Premessa: critica generale

Il capitalismo ha spinto lo sfruttamento delle risorse umane e naturali fino a un punto tale che persino alcuni economisti borghesi iniziano a riconoscerne la follia: “pretendere una crescita infinita dentro un pianeta finito”. Di fronte all’evidenza del disastro ambientale e sociale, proliferano però i falsi profeti di “mondi alternativi”, quelli che predicano uno sviluppo “sostenibile” fondato sulla contrazione dei consumi.

Questa teoria, ammantata di buone intenzioni, è priva di qualsiasi analisi scientifica della realtà concreta dominata dal capitalismo. Ignora del tutto la legge fondamentale che governa questo sistema: la valorizzazione incessante del capitale, cioè la necessità di produrre sempre di più per generare profitto. Di conseguenza, la riduzione dei consumi, non affronta le cause reali della crisi globale e non offre soluzioni effettive, perché non mette mai in discussione il modo di produzione stesso che ne è all’origine.

Le contraddizioni che oggi devastano la Terra hanno radici profonde nella struttura materiale del pianeta, ma si sono amplificate in modo drammatico con l’espansione del capitalismo industriale. Quello che Marx ed Engels avevano già colto nel 1848 — la rottura del ricambio organico tra l’uomo e la natura — oggi è una realtà tangibile: nella sua corsa cieca all’accumulazione, il capitale distrugge le stesse condizioni di vita su cui si regge, fino a rendere dannosa persino per sé stesso la propria esistenza.

L’ecologismo dominante, di cui si nutrono molti movimenti “ambientalisti” e “sottoconsumisti”, ripete vecchi schemi idealistici: immagina la natura come un “bene comune” che dovrebbe unire tutti gli esseri umani al di là delle divisioni sociali. Ma questo modo di pensare è una mistificazione: mette la natura al di sopra dei rapporti di classe, cancella le differenze materiali tra chi possiede i mezzi di produzione e chi vende la propria forza-lavoro. È un discorso morale e astratto che non tocca mai il cuore del problema — i rapporti di proprietà e di produzione che determinano l’intera organizzazione sociale.

Ogni critica seria deve partire da un dato di fatto: viviamo in un sistema sociale in piena decomposizione, che genera un mondo a sua immagine — altrettanto corrotto, alienato e distruttivo. Pensare di guarire questa putrefazione con piccole riforme, con il “consumo critico” o con l’illusione della diminuzione, significa restare prigionieri delle categorie del nemico.

“Limiti dello sviluppo” alla sostenibilità controllata

L’idea della “diminuzione” dei consumi” parte da una constatazione apparentemente ovvia: non può esserci una crescita illimitata dentro un pianeta con risorse finite e una popolazione in continuo aumento. Questo argomento, che oggi sembra di buon senso, cominciò a circolare già negli anni Settanta, quando un gruppo di studiosi del MIT elaborò per conto del Club di Roma il celebre rapporto I limiti dello sviluppo (1972).

Quel documento, costruito su modelli matematici, sosteneva che l’umanità non poteva continuare a crescere a ritmi accelerati senza scontrarsi con i limiti naturali del pianeta. Secondo il rapporto, l’aumento incontrollato della popolazione, la rapida industrializzazione, l’inquinamento crescente e il consumo eccessivo delle risorse avrebbero condotto a un futuro di miseria, degrado urbano, alienazione e conflitti sociali. Gli autori avvertivano che il peggioramento di queste tendenze avrebbe potuto provocare vere e proprie esplosioni politiche.

Il MIT identificava cinque fattori fondamentali di rischio: crescita demografica, produzione alimentare, industrializzazione, esaurimento delle risorse e inquinamento. Vent’anni più tardi, nel 1992, alcuni degli stessi autori pubblicarono un nuovo rapporto — Oltre i limiti dello sviluppo — nel quale cercavano di delineare una via d’uscita: uno sviluppo “sostenibile” che tenesse conto delle generazioni future e delle popolazioni più povere del pianeta.

