Nota redazionale: ancora degli articoli tratti da ‘Il Programma Comunista’, 5 Giugno 1962, N. 11 & 12. Questa volta l’argomento è l’Europa unita. Siamo nel 1962, i processi capitalistici che spingono le sovrastrutture statali borghesi europee a progettare l’utilizzo di strumenti comuni di politica economica e valutaria, o di armonizzazione fiscale e tributaria, sono già chiari e definiti nell’ottica marxista (al di là della stucchevole narrazione che viene propagata da buona parte delle forze politiche e dei mezzi d’informazione borghesi dell’epoca). Il testo del 1962 è molto esplicito: ‘nella realtà, gli interessi materiali delle nazioni si affrontano senza che si possano mettere in comune le disparità che il capitalismo stesso ha fatto nascere’. Dunque il capitalismo produce e riproduce ‘disparità’ (di classe, di grado di sviluppo economico fra nazioni, ma anche all’interno della stessa nazione), ed è impossibile che tali disparità possano essere poi superate con accordi legali pacifici fra contraenti dotati di forze e posizioni diseguali (cioè dispari). Leggiamo cosa sostiene l’articolo: ‘Per noi le classi sociali sono legate a una certa forma di produzione e, a meno di una rivoluzione politica e sociale, la loro natura non cambia. La borghesia, come la definisce il ‘Manifesto’, è caratterizzata da una lotta incessante condotta prima contro l’aristocrazia, poi contro i partiti che si oppongono ai progressi della sua industria, sempre contro le borghesie straniere. La rivoluzione borghese crea quell’unità di produzione che è la nazione, e attraverso gli scambi mercantili la congiunge al mercato mondiale. Non occorre alcuna nozione nuova per constatare che lo sviluppo ineguale del capitalismo nel mondo e la marcia irregolare dell’evoluzione storica delle grandi potenze fanno sì che la borghesia internazionale, sempre pronta a far blocco contro le forze rivoluzionarie, è d’altra parte essa stessa profondamente divisa da inguaribili rivalità. Per noi il Mercato Comune non è l’unione delle nazionalità europee, ma l’espressione – più acuta che mai – della rivalità fra le nazioni capitalistiche’. Dunque la borghesia internazionale (che ritrova una temporanea unità di azione solo contro le forze rivoluzionarie) è invece congenitamente, normalmente, divisa da rivalità di interessi (di bottega). Quindi anche il ‘mercato comune’, lungi dall’essere un reale fattore di unione, stante la logica di rivalità e di concorrenza interna della borghesia, diventa, appunto ‘ l’espressione – più acuta che mai – della rivalità fra le nazioni capitalistiche’.
Anche il testo del 1962 contiene precisi riferimenti alla distruzione rigeneratrice, argomento su cui abbiamo spesso scritto negli ultimi anni (evidentemente in coerenza con l’analisi marxista, e in ragione della sostanziale invarianza storica del meccanismo socio-economico capitalistico). Ecco un esempio di questi precisi riferimenti: ‘nell’epoca attuale dell’imperialismo, il capitalismo non può sopravvivere che grazie alle massicce distruzioni belliche; l’impulso alla produzione è tanto forte quanto più importanti sono state le distruzioni. In altre parole, il capitalismo, la cui ragion d’essere è una accumulazione accresciuta senza posa, deve sempre più ricorrere, per sopravvivere, a disaccumulazioni violente’.
Un ultima osservazione: nel corso del suo sviluppo il modo di produzione capitalistico tende a ‘infrangere i limiti divenuti troppi angusti della nazione (l’impresa locale diviene così trust internazionale). Questa tendenza alla socializzazione dei mezzi di produzione, la cui soluzione reclama la rivoluzione sociale del proletariato’.
In assenza della rivoluzione proletaria, la tendenza alla socializzazione dei mezzi di produzione si compie ‘in antitesi al quadro nazionale degli interessi generali di ciascuna borghesia. Questa perciò tenta di superare la contraddizione con i propri mezzi, che sono i molteplici accordi economici che gli Stati firmano tra loro (gli uni contro gli altri): zone di libero scambio, Mercato Comune, accordi interamericani, consigli di cooperazione economica tira i paesi «socialisti», ecc. e mediante i quali il capitalismo cerca di regolare le produzioni creando legami tecnici e finanziari tra le diverse branche economiche’.
