Alleanza e concorrenza fra Europa e USA ai tempi del declino del ‘Chaos Imperium’
‘‘In nessun momento, dunque, gli antagonismi obiettivi sono scomparsi fra le nazioni del blocco occidentale. Non solo: mai il conflitto d’interessi fra l’America e la «Piccola Europa» è stato così aspro come oggi”.
Tratto da ‘Il mito dell’Europa unita’. 1962
Premessa
Struttura socio-economica e sovrastruttura politico-statale sono due realtà interconnesse, la seconda trae forza e ragion d’essere dalla prima, ma a sua volta la sovrastruttura può agire come fattore di rafforzamento verso la struttura da cui deriva. Pensiamo ad un esempio pratico: gli USA. Le tendenze emergenti dai dati macro-economici USA (produzione industriale, esportazioni, importazioni, PIL, debito totale, disoccupazione), confrontate con i dati e le tendenze di altre economie capitalistiche, spingono a ipotizzare un declino economico del capitalismo USA. Tuttavia la debolezza del dato economico non corrisponde in maniera automatica, meccanicistica, ad una corrispondente debolezza politica, poiché ancora imponente e letale è la forza del complesso militare-industriale (con l’annessa funzione ausiliaria della ricerca scientifica e tecnologica). Questo complesso e questa funzione ausiliaria, negli USA, per quanto posti in essere e continuamente rinvigoriti in origine dalla struttura socioeconomica capitalistica nazionale, continuano poi a ‘lavorare’ per la salvaguardia di questa struttura, anche quando la sua potenza economica tende a declinare. Il controllo delle risorse petrolifere e delle materie prime di altri paesi, incluse le loro vie di trasferimento, consente anche ad un impero in declino come gli USA di prolungare l’esistenza parassitaria della propria classe borghese (e quindi anche gli intrecci di interessi con altre borghesie nazionali, alleate o vassalle).
Nel medio-lungo periodo, tuttavia, il declino economico (strutturale) produce sempre una conseguente debolezza sovrastrutturale, un esempio storico di questa dinamica causa-effetto è dato dal confronto fra l’attuale tecnologia militare USA (convenzionale e nucleare) rispetto a quella della Russia e della Cina.
Prima parte: le differenti priorità dei blocchi capitalistici concorrenti negli investimenti nel campo degli armamenti
Ancora oggi, anno 2018, il quantitativo di armi in possesso degli USA sopravanza quello di singoli stati concorrenti come Russia e Cina, e così pure il volume del budget annuale di spesa dedicato al settore militare.
La Marina Usa è dotata di decine di portaerei, varie centinaia di aeroplani alloggiati sulle suddette portaerei, in grado di proiettare gli interessi del capitalismo americano ai quattro angoli del globo. Almeno questa era l’idea degli strateghi militari e politici USA, fino a quando dalle ceneri del vecchio rivale imperiale, l’URSS, non è rinata la fenice della millenaria potenza militare russa. Convinti di vivere in un mondo senza rivali militari di pari grado, gli strateghi militari e politici USA, hanno, di conseguenza, investito per due decenni nel potenziamento o nello sviluppo di tipologie di arma valide per gli “interventi di polizia” contro avversari nettamente inferiori militarmente (Serbia, Afghanistan, Irak, Siria). Dovendo affrontare nemici dotati di armamenti tecnologicamente inferiori a quelli in proprio possesso, gli USA decisero di investire soprattutto nella produzione e manutenzione di armi progettate negli anni ottanta (prima del crollo dell’URSS), limitando invece la ricerca e lo sviluppo dei sistemi d’arma tecnologicamente più avanzati. Viceversa la Russia e la Cina hanno puntato sullo sviluppo di nuove tecnologie missilistiche in grado di neutralizzare i sistemi difensivi e offensivi degli USA, sebbene impiegando risorse ed investimenti inferiori. I risultati raggiunti in questo campo, ma anche nel campo dello sviluppo di sistemi d’arma convenzionali, hanno conseguito il loro scopo, almeno a detta degli stessi esperti del settore.
Il ritorno sullo scacchiere del confronto geo-politico del vecchio rivale russo, oltretutto in simbiosi economica e militare con la Cina, ha radicalmente scompaginato i calcoli e le strategie della direzione politica e militare USA, costringendola a ricorrere alla strategia del caos, per impedire o rallentare l’affermazione degli interessi dei propri rivali capitalistici. Infatti, non essendo realisticamente ipotizzabile uno scontro nucleare diretto con la risorta superpotenza russa, l’unica strada percorribile per gli USA è rimasta quella della schermaglia continuata, della guerra per procura attraverso variegate milizie mercenarie, dell’avvelenamento dei pozzi e della terra bruciata, del ‘divide et impera’, in definitiva di un complesso di azioni che qualificano l’agente come un vero e proprio ‘Chaos Imperium’.
Come abbiamo già descritto in qualche precedente articolo, i capitalismi emergenti di Cina, Russia, India e via dicendo, possedendo adeguate risorse energetiche, materie prime e masse di proletari da impiegare nel processo produttivo capitalistico, hanno per ora l’esigenza prevalente di investire ‘pacificamente’ il capitale in tutte le lande geo-economiche dove questo investimento si rende possibile (Europa, Africa, Medio-Oriente, Asia, Sud-America e negli stessi USA), anche se questa esigenza, questi investimenti, entrano spesso in rotta di collisione con gli interessi capitalistici concorrenti degli USA. Queste dinamiche capitalistiche sono state descritte nei seguenti articoli ‘The duellists’, ‘Chaos Imperium’, ‘Capitalismo‘, ‘Dinamiche di confronto e scontro fra blocchi imperiali’.
