 121, 122, 123. Il testo riportato risale agli anni 50, questo aspetto dovrebbe farci riflettere sulle costanti economico-sociali in cui si dibatte il modo di produzione capitalistico, a distanza di oltre mezzo secolo e anche oltre, dato che la base della critica alla richiesta del segretario cgil dell’epoca ( Di Vittorio), è il capitale di Marx pubblicato già nel 1867. Scrive infatti Marx ‘ Qualunque sia la forma sociale del processo di produzione, questo o dev’essere continuativo o deve sempre tornar a percorrere periodicamente gli stessi stadi. Come una società non può smettere di consumare, così non può smettere di produrre. Quindi ogni processo sociale di produzione, considerato in un nesso continuo e nel fluire costante del suo rinnovarsi, insieme processo di riproduzione. Le condizioni della produzione sono insieme condizioni della riproduzione…. Nessuna società può produrre in continuazione, cioè riprodurre, senza riconvertire in continuazione una parte dei suoi prodotti in mezzi di produzione ossia in elementi di una produzione nuova. Rimanendo uguali per ogni altro verso le circostanze, la società può riprodurre o conservare la propria ricchezza sulla stessa scala soltanto reintegrando in natura per esempio i mezzi di produzione cioè mezzi di lavoro, materie prime, materie ausiliarie consumati durante l’anno, con una quantità eguale di nuovi articoli dello stesso genere, che vengono distaccati dalla massa annua dei prodotti e vengono incorporati di nuovo nel processo di produzione’. Il Capitale Primo libro, capitolo 21. Le circostanze elementari della produzione, indipendentemente dalla forma sociale in cui essa si svolge (modi di produzione), pongono in essere la doppia esigenza del consumo finalizzato al soddisfacimento dei bisogni e la conseguente necessità della continuità del processo produttivo degli oggetti finalizzati all’uso, cioè al soddisfacimento dei bisogni. La produzione deve quindi non solo creare gli oggetti d’uso, ma anche riprodurre una parte dei suoi prodotti in mezzi di produzione, cioè mezzi di lavoro, materie prime, materie ausiliarie precedentemente consumati durante cicli economici annuali passati. La contabilità in partita doppia esprime il consumo dei fattori produttivi pluriennali/capitale costante (automezzi, macchinari, attrezzature …) con il termine ammortamento, ovvero la quota di costo annuo corrispondente alla perdita di valore di un cespite ammortizzabile, causata dalla senescenza (invecchiamento determinato dall’uso ripetuto, ma anche dal semplice inutilizzo o mancanza di manutenzione ), obsolescenza ( superamento dal punto di vista tecnologico), e dalla cosiddetta inadeguatezza del mezzo tecnico alle nuove dimensioni aziendali:‘ Quanto più a lungo dura il mezzo di lavoro, quanto più lentamente si logora, tanto più a lungo il valore-capitale costante rimane fissato in questa forma d’uso. Ma qualunque sia il grado della sua durevolezza, la proporzione in cui esso cede valore sta sempre in rapporto inverso al suo tempo totale di funzione. Se di due macchine di pari valore una si logora in cinque anni, l’altra in dieci, la prima nello stesso spazio di tempo cede il doppio di valore della seconda. Questa parte del valore-capitale fissata nel mezzo di lavoro circola come ogni altra. Abbiamo visto in generale che l’intero valore-capitale si trova in una circolazione costante e perciò in questo senso ogni capitale è capitale circolante. Ma la circolazione della parte di capitale qui considerata è particolare. In primo luogo, essa non circola nella sua forma d’uso, ma soltanto il suo valore circola, e ciò fa gradatamente, un po’ alla volta, nella misura in cui da essa passa nel prodotto che circola come merce. Durante l’intera sua durata di funzione, una parte del suo valore rimane sempre fissata in essa, autonoma rispetto alle merci che essa serve a produrre. Per questa peculiarità questa parte del capitale costante acquista la forma di capitale fisso. Al contrario, tutte le altre parti costitutive materiali del capitale anticipato nel processo di produzione, in opposizione ad essa costituiscono: capitale circolante o fluido (successiva postilla in fondo)’. Marx , capitolo 8 del secondo libro del capitale. In ogni caso il consumo/ammortamento di questi elementi del capitale costante implica, nella stessa contabilità in partita doppia, la creazione di un fondo d’ammortamento del bene strumentale che si svalorizza e perde la sua possibilità di utilizzo originaria. Tale fondo d’ammortamento, da un punto di vista contabile rappresenta una passività dello stato patrimoniale aziendale, in quanto rettifica in diminuzione il valore originario di quell’elemento del capitale costante specificamente indicato (fabbricati, attrezzature e impianti, macchinari, automezzi…). Da un altro punto di vista contabile, contemporaneamente e simmetricamente, il fondo ammortamento rappresenta un salvadanaio virtuale in cui si accumula annualmente il valore necessario a riacquistare (o a ricostruire in economia) un bene dalle caratteristiche tecniche equivalenti. Resta il fatto molto pratico che la produzione dei beni di consumo viene compiuta con dei mezzi di produzione, lavoro, strumenti, arnesi, materie, che devono poi essere ricostituiti alla fine di un certo ciclo economico, se si vuole consentire la continuità del processo produttivo degli oggetti d’uso necessari alla vita umana. Tuttavia abbiamo parlato del fatto che ‘Qualunque sia la forma sociale del processo di produzione, questo o dev’essere continuativo o deve sempre tornar a percorrere periodicamente gli stessi stadi’. Scendiamo ora nei particolari dell’attuale modo di produzione capitalistico, e tentiamo di individuare in che cosa si differenzia dal modello elementare del processo di produzione che ‘o dev’essere continuativo o deve sempre tornar a percorrere periodicamente gli stessi stadi’. Il modello economico del ciclo della riproduzione semplice capitalistica viene così esposto da Marx ‘Se la produzione ha forma capitalistica, l’avrà anche la riproduzione. Come nel modo di produzione capitalistico il processo lavorativo si presenta solo come mezzo del processo di valorizzazione, così la riproduzione si presenta come semplice mezzo per riprodurre come capitale, cioè come valore che si valorizza, il valore anticipato… Se per esempio quest’anno la somma di denaro anticipata di 1200 € si è convertita in capitale e ha prodotto un plusvalore di 240 €, essa deve ripetere la stessa operazione l’anno prossimo e così via. Il plusvalore, come incremento periodico del valore del capitale ossia frutto periodico del capitale nel suo procedere, assume la forma di un reddito che nasce dal capitale. Se questo reddito serve al capitalista solo come fondo di consumo ossia se viene consumato periodicamente come è periodicamente ottenuto, ha luogo, eguali rimanendo le altre circostanze, la riproduzione semplice. Il processo di produzione ha inizio con l’acquisto della forza- lavoro per un tempo determinato: e questo inizio si rinnova costantemente, appena viene a scadere il termine di vendita del lavoro, e con esso è trascorso un determinato periodo della produzione, settimana, mese, ecc. Ma l’operaio viene pagato soltanto dopo che la sua forza-lavoro ha operato e ha realizzato in merci tanto il proprio valore che il plusvalore. Quindi l’operaio ha prodotto tanto il plusvalore, che momentaneamente consideriamo solo come fondo di consumo del capitalista, quanto il fondo del proprio pagamento, cioè il capitale variabile, prima che questo gli rifluisca in forma di salario; ed egli viene occupato soltanto finché lo riproduce costantemente’.Il Capitale Primo libro, capitolo 21. Abbiamo visto che in ogni ‘forma sociale’ della produzione una parte del prodotto, ovvero delle energie impiegate, deve permettere il ripristino dei mezzi di produzione necessari