Questione Kurdistan, Guerre di liberazione nazionale e rivoluzioni democratiche.

 

Le grandi testate giornalistiche hanno fatto calare un silenzio tombale sulla situazione dei curdi siriani e sul loro obbiettivo di costituire uno stato autonomo.

La sinistra di “governo” e extraparlamentare tace, come tace l’ipocrita Europa.
Agli USA non servono più i curdi come “scarponi” sul suolo siriano e la Russia e il governo siriano, vincitrici di fatto nella guerra siriana, hanno deciso di spartirsi (per ora) la torta del territorio curdo con la Turchia.

Da parecchi decenni il capitalismo ha smesso di essere fattore di progresso, dal punto di vista economico; nella sua fase imperialistica esso, sotto la spinta delle sue contraddizioni insanabili, è diventato fattore di miseria crescente.
Il modo di produzione capitalistico si è oramai esteso a scala planetaria , non c’è più nessuna parte della terra dove esso non sia presente.
Tale dominio della produzione capitalistica determina che qualsiasi lotta a sfondo nazionale si trasformi immediatamente nella contrapposizione tra borghesie che di volta in volta intrecciano i propri interessi con gli interessi di questo o quello blocco imperialistico.
Ne consegue che appoggiare e simpatizzare per questa o quella guerra di “liberazione” significa di fatto schierarci con uno dei fronti imperialistici.
Ancora più chiaramente la corrente affermava che
– Se l’imperialismo è la fase del capitalismo decadente, ove la caduta del saggio medio di profitto porta inevitabilmente  al crescere della miseria di strati sempre più grandi di proletari ed è causa di guerre sempre più frequenti;
– Se il modo di produzione capitalistico copre l’intero pianeta (anche se in maniera disomogenea) e le zone arretrate sono funzionali, generalmente, alla creazione di un esercito industriale di riserva inoccupato ( vedasi l’immigrazione di milioni di siriani e di curdi verso l’Europa) utili per ricattare i lavoratori occupati che non dovessero accettare la diminuzione del salario medio;
NE CONSEGUE
Che appoggiare oggi la battaglia per il riconoscimento della Repubblica del Rojava (Kurdistan Siriano) come la lotta per l’autodeterminazione del popolo curdo significa spingere il proletariato a schierarsi e combattere per gli interessi della propria borghesia anzichè per la propria rivoluzione di classe.

L’autodecisione nazionale o autodeterminazione dei popoli è una parola d’ordine che appartiene al passato del movimento operaio.

Non ci soffermiamo a descrivere le differenze tra le varie componenti (clan) in cui si divide il popolo curdo, diviso in ben quattro stati nazionali, con borghesie che intrattengono relazioni con blocchi imperialistici diversi, basti rammentare i stretti rapporti del “governo” curdo iracheno con i governo turco che sta massacrando i curdi siriani……

La questione curda è l’emblema dell’utilizzo strumentale da parte delle miserabili borghesie curde della questione dell’autodeterminazione per coprire i loro interessi unitamente a questo o quel blocco imperialistico, che, come la realtà insegna, può, dall’oggi al domani, cambiare cavallo di battaglia.

Solamente un disfattismo rivoluzionario attivo del proletariato turco, siriano, iracheno ed iraniano contro l’aggressione della loro borghesia nei confronti del proletariato curdo potrà portare ad una unione non coercitiva delle nazioni di quell’area come processo della rivoluzione mondiale.

 

Ripubblichiamo il punto sulla questione nazionale facente parte dei “31 punti per la difesa della tradizione rivoluzionaria della sinistra”.

Nella situazione capitalistica attuale diventa dunque predominante la funzione puramente ideologica delle variegate mascherature ‘nazionali-religiose’, miranti a occultare sotto il velo di queste improbabili rivendicazioni, totalmente disinnestate dalla tendenziale omogenizzazione del contesto storico-economico capitalistico, la lotta feroce per la spartizione del bottino di plus-valore e la conseguente esigenza di controllo della attrezzatura di oppressione statale nazionale ( utilizzata per opprimere il proprio proletariato e combattere con le borghesie rivali esterne, o con frazioni rivali interne).