Nel prossimo capitolo analizzeremo alcuni aspetti del tentativo di distanziamento del capitalismo europeo (germanico principalmente) dalle sorti del capitalismo egemone USA.
Postilla
Riteniamo utile riproporre come premessa alla seconda parte, la nota redazionale al lavoro di marzo 2018 ‘Europa Capitalistica’
Nota redazionale: ancora degli articoli tratti da ‘Il Programma Comunista’, 5 Giugno 1962, N. 11 & 12. Questa volta l’argomento è l’Europa unita. Siamo nel 1962, i processi capitalistici che spingono le sovrastrutture statali borghesi europee a progettare l’utilizzo di strumenti comuni di politica economica e valutaria, o di armonizzazione fiscale e tributaria, sono già chiari e definiti nell’ottica marxista (al di là della stucchevole narrazione che viene propagata da buona parte delle forze politiche e dei mezzi d’informazione dell’epoca). Il testo del 1962 è molto esplicito: ‘nella realtà, gli interessi materiali delle nazioni si affrontano senza che si possano mettere in comune le disparità che il capitalismo stesso ha fatto nascere’. Dunque il capitalismo produce e riproduce‘disparità’ (di classe, di grado di sviluppo economico fra nazioni, ma anche all’interno della stessa nazione), ed è impossibile che tali disparità possano essere poi superate con accordi legali pacifici fra contraenti dotati di forze e posizioni diseguali (cioè dispari). Leggiamo cosa sostiene l’articolo: ‘Per noi le classi sociali sono legate a una certa forma di produzione e, a meno di una rivoluzione politica e sociale, la loro natura non cambia. La borghesia, come la definisce il ‘Manifesto’, è caratterizzata da una lotta incessante condotta prima contro l’aristocrazia, poi contro i partiti che si oppongono ai progressi della sua industria, sempre contro le borghesie straniere. La rivoluzione borghese crea quell’unità di produzione che è la nazione, e attraverso gli scambi mercantili la congiunge al mercato mondiale. Non occorre alcuna nozione nuova per constatare che lo sviluppo ineguale del capitalismo nel mondo e la marcia irregolare dell’evoluzione storica delle grandi potenze fanno sì che la borghesia internazionale, sempre pronta a far blocco contro le forze rivoluzionarie, è d’altra parte essa stessa profondamente divisa da inguaribili rivalità. Per noi il Mercato Comune non è l’unione delle nazionalità europee, ma l’espressione – più acuta che mai – della rivalità fra le nazioni capitalistiche’. Il mito dell’Europa unita
Dunque la borghesia internazionale (che ritrova una temporanea unità di azione solo contro le forze rivoluzionarie) è invece congenitamente, normalmente, divisa da rivalità di interessi (di bottega). Quindi anche il ‘mercato comune’, lungi dall’essere un reale fattore di unione, stante la logica di rivalità e di concorrenza interna della borghesia, diventa, appunto‘l’espressione – più acuta che mai – della rivalità fra le nazioni capitalistiche’.
Anche il testo del 1962 contiene precisi riferimenti alla distruzione rigeneratrice,argomento su cui abbiamo spesso scritto negli ultimi anni (evidentemente in coerenza con l’analisi marxista, e in ragione della sostanziale invarianza storica del meccanismo socio-economico capitalistico). Ecco un esempio di questi precisi riferimenti:‘nell’epoca attuale dell’imperialismo, il capitalismo non può sopravvivere che grazie alle massicce distruzioni belliche; l’impulso alla produzione è tanto forte quanto più importanti sono state le distruzioni. In altre parole, il capitalismo, la cui ragion d’essere è una accumulazione accresciuta senza posa, deve sempre più ricorrere, per sopravvivere, a disaccumulazioni violente’. Il mito dell’Europa unita
Un ultima osservazione: nel corso del suo sviluppo il modo di produzione capitalistico tende a ‘infrangere i limiti divenuti troppi angusti della nazione (l’impresa locale diviene così trust internazionale). Questa tendenza alla socializzazione dei mezzi di produzione, la cui soluzione reclama la rivoluzione sociale del proletariato’. Il mito dell’Europa unita
In assenza della rivoluzione proletaria, la tendenza alla socializzazione dei mezzi di produzione si compie ‘in antitesi al quadro nazionale degli interessi generali di ciascuna borghesia. Questa perciò tenta di superare la contraddizione con i propri mezzi, che sono i molteplici accordi economici che gli Stati firmano tra loro (gli uni contro gli altri): zone di libero scambio, Mercato Comune, accordi interamericani, consigli di cooperazione economica tira i paesi «socialisti», ecc. e mediante i quali il capitalismo cerca di regolare le produzioni creando legami tecnici e finanziari tra le diverse branche economiche’. Il mito dell’Europa unita
Dunque gli accordi e le unioni diventano dei semplici mezzi attraverso cui le sovrastrutture statali borghesi, tentano di ‘superare la contraddizione’ strutturale tra socializzazione dei mezzi di produzione e il ‘quadro nazionale degli interessi generali di ciascuna borghesia’. Tuttavia i tentativi di superare la contraddizione anzidetta non sono che il presupposto e la condizione di partenza per la diffusione di altre contraddizioni, infatti gli accordi economici ‘che gli Stati firmano tra loro (gli uni contro gli altri)’conducono alla intensificazione delle disparità economico-sociali, perché mentre ‘il capitalismo cerca di regolare le produzioni creando legami tecnici e finanziari tra le diverse branche economiche’ …‘è evidentemente a modo suo che realizza questo obiettivo, perché nell’atto stesso in cui il capitalismo, mediante la divisione internazionale del lavoro, super-industrializza una parte del globo, distrugge l’economia di intere regioni gettandole nella miseria e nella rovina’. Il mito dell’Europa unita
Il testo conferma, inoltre, contro ogni idea di centro unico mondiale, la realtà della divisione della dominazione borghese globale in blocchi concorrenti, antagonistici, infatti: ‘Solo quest’analisi dialettica della economia capitalistica (cioè della contraddizione fra tendenza alla socializzazione dei mezzi di produzione e tendenza alla difesa del‘quadro nazionale degli interessi generali di ciascuna borghesia’. Nostra nota) permette di comprendere la natura contraddittoria dell’odierna nazione borghese. Con la stipulazione di accordi economici e politici, l’antagonismo che oppone le une alle altre le nazioni borghesi, lungi dallo scomparire, rinasce con un’ampiezza mostruosa nei blocchi che oggi si affrontano‘. Il mito dell’Europa unita
Il mito dell’Europa unita è un testo che sfata (preventivamente) anche il mito dell’indebolimento/esautoramento degli apparati statali, ovvero la tesi del ruolo ormai ‘inessenziale’ della sovrastruttura rispetto alle dinamiche strutturali economiche.