Dunque gli accordi e le unioni diventano dei semplici mezzi attraverso cui le sovrastrutture statali borghesi, tentano di ‘superare la contraddizione’ strutturale tra socializzazione dei mezzi di produzione e il ‘quadro nazionale degli interessi generali di ciascuna borghesia’. Tuttavia i tentativi di superare la contraddizione anzidetta non sono che il presupposto e la condizione di partenza per la diffusione di altre contraddizioni, infatti gli accordi economici ‘che gli Stati firmano tra loro (gli uni contro gli altri)’ conducono alla intensificazione delle disparità economico-sociali, perché mentre ‘il capitalismo cerca di regolare le produzioni creando legami tecnici e finanziari tra le diverse branche economiche’ … ‘è evidentemente a modo suo che realizza questo obiettivo, perché nell’atto stesso in cui il capitalismo, mediante la divisione internazionale del lavoro, super-industrializza una parte del globo, distrugge l’economia di intere regioni gettandole nella miseria e nella rovina’.
Il testo conferma, inoltre, contro ogni idea di centro unico mondiale, la realtà della divisione della dominazione borghese globale in blocchi concorrenti, antagonistici, infatti: ‘Solo quest’analisi dialettica della economia capitalistica (cioè della contraddizione fra tendenza alla socializzazione dei mezzi di produzione e tendenza alla difesa del ‘quadro nazionale degli interessi generali di ciascuna borghesia’. Nostra nota) permette di comprendere la natura contraddittoria dell’odierna nazione borghese. Con la stipulazione di accordi economici e politici, l’antagonismo che oppone le une alle altre le nazioni borghesi, lungi dallo scomparire, rinasce con un’ampiezza mostruosa nei blocchi che oggi si affrontano‘.
Il mito dell’Europa unita è un testo che sfata (preventivamente) anche il mito dell’indebolimento/esautoramento degli apparati statali, ovvero la tesi del ruolo ormai ‘inessenziale’ della sovrastruttura rispetto alle dinamiche strutturali economiche.
Ebbene, le ‘nuove’ istituzioni sovranazionali, gli accordi internazionali fra stati (nel 1962 come nel 2016) non solo conservano i conflitti e le rivalità di bottega delle borghesie nazionali, in quanto ‘gli interessi materiali delle nazioni si affrontano senza che si possano mettere in comune le disparità che il capitalismo stesso ha fatto nascere’, ma in definitiva sorgono già all’origine minati dallo scontro di interessi, in cui la borghesia più debole e lo stato che la rappresenta, risulta la parte di sicuro penalizzata nell’accordo finale : ‘ Per noi il Mercato Comune non è l’unione delle nazionalità europee, ma l’espressione – più acuta che mai – della rivalità fra le nazioni capitalistiche’. Gli accordi inter-statali lungi dal pacificare i conflitti interni alla classe borghese globale, o dall’estinguere la funzione della sovrastruttura statale in se stessa, non fanno altro che approfondire i conflitti fra i predoni borghesi (sulla deriva della caduta storica del saggio di profitto), e trasferiscono parte degli attributi e dei poteri degli stati che rappresentano le economie nazionali più deboli, in ambiti statali sovranazionali (in cui la parte del leone la incarnano gli interessi dell’economia capitalistica più forte e sviluppata). Queste istituzioni politico-economiche sovranazionali sono il risultato, infatti, dei ‘molteplici accordi economici che gli Stati firmano tra loro (gli uni contro gli altri). I processi di concentrazione e centralizzazione dei capitali si ripetono dunque anche sul piano sovrastrutturale statale, tuttavia questi processi accentuano invece di attutire le rivalità interne alla classe borghese, infatti, ripetiamolo ancora: ‘Con la stipulazione di accordi economici e politici, l’antagonismo che oppone le une alle altre le nazioni borghesi, lungi dallo scomparire, rinasce con un’ampiezza mostruosa nei blocchi che oggi si affrontano‘.‘
Ancora un piccolo inciso: il testo del 1962 preconizza che l’eventuale riunificazione della nazione tedesca avrebbe dato impulso ai processi di aggregazione capitalistica autonoma dell’Europa dai Moloch imperiali russo -americani, i termini in cui viene espressa tale previsione sono i seguenti: ‘L’Europa ricostruita col ferro e col fuoco dagli «alleati» ha visto la Germania divisa in due, e la Germania divisa significa l’Europa e il mondo divisi. I patti militari, la NATO e il patto di Varsavia, lungi dall’aver costituito le cause di questa divisione, non sono stati che il velo giuridico di una situazione storica: l’occupazione militare da parte dei mastodontici stati americano e russo che, pur avendo interessi contrastanti su scala mondiale, sono sostanzialmente d’accordo sulla divisione dell’Europa e lottano entrambi per mantenere sotto tutela; all’ovest come ad est, gli altri Stati’.