La soluzione proposta era, in sostanza, una versione corretta del capitalismo stesso: crescita controllata, efficienza energetica, riciclo, risoluzione pacifica dei conflitti, valorizzazione delle comunità locali. Tutto, però, restava dentro i confini del sistema. Nessuno metteva in discussione la logica dell’accumulazione o il dominio del capitale. L’obiettivo reale non era trasformare la società, ma mantenerla in equilibrio: garantire il profitto attraverso una crescita più “temperata”, bilanciando sovrapproduzione e tasso di rendimento.

Critica marxista e la falsa alternativa piccolo-borghese

L’unica via d’uscita da questa contraddizione non sta nel limitare i consumi o nel predicare la sobrietà, ma nel comprendere scientificamente l’origine del problema: un sistema economico costruito sull’accumulazione e sulla valorizzazione infinita del capitale. Finché il mondo resterà diviso tra chi possiede e chi lavora, parlare di equilibrio, equità o sostenibilità sarà solo una finzione morale.

Come si fa a chiedere di sotto-consumare a quella parte della popolazione mondiale che vive già ai limiti delle possibilità d’esistenza?

Il capitalismo, per sua natura, non può subordinare la produzione al benessere collettivo o all’uso razionale delle risorse. Tutto ciò che la società produce — ricchezza materiale, conoscenza, tecnica — viene piegato a un unico scopo: lo scambio per il profitto. Ogni bene, ogni attività, ogni sapere deve servire all’autovalorizzazione del Capitale, non ai bisogni reali dell’umanità.

Solo una produzione socialmente pianificata, consapevole e diretta agli usi necessari può assicurare lo sviluppo armonico della società. Ma una pianificazione di questo tipo è impossibile dentro il capitalismo, perché presuppone il controllo collettivo e razionale della produzione, cioè l’abolizione della concorrenza e della proprietà privata dei mezzi di produzione.

Marx lo spiegava chiaramente: “il lavoro è il processo attraverso il quale l’uomo regola il suo rapporto con la natura, trasformandola per vivere”. Ma questo processo, nel capitalismo, è alienato e distorto. Il lavoro non serve più a soddisfare bisogni umani, ma a produrre valore di scambio; non regola più il rapporto tra l’uomo e la natura, ma lo distrugge.

Solo i produttori associati — uomini e donne liberati dallo sfruttamento, uniti da uno scopo comune — potranno regolare razionalmente il proprio rapporto con la natura, lavorando in modo da ridurre al minimo la fatica e l’impatto ambientale, e restituendo dignità al lavoro e alla vita stessa.

Finché domina il capitale, invece, ogni appello alla riduzione dei consumi o alla riduzione dei gas nocivi al pianeta resta una pia illusione. Le conferenze internazionali, da Kyoto in poi, tutte le C.O.P. che si sono riunite fino ad oggi, non fanno che confermarlo: si moltiplicano i protocolli e le promesse, ma nessun impegno viene assunto dai governi. Il capitalismo non può smettere di accumulare, perché la sua sopravvivenza dipende da questo.

Sovrapproduzione e crisi capitalistica

Immaginare che il capitalismo possa “fare marcia indietro” e ridurre i consumi è una contraddizione. Un sistema basato sull’accumulazione non può sopravvivere senza crescere: la produzione deve espandersi, le merci devono moltiplicarsi, e il profitto deve aumentare continuamente. Pensare di invertire questa logica con campagne morali o con la buona volontà dei consumatori significa non aver capito la natura stessa del capitale.

Chi oggi invita le popolazioni dei paesi industrializzati alla “sobrietà” ignora che il capitalismo, per vendere e far profitto, deve spingere all’eccesso sia chi produce sia chi consuma. È la sua legge vitale. Per convincere milioni di persone ad abbandonare stili di vita basati sul consumo smisurato non basterebbero sermoni ecologici o appelli alla coscienza: servirebbe una vera e propria coercizione sociale, o meglio ancora una rivoluzione che rovesci le basi stesse del sistema.