Ebbene, le ‘nuove’ istituzioni sovranazionali, gli accordi internazionali fra stati (nel 1962 come nel 2016) non solo conservano i conflitti e le rivalità di bottega delle borghesie nazionali, in quanto ‘gli interessi materiali delle nazioni si affrontano senza che si possano mettere in comune le disparità che il capitalismo stesso ha fatto nascere’, ma in definitiva sorgono già all’origine minati dallo scontro di interessi, in cui la borghesia più debole e lo stato che la rappresenta, risulta la parte di sicuro penalizzata nell’accordo finale :‘Per noi il Mercato Comune non è l’unione delle nazionalità europee, ma l’espressione – più acuta che mai – della rivalità fra le nazioni capitalistiche’. Gli accordi inter-statali lungi dal pacificare i conflitti interni alla classe borghese globale, o dall’estinguere la funzione della sovrastruttura statale in se stessa, non fanno altro che approfondire i conflitti fra i predoni borghesi (sulla deriva della caduta storica del saggio di profitto), e trasferiscono parte degli attributi e dei poteri degli stati che rappresentano le economie nazionali più deboli, in ambiti statali sovranazionali (in cui la parte del leone la incarnano gli interessi dell’economia capitalistica più forte e sviluppata). Queste istituzioni politico-economiche sovranazionali sono il risultato, infatti, dei ‘molteplici accordi economici che gli Stati firmano tra loro (gli uni contro gli altri). Accordi che sul piano sovrastrutturale statale accentuano invece di attutire le rivalità interne alla classe borghese, infatti, ripetiamolo ancora: ‘Con la stipulazione di accordi economici e politici, l’antagonismo che oppone le une alle altre le nazioni borghesi, lungi dallo scomparire, rinasce con un’ampiezza mostruosa nei blocchi che oggi si affrontano‘.‘ Il mito dell’Europa unita
Ancora un piccolo inciso: il testo del 1962 preconizza che l’eventuale riunificazione della nazione tedesca avrebbe dato impulso ai processi di aggregazione capitalistica autonoma dell’Europa dai Moloch imperiali russo -americani, i termini in cui viene espressa tale previsione sono i seguenti: ‘L’Europa ricostruita col ferro e col fuoco dagli «alleati» ha visto la Germania divisa in due, e la Germania divisa significa l’Europa e il mondo divisi. I patti militari, la NATO e il patto di Varsavia, lungi dall’aver costituito le cause di questa divisione, non sono stati che il velo giuridico di una situazione storica: l’occupazione militare da parte dei mastodontici stati americano e russo che, pur avendo interessi contrastanti su scala mondiale, sono sostanzialmente d’accordo sulla divisione dell’Europa e lottano entrambi per mantenere sotto tutela; all’ovest come ad est, gli altri Stati’. Il mito dell’Europa unita
Ora, cosa significa affermare che la Germania divisa significa l’Europa e il mondo divisi ? Proviamo a ragionare: Il capitalismo tedesco, con il suo grado di sviluppo, è ancora oggi percepito come un pericoloso avversario dai centri di potere del complesso militare -industriale americano, e ove questo capitalismo realizzasse una qualche forma di aggregazione o blocco di interessi economici e politici con la potenza euroasiatica di Russia e Cina, diventerebbe il fattore destinato a fare la differenza sulle sorti dell’attuale confronto/scontro fra blocchi imperiali concorrenti. Abbiamo spesso sostenuto che la sconfitta dell’egemonismo più forte, in questo caso quello anglo-americano, potrebbe innescare dei processi di accelerazione del conflitto sociale nel cuore stesso del capitalismo più avanzato, con effetti a cascata sugli altri paesi, e quindi consentire l’apertura di una prospettiva rivoluzionaria, ergo di un mondo non più diviso in classi e stati-nazione (Imperialismo delle portaerei). Si tratta di ipotesi, ma è anche vero che la riunificazione tedesca c’è stata, e le manovre di contenimento/asservimento degli U.S.A rispetto ai vassalli europei sono visibili e, alla luce del sole ( prendiamo i vagheggiati trattati commerciali transatlantici – fortemente osteggiati dall’imprenditoria tedesca – o le inchieste relative a una casa automobilistica tedesca, oppure le sanzioni economiche anti-russe che l’Europa ha adottato – contro i propri interessi – e su impulso americano). Come nella normale concorrenza fra imprese capitalistiche, anche nella politica internazionale: ‘‘In nessun momento, dunque, gli antagonismi obiettivi sono scomparsi fra le nazioni del blocco occidentale. Non solo: mai il conflitto d’interessi fra l’America e la «Piccola Europa» è stato così aspro come oggi. A questo fatto non cambiano nulla le stupide fanfaronate dei piccoli borghesi che credono di vedere la potente America ammainar bandiera davanti a loro, e la orgogliosa Inghilterra venire a più miti consigli. È invece chiara la manovra dell’Europa Unita: i Sei vorrebbero giocare, di fronte ai colossi americano e russo, il ruolo della «terza forza», «garanzia di equilibrio, di pace e di sviluppo armonioso dell’umanità», mediante il «giusto riconoscimento del ruolo di guida che non avrebbero mai dovuto lasciarsi sfuggire». Ma ecco che, appena questo nobile progetto sta per germogliare, l’America rivendica la sua parte dopo che l’Inghilterra aveva posto la sua candidatura trascinando con sé il Commonwealth; e non è ancora finita…’. Il mito dell’Europa unita
Sembra una descrizione vivida degli ultimi eventi internazionali, le ambizioni inani del terzaforzismo europeo, le lusinghe del blocco russo-cinese all’Europa, la mano di ferro del grande fratello a stelle e strisce sui riottosi e perplessi vassalli europei, e soprattutto la considerazione che ‘non è ancora finita’.