Ora cosa significa affermare che la Germania divisa significa l’Europa e il mondo divisi ? Proviamo a ragionare: Il capitalismo tedesco, con il suo grado di sviluppo, è ancora oggi percepito come un pericoloso avversario dai centri di potere del complesso militare -industriale americano, e ove questo capitalismo realizzasse una qualche forma di aggregazione o blocco di interessi economici e politici con la potenza euroasiatica di Russia e Cina, diventerebbe il fattore destinato a fare la differenza sulle sorti dell’attuale confronto/scontro fra blocchi imperiali concorrenti. Abbiamo spesso sostenuto che la sconfitta dell’egemonismo più forte, in questo caso quello anglo-americano, potrebbe innescare dei processi di accelerazione del conflitto sociale nel cuore stesso del capitalismo più avanzato, con effetti a cascata sugli altri paesi, e quindi consentire l’apertura di una prospettiva rivoluzionaria, ergo di un mondo non più diviso in classi e stati-nazione (Imperialismo delle portaerei). Si tratta di ipotesi, ma è anche vero che la riunificazione tedesca c’è stata, e le manovre di contenimento/asservimento degli U.S.A rispetto ai vassalli europei sono visibili e, alla luce del sole ( prendiamo i vagheggiati trattati commerciali transatlantici – fortemente osteggiati dall’imprenditoria tedesca – o le inchieste relative a una casa automobilistica tedesca, oppure le sanzioni economiche anti-russe che l’Europa ha adottato – contro i propri interessi – e su impulso americano). Come nella normale concorrenza fra imprese capitalistiche, anche nella politica internazionale: In nessun momento, dunque, gli antagonismi obiettivi sono scomparsi fra le nazioni del blocco occidentale. Non solo: mai il conflitto d’interessi fra l’America e la «Piccola Europa» è stato così aspro come oggi. A questo fatto non cambiano nulla le stupide fanfaronate dei piccoli borghesi che credono di vedere la potente America ammainar bandiera davanti a loro, e la orgogliosa Inghilterra venire a più miti consigli. È invece chiara la manovra dell’Europa Unita: i Sei vorrebbero giocare, di fronte ai colossi americano e russo, il ruolo della «terza forza», «garanzia di equilibrio, di pace e di sviluppo armonioso dell’umanità», mediante il «giusto riconoscimento del ruolo di guida che non avrebbero mai dovuto lasciarsi sfuggire». Ma ecco che, appena questo nobile progetto sta per germogliare, l’America rivendica la sua parte dopo che l’Inghilterra aveva posto la sua candidatura trascinando con sé il Commonwealth; e non è ancora finita…’.
Sembra una descrizione vivida degli ultimi eventi internazionali, le ambizioni inani del terzaforzismo europeo, le lusinghe del blocco russo-cinese all’Europa, la mano di ferro del grande fratello a stelle e strisce sui riottosi e perplessi vassalli europei, e soprattutto la considerazione che ‘non è ancora finita’.
Buona lettura
Il mito dell’Europa unita
Nel frastuono delle esplosioni della guerra (e della «pace») d’Algeria, il tam-tam della stampa ufficiale sulle riunioni e sottoriunioni per il Mercato Comune Europeo, suona terribilmente falso. La perdita delle colonie e l’ascesa delle potenze americana e russa hanno segnato irrimediabilmente il declino dell’Europa, culla del primo capitalismo; di qui la necessità di trovare una «soluzione» nuova per un ulteriore periodo di grandezza: il Mercato Comune. L’Europa, giungla dei nazionalismi e arena delle guerre mondiali, pretende così di seppellire il passato e costruire pacificamente una vasta unità economica in grado di compensare la perdita degli imperi coloniali e di raggiungere, o meglio superare, le grandi potenze.
È questo, senza dubbio, un balsamo per il cuore dell’eterna vittima di tutte le grandi crisi, la piccola borghesia, che qua la guerra algerina spinge nelle prime file o dell’O.A.S. o della «gauche», e là è minacciata dal grande capitale nella piccola e media industria, nell’artigianato, nell’agricoltura e nel commercio: eppure, il Mercato Comune è un nuovo colpo inferto proprio ad essa.