per consentire ulteriori cicli produttivi, poiché ‘Come una società non può smettere di consumare, così non può smettere di produrre’ Marx, e la produzione è condizionata dall’uso di determinati mezzi che si logorano, perdendo funzionalità d’impiego efficace. Nel modo capitalistico di produzione, tuttavia, ‘ il processo lavorativo si presenta solo come mezzo del processo di valorizzazione, così la riproduzione si presenta come semplice mezzo per riprodurre come capitale, cioè come valore che si valorizza, il valore anticipato’Marx. Il valore anticipato , il capitale, si valorizza attraverso il furto legalizzato (al di là di ogni obiezione sofistica) di tempo di lavoro (plus-lavoro), incorporato nella merce sotto forma di plus-valore. ‘Il plusvalore, come incremento periodico del valore del capitale ossia frutto periodico del capitale nel suo procedere, assume la forma di un reddito che nasce dal capitale. Se questo reddito serve al capitalista solo come fondo di consumo ossia se viene consumato periodicamente come è periodicamente ottenuto, ha luogo, eguali rimanendo le altre circostanze, la riproduzione semplice‘ Marx. Ammettiamo che il costo (il valore) dei fattori produttivi (costanti e variabili) consumati nel processo produttivo (salari, ammortamento immobilizzazioni, materie prime, forza motrice…) sia pari a 10, e alla fine del ciclo di produzione e di circolazione-distribuzione delle merci il valore realizzato con la vendita sul mercato sia di 12. Il plus-valore, al netto della parte relativa alla semplice riproduzione del valore consumato ammonterà quindi a 2. Quando questo ‘reddito’ ciclico serve al capitalista solo per il consumo personale, allora ci troviamo di fronte alla riproduzione semplice (del capitale investito). Questo ‘fondo di consumo’ viene denominato, nelle aziende individuali, generalmente con il nome ‘titolare c/prelevamenti extra-gestione’, ed è inserito nella sezione delle attività patrimoniali (i fattori produttivi fissi e circolanti), dove fa da rettifica e contraltare all’utile d’esercizio registrato invece nella opposta colonna delle passività, dove sono inserite le fonti di finanziamento (capitale proprio e di debito). Il mistero gaudioso del cosiddetto utile non viene spiegato nella contabilità in partita doppia, ferma all’apparenza fenomenica e alla pura tautologia dei costi e ricavi aziendali e alle relative e corrispondenti uscite ed entrate monetarie. L’utile c’è e basta, come nell’esempio precedente, quando l’input iniziale del valore di 10 si trasforma in un output di 12. Un puro differenziamento aritmetico-contabile fra dati partenza e dati di arrivo di un certo ciclo economico-aziendale, a cui il ragioniere non è tenuto a prestare troppa attenzione. Torniamo ora al fattore segretamente coinvolto nella creazione di questo differenziamento, cioè il lavoratore salariato, secondo Marx ‘ Il processo di produzione ha inizio con l’acquisto della forza- lavoro per un tempo determinato: e questo inizio si rinnova costantemente, appena viene a scadere il termine di vendita del lavoro, e con esso è trascorso un determinato periodo della produzione, settimana, mese, ecc. Ma l’operaio viene pagato soltanto dopo che la sua forza-lavoro ha operato e ha realizzato in merci tanto il proprio valore che il plusvalore’ Marx . L’acquisto di forza-lavoro, per un tempo particolare, coincide con l’inizio del processo di produzione, tuttavia l’operaio viene pagato alla fine del ciclo in cui ha riprodotto in merci sia il valore del salario da ricevere che il plus-valore per il capitale. Nella fase di impiego della sua forza-lavoro egli è paragonabile ad uno strumento a disposizione del suo acquirente capitalista; egli (il proletario) ha infatti venduto in modo formalmente libero una porzione del suo tempo giornaliero di vita, ed in seguito a questa cessione di tempo di vita (e di corrispondente energia vitale utilizzabile dall’azienda sotto forma di forza di lavoro), ogni porzione di esistenza lavorativa di fabbrica ricade pienamente, in un tempo di acquisto e vendita di se stesso, una vera e propria mercificazione racchiusa nella clausola leonina di scambio iniziale propostagli dal capitale. In questo senso, forse, va letta la precedente citazione di Marx : ‘questo inizio si rinnova costantemente, appena viene a scadere il termine di vendita del lavoro, e con esso è trascorso un determinato periodo della produzione, settimana, mese, ecc. La mercificazione della vita del proletario si rinnova costantemente, poiché si rinnova sempre‘ Il processo di produzione (che) ha inizio con l’acquisto della forza- lavoro per un tempo determinato‘ MARX. Se il processo produttivo e riproduttivo del capitale è totalmente dominato dalla legge del valore di scambio mercantile, oltretutto nella forma del patto leonino della compravendita di forza-lavoro x+1 in cambio di un salario x, allora solo la rottura da un punto di realtà esterno al processo economico-aziendale, cioè dal punto politico della lotta di classe proletaria per la distruzione dell’apparato di potere della classe borghese, può consentire la ‘transizione’ a un nuovo modo di produzione. A riprova delle inestricabili caratteristiche di mercificazione immanenti alla produzione e riproduzione capitalistica, riportiamo ancora un passo del capitolo 21 del primo libro del capitale ‘Nel quarto capitolo abbiamo visto che per trasformare denaro in capitale non bastava che ci fossero la produzione e la circolazione delle merci. Bisognava prima che si trovassero l’uno di fronte all’altro come acquirente e venditore qua il possessore di valore ossia denaro, là il possessore della sostanza che crea il valore; qua il possessore di mezzi di produzione e di mezzi di sussistenza, là il possessore di nient’altro che forza-lavoro. Dunque il fondamento realmente dato, il punto di partenza del processo di produzione capitalistico è stato il distacco fra il prodotto del lavoro e il lavoro stesso, fra le condizioni oggettive del lavoro e la forza lavorativa soggettiva. Ma attraverso la pura e semplice continuità del processo cioè attraverso la riproduzione semplice, quel che all’inizio era solo punto di partenza, torna sempre ad esser prodotto di nuovo e viene perpetuato come risultato proprio della produzione capitalistica. Da una parte il processo di produzione converte continuamente in capitale, cioè in mezzi di valorizzazione e di godimento per il capitalista, la ricchezza dei materiali. Dall’altra parte l’operaio esce costantemente dal processo come vi era entrato: fonte personale di ricchezza, ma spoglio di tutti i mezzi per realizzare per sé questa ricchezza. Poiché prima della sua entrata nel processo il suo stesso lavoro è stato alienato a lui, appropriato al capitalista e incorporato al capitale, durante il processo il suo lavoro si oggettiva costantemente in prodotti altrui. Poiché il processo di produzione è insieme processo di consumo della forza-lavoro da parte del capitalista, il prodotto del lavoratore non solo si converte continuamente in merce ma anche in capitale: valore che succhia la forza creatrice di valore, mezzi di sussistenza che acquistano persone, mezzi di produzione che adoperano il produttore. Quindi l’operaio stesso produce costantemente la ricchezza oggettiva in forma di capitale, potenza a lui estranea, che lo domina e lo sfrutta, e il capitalista produce con altrettanta costanza la forza-lavoro in forma di fonte soggettiva di ricchezza, separata dai suoi mezzi di oggettivazione e di realizzazione, astratta, che esiste nella pura e semplice corporeità dell’operaio, in breve, egli produce l’operaio come operaio salariato.Questa costante riproduzione ossia perpetuazione dell’operaio è ‘il sine qua non’ della produzione capitalistica…Il processo di produzione capitalistico, considerato nel suo nesso complessivo, cioè considerato