Seconda parte: concorrenza mercantile e centri imperiali
Gli imperi nascono, crescono, muoiono. Fra l’inizio del 1600 e l’inizio del 1700 vide luce in Europa l’impero svedese, una meteora durata poco più di cento anni, nulla in confronto alla durata dell’impero romano, cinese, ottomano, spagnolo, inglese. L’impero USA non ha nemmeno cento anni di vita, e già si avvia al tramonto. Alcuni imperi risorgono (pensiamo, a quello feudale russo-zarista, morto e poi risorto come impero sovietico capitalistico, poi ancora deceduto e infine in via di nuova resurrezione capitalistica). Ma quello USA, si spera, potrebbe morire senza risorgere, lasciando spazio e tempo a un nuovo tipo di società senza imperi e conflitti inter-imperialistici.
Nell’attesa del nuovo quadro sociale, a cui modestamente stiamo cercando di contribuire anche con la nostra stampa, tenteremo di analizzare lo stato attuale dei rapporti fra Usa ed Europa. Soffermiamoci sugli accordi militari della NATO, è innegabile che l’alleanza sia egemonizzata dagli USA, che in quanto nazione capitalistica guida dell’occidente indirizza l’alleanza verso scopi ed azioni coerenti con i propri interessi nazionali. L’aspetto curioso, anche se comprensibile in una pura logica di forza e potere, è la richiesta del presidente Trump di far pagare agli alleati i costi della difesa (quindi le spese per il mantenimento delle basi Nato), e la correlata offerta di acquisto di armi prodotte negli USA.
I cosiddetti ‘alleati’, o meglio i soci minori europei del club dell’occidente, si trovano ora a dover affrontare le conseguenze economiche dell’uscita unilaterale degli USA dall’accordo anti-nucleare con l’Iran. I danni economici saranno notevoli, infatti alcune compagnie europee, principalmente tedesche, che avevano già investito dei grossi capitali in Iran, adesso dovranno probabilmente desistere dai propri ulteriori piani di investimento, per evitare le sanzioni minacciate dagli USA. Un altro aspetto economico critico per l’Europa capitalistica, è dato dalla decisione dell’amministrazione Trump di rimettere in discussione gli accordi economici che regolavano l’interscambio commerciale, con la decisione di imporre dei dazi sulle importazioni (in modo particolare sulle importazioni provenienti dalla Germania).
La questione commerciale dei dazi americani è intimamente congiunta alla tematica valutaria. La Germania è stata accusata da ambienti politico-economici USA di sfruttare i vantaggi concessi da un euro svalutato, in questa lettura il deficit commerciale statunitense nei confronti della Germania è un derivato del deprezzamento competitivo dell’euro rispetto al dollaro. Una delle cause di questo deprezzamento è nella condotta del capitalismo tedesco, che ha incrementato la produttività del lavoro e la competitività delle merci prodotte, comprimendo comunque il fattore lavoro con il maggiore impiego di capitale costante, e deprimendo in parte la domanda interna. La maggiore competitività delle merci tedesche ha prodotto un surplus commerciale col resto dei paesi europei, che accoppiato alle politiche di austerità e di crescita del prelievo fiscale volute dalle oligarchie capitalistiche europee (espressione delle economie forti), ha posto in ulteriore difficoltà le economie europee deboli, consentendo il deprezzamento dell’euro, che in ogni caso rappresenta la media dei parametri economici delle varie economie europee. La svalutazione dell’euro ha poi consentito alla Germania di vendere le proprie merci in giro per il mondo, competendo in un certo qual modo anche con le economie emergenti.