In realtà, la grande morale del Mercato Comune è la riscoperta dei benefici di una concorrenza «vera» e «leale», in cui ciascuno abbia le stesse possibilità di riuscita, dalla grande alla piccola borghesia, dagli immensi trust al piccolo artigianato o bottegaio: ma come in ogni morale, non si accede senza dolori al paradiso: il comandamento è «investire di più e produrre ancora di più», per trovarsi «in posizione favorevole» prima dell’«inevitabile» abbattimento delle frontiere. Proprio in questo noi vediamo le necessità inesorabili dello sviluppo capitalistico, contrabbandate sotto l’etichetta di «Europa Unita». Se la vecchia Europa celebra oggi una seconda giovinezza (dal 1945, i tassi di incremento della sua produzione sono saliti al livello di quelli di un capitalismo giovane) è perché essa ha superato la crisi di sovrapproduzione grazie alle immense distruzioni della guerra e gode di un breve periodo di euforico sviluppo. Ma il proletariato, che i partiti operai rinnegati incitano a rimboccarsi le maniche senza porre rivendicazioni di sorta, sa che tutto ciò significa accumulazione forsennata di capitale sulla sua pelle.
Per noi le classi sociali sono legate a una certa forma di produzione e, a meno di una rivoluzione politica e sociale, la loro natura non cambia. La borghesia, come la definisce il ‘Manifesto’, è caratterizzata da una lotta incessante condotta prima contro l’aristocrazia, poi contro i partiti che si oppongono ai progressi della sua industria, sempre contro le borghesie straniere. La rivoluzione borghese crea quell’unità di produzione che è la nazione, e attraverso gli scambi mercantili la congiunge al mercato mondiale. Non occorre alcuna nozione nuova per constatare che lo sviluppo ineguale del capitalismo nel mondo e la marcia irregolare dell’evoluzione storica delle grandi potenze fanno sì che la borghesia internazionale, sempre pronta a far blocco contro le forze rivoluzionarie, è d’altra parte essa stessa profondamente divisa da inguaribili rivalità. Per noi il Mercato Comune non è l’unione delle nazionalità europee, ma l’espressione – più acuta che mai – della rivalità fra le nazioni capitalistiche.
Teoricamente, la costruzione dell’Europa Unita si basa sul postulato che si può regolare la produzione con mezzi monetari. Ma basta enunciare il postulato per vederne l’inconsistenza: come si può creare un’unità di produzione superiore (l’Europa) limitandosi a costruire un mercato? La dinamica dell’economia capitalistica non è affatto determinata in tutti i suoi momenti dalla concorrenza tra imprenditori, che se mai ne è l’aspetto più immediato, o dalla lotta fra nazioni borghesi, in cui la difesa del profitto può cedere di fronte alla difesa degli interessi generali di ciascuna borghesia nazionale: le forze produttive creano nel corso del loro sviluppo storico determinati rapporti tra gli uomini, e la ricerca del profitto non corrisponde che ad uno degli stadi da esse raggiunto. La borghesia è quindi la rappresentazione fisica dei dominanti rapporti di produzione capitalistici, che esprimono lo sviluppo raggiunto dalle forze produttive. Ma queste non possono fermarsi qui. Entro gli stessi rapporti capitalistici, esse crescono fino ad infrangere i limiti divenuti troppi angusti della nazione (l’impresa locale diviene così trust internazionale). Questa tendenza alla socializzazione dei mezzi di produzione, la cui soluzione reclama la rivoluzione sociale del proletariato, si compie, in assenza di quest’ultima, in antitesi al quadro nazionale degli interessi generali di ciascuna borghesia. Questa perciò tenta di superare la contraddizione con i propri mezzi, che sono i molteplici accordi economici che gli Stati firmano tra loro (gli uni contro gli altri): zone di libero scambio, Mercato Comune, accordi interamericani, consigli di cooperazione economica tira i paesi «socialisti», ecc. e mediante i quali il capitalismo cerca di regolare le produzioni creando legami tecnici e finanziari tra le diverse branche economiche. Ma è evidentemente a modo suo che realizza questo obiettivo, perché nell’atto stesso in cui il capitalismo, mediante la divisione internazionale del lavoro, super-industrializza una parte del globo, distrugge l’economia di intere regioni gettandole nella miseria e nella rovina.
Solo quest’analisi dialettica della economia capitalistica permette di comprendere la natura contraddittoria dell’odierna nazione borghese. Con la stipulazione di accordi economici e politici, l’antagonismo che oppone le une alle altre le nazioni borghesi, lungi dallo scomparire, rinasce con un’ampiezza mostruosa nei blocchi che oggi si affrontano.
L’Europa (e il mondo) non potranno dirsi veramente uniti che quando la rivoluzione proletaria avrà abbattuto gli stati nazionali e instaurato un potere proletario internazionale. In attesa di ciò, tutta la propaganda riformista e megalomane dell’Europa Unita si urterà contro i limiti e le contraddizioni di natura obiettiva del modo di produzione capitalistico, e non basteranno le solenni firme di ambasciatori e di ministri a superarle.