come processo di riproduzione, non produce dunque solo merce, non produce dunque solo plusvalore, ma produce e riproduce il rapporto capitalistico stesso: da una parte il capitalista, dall’altra l’operaio salariato ‘ Marx. La lunga citazione chiarisce senza ombra di dubbio che il ‘sine qua non’ della produzione capitalistica è la riproduzione e perpetuazione dell’operaio, cioè del rapporto capitalistico alienato e reificato in cui ‘ il prodotto del lavoratore non solo si converte continuamente in merce ma anche in capitale: valore che succhia la forza creatrice di valore, mezzi di sussistenza che acquistano persone, mezzi di produzione che adoperano il produttore’ Marx. Il capitalismo ha il merito di avere favorito un certo grado di sviluppo delle forze produttive, segnando il passaggio dalla precedente forma chiusa, feudale e artigiana dell’economia, alla forma industrializzata contemporanea, ad uso intensivo di macchinario e tecnologia. Il superamento dell’alienazione insita nel modo di produzione capitalistico non consiste, tuttavia, nel ritorno al passato della produzione artigianale delle isole chiuse, bensì nell’uso a scopi umani del capitale costante che ora si erge invece come un freddo mostro ‘ che succhia la forza creatrice di valore, mezzi di sussistenza che acquistano persone, mezzi di produzione che adoperano il produttore’. Quindi innanzitutto scomparsa dell’operaio salariato, della legge del valore, del mercato, della moneta, della produzione su base aziendale e concorrenziale, a vantaggio di un piano economico-sociale di specie.(1) A un certo punto, nel capitolo 22, viene descritta la situazione economico-aziendale in cui il plusvalore viene riconvertito in capitale: ‘Adoperare plusvalore come capitale ossia ritrasformare plusvalore in capitale significa accumulazione del capitale…Esaminiamo questo procedimento in primo luogo dalla visuale del singolo capitalista. La produzione annua deve fornire in primo luogo tutti quegli oggetti (valori d’uso) coi quali si debbono reintegrare le parti materiali del capitale consumate nel corso dell’anno. Detratti questi, rimane il prodotto netto o plus prodotto nel quale ha sede il plusvalore. E in che cosa consiste questo plus prodotto? Forse in cose destinate a soddisfare i bisogni e le voglie della classe dei capitalisti, che quindi passano nel suo fondo di consumo? Se tutto fosse qui, il plusvalore verrebbe speso fino in fondo in bagordi e si avrebbe soltanto una riproduzione semplice. Per accumulare si deve trasformare in capitale una parte del plus prodotto. Ma, se non si fanno miracoli, si possono trasformare in capitale solo quelle cose che si possono adoperare nel processo lavorativo, cioè mezzi di produzione e inoltre cose con le quali l’operaio può sostentarsi, cioè mezzi di sussistenza. Di conseguenza, una parte del plus-lavoro annuo deve essere stata adoperata nella produzione di mezzi addizionali di produzione e di sussistenza, in più della quantità che era richiesta per la reintegrazione del capitale anticipato….Considerata in concreto, l’accumulazione si risolve in riproduzione del capitale su scala progressiva. Il ciclo della riproduzione semplice si scambia e si trasforma, per dirla con il Sismondi, in una spirale…La legge dello scambio porta con sé l’eguaglianza solamente dei valori di scambio delle merci che sono date via l’una per l’altra, e addirittura porta con sé fin da principio la differenza dei loro valori d’uso; non ha assolutamente nulla a che fare con il consumo di quelle merci, che ha inizio soltanto quando la transazione è stata conclusa e completata. La trasformazione originaria del denaro in capitale si compie dunque in accordo esattissimo con le leggi economiche della produzione delle merci e con il diritto di proprietà che ne deriva. Ma ciò malgrado essa ha per risultato: 1. che il prodotto appartiene al capitalista e non all’operaio; 2. che il valore di questo prodotto include, oltre il valore del capitale anticipato, un plusvalore, che all’operaio è costato lavoro, ma al capitalista non è costato nulla, e che tuttavia diventa proprietà legittima del capitalista; 3. che l’operaio ha conservato la sua forza-lavoro e la può vendere di nuovo, se trova un compratore. La riproduzione semplice è soltanto la ripetizione periodica di questa prima operazione; ogni volta si trasforma denaro in capitale, sempre di nuovo. Dunque la legge non viene infranta, anzi, al contrario, viene ad avere l’occasione di attuarsi durevolmente. E non cambia niente il fatto che la riproduzione semplice venga sostituita dalla riproduzione su scala allargata, dall’accumulazione. Con la prima il capitalista dà fondo all’intero plusvalore, con la seconda egli dà prova della sua virtù civica, consumandone soltanto una parte e trasformando il resto in denaro’. Marx, Capitolo 22 del primo libro del capitale. La contabilità aziendale in partita doppia definisce il plusvalore riconvertito in capitale, cioè accumulato, con il termine ‘autofinanziamento’; ovvero la capacità dell’impresa di finanziare l’acquisto dei nuovi fattori produttivi con l’utile d’esercizio (parsimoniosamente sottratto all’autoconsumo). Il termine ‘utile d’esercizio’ è il contenitore semantico del plus-valore /pluslavoro, in altre parole il lessema allude al classico profitto aziendale. Dal punto di vista di questa contabilità aziendale, l’autofinanziamento, cioè la riproduzione su scala allargata del processo di produzione del capitale, viene considerato innanzitutto come una fonte di finanziamento alternativa al capitale di debito, cioè al finanziamento esterno (Banche, fornitori..). Nella dottrina economico-aziendale si reputa che un rapporto ottimale, cioè equilibrato, fra fonti interne e fonti esterne di finanziamento, dovrebbe aggirarsi intorno alle percentuali di 60/40. Cioè 60% di capitale proprio e 40% di capitale di debito. Chiaramente 70/30 sarebbe ancora meglio e così via. Da un punto di vista tecnico-contabile sussiste tuttavia l’impossibilità numerica di raggiungere un rapporto 100/0, poiché nelle passività dello stato patrimoniale ritroviamo comunque (almeno nel bilancio redatto con criteri non civilistici) le poste rettificatrici del capitale fisso, cioè i fondi di ammortamento e le poste rettificatrici del capitale circolante ( fondi rischi su crediti…), o addirittura il fondo di accumulo del tfr. Quindi, anche in assenza di debiti reali, cioè innanzitutto i debiti verso i fornitori, i mutui passivi, i debiti per imposte e i debiti per scoperto di conto corrente bancario, il rapporto capitale proprio/capitale di debito non può quasi mai diventare 100/0, per i motivi squisitamente virtuali -contabili sopraesposti (ovvero la presenza di poste contabili virtuali come i fondi ammortamento o i fondi rischi, i quali pure non essendo debiti reali verso un soggetto creditore, sono nondimeno delle passività che impediscono, da un punto di vista puramente aritmetico-contabile, il raggiungimento del rapporto 100/0 a favore del capitale proprio rispetto al capitale di debito). Riflettiamo sul percorso che porta dalla riproduzione semplice alla riproduzione allargata ‘La produzione annua deve fornire in primo luogo tutti quegli oggetti (valori d’uso) coi quali si debbono reintegrare le parti materiali del capitale consumate nel corso dell’anno. Detratti questi, rimane il prodotto netto o plus prodotto nel quale ha sede il plusvalore. E in che cosa consiste questo plus prodotto? Forse in cose destinate a soddisfare i bisogni e le voglie della classe dei capitalisti, che quindi passano nel suo fondo di consumo? Se tutto fosse qui, il plusvalore verrebbe speso fino in fondo in bagordi e si avrebbe soltanto una riproduzione semplice. Per accumulare si deve trasformare in capitale una parte del plus prodotto’ Marx. La riproduzione allargata, nata ingenuamente nella mente di qualche