Come si può ben arguire dalla lettura di queste notizie, la sovrastruttura statale capitalistica USA, in barba a tutte le dichiarazioni di principio sul libero mercato globale, al momento opportuno, pur di tutelare la sua struttura socio-economica e il parassitismo della sua borghesia, non si fa scrupolo di ripristinare i dazi sulle importazioni della concorrenza. Tuttavia questa mossa conferma in definitiva il quadro di declino del capitalismo USA, costretto a supportare la propria industria nazionale con misure protezionistiche, in quanto tale industria è incapace di produrre merci in base a un rapporto prezzo-qualità pari a quello della concorrenza europea e anche cinese. La misura protezionistica è tuttavia un arma a doppio taglio, in quanto le stesse merci USA destinate all’esportazione potrebbero subire misure protezionistiche di ritorsione da Cina ed Europa (vanificandosi così in breve tempo il presunto vantaggio economico iniziale). Ultimo appunto: le sanzioni economiche alla Russia sono state fortemente sollecitate dagli USA in funzione del confronto/scontro con il complesso militare-industriale russo, ormai riconosciuto, dopo due decenni (1991/2011) di beata supponenza di superiorità, come una vera minaccia esistenziale ( vedasi le dichiarazioni di importanti politici e alti gradi militari USA). Le sanzioni imposte alla Russia, a cui l’Europa si è dovuta ‘obtorto collo’ adeguare, hanno arrecato solo dei danni all’economia capitalistica europea, impedendo in parte il precedente interscambio commerciale, mentre per la Russia, il blocco dell’importazione di alcuni generi alimentari e di consumo privato, ha sospinto verso la produzione autoctona la domanda, favorendo così la crescita degli investimenti di capitali nel settore agricolo e industriale dell’economia russa. In secondo luogo la Federazione Russa, anche in seguito al sempre maggiore livello di confronto economico e politico con gli Usa (e con l’Europa a rimorchio degli USA), ha ulteriormente accentuato l’alleanza economica militare con la Cina (e con una moltitudine di nazioni polarizzate verso il blocco di interessi al cui centro si trovano la potenza economica cinese e la forza militare russa).
Postilla
Riportiamo per intero il fulcro delle analisi contenute in ‘Europa capitalistica’ , un lavoro risalente al marzo 2018, affine e complementare all’attuale lavoro. In modo particolare nelle pagine successive viene affrontata la dinamica in atto fra ‘economie forti/economie deboli’, una dinamica basata sulla ‘DEBOLEZZA FUNZIONALE’ di certe economie nazionali, o aree economiche, agli interessi del capitalismo più forte.
Nella dottrina geopolitica di alcuni circoli politico-militari USA “Full Spectrum Dominance” indica il potere militare globale, o meglio la capacità di esprimere una potenza a vasto spettro sui mari, nei cieli e sulla terra ferma. I principali ostacoli a questo dispiegamento egemonico a vasto spettro, si palesano, a prima vista, negli apparati militari-statali di Russia e Cina (intesi come forze coordinate e alleate). Poi, sullo sfondo delle ipotesi di sviluppo dei processi geopolitici, si delinea anche l’ostacolo ricorrente di uno scollamento da parte di alcuni ‘alleati’ europei. Si tratta solo di ipotesi, non di realtà già effettive, e tuttavia chi avrebbe mai immaginato che la Turchia (membro della NATO) potesse assumere l’attuale profilo di collaborazione con la Russia e l’Iran? Per non parlare dei nuovi rapporti intercorrenti fra la Federazione Russa e l’Egitto, la Libia, il Qatar. Invece l’Europa capitalistica è finora stata coerente con gli obblighi derivanti dalla sua appartenenza al blocco economico-politico a guida USA (NATO). Infatti, nelle ultime vicende di confronto/scontro fra i due Big statali (cioè USA e Russia) non ha mostrato, almeno in apparenza, incertezze di rilievo. Dunque abbiamo prima registrato il sostegno europeo alle sanzioni economiche contro la Federazione russa, motivate dall’annessione della Crimea nel 2014 (regione peraltro storicamente russa da oltre due secoli), poi abbiamo registrato l’adesione di alcune nazioni europee alla coalizione a guida USA operante in Siria (senza nessun invito ufficiale da parte del governo siriano). Negli ultimi giorni abbiamo registrato il sostegno di alcuni importanti paesi europei (Francia e Germania) alle accuse della dirigenza politica del Regno Unito verso le autorità politiche russe, sospettate di essere coinvolte nell’avvelenamento di due cittadini britannici (di cui uno è un ex agente segreto russo). Al di là della querelle politico-diplomatica (e della scarsa probabilità che il contenuto dei sospetti verso le autorità politiche russe risulti vero), ci interessa rilevare come anche in questo caso sia scattata una forma di solidarietà verso un membro della NATO, almeno da parte di due importanti nazioni europee (oltretutto a conferma di un presunto asse politico franco-tedesco).
Dunque, in apparenza, osservando lo scenario contemporaneo, verrebbe da dire che i comportamenti dei principali paesi capitalistici europei sono coerenti con gli interessi del capitalismo a guida USA; tuttavia, scrivevamo due anni addietro, sulla scorta del testo del 1962: ”Come nella normale concorrenza fra imprese capitalistiche, anche nella politica internazionale: ‘‘In nessun momento, dunque, gli antagonismi obiettivi sono scomparsi fra le nazioni del blocco occidentale. Non solo: mai il conflitto d’interessi fra l’America e la «Piccola Europa» è stato così aspro come oggi”.