L’esperimento hitleriano
Hitler (a capo di una Germania già privata delle sue colonie) si era inebriato alla «grande idea» dell’Europa Unita, ma, contrariamente ai promotori europeisti del nuovo dopoguerra, si era servito del solo mezzo adeguato per realizzarla: la forza. Ciò che il prussiano Bismarck aveva fatto per la Germania divisa in cento staterelli, egli voleva farlo per l’Europa del trattato di Versailles.
L’Europa Unità è oggi una frase vuota, in un continente economicamente mutilato; anche in questo il tentativo hitleriano era più serio, perché tendeva all’unificazione di due settori complementari: l’Ovest in certi punti super-industrializzato (la Cecoslovacchia, l’Italia del nord, il Lussemburgo, il Belgio, i bacini della Lorena, della Saar e della Ruhr); l’Est, prevalentemente agricolo. È a questa integrazione che si oppongono oggi le gigantesche forze centripete dei nuovi colossi americano e russo, sorti dal fumo e dalle fiamme della seconda guerra mondiale. Clamorosamente fallito il tentativo tedesco, l’Europa è entrata in un definitivo declino. Ad Est, è sorta la potenza industriale russa che la guerra ha accresciuto a dismisura e che si è circondata di una cintura di «alleati» e di «satelliti» per formare un insieme unico di produzione e di consumo. È stata questa la risposta russa alla guerra europea scatenata dalla Germania nazista contro l’Est e che tendeva in definitiva a impedire la saldatura tra l’industria russa ed il mercato agricolo dell’Europa Orientale.
Ma tutta la storia di questo dopoguerra – continuazione e, se possibile, rafforzamento del dominio degli imperialismi – è il risultato della spartizione compiuta alla fine della guerra, che contiene già in nuce le cause e lo schieramento di forze per il terzo conflitto mondiale. Le convulsioni del mondo d’oggi non derivano dalla particolare politica di questo o di quel governo, ma da tutto lo sviluppo storico della politica mondiale. L’Europa ricostruita col ferro e col fuoco dagli «alleati» ha visto la Germania divisa in due, e la Germania divisa significa l’Europa e il mondo divisi. I patti militari, la NATO e il patto di Varsavia, lungi dall’aver costituito le cause di questa divisione, non sono stati che il velo giuridico di una situazione storica: l’occupazione militare da parte dei mastodontici stati americano e russo che, pur avendo interessi contrastanti su scala mondiale, sono sostanzialmente d’accordo sulla divisione dell’Europa e lottano entrambi per mantenere sotto tutela; all’ovest come ad est, gli altri Stati.
Ciò che vale per la NATO, vale dunque per l’anti-NATO russa. Le alleanze che avevano messo in moto le armate russe, giunte a Berlino e a Vienna nella primavera del 1945 durante il periodo dell’idillio russo-americano, sono state il punto di partenza del condominio americano e russo in Europa.
Il fatto che gli Stati d’Europa siano divisi dalle opposte coalizioni militari del Patto Atlantico e del Patto di Varsavia, prova che la sorte del vecchio continente è ormai nelle mani delle superpotenze che delle suddette alleanze costituiscono il centro motore: gli Stati Uniti e l’U.R.S.S.
L’esperimento inglese
La firma, il 17 marzo 1947, da parte del Belgio, della Francia, dell’Olanda, del Lussemburgo e del Regno Unito, del Trattato di Bruxelles, ovvero dell’Unione Europea ispirata dalla diplomazia britannica, rappresenta un altro tentativo delle vecchie potenze imperialiste e colonialiste dell’Europa Occidentale di conservare le antiche posizioni mondiali distrutte dalla guerra e di interporsi come «terza forza» fra i due mastodonti URSS e USA.
La Germania era ancora in rovine (e l’Inghilterra si affrettava ad approfittarne!); si era in piena guerra fredda, ed è da questa che poco dopo doveva nascere il blocco di Berlino-Ovest ordinato dai russi. Si assisteva così al teatrale carosello del «ponte aereo» organizzato dagli americani. Ma l’aiuto finanziario di Washington per ricostruire l’economia europea ebbe facilmente ragione delle velleità di unione europea. Le potenze firmatarie del trattato di Bruxelles passarono quindi dalla coalizione europea alla più vasta coalizione rappresentata dall’Alleanza Atlantica ed è chiaro che nello stesso tempo il centro di gravità dell’Alleanza si spostò da Londra, il «grande vincitore» europeo della guerra antitedesca, a Washington. Storicamente, non è azzardato affermare che la creazione della NATO significò l’abdicazione delle vecchie potenze occidentali di fronte agli USA e il declino dell’Europa come sede del dominio del mondo.
