Buchenwald è il capitalismo

Nota redazionale: Gettata fin dalla nascita in una società segnata dalla violenza del dominio di una classe sociale parassitaria e sfruttatrice, una parte dell’umanità si interroga sulle radici della violenza. Di volta in volta individua un capro espiatorio su cui scaricare tutto il male prodotto dal capitalismo, spesso questo capro espiatorio è un regime politico particolarmente mostruoso nell’esercizio della violenza. Attribuendo la negatività prodotta dal capitalismo ad una delle sue apparizioni storiche contingenti, ci si illude di avere esorcizzato per sempre l’elemento mostruoso insito invece in un sistema sociale di dominio di classe, non avvedendosi che la madre dei mostri è ancora gravida e continua a partorire. In fondo è questo il messaggio principale contenuto nel testo ‘Buchenwald è il capitalismo’. Il capitalismo che produce a ciclo continuo una forza-lavoro eccedente disoccupata o sottoccupata, oppure retribuita con un salario da fame (a causa delle leggi immanenti del modo di produzione capitalistico), condanna alla miseria crescente la stragrande maggioranza della specie umana. La miseria relativa e assoluta prodotta dal capitalismo va intesa, a sua volta, come un fattore potente di estinzione anticipata della vita di centinaia di milioni di esseri umani. In fondo, avevamo cercato di attribuire violenza e barbarie ad un solo momento della storia, in modo particolare alla barbarie nazista (ma anche a quella fascista e stalinista), senza capire che la barbarie non è mai scomparsa, perché il capitalismo nasce grondante di fango e sangue (Marx), ed è intrinsecamente un regime di dominio (supportato dalla violenza latente e cinetica dell’apparato statale) di classe, e dunque solo con il suo abbattimento potrà iniziare a delinearsi una prospettiva di vita libera dalla maledizione della violenza, le cui radici sono nella dimensione primaria dell’oppressione di classe.

Il testo che riproponiamo analizza la violenza sterminatrice presente nel panorama imperialistico internazionale degli anni 50 e 60, sfatando così l’illusione che il fattore violenza fosse scomparso con la fine della esperienza nazista. Indubbiamente i fenomeni storici e sociali presentano delle specificità, e queste vanno descritte e analizzate con capacità di discernimento. Dunque non va affatto trascurato uno studio sugli aspetti specifici del nazismo, e tuttavia non si può nemmeno trascurare che questo mostro sorge in fondo sul terreno del capitalismo, e ne rappresenta una modalità operativa legata a determinate condizioni storiche. Ci sono in circolazione dei validi studi storici sulle origini del regime nazista, essi descrivono i molteplici fattori che hanno determinato quel fenomeno, analizzandone anche le componenti psicologiche, culturali e più specificamente, in taluni casi, esoteriche. Tutto questo lavoro di ricerca e analisi può indubbiamente arricchire il nostro quadro interpretativo marxista, ma non sostituirlo, poiché è nella dinamica socio-economica strutturale del capitalismo che vanno ricercate le cause ultime delle tragedie storiche del ventesimo secolo. 

                                                                                                     
 Buchenwald è il capitalismo

Gli scoppi di delinquenza razzista e di teppismo antisemita, l’epidemia di croci uncinate e simili delizie, sembrano capitati in buon punto per ridare tono e prestigio alla virtuosa democrazia progressista, e giustificare il grido: Ritorna la minaccia del nazismo, degli orrori dei campi di concentramento, della violenza bestiale a danno dei deboli! Uniamoci per salvare la purezza incorrotta dell’antifascismo! Perché no, ricostruiamo un fronte popolare per la difesa dei diritti dell’uomo!