economista dalla parsimonia e dalla temperanza della classe dei capitalisti, si innesta invece nella dinamica accumulativo concorrenziale dell’economia capitalistica: fare impresa (come si dice oggi), fronteggiare la concorrenza delle merci e dei servizi delle altre aziende presenti sul mercato, navigare quindi con possibilità di vita e di successo in questo mercato, allontanando al contempo il classico rischio d’impresa della chiusura e del fallimento, significa allargare incessantemente i propri spazi di intervento economico-aziendale, conquistare nuove fette di mercato, reinvestire una parte degli utili nell’acquisto di nuovi mezzi di produzione (capitale variabile/salari e capitale costante/macchinario). Anche nuovi apporti di capitale da parte dei soci o del proprietario individuale potrebbero assolvere il compito di aumentare le dimensioni aziendali ( in vista della lotta per la concorrenza). Il fenomeno economico dell’accumulazione sta quindi alla base della successiva concentrazione, cioè alla base del fenomeno della crescita di valore del capitale iniziale a mezzo della trasformazione ‘in capitale una parte del plus prodotto’. Anche la centralizzazione, pur derivando dall’assimilazione/incorporazione di una o più aziende da parte di un altra, per cui diversi capitali individuali perdono la loro preesistente indipendenza legale/gestionale, rappresenta comunque – dal punto di vista puramente economico – un ampliamento del valore capitale impiegato (costante e variabile) sottoposto al comando dispotico del singolo capitalista/amministratore/ dirigente aziendale. (1)‘Con la produzione sociale viene meno il capitale monetario. La società ripartisce forza-lavoro e mezzi di produzione nelle diverse branche. I produttori possono anche ricevere dei buoni di carta, mediante i quali prelevano dalle scorte sociali di consumo una quantità corrispondente al loro tempo di lavoro. Questi buoni non sono denaro. Essi non circolano‘. Marx , capitolo 18 del secondo libro del capitale.‘Se si immagina la società non capitalista ma comunista, innanzi tutto cessa interamente il capitale monetario, dunque anche i travestimenti delle transazioni che per suo mezzo si introducono. La cosa si riduce semplicemente a ciò, che la società deve calcolare in precedenza quanto lavoro, mezzi di produzione e mezzi di sussistenza essa può adoperare, senza danno, in branche le quali, come la costruzione di ferrovie ad esempio, per un tempo piuttosto lungo, un anno o più, non forniscono né mezzi di produzione né mezzi di sussistenza, né un altro qualsiasi effetto utile, ma al contrario sottraggono alla produzione totale annua lavoro, mezzi di produzione e mezzi di sussistenza’. Marx , capitolo 16 del secondo libro del capitale.
Postilla: Scopriamo cosa scrive Marx a proposito della distinzione, canonicamente riportata anche negli attuali libri di testo scolastici, fra attivo immobilizzato e attivo circolante (cioè fra fattori produttivi a lungo o breve ciclo di utilizzo, e sulla loro relazione con i termini capitale costante e capitale variabile). ‘Ritorniamo a Ricardo. 1) La caratteristica del capitale variabile è che una parte di capitale determinata, data (dunque, in quanto tale, costante), una data somma di valore (assunta come uguale al valore della forza lavoro, sebbene qui sia indifferente che il salario sia pari, maggiore o minore del valore della forza-lavoro) viene scambiata contro una forza che si valorizza, che crea valore, la forza—lavoro, la quale non soltanto riproduce il suo valore pagato dal capitalista, ma insieme produce anche un plusvalore, un valore non presente prima e non acquistato attraverso un equivalente. Questa proprietà caratteristica della parte di capitale sborsata in salario, che la distingue toto coelo (sotto ogni aspetto) dal capitale costante come capitale variabile, scompare quando la parte di capitale sborsata in salario viene considerata puramente dal punto di vista del processo di circolazione e appare così come capitale circolante di fronte al capitale fisso sborsato in mezzi di lavoro. Ciò risulta già dal fatto che essa viene posta allora in una categoria — quella del capitale circolante — insieme ad una parte costitutiva del capitale costante, quella sborsata in materiale di lavoro, in contrapposizione ad un’altra parte costitutiva del capitale costante, quella sborsata in mezzi di lavoro. Qui si prescinde completamente dal plusvalore, cioè appunto dalla circostanza che trasforma in capitale la somma di valore sborsata. Si prescinde altresì dal fatto che la parte di valore che il capitale sborsato in forza-lavoro aggiunge al prodotto, è prodotta ex novo (dunque è anche realmente riprodotta), mentre la parte di valore che la materia prima aggiunge al prodotto non viene prodotta ex novo, non realmente riprodotta, ma unicamente mantenuta nel valore del prodotto, conservata, e perciò riappare soltanto come parte costitutiva del valore del prodotto. La differenza, quale si presenta ora dal punto di vista della contrapposizione di capitale circolante e capitale fisso, consiste soltanto in ciò: il valore dei mezzi di lavoro impiegati per la produzione di una merce entra soltanto in parte nel valore della merce, e perciò viene anche sostituito soltanto in parte con la vendita della merce, perciò in generale viene sostituito soltanto pezzo per pezzo e gradualmente. D’altro lato, il valore della forza-lavoro e degli oggetti di lavoro (materie prime ecc.) spesi per la produzione di una merce entra interamente nella merce e perciò viene interamente sostituito con la vendita della merce. In questo senso, rispetto al processo di circolazione, una parte del capitale si presenta come fissa, l’altra come fluida o circolante. Si tratta, in ambedue i casi, di un trasferimento nel prodotto di valori dati, anticipati, e della loro sostituzione mediante la vendita del prodotto. La differenza consiste ora soltanto in ciò, se il trasferimento del valore, e perciò la sostituzione del valore, avviene gradualmente e pezzo per pezzo, oppure in una sola volta. Così viene eliminata la distinzione assolutamente decisiva tra capitale variabile e capitale costante, cioè tutto il segreto della formazione del plusvalore e della produzione capitalistica, vengono eliminate le circostanze che trasformano determinati valori, e le cose in cui essi si presentano, in capitale. Tutte le parti costitutive del capitale si distinguono ormai soltanto per il modo di circolazione (e la circolazione della merce ha, naturalmente, a che fare soltanto con valori dati, già presenti); e un modo particolare di circolazione è comune al capitale sborsato in salario e alla parte di capitale sborsata in materie prime, semi-lavorati, materie ausiliarie, in contrapposizione alla parte di capitale sborsata in mezzi di lavoro. Si comprende perciò perché l’economia politica borghese per istinto si attenesse strettamente alla confusione di Smith tra le categorie «capitale costante e variabile» e le categorie «capitale fisso e circolante», e per un secolo, di generazione in generazione, la ripetesse pappagallescamente e in modo acritico. Per essa, la parte di capitale sborsata in salario non si distingue più dalla parte di capitale sborsata in materia prima, e si distingue solo formalmente dal capitale costante, sia che esso venga fatto circolare pezzo per pezzo o interamente, attraverso il prodotto. Con ciò è seppellito d’un colpo il fondamento per la comprensione del movimento reale della produzione capitalistica, e perciò dello sfruttamento capitalistico. Si tratta soltanto della ricomparsa di valori anticipati. Marx , capitolo 11 del secondo libro del capitale.
Parte seconda: il plus-valore come fattore di reddito e come fattore di accumulazione, note sul problema del rovesciamento virtuale/potenziale dei dati reali della produzione su base capitalistica.