Oggi, il presidente Kennedy può ben dichiarare al Congresso americano: «Un’Europa occidentale integrata, unita in una associazione commerciale con ali Stati Uniti, farà pendere ancor più dalla parte della libertà la bilancia della potenza mondiale. È la più bella occasione che ci sia stata offerta, dopo il Piano Marshall, di dimostrare la vitalità del mondo libero».
L’esperienza dei «Sei»
Può sembrare tuttavia, col «rilancio dei Sei», che la decadenza non sia irreversibile e che l’Europa abbia ritrovato un nuovo vigore nella formidabile risalita dell’economia postbellica.
È ciò che può far credere la riduzione delle tariffe doganali realizzata per i prodotti industriali dal Mercato Comune. Ma la produzione industriale dei Sei è realmente venduta su un «mercato comune»? In altri termini, la formazione di un mercato comune dei Sei basta a garantire lo smercio della produzione?
Per rispondere a questa domanda, dobbiamo considerare il commercio estero della Comunità Economica Europea. Le esportazioni mondiali della C.E.E. in milioni di dollari U.S. sono le seguenti: 1938, 4,360 – 1948, 6.500 – 1950, 9.290 – 1951, 13.790 1952, 13.770 – 1953, 14.090 – 1954, 15.780 – 1955, 18.370 – 1956, 20.070 1957, 22.470 – 1958, 22.770 – 1959, 25.200. Durante lo stesso periodo, la percentuale degli scambi tra i Sei in rapporto al loro commercio mondiale è stata la seguente: 1938, 27,5 – 1948, 26,2 – 1950, 33,2 – 1951, 26,4 – 1952, 26,7 – 1953, 28,5 – 1954, 29,5 – 1955, 30,8 – 1956, 32 – 1957, 31,8 – 1958, 30,4 – 1959, 32,4. Grosso modo, i due terzi della produzione dei Sei sono dunque esportati al di fuori del Mercato Comune europeo.
Ne segue che, se ci si pone seriamente il problema di un Mercato Comune, bisogna cercarlo non nei paesi della C.E.E. ma altrove, cioè là dove sono smerciati i due terzi della loro produzione. Questa non è una tendenza apparsa dopo la firma del trattato di Roma; già molto prima, il vero terreno della concorrenza commerciale tra i Sei si trovava sul mercato mondiale!
La riduzione dei diritti doganali tra i Sei non ha dunque che un effetto modesto e tutta la pubblicità intorno ad essa non toglie nulla al fatto che il 70% delle transazioni internazionali dei Sei sfuggono alle clausole del Mercato Comune. Una Europa economicamente indipendente non è che un’illusione, perché la sua esistenza è strettamente legata al mercato mondiale, e le correnti di scambio, aumentando continuamente in modo assoluto, non fanno che rendere più sensibile questo fenomeno.
Così, invece di possedere un’autarchia economica in grado di sottrarla alla pressione soffocante del mercato mondiale, l’Europa deve al contrario lottare per mantenere e migliorare le sue esportazioni fuori dai suoi confini e trova necessariamente sulla sua strada l’America e l’Inghilterra, e vi troverà sempre più l’U.R.S.S. Lo studio del commercio estero di questi tre settori è, a questo proposito, molto significativo, perché le loro rispettive esportazioni, lungi dal seguire una evoluzione unica, identica per i tre (U.S.A., Inghilterra e i Sei), mostrano al contrario disparità pronunciate. La tabella seguente, che raggruppa i principali dati del loro commercio estero (esportazioni), illustra le tendenze osservabili nel corso del periodo 1938-1959, Per ogni settore, la prima colonna dà la percentuale delle esportazioni in rapporto agli scambi mondiali; la seconda, la differenza di percentuale da un anno all’altro:
CEE | USA | Regno Unito | |||||
Anni | Commercio mondiale US$ mil. | % export di commercio mondiale | Differenza in % per anno | % export di commercio mondiale | Differenza in % per anno | % export di commercio mondiale | Differenza in % per anno |
1938 | 21.100 | 20,7 | 14,5 | 11,5 | |||
1948 | 53.600 | 12,1 | -8,6 | 23,4 | +8,9 | 11,7 | +0,2 |
1950 | 56.300 | 16,5 | +4,4 | 18 | -5,4 | 11,3 | -0,4 |
1951 | 76.100 | 18,1 | +1,6 | 19,6 | +1,6 | 9,4 | -1,9 |
1952 | 73.000 | 18,9 | +0,8 | 20,6 | +1,0 | 9,8 | +0,4 |
1953 | 74.100 | 19,0 | +0,1 | 21,1 | +0,5 | 9,6 | -0,2 |
1954 | 76.900 | 20,6 | +1,6 | 19,5 | -1,6 | 9,6 | 0 |
1955 | 83.700 | 21,9 | +1,3 | 18,5 | -1,0 | 10,8 | +1,2 |
1956 | 92.900 | 21,7 | -0,2 | 20,4 | -1,9 | 9,5 | -1,3 |
1957 | 99.800 | 22,6 | +0,9 | 20,8 | +0,4 | 9,2 | -0,3 |
1958 | 95.100 | 23,9 | +1,3 | 18,6 | -2,2 | 9,3 | +0,1 |
1959 | 100.600 | 25,1 | +1,2 | 17,3 | -1,3 | 9,2 | -0,1 |
Più che l’osservazione della tendenza delle esportazioni di ogni paese preso a sé, è particolarmente rivelatrice la combinazione dei tre.