Punto n°24: la questione nazionale

 

QUELLA DELLA AUTODECISIONE NAZIONALE -O “AUTODETERMINAZIONE DEI POPOLI”- E’ UNA PAROLA D’ORDINE CHE APPARTIENE AL PASSATO DEL MOVIMENTO OPERAIO. A titolo di conclusione del lavoro organico di Partito svolto sul tema della questione nazionale, lavoro che in tanto era indispensabile in quanto doveva dire una parola definitiva in merito, abbiamo stabilito sulla base della disamina dei nostri testi classici che la parola d’ordine di Lenin della autodeterminazione o autodecisione nazionale deve essere oggi abbandonata in quanto col 1975 si è chiuso il ciclo delle lotte anticoloniali del secondo dopoguerra in Asia e in Africa e quello delle “doppie rivoluzioni” a livello mondiale. L’idea che stava alla base della parola d’ordine leninista dell’autodeterminazione dei popoli e delle nazioni, partiva dal presupposto che se una nazione nel capitalismo non è ancora riuscita a darsi una Stato proprio, non per questo è una nazione sminuita, e dunque non ha meno diritto di un’altra di disporre di se stessa. Non è necessario uno Stato proprio e distinto perché una nazione esista e sia riconosciuta come tale, ma, per il fatto di esistere, essa ha il diritto ad uno stato proprio (autodeterminazione). Se l’applicazione di questo principio già ai tempi di Lenin era chiaramente subordinata agli “interessi della rivoluzione mondiale”, il suo significato originario, in breve, era che il “diritto al divorzio” di una nazione oppressa dallo Stato che la ingloba non significa “obbligo di divorziare”. Pur riconoscendo in linea di principio e di fatto questo diritto dei popoli oppressi a separarsi “se lo desiderano”, i comunisti quindi non avrebbero dovuto invitare il proletariato della nazione oppressa a battersi comunque ed in ogni circostanza per affermarlo, ed in particolare non avrebbero dovuto sostenere la formazione di nuovi Stati indipendenti se non nei casi in cui la lotta nazionale si svolgesse ancora nel quadro di una “doppia rivoluzione” e non fosse incompatibile con gli interessi della classe operaia e del proletariato mondiale. Oggi quel quadro non esiste più in nessun angolo del pianeta: pertanto l’uso di un termine che, sia pure impropriamente, può dare a intendere che il Partito inviti qualsiasi proletariato, sia pure appartenente alla nazionalità predominante, ad appoggiare la rivendicazione di indipendenza nazionale avanzata da qualsiasi borghesia nazionale, per quanto oppressa, rappresenta un vero e proprio crimine, una abdicazione ai compiti imposti in ogni parte del globo dal premere di una rivoluzione proletaria “pura” nelle viscere di un capitalismo che ha fatto finalmente il giro del mondo. Il fatto che il Centro nel 1993 avesse chiaramente identificato nella “sopravvalutazione della lotta palestinese in quanto «terreno di classe»” e nel “lancio di parole d’ordine para-democratiche in Algeria” (1) le manifestazioni più eclatanti di quel movimentismo che era stato all’origine dell’esplosione del Partito nell’82-83 ci imponeva infatti in modo inderogabile di chiudere definitivamente la questione. Fare altrimenti non ha significato altro che lasciare la porta aperta al ritorno in campo della tesi fasulla sulla necessità di “supplementi di rivoluzione borghese” nei paesi della cosiddetta “periferia” del capitalismo, sulla quale ci siamo soffermati al Punto n° 3. Il fatto grave, in altri termini, è che sia stata sospesa la formulazione delle conseguenze tattiche di un giudizio storico già pronunziato. Per un elementare dovere di chiarezza siamo costretti a questo punto a riprendere in mano materiali (lettere e Circolari) dei quali abbiamo volentieri fatto finora a meno, ma che in questo caso si intrecciano troppo strettamente con la polemica politica per poter essere messi da parte. Nella Lettera centrale del 10.6.00 dopo una Riunione Interregionale ad esso consacrata, si