Una vasta schiera di oppositori appartenenti al filone politico sovranista critica il moderno esito dello sviluppo capitalistico, quello che il testo del 1962 qualifica come la contraddizione fra i processi di concentrazione dei capitali con derivata, virtuale, socializzazione della produzione, e gli interessi delle varie borghesie nazionali concorrenti. A tale contraddizione le borghesie nazionali rispondono con gli accordi sovranazionali, miranti a garantire e perpetuare anche legalmente le posizioni di forza di una economia nazionale, area economica, regione,rispetto a corrispondenti realtà capitalistiche più deboli. Nel corso del tempo i rapporti di forza fra queste realtà possono mutare, e allora intervengono dei cambiamenti anche nelle forme giuridiche assunte dai precedenti rapporti di forza inter-capitalistici.
I sovranisti interpretano le modifiche degli accordi sovranazionali, susseguenti ai cambiamenti strutturali, riguardanti la grandezza e il peso delle varie economie capitalistiche, come una sottrazione di sovranità agli stati nazionali da parte di oligarchie finanziarie e bancarie, non avvedendosi che la sottrazione di sovranità al player x corrisponde solo al maggiore grado di attribuzioni al player y. E’ quello che accade in Europa da sempre, ben descritto nell’articolo del 1962 (‘Il mito dell’Europa unita’).
Il lamento sulla perdita di autonomia degli stati (alcuni stati) nelle politiche fiscali e monetarie, volendo fermare la ruota degli eventi capitalistici assume un sapore anacronistico, ed infine esprime solo, da un punto di vista sociale, la solita paura del ceto medio verso i processi di proletarizzazione congenitamente legati al divenire capitalistico.
Le critiche dei sovranisti colpiscono un target limitato (oligarchie bancarie-finanziarie e istituzioni sovrastatali), non comprendendo che questo target è l’epifenomeno di un modo di produzione basato sullo sfruttamento della classe sociale proletaria, quindi se, a rigore di logica, non si rimuove la causa, l’effetto continuerà ad esistere.
All’interno degli accordi infra-statali europei la parte del leone la fanno le nazioni capitalistiche più forti, mentre su quelle più deboli viene scaricato il costo delle leggi immanenti del capitalismo: in primo luogo l’aumento dello sfruttamento diretto (sul luogo di lavoro) e indiretto (aumento dell’imposizione fiscale), intesi come controtendenza alla caduta del saggio medio di profitto. In secondo luogo la miseria crescente, legata innanzitutto all’aumento dello sfruttamento indiretto e della popolazione inattiva, causata, quest’ultima, dal progressivo impiego del capitale costante nei processi produttivi.
La tosatura fiscale, ma anche i salvataggi bancari con i fondi pubblici, servono oggettivamente a trasferire quote di plusvalore prodotte nella sfera dell’economia industriale, alla sfera finanziaria del capitalismo (attraverso il pagamento statale delle cedole sui titoli del debito pubblico: il debito pubblico va inteso come una manifestazione del capitale finanziario).
Il sovranismo, vagamente associabile anche a ipotesi di politiche economiche keynesiane, esprime dunque un lamento contro gli attuali equilibri di forza raggiunti nello scontro permanente fra borghesie nazionali. La sua fonte sociale va individuata nelle frazioni di borghesia nazionale danneggiate dalla lotta per la concorrenza, frazioni che tentano di invertire gli sviluppi capitalistici sfavorevoli ai propri interessi. Alcuni movimenti di protesta contemporanei, sorti recentemente in Francia e negli Stati Uniti, inopinatamente considerati da qualche osservatore ‘marxista’ come fenomeni di lotta di classe proletaria, in realtà vanno inseriti anch’essi nella categoria dei tentativi del ceto medio di invertire gli sviluppi capitalistici sfavorevoli ai propri interessi.
Quando si tratta con i numeri e le statistiche bisogna precisare alcune cose: Uno) i dati numerici raccolti e le susseguenti proiezioni statistiche sono il risultato di una scelta compiuta dal ricercatore; Due) in ogni caso essi possono integrare, ma di certo non sostituire, il ragionamento analitico di chi li utilizza.
Fatte queste premesse proviamo a quantificare alcune caratteristiche delle economie nazionali europee. I dati che utilizzeremo sono facilmente reperibili in rete. Il nostro intento principale è dimostrare, anche con il supporto numerico, come una importante funzione dello stato della classe borghese sia tuttora quella di reperire (attraverso l’imposizione fiscale) le somme per il pagamento degli interessi maturati sul debito pubblico. Questi interessi, nel caso italiano, maturano in genere con cadenza annuale, su titoli come BOT, CCT, BTP, ovvero sulle quote di prestiti, meglio definibili capitale di debito, ottenute dallo stato, e da rimborsare ai creditori dopo un certo numero di anni.
Il rapporto tra debito pubblico e Pil è calato dall’84,9 % del dicembre 2015 all’83,5 % del dicembre 2016 (questo dato si riferisce ai 28 paesi UE). Sono 16 gli stati membri dell’UE che hanno evidenziato un rapporto debito/Pil superiore al parametro ‘salutare’ del 60% al dicembre 2016. Fra questi stati, in ordine di grandezza percentuale, elenchiamo la Grecia (179,0%), l’Italia (132,6%), il Portogallo (130,4%), Cipro (107,8%), Belgio (105,8%).
Fatta esclusione per il Belgio, si può osservare che l’indebitamento maggiore riguarda i paesi della fascia mediterranea/latina, a conferma della debolezza (funzionale) di alcune economie capitalistiche rispetto ad altre più solide, in linea con la regola dello sviluppo diseguale del capitalismo. Definiamo debolezza funzionale la condizione di determinate economie nazionali, inserite in un contesto di interazione con altre economie appartenenti allo stesso blocco geo-economico, perché il loro grado inferiore di sviluppo permette, alle aree capitalistiche più avanzate, di ottenere notevoli vantaggi dalla loro ‘debolezza’.