Nel 1948, gli Stati Uniti occupavano il posto dell’Europa sui mercati tradizionalmente riforniti da quest’ultima, con un aumento di circa il 9% delle sue esportazioni corrispondente a una identica diminuzione in percentuale delle esportazioni dall’Europa. A quella data, l’Inghilterra manteneva faticosamente le posizioni d’anteguerra, che in seguito non doveva mai più migliorare. Nel 1954, l’Europa dei Sei raggiungeva gli U.S.A. e riprendeva le posizioni del 1938. La recessione americana del 1958, i cui effetti si fanno sentire ancor oggi, dava all’Europa, ringiovanita dalle distruzioni belliche, il modo di consolidare le sue posizioni sul mercato mondiale a detrimento degli Stati Uniti.
In nessun momento, dunque, gli antagonismi obiettivi sono scomparsi fra le nazioni del blocco occidentale. Non solo: mai il conflitto d’interessi fra l’America e la «Piccola Europa» è stato così aspro come oggi. A questo fatto non cambiano nulla le stupide fanfaronate dei piccoli borghesi che credono di vedere la potente America ammainar bandiera davanti a loro, e la orgogliosa Inghilterra venire a più miti consigli. È invece chiara la manovra dell’Europa Unita: i Sei vorrebbero giocare, di fronte ai colossi americano e russo, il ruolo della «terza forza», «garanzia di equilibrio, di pace e di sviluppo armonioso dell’umanità», mediante il «giusto riconoscimento del ruolo di guida che non avrebbero mai dovuto lasciarsi sfuggire». Ma ecco che, appena questo nobile progetto sta per germogliare, l’America rivendica la sua parte dopo che l’Inghilterra aveva posto la sua candidatura trascinando con sé il Commonwealth; e non è ancora finita…
Addio, dunque, sogni di restaurazione dell’Europa e delle sue glorie! «Ma che cosa importa», risponde l’ottimista incorreggibile, «se questo dev’essere il preludio a una intesa fra nazioni, a una cooperazione interstatale?».
Eccoci dunque tornati sul solido terreno delle rivalità imperialiste.
Come abbiamo detto, l’Europa approfitta momentaneamente dello sviluppo economico dovuto alle enormi distruzioni belliche per tentare le posizioni economiche perdute.
Questo dimostra, una volta di più, ciò che noi non abbiamo mai cessato di affermare: nell’epoca attuale dell’imperialismo, il capitalismo non può sopravvivere che grazie alle massicce distruzioni belliche; l’impulso alla produzione è tanto forte quanto più importanti sono state le distruzioni. In altre parole, il capitalismo, la cui ragion d’essere è una accumulazione accresciuta senza posa, deve sempre più ricorrere, per sopravvivere, a disaccumulazioni violente.