sintetizzava la conclusione del lungo lavoro sulla “Questione Nazionale” pubblicato in diverse puntate si “il programma comunista” nei seguenti termini: “Il P. ritiene che la fase dei moti nazionali e anticoloniali –nei quali spettavano al proletariato anche compiti borghesi, da attuare comunque in totale autonomia politico-organzzativa- si sia conclusa intorno alla metà degli anni Settanta (Tall el Zaatar, ecc.) e che dunque non resti alcuno spazio, in nessuna area geo-storica, per prospettive di “rivoluzione doppia”. Ma la chiusura del ciclo delle doppie rivoluzioni non significa l’eliminazione di situazioni di oppressione nazionale dove il P., tenendo ferma la rotta e la necessità dello sviluppo rivoluzionario e dell’unione del movimento proletario internazionale, deve ancora mantenere la direttiva dell’autodecisione e della dialettica realizzazione dell’unità proletaria internazionale, attraverso opposte consegne per il proletariato dei paesi oppressori e per quello dei paesi oppressi”, assegnando tuttavia alla parola d’ordine dell’autodecisione un significato politico che “attiene alla necessità del disfattismo rivoluzionario nei confronti della borghesia della propria nazione e della lotta contro ogni sciovinismo nazionale palese o mascherato”. Si precisava infatti di seguito che “solo se il proletariato del paese oppressore riconosce il diritto di separazione a quello del paese o della nazionalità oppressa, esso rompe i legami «di fatto» con la propria borghesia e consente contemporaneamente al proletariato del paese oppresso di abbracciare materialmente la consegna dell’unione col proletariato del paese oppressore”. In questa sintesi si era parlato di una “opposta consegna” per il proletariato del paese oppresso e per quello del paese oppressore al solo scopo di non fare confusione parlando, come sarebbe stato più corretto, di una “doppia consegna”, termine che purtroppo riecheggia involontariamente quello, ormai storicamente escluso, di “doppia rivoluzione”. Ma sarebbe stato meglio chiarire subito il fatto cruciale che riconoscere il diritto alla separazione della nazione oppressa non equivale a sostenere o appoggiare la causa di tale separazione, come accadeva e non poteva non accadere nel contesto delle “doppie rivoluzioni”, ma implica al contrario il fatto di opporvisi, anche se con la propaganda rivoluzionaria, naturalmente, e non certo con le baionette. E che proprio perciò le consegne per il proletariato del paese oppressore e per quello del paese oppresso sono diverse ma non opposte: la prima infatti accentua e pone in primo piano un disfattismo ed un anti-sciovinismo che si estende fino alla difesa del diritto alla separazione della nazionalità oppressa o non è nulla, mentre la seconda accentua invece la necessità storica dell’affasciamento del proletariato internazionale in un unico fronte di lotta contro tutti i capitalismi nazionali ed il rigetto di tutte le suggestioni reazionarie dell’indipendentismo. Nella Lettera sopra citata si annunciava inoltre che la parte conclusiva del Rapporto sulla “Questione Nazionale” sarebbe stata “pubblicata sul numero di settembre del nostro giornale”. Nella Circolare centrale n° 2 (21.5.01) si faceva correttamente presente circa la pubblicazione di quelle conclusioni che “per adesso si è ritenuto opportuno soprassedere in quanto le riunioni tenutesi in proposito e i diversi elaborati e contributi ricevuti dal C. non ci hanno consentito di dirimere alcuni dubbi relativi all’impiego o meno della formula dell’«autodecisione», quale forma (particolare e non tipica) di manifestazione del disfattismo rivoluzionario in un’epoca che ormai non mette più all’ordine del giorno in nessuna area geo-storica la «rivoluzione doppia»” e altrettanto correttamente si comunicava che “si rende necessario un ulteriore lavoro che ci consenta di arrivare alla massima chiarezza”.