Pensiamo ad esempio all’esercito industriale di riserva (disoccupati) presente nella fascia dei paesi ‘svantaggiati’, e quindi al ruolo di contenimento che questa massa diseredata svolge sulle lotte per gli aumenti salariali nei paesi capitalistici più avanzati. Ma pensiamo anche all’elevato grado di redditività degli investimenti di capitali di economie avanzate in queste economie arretrate, in presenza di un minore costo medio del lavoro (investimenti intesi sia come semplice acquisizione di quote azionarie od obbligazionarie di imprese/SPA già esistenti in loco, oppure come trasferimento/delocalizzazione di capitale costante tecnologicamente avanzato).
Infine pensiamo pure alle conseguenze dell’elevato debito pubblico presente in questi paesi, vittime della regola dello sviluppo diseguale: spesso il debito pubblico è l’altra faccia del capitale finanziario delle economie avanzate, continuamente alla ricerca di investimenti fruttiferi.
Dunque la debolezza ‘funzionale’ delle economie nazionali, vittime della regola dello sviluppo diseguale, e quindi della concorrenza economica, presenta ad una prima analisi almeno tre vantaggi per le economie avanzate (in questo senso concreto si manifesta la funzionalità del complesso economico più debole rispetto al più forte).
Presentiamo ora alcuni dati sul rapporto debito pubblico/PIL di cinque paesi EU dal 2014 agli inizi del 2017: il debito pubblico italiano è aumentato di 138 miliardi di euro, quello della Germania è diminuito di 63 miliardi. La Spagna è passata dal 98,1% al 100,4%, il Regno Unito passa dal 86,5 all’88% del PIL. La Francia, ha raggiunto quota 98,7%. In questo caso dovrebbe far riflettere il dato numerico della Germania, unico dei cinque paesi a registrare un decremento del debito. Dunque un dato che conferma, evidentemente, la posizione di forza di questa nazione all’interno del blocco geo-economico europeo.
Il PIL di questi cinque paesi nel 2017 è il seguente (espresso in dollari, e arrotondato per eccesso al miliardo nell’ultima cifra); Germania 3686 miliardi, Inghilterra 2833, Francia 2599, Italia 2024, Spagna 1557. Anche in questo caso la parte del leone spetta alla Germania (seguita a netta distanza da Inghilterra e Francia).
In termini monetari e non percentuali rileviamo alcuni debiti pubblici, riferiti all’anno 2017, espressi in miliardi di euro: Germania, 2.135; Italia, 2.266; Francia, 2.199; Spagna,1.146; Olanda, 421; Belgio, 459. Come si può ben notare il debito pubblico, indipendentemente dal rapporto percentuale con il PIL nazionale, è presente in modo sostanzioso sia in economie rispettose dei parametri europei, sia in economie memo rispettose di questi parametri. Tali dati numerici confermano che una importante funzione degli stati borghesi è sempre quella di permettere una adeguata valorizzazione del capitale,in modo particolare, in questa fase ultra parassitaria del capitalismo, nella sfera finanziaria (di cui il debito pubblico è parte cospicua).
In Italia il termine impiegato per dissimulare la ‘debolezza funzionale’ è in genere ‘legge di stabilità’, intendendo per stabilità il rientro nel parametro europeo del rapporto PIL/debito pubblico: ovvero il debito non deve superare il 60% del PIL.
I provvedimenti contenuti nelle interminabili e successive ‘leggi di stabilità’ dei governi italici hanno di fatto aumentato la platea del disagio sociale, prevedendo, ad esempio, tagli al welfare, aumento dell’imposizione fiscale, innalzamento dell’età pensionabile. I sacrifici previsti da queste ‘leggi di stabilità’ sono richiesti dai governi, e dalle rispettive maggioranze parlamentari, per evitare mali peggiori come l’applicazione delle clausole di salvaguardia europee, ad esempio l’aumento dell’IVA. In definitiva le misure di austerità, non potendo utilizzare la ricetta keynesiana dell’investimento/spesa pubblica, non servono neanche a rilanciare l’economia. L’obiettivo del rientro nel parametro europeo del rapporto fra Debito pubblico/PIL al 60%, taglia alla radice ogni politica economica keynesiana, mentre l’utilizzo della moneta unica europea impedisce la svalutazione competitiva della valuta nazionale, funzionale al rilancio delle esportazioni, come invece accadeva in passato. Alcune forze politiche, orfane del marxismo, hanno trovato in keynes una nuova bussola, anzi, un nuovo ricettario economico, e quindi propongono candidamente la fine dell’austerità imposta dai patti europei, ignorando le dinamiche capitalistiche (i rapporti di forza) che sottostanno ai patti fra nazioni borghesi. In concreto questi ‘keynesiani di sinistra’ non si rendono conto che l’austerità è un risultato della debolezza ‘funzionale’ di alcune economie nazionali, vittime della regola capitalistica dello sviluppo diseguale, determinata a sua volta dalla concorrenza economica e dall’anarchia della produzione, questa debolezza presenta almeno tre vantaggi per le economie avanzate, che in precedenza abbiamo analizzato (in questo senso specifico si manifesta la funzionalità del complesso economico più debole rispetto al più forte). L’attuale condizione economico-politica delle nazioni della fascia ‘debole’ della UE, va quindi interpretata come la conferma dell’esistenza di una società borghese caratterizzata da antagonismi successivi e crescenti fra borghesia e proletariato, e fra borghesie nazionali. Il risultato di questi antagonismi fra classi sociali diverse (dominante e dominata), ma anche fra componenti nazionali e internazionali della stessa classe dominante, trovano una temporanea stabilizzazione negli accordi sovranazionali o nelle leggi nazionali, che vanno dunque intese come una semplice fotografia dei risultati del permanente antagonismo socio-economico presente nelle società classiste.