L’agricoltura, pietra d’inciampo dell’unità europea
Tanto una eccedenza di manufatti che si esportano costituisce un vantaggio per un moderno paese capitalista, tanto una produzione agricola eccedente è per esso una catastrofe, perché queste eccedenze sono molto più difficili da collocare all’estero. L’esempio della Francia colpisce per la sua chiarezza. Spinta dal ritmo di un’industrializzazione che impone e porta con sé un rammodernamento dell’agricoltura, essa si sforza di ridurre la popolazione rurale (oggi il 44% del totale della popolazione complessiva) e di convertirla in proletariato industriale. Ma un tale mutamento nelle strutture sociali tradizionali non può avvenire senza scosse. Le manifestazioni dei contadini francesi non sono che un episodio degli sconvolgimenti prodotti dalla sparizione dei piccoli e medi agricoltori. Infatti la conseguenza più importante consiste nella necessità per il capitalismo francese di sacrificare al proprio sviluppo il suo miglior alleato, la classe contadina, classe conservatrice per antonomasia, e questa sparizione si accompagna a un rafforzamento numerico della classe operaia. La borghesia francese si preoccupa di compiere questa conversione progressivamente, in modo «insensibile», senza intralciare lo sviluppo della sua industria. Si spiega cosi l’accanimento della Francia a Bruxelles, con l’intento non di far trionfare «l’idea europea», ma di proiettare all’estero le proprie difficoltà nazionali attraverso il canale pratico del Mercato Comune utilizzato in tutte le salse. Questo spiega a contrario l’attitudine «intransigente» della Germania, che non ha alcun desiderio di sostenere le spese dell’operazione e il cui deficit agricolo costituisce la miglior arma nella conquista dei mercati del Terzo Mondo. Il suo atteggiamento è tanto più fermo in quanto la Francia non gode più di un monopolio in Africa.
In queste condizioni hanno avuto luogo le trattative di Bruxelles in vista di un mercato agricolo comune dei Sei, le cui risoluzioni finali hanno solo aggiornato la soluzione del problema perché, nella realtà, gli interessi materiali delle nazioni si affrontano senza che si possano mettere in comune le disparità che il capitalismo stesso ha fatto nascere.
La posta sociale dell’«Europa unita»
La piccola borghesia dell’Europa occidentale, sebbene sia la madre di tutte le ideologie umanitarie, ha rosicchiato per lunghi decenni l’osso colonialista, scandalizzandosi del cinico modo di agire di avventurieri alla Cecil Rhodes, i proconsoli del capitalismo nelle colonie. Il capitolo del riformismo democratico e socialdemocratico che, nel corso dei decenni, ha conferito sicurezza e rispettabilità agli strati piccolo-borghesi, non sarebbe mai stato scritto senza l’espansione capitalistica nelle colonie. Ma oggi è chiaro che il moto d’indipendenza nelle colonie sta concludendo il suo ciclo, ed ecco tutta una tendenza del riformismo piccolo-borghese della Europa occidentale mettersi a sognare disperatamente un’Europa unita, che compensi, formando un solo, grande mercato, la terribile mutilazione che il capitalismo europeo ha subito con la perdita delle colonie.
L’esempio degli Stati Uniti d’America (la cui genesi è pure del tutto diversa) agisce allora sullo spirito dei «progressisti» con un irresistibile fascino. Scettica circa le possibilità d’integrazione politica europea, la grande borghesia capitalistica lascia che il nuovo «nazionalismo europeo» si sviluppi come la sola ideologia che possa conservare l’appoggio di tutto il settore della piccola borghesia e del proletariato che le umiliazioni e amputazioni subite dalle vecchie patrie avevano distolto dal tradizionale nazionalismo: in altri termini, come un momentaneo parafulmini contro l’ineluttabile evoluzione politica che toglierà ogni velo dalla società presente e ne renderà ben riconoscibile il volto.
La sola politica che sia all’altezza delle gigantesche forze di produzione moderne è l’internazionalismo proletario, perché solo il proletariato, strappando alle borghesie nazionali su scala mondiale il monopolio delle forze produttive, può liberare l’economia dalle contraddizioni nelle quali il capitalismo, per disgrazia di tutti, le imprigiona, e che crescono invece di attenuarsi man mano che la produzione e il mercato si estendono.
L’«europeismo», l’«atlantismo» – come d’altra parte l’«anti-atlantismo» russo – non sono se non effimeri sostituti borghesi dell’internazionalismo proletario, che tendono a nascondere dietro un velo «progressivo» alleanze concluse unicamente in vista di «soffocare in comune il socialismo in Europa» (e nel mondo!), come già constatava Lenin. Ma questo tentativo è storicamente votato all’insuccesso. L’Europa e gli altri continenti non potranno non unirsi quando il grande terremoto rivoluzionario avrà fatto crollare gli Stati nazionali, preparando il terreno alla dittatura mondiale del proletariato. Utopia? Solo dei rinnegati possono credere che i governi capitalistici condurranno il mondo di guerra in guerra fino alla consumazione dei secoli.
Giorno verrà in cui essi saranno impotenti di fronte al proletariato finalmente in piedi che, facendo giustizia di tutti i Mercati e anti-Mercato Comuni, sfornati dalla vile propaganda «progressista», spazzerà via da tutta la superficie del globo l’odioso e assassino mercantilismo della società borghese.
«Il Programma Comunista», 5 Giugno 1962, N. 11 & 12