La democrazia sarebbe dunque un argine contro il riapparire del bestione trionfante? Non ci sarebbero dunque più Buchenwald e Mauthausen il giorno in cui la verginità democratica fosse protetta dalla minaccia di resurrezione del fascismo in croce uncinata? Comodo, certo; ma non è così. Buchenwald non ha bisogno di risorgere per la ricomparsa di «rigurgiti fascisti»: Buchenwald è già qui, egregi signori della democrazia universale; è qui dallo stesso giorno in cui il fascismo fu definitivamente battuto sul terreno militare e passò pari pari in eredità al vincitore democratico. Che cosa sono stati quindici anni di perfetto dominio della democrazia su scala mondiale, se non quindici anni di fascismo aggravato? Temete il risorgere del genocidio, o intellettuali in fregola di fronti democratici? Ebbene, che cosa fu il massacro dei quarantamila algerini nel 1945, regnando il fronte universale dell’antifascismo borghese, da De Gaulle grande resistente fino a Thorez suo vice-premier, se non un classico esempio di genocidio nello stile della croce uncinata? Che cos’è lo stillicidio delle guerre localizzate, ora in Corea, ora in Algeria, ora in Indocina, ora in Ungheria, ora in Egitto, etc., se non una ripetizione – senza svastica, d’accordo! – della solfa hitleriana?

Il Sud-Africa ultra-razzista e, per rapporto ai negri, non certo inferiore al modello hitleriano, fa parte delle Nazioni Unite di ultra-democratico conio, ma nessuno ha mai pensato e pensa di metterlo alla porta o di inchiodarlo al verdetto della «coscienza universale». La «linea di colore» fa parte per tradizione della politica di una delle colonne della democrazia universale, la Gran Bretagna. La Francia e il Belgio colonialisti hanno le mani grondanti di sangue negro o bianco semitico, e la prima sarà una delle colonne della distensione e della concorrenza pacifica covate nelle prossime riunioni «alla vetta». La Croce Rossa Internazionale ha lanciato un timido grido sulle torture praticate in Algeria prima ancora di De Gaulle, imperante il proconsole socialista Lacoste, e allegramente continuate e perfezionate dai loro successori. Non sono torture con il marchio di fabbrica hitleriana: ma torture restano. Pochi hanno da protestare: tutti hanno al contrario da corteggiare i torturanti in nome della «libertà dalla paura». Negli Stati Uniti declina il razzismo ufficiale e scoperto, ma il negro continua ad essere, di fatto, un cittadino minoris juris. Quanto a «genocidi», il Cremlino ha – nella lunga storia della controrivoluzione e della sua diplomazia, ora filo-hitleriana, ora filo-occidentale, sempre reazionaria – un bel po’ da insegnare. No, il fascismo non è morto, perché non è morto il capitalismo!

E se, dal seno di una società che proclama di aver instaurato le quattro libertà e di aver educato le generazioni nuove a venerarle, balza fuori la recentissima variante dei blue-jeans, gli imbrattamuri in croci uncinate, che cosa può vantarsi questa società di aver «insegnato» ai giovani, se non quello che abbiamo ricordato più sopra? O forse la società democratica si scandalizza perché i giovani pretendono di toglierle il bieco monopolio del terrore e della persecuzione razziale? Ciò che avviene è il segno del marciume che la società mercantile, la società dei bottegai e dei mercanti di prodotti, di «servizi» e di carne umana, sprigiona da sé stessa: e questo marciume non è un fenomeno patologico di cui la democrazia dovrebbe o potrebbe sbarazzarsi; è la sua stessa linfa, corrotta e corruttrice. Il metodo della «ricerca del colpevole» è tipico del capitalismo: se le cose non vanno bene, si ricerca l’ebreo, e, nello stesso tempo si devia verso l’anti-ebreo lo sdegno delle masse sfruttate.

Solo una società organizzata dai proletari su una base che non sia quella dell’uomo e del suo lavoro considerato come merce da offrire e da acquistare sul mercato, e del lavoro umano valorizzato come mezzo non per conservare e riprodurre la specie, ma per conservare e riprodurre all’infinito il capitale, potrà eliminare dalla faccia della terra non solo le svastiche disegnate sui muri, ma la bestiale violenza esercitata di fatto sotto mille bandiere e simboli diversi, e sotto lo scudo dell’ipocrisia dei moralisti. Solo la lotta del proletariato mondiale di tutte le «razze» e di tutti gli Stati seppellirà il mostro razzista e sciovinista.

La fetida ondata razzista svegli i proletari alla coscienza che il capitalismo, sotto qualunque veste, è oppressione, bestialità e morte.

  «Il Programma Comunista», n. 1 del gennaio 1960

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