Il plusvalore appare come fattore doppio, da una parte fonte di reddito per la classe sfruttatrice, e dall’altra come inevitabile origine di ulteriori cicli di accumulazione del capitale. Riprendiamo il confronto con il testo di Marx ‘ Nel capitolo precedente abbiamo considerato il plusvalore, e rispettivamente il plus-prodotto, soltanto come fondo di consumo individuale del capitalista, e in questo capitolo l’abbiamo finora considerato soltanto come un fondo di accumulazione. Però esso non è né l’uno né l’altro, ma l’uno e l’altro allo stesso tempo. Una parte del plusvalore viene consumata dal capitalista come reddito, un’altra viene adoperata come capitale, cioè accumulata…Ma chi compie questa divisione è il proprietario del plusvalore, il capitalista. Quindi essa è atto della volontà del capitalista. Si dice che egli risparmia quella parte del tributo da lui riscosso che egli accumula, per il fatto che non se la mangia, cioè per il fatto che egli esercita la sua funzione di capitalista, cioè la funzione di arricchirsi’. Karl Marx, Il Capitale, Libro I, capitolo 22.
Torniamo dunque al problema della libertà della volontà: il capitalista compie la divisione del plus-prodotto in reddito e capitale accumulato come atto formale della sua volontà, ma questo avviene, tuttavia, sotto i condizionamenti potenti di un meccanismo economico-sociale a cui la sua volontà deve infine adeguarsi se non vuole soccombere, o affondare, nel mare magno della lotta per la concorrenza (insieme all’azienda posseduta e amministrata),rinunciando quindi anche all’apparenza formale della sua libera volontà di imprenditore. La sottomissione reale della volontà del singolo capitalista/amministratore/dirigente alle leggi immanenti della economia capitalistica, si trasforma, dialetticamente, nella condizione necessaria di una complementare libertà formale/apparente della sua volontà: ‘E solo in quanto egli è capitale personificato, la sua propria necessità transitoria è insita nella necessità transitoria del modo di produzione capitalistico; ma i motivi che lo spingono non sono il valore d’uso o il godimento, bensì il valore di scambio e la moltiplicazione di quest’ultimo’. Karl Marx, Il Capitale, Libro I, capitolo 22. Ora i motivi che lo spingono, come capitale personificato, vanno al di là della semplice ricerca del valore d’uso dei beni prodotti, l’essenziale sta invece nel valore di scambio, nella massa delle merci prodotte, assimilatrici di plus-lavoro/plus-valore (2), realizzato come successivo ricavo di vendita ed entrata di denaro nella fase della circolazione-distribuzione (3) ( denaro prontamente reinvestito nel ciclo produttivo e riproduttivo semplice o allargato):‘Il capitalista è rispettabile solo come personificazione del capitale; in tale qualità condivide l’istinto assoluto per l’arricchimento proprio del tesaurizzatore. Ma ciò che in costui si presenta come mania individuale, nel capitalista è effetto del meccanismo sociale, all’interno del quale egli non è altro che una ruota dell’ingranaggio. Oltre a ciò, lo sviluppo della produzione capitalistica rende necessario un aumento continuo del capitale investito in un’impresa industriale, e la concorrenza impone a ogni capitalista individuale le leggi immanenti del modo di produzione capitalistico come leggi coercitive esterne. Lo costringe ad espandere continuamente il suo capitale per mantenerlo, ed egli lo può espandere soltanto per mezzo dell’accumulazione progressiva. Dunque, in quanto tutto il suo fare è soltanto funzione del capitale che in lui è dotato di volontà e di coscienza, il proprio consumo privato è considerato dal capitalista come furto ai danni dell’accumulazione del suo capitale, allo stesso modo che nella contabilità all’italiana le spese private figurano sulla pagina del dare del capitalista di contro al suo capitale. L’accumulazione è la conquista del mondo della ricchezza sociale. Essa estende, oltre la massa del materiale umano sfruttato, anche il dominio diretto e indiretto del capitalista….Accumulazione per l’accumulazione, produzione per la produzione, in questa formula l’economia classica ha espresso la missione storica del periodo dei borghesi. Non si è illusa neppur un istante sulle doglie che accompagnano il parto della ricchezza, ma a che lamentarsi di ciò che è necessità storica? È vero che per l’economia classica il proletario conta solo come macchina per la produzione di plusvalore, ma anche il capitalista conta per essa solo come macchina per la conversione di questo plusvalore in plus-capitale, ed essa ne prende molto sul serio la funzione storica’. Karl Marx, Il Capitale, Libro I, capitolo 22.
Il capitalista, viene qui definito una macchina per la conversione del plusvalore in plus-capitale, la concorrenza impone (infatti) a ogni capitalista individuale le leggi immanenti del modo di produzione capitalistico come leggi coercitive esterne. Lo costringe ad espandere continuamente il suo capitale per mantenerlo, ed egli lo può espandere soltanto per mezzo dell’accumulazione progressiva.(4) In un altra parte del testo Marx definisce il capitalista una maschera di carattere, obbligata, sotto la pressione feroce della lotta per la concorrenza, a recitare la parte assegnatagli dalle leggi economiche immanenti del capitale. In questo quadro descrittivo il salariato e il capitalista sono accomunati, dunque, dall’essere una pura e semplice funzione al servizio del capitale: il salariato come produttore di plusvalore, il capitalista come convertitore del plus-valore in plus-capitale. Tuttavia il capitale, nel suo processo di manifestazione, pone in essere le condizioni materiali per il suo superamento, aprendo lo spazio storico-sociale alla possibilità di un cambio di orizzonte. Se questo cambio dovesse trasformarsi in realtà, passando dalla condizione potenziale alla condizione di attualità, saranno le successive fasi della lotta di classe a poterlo stabilire; così come sarà la vittoria o la sconfitta della classe proletaria a determinare il destino della nostra specie. Nulla è limpido e scontato sul piano storico, soprattutto l’idea di un progresso lineare è stata ripetutamente smentita dalle vicende documentate di ritorno alla barbarie o di scomparsa di intere civiltà (vedere cosa scrive a tal proposito Trotzkj, nel 1921). Tuttavia Marx ricorda che il capitalista‘ Come fanatico della valorizzazione del valore egli costringe senza scrupoli l’umanità alla produzione per la produzione, spingendola quindi a uno sviluppo delle forze produttive sociali e alla creazione di condizioni materiali di produzione che sole possono costituire la base reale d’una forma superiore di società il cui principio fondamentale sia lo sviluppo pieno e libero di ogni individuo‘. Karl Marx, Il Capitale, Libro I, capitolo 22. Bisogna ponderare attentamente la frase appena letta:‘condizioni materiali di produzione che sole possono costituire la base reale d’una forma superiore di società’ . Se il significato contenuto nella frase non da adito a molte interpretazioni, come ci sembra verosimile, allora dobbiamo ritenere che il senso ultimo sia riassumibile in questa forma: lo sviluppo delle forze produttive sociali poste in essere dall’economia capitalistica, pone in essere anche le condizioni per il possibile superamento di questa economia. Si sottolinea il termine possibile, all’interno della frase, poiché esso lungi dall’essere una espressione accidentale, racchiude invece tutta la drammaticità di una visione storica non meccanicistica e finalistica, bensì aperta a sviluppi e ad alternative anche nefaste per il futuro dell’umanità. Il superamento della mercificazione e dell’alienazione capitalistica del lavoro sono una delle possibilità materiali poste in essere sulla scacchiera della storia, accanto ad essa c’è la possibilità alternativa del baratro della mineralizzazione del pianeta e della estinzione della specie. In altre parole Marx sostiene che il capitalismo ha creato le condizioni materiali (macchinario, lavoro associato, cooperazione e divisione del lavoro) per una forma superiore di società, ma esse potranno costituire la base reale di questa società migliore solo quando saranno rimossi i rapporti di produzione capitalistici. La possibilità che il macchinario, il capitale costante, venga trasformato da fattore di asservimento a molla per la liberazione dell’essere umano dal tempo di lavoro salariato, non è inscritta ineluttabilmente nella vicenda storica, e quindi la sua attualizzazione è solo una eventualità, non una certezza assoluta. Abbiamo smesso di credere nella metafisica, allora non dobbiamo confondere il materialismo storico e dialettico con un sostituto della stessa metafisica, propugnando forme taumaturgiche di determinismo assoluto che sostituiscono lo studio reale delle determinanti causali, degli attrattori anticaotici agenti nell’orizzonte degli eventi storico-sociale. Il rifiuto dell’indeterminismo nichilista non può significare, in altre parole, l’esaltazione alternativa di posizioni teleologiche, finalistiche, scientiste, posizioni scioccamente convinte di possedere la chiave di lettura assoluta (e non approssimata) dei vari piani di realtà.