Quelli a cui lo studio era stato affidato svolsero tale “ulteriore lavoro”, per cui la successiva Circolare dell’8.6.01, prendendone atto, annunciava nuovamente che “restano da pubblicare i rapporti presentati all’ultima R.G. e la puntata conclusiva dello studio sulla «Questione Nazionale»”. Da allora in poi non solo non è stato pubblicato più nulla, ma nell’arco di due anni non una sola nota, nonostante le ripetute sollecitazioni, è stata inviata dal Centro a coloro che avevano svolto l’ulteriore lavoro che si era reso necessario, neppure per criticare o correggere le conclusioni cui essi erano pervenuti. Vale la pena allora di puntualizzare che tali conclusioni andavano nel senso di seppellire definitivamente la formula dell’«autodecisione» sulla base di un’elaborazione che può ben dirsi collettiva in quanto era stata il frutto di un travaglio che aveva coinvolto tutto il Partito. In un primo tempo infatti la validità attuale di quella formula era stata bensì confermata, ma solo a ben definite condizioni (che si trattasse di vere nazioni oppresse e non dei “popoli senza storia” di cui parla Engels, che l’oppressione nazionale fosse caratterizzata da una “persistenza” storica, ed infine che il proletariato del paese oppresso fosse ancora irretito dal nazionalismo della “sua” borghesia) e, soprattutto, era stata confermata nel rispetto più rigoroso del vero significato che a tale parola d’ordine nelle aree pienamente capitaliste si deve assegnare: nessun appoggio o sostegno alle rivendicazioni di indipendenza nazionale dei popoli oppressi, neppure da parte dei proletari del paese oppressore, ma solo disfattismo da parte di questi ultimi verso la loro borghesia, disfattismo che non può non esprimersi anche contro le vessazioni nazionali da essa perpetrate, e che quindi deve necessariamente spingersi anche fino a riconoscere il diritto della nazionalità oppressa a separarsi “se lo desidera” (Lenin), ma che mai e poi mai potrà corrispondere al fatto di manifestare anche solo una generica simpatia per una simile rivendicazione aderente a prospettive ormai antistoriche e reazionarie. Antistoriche perché il capitalismo si è già impiantato e reazionarie perché propugnano lo spezzamento della classe operaia in segmenti nazionali. Gli estensori materiali dello studio sulla «Questione Nazionale», che così avevano inquadrato il problema, non compresero dapprima le resistenze che da più parti si levavano nel Partito contro una formulazione apparentemente ineccepibile, non avvedendosi che un contenuto politico ineccepibile dal punto di vista marxista veniva poi calato dentro una formula -quella, appunto, dell’«autodecisione»- che non lo era altrettanto. Attenendosi al criterio del centralismo organico, che afferma che se delle resistenze nel Partito vi sono, vuol dire che qualcosa non va nelle proposizioni politiche adottate, essi giunsero poi a individuare questo “qualcosa”, identificandolo non già nel contenuto politico delle conclusioni cui si era pervenuti, ma nel fatto di mantenere in vita una formula equivoca. Ciò che gli estensori materiali degli articoli non avevano visto è che sono passati ormai più di 80 anni da quando la III Internazionale scrisse quella formula sulle proprie bandiere, 80 anni di una controrivoluzione che ha azzerato la memoria storica della classe operaia mondiale e che ha riempito quella formula di altri ed opposti contenuti. Per cui leggendo sulla nostra stampa o ascoltando dalla nostra voce la formula dell’«autodecisione nazionale» nessun proletario sarebbe oggi in grado di riconoscerne il vero significato. La sua mente non associa più quella formula a Lenin, ma a Fidel Castro o a Ho Chi Minh, se non addirittura all’intervento “umanitario” degli