Il PIL dell’anno 2016 nell’Unione Europea a 28 membri ammonterebbe a 14.825 ml euro, mentre il PIL 2016 di USA e Cina, calcolato a parità del potere di acquisto, criterio che ha il vantaggio di permettere il confronto fra il livello dei prezzi di aree economiche diverse, ammonterebbe rispettivamente a 18.561 ml (USA) e 21.269 ml (Cina).
Secondo un calcolo previsionale proiettato nell’anno 2020, il PIL mondiale ammonterebbe a 119.097 ml, le prime nazioni per grandezza del PIL sarebbero (in ordine decrescente) le seguenti: Cina, Usa, India, Giappone, Germania, Russia e Brasile.
Come si può ben osservare solo la Germania, fra i paesi dell’UE, figurerebbe in questa lista (al quinto posto su un totale di sette).
Si può subito registrare, al di là delle proiezioni economiche riferite al futuro anno 2020, il dato del PIL comparato riferito al recente anno 2016.
Ebbene, quello che salta all’occhio è la differenza numerica fra il PIL USA e quello cinese, calcolato a parità del potere di acquisto, ma anche la differenza fra il PIL europeo e quello USA e cinese (sebbene il PIL europeo sia calcolato in modo tradizionale).
Non bisogna essere dei geni per concludere che nel breve/medio periodo, con queste tendenze evolutive dell’economia globale, la vecchia Europa (a 28 membri) rischia un certo riposizionamento al ribasso.
Il percorso di raccolta dati e analisi degli stessi ci porta a concludere che l’Europa capitalistica va incontro a prospettive di ulteriore perdita di peso economico, anche se all’interno di un contesto globale di crescenti difficoltà per le stesse economie emergenti. L’illusione terza-forzista, già relativizzata nel testo del 1962 (‘il mito dell’Europa unita’), si rivela oggigiorno, anno 2018, una pura immagine spettrale. Dimostrando una sostanziale subordinazione politica alle strategie dello stato guida imperiale USA, i paesi dell’UE hanno costruito le fondamenta della propria progressiva irrilevanza geopolitica: basti pensare alle recenti diatribe con la Russia per l’avvelenamento di una ex spia, all’allineamento sulle sanzioni volute dagli USA per l’annessione della Crimea, infine alle posizioni assunte sulla questione siriana o del Donbass. In tutti questi casi specifici L’Europa si è sostanzialmente allineata allo stato guida imperiale, solo con qualche piccola sfumatura di differenza fra stato e stato.
Anche per le recenti elezioni presidenziali russe sembrava che la parola d’ordine, la consegna, fosse quella di non congratularsi con il vincitore, tranne scoprire che Trump ha poi telefonato il giorno dopo al suo omologo russo, riprendendo quel filo di comunicazione che caratterizza, almeno dal dopoguerra, le due uniche superpotenze nucleari. Avevamo previsto anche questo scenario (de escalation) in un recente articolo, a dispetto dei tanti che temevano un imminente scontro all’ultimo sangue fra i due complessi militari-industriali capitalistici (sulla base degli annunci e dei contro-annunci delle rispettive dirigenze politico-militari).
Parte terza: l’Europa capitalistica nella sua prospettiva di sviluppo (epilogo)
I rapporti all’interno dell’area economica europea sono di tipo capitalistico, dunque basati sulla concorrenza e il susseguente sviluppo ineguale, il quale rappresenta a sua volta il presupposto della debolezza funzionale delle economie deboli rispetto a quelle forti. In Europa queste dinamiche capitalistiche significano, da molti decenni (si legga il testo ‘Europa unita’), l’egemonia degli interessi tedeschi (forti), a discapito degli interessi di altri (deboli). Non si tratta, in questo caso, di patti e accordi legali che impongono un interesse prevalente a danno di un interesse meno importante, ma di una economia nazionale (quella tedesca) che essendo più forte di altre economie, con cui è interconnessa, riesce a ottenere sul piano legale, quello che è già acquisito sul piano economico. Riconoscimento legale dei rapporti di forza interni ad un determinato gruppo di economie capitalistiche. Tuttavia, come già intuito in ‘Europa capitalistica’, l’area economica europea non ha più la forza dei tempi andati, le economie emergenti di molti paesi l’hanno ridimensionata. Dunque nel 2018 si rivela ancora più calzante la definizione del testo del 1962, Illusione terza-forzista, adoperata per qualificare i progetti europei di autonomia dai due blocchi capitalistici mondiali. In realtà l’Europa ha finora dovuto, obtorto collo, seguire/subire sul piano geopolitico le strategie imperiali USA, mentre sul piano economico ha tentato di perseguire i propri interessi capitalistici, non sempre con successo, se pensiamo ai danni economici causati dai diktat USA sulle sanzioni alla Russia e al recente smacco della rescissione americana dell’accordo con l’Iran. In entrambi i casi, in precedenza analizzati, l’economia europea paga un prezzo notevole alla sua sudditanza al centro imperiale USA. Tuttavia il declino dell’impero, innanzitutto a causa della concorrenza di un gruppo di potenze avversarie, potrebbe rimescolare le carte geopolitiche, consentendo all’area capitalistica europea di viaggiare verso nuove alleanze più coerenti con il proprio sviluppo capitalistico.