(2) ‘L’essenziale per la determinazione del capitale variabile — e perciò per la trasformazione in capitale di una qualsivoglia somma di valore — è che il capitalista scambia una determinata grandezza di valore data (e, in questo senso, costante) [contro forza lavoro; egli scambia valore] contro forza creatrice di valore; una grandezza di valore contro produzione di valore, auto-valorizzazione. Che il capitalista paghi il lavoratore in denaro o in mezzi di sussistenza, non cambia nulla a questa determinazione essenziale. Cambia soltanto il modo di esistenza del valore da lui anticipato, che una volta esiste nella forma del denaro con cui il lavoratore compera per sé sul mercato i suoi mezzi di sussistenza, un’altra volta nella forma di mezzi di sussistenza che consuma direttamente. La produzione capitalistica sviluppata presuppone di fatto che il lavoratore venga pagato in denaro, come in generale presuppone il processo di produzione mediato dal processo di circolazione, dunque la economia monetaria. Ma la creazione del plusvalore — cioè la capitalizzazione della somma di valore anticipata — non scaturisce né dalla forma di denaro né dalla forma naturale del salario o del capitale sborsato nell’acquisto di forza-lavoro. Essa scaturisce dallo scambio di valore contro forza creatrice di valore, dalla conversione di una grandezza costante in una variabile’. Marx, secondo libro del capitale.
(3)‘Entro la sfera della circolazione, il capitale dimora come capitale- merce e capitale monetario. I due processi della sua circolazione consistono nel suo trasformarsi dalla forma di merce in forma di denaro e dalla forma di denaro in forma di merce. La circostanza che la trasformazione della merce in denaro sia qui insieme realizzo del plusvalore incorporato nella merce, e che la trasformazione del denaro in merce sia insieme trasformazione o ritrasformazione del valore-capitale nella figura dei suoi elementi di produzione, non muta proprio nulla al fatto che questi processi, come processi di circolazione, sono processi delle semplici metamorfosi delle merci. Tempo di circolazione e tempo di produzione si escludono scambievolmente. Durante il suo tempo di circolazione, il capitale non opera come capitale produttivo e perciò non produce merce né plusvalore. Se consideriamo il ciclo nella forma più semplice, cosicché l’intero valore-capitale ogni volta entri d’un colpo da una fase nel l’altra, è evidente allora che il processo di produzione, perciò anche la auto-valorizzazione del capitale, fino a che dura il suo tempo di circolazione, è interrotto e che il rinnovamento del processo di produzione sarà più o meno rapido secondo la lunghezza di questo. Se, al contrario, le differenti parti del capitale percorrono il ciclo una dopo l’altra, cosicché il ciclo dell’intero valore-capitale si compia successivamente nel ciclo delle sue singole porzioni, è chiaro che quanto più lunga è la permanenza costante delle sue parti aliquote nella sfera della circolazione, tanto più piccola dev’essere la sua parte che opera costantemente nella sfera della produzione. L’espansione e contrazione del tempo di circolazione opera perciò come limite negativo sulla contrazione o espansione del tempo di produzione o dell’estensione in cui un capitale di data grandezza opera come capitale produttivo’ .Marx , capitolo 5 del secondo libro del capitale.
(4)’Tutto il carattere della produzione capitalistica è determinato dalla valorizzazione del valore-capitale anticipato, dunque, in primo luogo, dalla produzione di quanto più plusvalore è possibile; in secondo luogo però (vedi Libro I, capitolo. XXII), dalla produzione di capitale, dunque dalla trasformazione di plusvalore in capitale. L’accumulazione o produzione su scala allargata, che appare come mezzo per una produzione sempre più estesa di plusvalore, cioè per l’arricchimento del capitalista come scopo personale di questo, ed è compresa nella tendenza generale della produzione capitalistica, diviene però in seguito mediante il suo sviluppo, come è stato mostrato nel primo Libro, una necessità per ogni capitalista individuale. Il costante ingrandimento del suo capitale diviene condizione per la conservazione del capitale stesso. Ma non dobbiamo ritornare oltre su quanto è stato in precedenza sviluppato’. Marx , capitolo 2 del secondo libro del capitale.
Parte terza: il conflitto di classe e il proletariato giovanile, ulteriori note sul problema del rovesciamento virtuale/potenziale dei dati reali della produzione su base capitalistica.
Abbiamo tentato di considerare, sia nella premessa che nella prima parte del testo, gli aspetti generali e comuni al resto della classe delle lotte proletarie giovanili, individuando nondimeno un ambito particolare e specifico di queste lotte nella resistenza al lavoro forzato e gratuito (diffusosi negli ultimi anni nella forma ingannevole degli stage e dell’alternanza scuola/lavoro. Il veicolo agente di queste pratiche di moderno schiavismo giovanile è la scuola media superiore, ovvero l’apparato statale borghese in quanto difensore e fautore attivo degli interessi economici capitalistici ( di cui la scuola è un articolazione funzionale, con il compito sociale di inquadrare ideologicamente i proletari e ora, soprattutto, di fornire coercitivamente forza-lavoro gratuita al sistema delle imprese). Questo aspetto è stato affrontato in un testo presente nel nostro sito dal titolo ‘Fatti e misfatti della riforma scolastica di Renzi’, quindi non è il caso di tornarci sopra, mentre può essere interessante scoprire quali reazioni ha determinato nei soggetti direttamente coinvolti (studenti, scuole, sindacati). Tuttavia prima di continuare vorremmo riepilogare il percorso teorico e i passaggi precedenti. Siamo partiti dal problema del conflitto sociale di classe nella sua articolazione proletaria giovanile, impattando sui soliti problemi della crisi e della disoccupazione, riprendendo poi il tema degli investimenti e la sua critica, contenuta nel testo ‘Imprese economiche di Pantalone’. Gli investimenti di capitale (costante e variabile), riproposti anche oggi da governo e sindacati come un toccasana per il problema ‘disoccupazione’, sono invece un mezzo potente di incremento dell’accumulazione capitalistica, fondato sulla riproduzione allargata del ciclo economico-aziendale, e quindi dello sfruttamento, sia su un piano qualitativo (intensificazione della produttività del lavoro a causa dell’acquisto di nuovo macchinario…), sia sia su un piano quantitativo (impiego limitato di nuova forza-lavoro). L’autofinanziamento (ovvero il profitto reimpiegato in investimenti aziendali di capitale fisso e circolante), o addirittura il finanziamento da parte di terzi ( banche, dilazioni di pagamento dai fornitori, prestiti statali…), sono un fattore di estensione del raggio d’azione dell’economia capitalistica e delle sue interiori contraddizioni ( soprattutto la tendenza alla caduta del saggio medio di profitto, determinata dalla sostituzione del capitale variabile (forza-lavoro creatrice di plus-valore e quindi di profitto) con il capitale costante (macchinario e tecnologia, cioè mezzi di lavoro tecnici non in grado creare un valore aggiuntivo a quello inizialmente immesso nel ciclo di produzione). La contraddizione è insita nel processo economico capitalistico, in quanto l’incremento del capitale costante, mentre da una parte aumenta la produttività di una singola porzione di tempo di lavoro, dall’altra riduce il numero dei salariati, cioè il tempo di di lavoro necessario per produrre la stessa quantità di merci (ma la forza-lavoro salariata è anche l’unica fonte di creazione di plusvalore e quindi di profitto). Riprendiamo ancora una volta