USA per l’autodecisione nazionale del Kossovo. Il significato che oggi comunemente si dà a quella formula, insomma, è opposto a quello originario e si identifica, per l’appunto, nel sostegno alla causa dell’indipendenza nazionale di questo o quel “popolo oppresso” e quindi della costituzione di nuovi Stati borghesi. L’unica soluzione corretta dal punto di vista del funzionamento organico del Partito (nel senso che non era l’espressione di “pensate”individuali, ma il risultato del convergere di impulsi provenienti da tutta la sua rete) era pertanto quella di liquidare una formula che –oltre che inadeguata ed amarxista da sempre- aveva il difetto imperdonabile di farci confondere con tutto il ciarpame terzomondista, che si pasce proprio dei sogni impotenti e reazionari di indipendenza nazionale dei “piccoli popoli”. E di fare ciò senza deflettere di un millimetro dalla difesa dell’originale contenuto che era stato adagiato dentro a una formula ormai obsoleta: esortare i proletari dei paesi oppressori ad essere disfattisti fino in fondo, fino a sabotare le imprese scioviniste della loro borghesia volte a bombardare massacrare reprimere nel sangue le nazionalità soggiogate ma non dome, fino alla difesa del diritto di queste ultime a costituire un loro Stato indipendente “se lo desiderano”, ma senza mai stancarsi di gridare loro la vera parola d’ordine del Partito, che non è quella di concedere diritti di indipendenza a chicchessia, che non è quella di propugnare la formazione di nuovi stati-galera per qualsiasi proletariato, ma è quella di sostenere col massimo vigore la prospettiva luminosa della «unione non coercitiva delle nazioni», parola d’ordine in regola col materialismo storico, che non abbiamo avuto bisogno di inventare perché è di Lenin, e che ha il pregio di non esporci a pericolosi equivoci e di non impegolarci in metafisiche rivendicazioni di autonomie giuridiche. L’immotivato rifiuto di pubblicare queste conclusioni è equivalso a calpestare non tanto gli esecutori materiali del lavoro, ma tutto il Partito, sulla base dei cui impulsi tali conclusioni erano state raggiunte. Ed il risultato politico di questa improvvisa ed immotivata sospensione è stato quello di consentire alla Centrale di continuare a tracciare delle direttive à son goût, dettate cioè dagli umori del momento e magari anche dall’orientamento degli interlocutori politici del momento, come è accaduto a proposito del Kurdistan, questione rispetto alla quale sono state pubblicate sul giornale delle posizioni in totale contrasto fra loro (2). E che si assista al fenomeno paradossale per cui dall’America Latina si avvicinano a noi dei compagni sperando di trovare nel nostro Partito delle armi teoriche contro il guerriglierismo terzomondista e che noi rispondiamo a questa esigenza mettendo nelle loro mani articoli come “In memoria di Ernesto «Che» Guevara”, che approdano ad un elogio “marxista” del guevarismo. Allo stesso risultato approdano articoli come quello sul Chiapas messicano (3): si prendono per buoni i dati economico-sociali che compaiono sulle pubblicazioni piccolo-borghesi e che ci presentano il falso quadro di un Messico arretrato ed agricolo, dimenticando l’inurbamento e l’industrializzazione, cioè la proletarizzazione dell’80% del Paese, sicché alla fine tutto cospira a dare l’impressione che siamo ancora nel 1909 o giù di lì e che la rivoluzione borghese sia di là da venire. Le nostre conclusioni “politiche”, che pretendono di criticare le posizioni piccolo-borghesi ed insistono sulla necessità della rivoluzione proletaria, risultano pertanto pura politique d’abord in quanto sono totalmente campate per aria.

 

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