E anche se fosse possibile ridurre i consumi nei paesi ricchi, il problema resterebbe: la maggioranza dell’umanità — i cinque miliardi di uomini e donne che vivono nei paesi dominati e sfruttati — non dispone nemmeno del necessario per sopravvivere. Parlare di riduzione dei consumi a chi muore di fame, sete o malattie è un insulto. È una beffa borghese rivolta a chi non ha mai conosciuto neppure lo “sviluppo”.

Le statistiche ufficiali sono impietose: più della metà della popolazione mondiale vive in condizioni di indigenza assoluta, e oltre un miliardo di persone sopravvive in situazioni di fame cronica. Per portare l’intera umanità al livello di consumo dei paesi dominanti, bisognerebbe moltiplicare la produzione mondiale per ottanta volte. Anche un semplice raddoppio dell’attuale produzione, senza migliorare davvero le condizioni di vita delle masse, porterebbe comunque il pianeta al collasso ecologico.

Anche se la piccola borghesia dei paesi ricchi riducesse i propri consumi, l’impatto sul sistema sarebbe nullo. Il problema non è il consumo individuale, ma la macchina produttiva capitalistica, che ha bisogno di espandersi per non collassare. Oggi il capitale cerca profitti persino nella miseria: i “mercati della povertà” — cioè le masse affamate e senza reddito — diventano nuove occasioni di investimento e speculazione. Il capitalismo riesce a guadagnare perfino sfruttando la fame che produce.

Storicamente, l’unico momento in cui il capitale è costretto a fermare la crescita è durante le crisi di sovrapproduzione: quando le merci prodotte superano il valore che può essere realizzato sul mercato. Allora il sistema implode, distruggendo capitale, aziende, posti di lavoro e ricchezza reale.

La “contrazione” economica non è una fase neutra, come vorrebbero far credere gli ideologi che teorizzano il calo dei consumi. È una crisi, una depressione che porta con sé fallimenti, disoccupazione, miseria e guerre. La storia del capitalismo dimostra che ogni volta che la macchina produttiva rallenta, la borghesia tenta di riprendersi con la violenza, scaricando i costi sulle masse lavoratrici e ricorrendo, quando necessario, alla guerra generalizzata.

Il capitalismo non conosce equilibrio: o cresce, o collassa.

L’unico modo reale per fermare l’espansione autodistruttiva del capitale è abolirne le basi: eliminare la produzione per il profitto e sostituirla con una produzione pianificata per i bisogni sociali. Solo così sarà possibile costruire un rapporto razionale e sostenibile tra uomo e natura, e liberare l’immensa forza produttiva accumulata dall’umanità dal giogo della valorizzazione capitalistica.

Conclusione: comunismo, pianificazione e rapporto uomo-natura

L’unico modo per spezzare la spirale infinita dell’accumulazione e restituire equilibrio al rapporto tra uomo e natura è realizzare una produzione orientata esclusivamente ai bisogni reali della specie umana. Ciò richiede un piano cosciente e collettivo, capace di impiegare la potenza produttiva e tecnica accumulata dall’umanità non per il profitto, ma per l’uso sociale.

In una parola sola: Comunismo.

Una società comunista non avrebbe bisogno di distruggere risorse o di produrre merci inutili: eliminerebbe ogni attività priva di utilità sociale e ogni spreco di forza-lavoro. La produzione verrebbe regolata razionalmente, rispettando i cicli naturali e la capacità rigenerativa del pianeta. Solo allora l’uomo potrebbe davvero ristabilire un ricambio organico equilibrato con la natura, impiegando il minimo di energia e vivendo in modo degno della propria umanità.

È su questo punto che si misura la differenza tra la critica marxista e tutte le ideologie riformiste o ambientaliste.

23/10/2025

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