Marx, che chiarisce, nel secondo libro del capitale, che ‘la forza—lavoro, la quale non soltanto riproduce il suo valore pagato dal capitalista, ma insieme produce anche un plusvalore, un valore non presente prima e non acquistato attraverso un equivalente. Questa proprietà (è) caratteristica della parte di capitale sborsata in salario, che la distingue toto coelo (sotto ogni aspetto) dal capitale costante come capitale variabile’. Nel tentativo di chiarire questo aspetto basilare della fallacia insita nelle richieste di nuovi investimenti, provenienti dai soliti noti (cioè dal personale politico-sindacale della borghesia), abbiamo poi ritenuto necessario chiarire sulla base del testo di Marx (secondo libro del capitale), la mistificazione occultatrice nascosta nell’impiego dei termini ‘capitale fisso e capitale circolante’, come equivalenti dei concetti economici racchiusi nelle parole capitale costante e capitale variabile. Anche in questo caso è il plus-valore, cioè uno dei fondamenti del rapporto sociale di produzione borghese, che viene occultato e rimosso, quando si assimila la quota di capitale monetario destinata all’acquisto di forza-lavoro (salari), alla quota di capitale monetario destinata all’acquisto di materie prime, materiali di consumo, energia motrice (cioè agli elementi destinati a trasformarsi in merce nel giro di un periodo infra-annuale, e per questo motivo definiti capitale circolante, in opposizione al capitale fisso, costituito invece dagli strumenti di lavoro impiegati per periodi di tempo normalmente superiori ad un anno). Riproponiamo allora una parte delle considerazioni già riportate nella postilla presente in fondo alla prima parte del nostro lavoro: ‘ La differenza, quale si presenta ora dal punto di vista della contrapposizione di capitale circolante e capitale fisso, consiste soltanto in ciò: il valore dei mezzi di lavoro impiegati per la produzione di una merce entra soltanto in parte nel valore della merce, e perciò viene anche sostituito soltanto in parte con la vendita della merce, perciò in generale viene sostituito soltanto pezzo per pezzo e gradualmente (ammortamento). D’altro lato, il valore della forza-lavoro e degli oggetti di lavoro (materie prime ecc.) spesi per la produzione di una merce entra interamente nella merce e perciò viene interamente sostituito con la vendita della merce. In questo senso, rispetto al processo di circolazione, una parte del capitale si presenta come fissa, l’altra come fluida o circolante’. Marx , capitolo 11 del secondo libro del capitale. Nelle pagine precedenti abbiamo tentato anche di delineare delle risposte al problema del rovesciamento virtuale/potenziale dei dati reali della produzione su base capitalistica, tale problematica tenteremo di collegarla, in questa parte terza, alla lotta di classe (in modo particolare alle lotte di quella frazione di proletariato qualificabile con il termine giovanile). Non si tratta, chiaramente, solo di un attributo di tipo anagrafico, ma di una condizione socio-economica con caratteristiche ancora più disagiate e precarie (mediamente) di quelle delle altre frazioni di classe. Portiamo quindi il focus dell’analisi su queste caratteristiche socio-economiche, mostrando sulla base di alcuni grafici reperibili in rete, le cui fonti sono i vari istituti di studi e statistiche italiani ed europei.I grafici (che qui non mostriamo) evidenziano una successione discendente nell’Unione Europea, che parte dalla Svezia per finire alla Grecia. Questa successione discendente è importante per dimostrare numericamente la storica tendenza dell’economia capitalistica a svilupparsi in modo ineguale, sia in relazione alle economie nazionali, sia in relazione alle aree e ai territori presenti all’interno di queste economie nazionali. Questo dato appare verosimile anche in presenza dei contemporanei fenomeni di aggregazione e ricomposizione degli interessi nazionali borghesi, intorno ad aree di attrazione funzionali alla competizione globale: ad esempio l’Unione Europea e la recente Unione Euroasiatica. Dai dati riportati si evidenzia il maggiore grado di occupazione presente nelle economie del nord e del centro, e il minore grado di occupazione nei paesi mediterranei, o in parte dell’est Europa. Altre ricerche statistiche evidenziano la situazione del marzo 2013, e appaiono molto utili per conoscere le percentuali di disoccupazione globale e parziale in Europa. Anche qui ritroviamo dei dati relativi alle economie europee, e anche in questo caso incappiamo nella classica differenza fra economie forti e economie deboli. La Germania ad esempio ha un tasso di disoccupazione giovanile, compreso nella fasciadi età 15/24 anni del 7,6%, l’Italia invece ha un tasso del 38,4%, mentre la Spagna ha addirittura un tasso del 55,9% e la Grecia del 59,1%. Non è neppure il caso di prendere sul serio le previsioni della commissione UE sull’evoluzione dei dati dal 2013 al 2014. Oggi, nel giugno 2015, sappiamo che erano decisamente ottimistiche. Qualche considerazione sugli effetti polarizzatori della centralizzazione dei capitali andrebbe fatta, sembra molto plausibile, infatti, che lo sviluppo economico ineguale sia direttamente collegato a questa tendenza immanente dell’economia capitalistica. In un altro lavoro presente sul sito (Dalla guerra come difesa e offesa….), abbiamo tuttavia affrontato il tema della concentrazione e centralizzazione, per ogni dubbio in merito rimandiamo quindi alla lettura di quel testo. Altri grafici evidenziano la ripartizione ineguale della disoccupazione giovanile nelle tre aree economico-geografiche dell’Italia. Nel Sud si addensa il 51 % del fenomeno, mentre al centro e al nord viene riservato rispettivamente il 18% e il 31% del residuo fenomeno della disoccupazione. Tale evidenza numerica riafferma ulteriormente la regola dello sviluppo ineguale dell’economia capitalistica, confermando la tendenza ‘storica’ alla minore crescita del sud rispetto alle altre due aree, attraverso il contraltare del maggiore livello di disoccupazione giovanile. I dati raccolti ed elaborati dalle principali agenzie statistiche risentono tuttavia di una sottostima del fenomeno, vediamo perché: nella categoria dei disoccupati non viene inclusa quella parte di giovani definiti “NEET” (Not Engaged in Education, Employment or Training). Si tratta di quei giovani (compresi in Italia tra i 15 e i 29 anni) che non studiano, non lavorano, non si formano e che non cercano lavoro. In base alle stime della BCE questi sarebbero 7,5 milioni in Europa, cioè il 12,9 % dei giovani. In Italia ammonterebbero a circa 700.000 mila unità. Considerando che la popolazione italiana compresa tra i 15 ed i 29 anni ammonta a circa sei milioni di individui, si può ben dedurre che 700.000 mila unità, aggiunte al numero di giovani disoccupati regolarmente iscritti nei centri per l’impiego provinciali, o iscritti nelle liste delle agenzie di somministrazione, costituisce un fattore di crescita dei dati precedentemente presentati. Un altro tipo di interpretazione distorsiva è dato dal fatto che nella categoria statistica “inattivi” rientrano oltre tre milioni e mezzo di giovani italiani che studiano o sono coinvolti in percorsi formativi (quindi non sono ancora inseribili nel mercato del lavoro, e dunque non possono essere catalogati in parte o in tutto come disoccupati). La finzione consiste nel fingere di ignorare che spesso la scuola è solo un area di parcheggio sostitutiva di un lavoro che non c’è, e quindi una parte dei giovani impegnati nello studio oltre l’età dell’obbligo scolastico, è di fatto impegnata in una attività che abbandonerebbe volentieri se solo ci fosse una alternativa di lavoro apprezzabile. Qualche simpatico apologeta dell’esistente continua a sostenere che anche ammessa questa circostanza, non si può dimenticare che finalmente in Italia inizia a diffondersi l’alternanza scuola-lavoro, e quindi il numero dei finti studenti/disoccupati veri, non è comunque così alto come sembra, poiché bisogna considerare i contratti di lavoro in apprendistato. In effetti solo una parte infima della disoccupazione giovanile è attribuibile a questa non corrispondenza fra competenze offerte e competenze richieste. Passiamo ora al problema dell’incidenza numerica del lavoro precario, su di esso è ancora più difficile reperire dei dati sicuri, ipotizziamo, in base ai dati dell’Istat del mese di luglio del 2013, che su oltre 22 milioni di lavoratori italiani, siano oltre dieci milioni i lavoratori precari. Un precario guadagna dal 20% al 33% in meno nella retribuzione netta mensile rispetto a un collega non precario. Dal 2004, dopo l’entrata in vigore della legge Biagi, la crescita dei contratti a termine in Italia è stata febbrile, soprattutto per i giovani. Nel 2015 supera ormai il 50% del totale. Una situazione fluida e nebbiosa, dove è difficile individuare e scindere il libero professionista volontario, dal finto e involontario, come lo definisce l’Istituto italiano di statistica (involontario è il lavoratore che accetta di lavorare col part-time o con la partita Iva “in mancanza di occasioni di impiego a tempo pieno”). Sono cose note, o almeno parzialmente note: disoccupazione, lavoro precario, finti contratti di consulenza e prestazione di servizi, e quindi finte partite Iva. Le strade del ricatto al moderno proletariato giovanile e meno giovanile sono varie, ma conducono tutte a una condizione di vita difficile, precaria, sottopagata e infine spietatamente sottomessa al dispotismo aziendale capitalistico. Chiediamoci cosa producono, a livello di conflitto sociale, questi processi di intensificazione dello sfruttamento della forza-lavoro e del suo assoggettamento schiavistico al comando del capitale. In Polonia, ad esempio è stata organizzata una assemblea nazionale dei lavoratori precari nell’ambito delle celebrazioni del 23 maggio 2015, denominata giornata del precario. L’assemblea nazionale si è svolta a Varsavia, accompagnata da giornate di azione nelle settimane precedenti. La campagna MY, PREKARIAT (me , il precario) è stata lanciata a partire da un sindacato autonomo polacco, anche con una mobilitazione on-line. Nella pubblicizzazione della campagna di lotta si invitano i soggetti interessati ‘a progettare manifesti, slogan, per registrare le canzoni, fare memes, video-clip, e di segnalare bisogni ed esigenze rispetto ai casi di sopraffazione sul lavoro’. Dalla rete invece riportiamo parte di una notizia: Il 30 Maggio, 2015, a Milano, dei giovani Stavano distribuendo volantini, all’ingresso dell’Esposizione universale, contro il precariato e le condizioni contrattuali dei dipendenti di Expo’. Non ci interessa fare la cronaca precisa dei fatti, ma solo indicare delle tendenze sociali di scontro già in atto, se pure a livello ancora minoritario. ‘Il processo di produzione capitalistico…produce e riproduce il rapporto capitalistico stesso: da una parte il capitalista, dall’altra l’operaio salariato’ (Marx), al contempo riproduce anche le condizioni potenziali della rabbia e della ribellione dei soggetti umani stritolati dentro l’inesorabile e spietato mattatoio sociale capitalistico. Una condizione di vita alienata e mercificata può tuttavia determinare delle reazioni di rigetto, ora noi pensiamo che solo da queste reazioni, dalla loro estensione su un piano sociale sempre più ampio, sfociante infine in obiettivi e programmi politici rivoluzionari, possa porsi il risolvimento del problema del rovesciamento virtuale/potenziale dei dati reali della produzione su base capitalistica. La classe proletaria, stritolata nel disumano meccanismo sociale capitalistico, può trasformarsi dal puro aggregato statistico-quantitativo della classe in sé, nella forza rivoluzionaria della classe per sé, guidata dal suo organo partito, ‘perché solo quando nel campo della classe si è formato l’organo energetico che è il partito la classe diventa tale e si avvia ad assolvere il compito che le assegna la nostra dottrina della storia(5). La repressione della turbolenza sociale prodotta dalla risposta proletaria, nel corso della storia si è mossa su un piano complementare e sincronico alla minaccia condotta all’apparato di dominio borghese:”Quando i primi regimi fascisti sono apparsi e si sono presentati alla più immediata e banale interpretazione come una riduzione e una abolizione delle cosiddette garanzie parlamentari e legalitarie, si trattava in effetti puramente, in dati paesi, di un passaggio della energia politica di dominio della classe capitalistica dallo stato virtuale allo stato cinetico…’ Prometeo 1947. Quando le condizioni sociali e politiche, sulla spinta della polarizzazione generale dello scontro di classe, saranno ormai favorevoli alla lotta rivoluzionaria ‘per la vittoria sarà necessario avere un partito che meriti al tempo stesso la qualifica di partito storico e di partito formale, ossia che si sia risolta nella realtà dell’azione e della storia la contraddizione apparente – e che ha dominato un lungo e difficile passato – tra partito storico, dunque quanto al contenuto (programma storico, invariante), e partito contingente, dunque quanto alla forma, che agisce come forza e prassi fisica di una parte decisiva del proletariato in lotta’(6).
(5)‘La nostra formula centralismo organico voleva appunto dire che non solo il partito è un particolare organo della classe, ma per di più è solo quando esso esiste che la classe agisce come organismo storico e non solo come una sezione statistica che ogni borghese è pronto a riconoscere. Marx, nella ricostruzione storicamente fondamentale e irrevocabile di Lenin, non solo dice di non avere scoperto le classi, ma nemmeno la lotta fra le classi, e indica come connotato inconfondibile della sua originale teoria la dittatura del proletariato: questo vuole appunto dire che solo a mezzo del partito comunista il proletariato potrà pervenire alla sua dittatura. Le due nozioni, dunque, di partito e di classe non si contrappongono numericamente perché il partito è piccolo e la classe è grande, ma storicamente e organicamente; perché solo quando nel campo della classe si è formato l’organo energetico che è il partito la classe diventa tale e si avvia ad assolvere il compito che le assegna la nostra dottrina della storia’. Appunti per le tesi sulla questione di organizzazione. 1964.
(6)’Quando dalla invariante dottrina facciamo sorgere la conclusione che la vittoria rivoluzionaria della classe lavoratrice non può ottenersi che con il partito di classe e la dittatura di esso, e sulla scorta di parole di Marx affermiamo che prima del partito rivoluzionario e comunista il proletariato è una classe, forse per la scienza borghese, ma non per Marx e per noi; la conclusione da dedurne è che per la vittoria sarà necessario avere un partito che meriti al tempo stesso la qualifica di partito storico e di partito formale, ossia che si sia risolta nella realtà dell’azione e della storia la contraddizione apparente – e che ha dominato un lungo e difficile passato – tra partito storico, dunque quanto al contenuto (programma storico, invariante), e partito contingente, dunque quanto alla forma, che agisce come forza e prassi fisica di una parte decisiva del proletariato in lotta. Questa sintetica messa a punto della questione dottrinale va riferita anche rapidamente ai trapassi storici che sono dietro di noi’. ‘Considerazioni sull’organica attività del partito…’.