Forza, violenza, dittatura
nella lotta di classe 1
Premessa
Parlare di atomizzazione delle forze che vogliono rimanere legate alla prospettiva reale del comunismo rivoluzionario risulta oggi perfino banale. Al di là di questo nostro incontro per commentare quanto scritto una settantina di anni fa sulla rivista Prometeo, dal 1946 al 1948 – Forza violenza dittatura nella lotta di classe –, non siamo certamente i soli che, nel mondo intero, stanno affrontando analoghi problemi: la crisi, la rivoluzione e sua possibile rottura rivoluzionaria, ecc.. Molti altri piccoli insiemi di atomi, molecole della potenziale futura aggregazione politica del movimento reale del comunismo, si affannano a porre correttamente i secolari e fondamentali problemi della lotta fra le classi sociali.
Oggi, il rapporto fra le classi è imperniato soprattutto sulla lotta fra borghesia e proletariato: la prima, impegnata quotidianamente nella difesa delle cosiddette “libertà istituzionali” che regolano il quadro, i confini utili allo sfruttamento capitalistico della forza lavoro e alla propria accumulazione di capitale 2; la seconda, impegnata nella quotidiana guerra civile a) in parte, per difendere le proprie immediate condizioni di vita e, in altra parte, b) per comprendere la possibilità di fuoriuscita dal circolo vizioso di tale sfruttamento: “diritti sì”/“diritti no”, ma sempre interni al quadro del “diritto” borghese in atto. 3
La borghesia per ora si preoccupa relativamente delle atomizzate forze rivoluzionarie del proletariato; in fondo, questi ‘quattro gatti’, basta tenerli d’occhio intervenendo con tutto il proprio arsenale di violenza qualora fossero in grado di uscire dal loro sonnacchioso tran-tran.
Il problema non sta, nel nostro e in altri casi, nell’essere in quattro o in quaranta gatti. Il problema ben più grave da risolvere è dato dalla difficoltà di mettere della buona cera sulle nostre orecchie e della buona corda per legarci al nostro ‘albero di Ulisse’ al fine di non farci trascinare dal canto delle sirene della propaganda “pacifista”: propaganda che si scatena con virulenza nello stesso tempo in cui si ammette che “la guerra mondiale è ormai già in corso da tempo”.
Il problema maggiore consiste nel riconoscere che il proletariato – soprattutto le sue frange più ‘radicali’ – fatica tremendamente ad uscire da un lungo e profondo sonno. Ma proprio perché finalmente verranno disturbati dalle prime luci dell’alba, urge riprendere e sottolineare l’importanza dei grandi nodi di principio della futura guerra rivoluzionaria per il comunismo.
Sia quel che sia, grande o piccolo numericamente, profonda o meno la capacità di analisi teorica e politica, qualsiasi raggruppamento di comunisti potrà definirsi tale, cioè comunista, solo se mira costantemente – giorno dopo giorno – a far parte del processo di formazione del partito di classe, del partito comunista, organo guida della futura insurrezione armata per la distruzione dello Stato borghese, e la instaurazione del potere dittatoriale del proletariato che sarà tale solo se esercitato in prima persona dallo stesso partito comunista. Queste posizioni di principio devono sempre essere al centro, da subito, del lavoro di qualsiasi militante rivoluzionario. Questo – e solo questo – può caratterizzare oggi un raggruppamento di comunisti.
È vero, certi temi non sono all’ordine del giorno. Potrebbe sembrare ridicolo affrontare il problema della violenza rivoluzionaria e della distruzione dello Stato borghese quando si fa ancora fatica ad essere presenti in qualche significativa manifestazione operaia. Di fronte a simili obiezioni “realistiche” val la pena ricordare e fare nostro quanto Lenin scriveva nel 1902 nel suo celebre “Che fare?”, quando parlava della necessità di prepararsi – e del “come prepararsi” – ad una futura “insurrezione popolare” (non si dimentichi che siamo nella Russia zarista del 1902 e a tal fine propugnava un “piano di un giornale politico di tutta la Russia). Tale metodo di affrontare i problemi, valido per la Russia di ieri, rimane valido anche per il nostro tempo e per quei quattro o quaranta gatti che si apprestano a lavorare da comunisti.
Tutto ciò, scrive Lenin,
“non soltanto non è il frutto di un lavoro asfittico svolto da persone affette da dottrinarismo e da intellettualismo (come è sembrato a persone che vi hanno mal riflettuto), ma, al contrario è il piano più pratico per cominciare da tutte le parti e subito a prepararsi all’insurrezione, senza dimenticare nello stesso tempo neppure per un istante il proprio essenziale lavoro quotidiano”. 4
Per tale motivo, la rilettura di questo vecchio testo del 1946/’48 non risulta faccenda di archeologia culturale, ma materiale strumento di battaglia teorica e politica utile a chiarire il rapporto fra quelle esigui – per ora – forze del proletariato che vogliono legarsi al comunismo rivoluzionario nello sforzo di evitare la trappola del partegianesimo democratico o antimperialista.
Proprio per evitare ogni possibile schieramento aprioristico pro o contro ogni forma di violenza, il testo colloca il problema della forza, della violenza e della dittatura nei rapporti fra uomini, all’interno dello sviluppo storico della specie, dunque all’interno del succedersi delle forme sociali di produzione e del formarsi delle classi sociali; oltre a ciò, delle inevitabili forme di organizzazione di controllo del dominio delle classi vincenti e dominanti.
In conclusione, il testo che qui vogliamo ripresentare è un testo di partito, da affrontare con lo spirito del militante di partito: del milite potenziale di quel partito che oggi non c’è nelle sue manifestazioni formali; dunque, milite di quel partito che storicamente 5 ha potuto e potrà nel prossimo futuro manifestarsi sulla reale scena della guerra rivoluzionaria, nel nome del ferro, del fuoco e della scopa.
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Forza, violenza, dittatura
nella lotta di classe
dal volume PARTITO E CLASSE
edizione il programma comunista, 1972. 6
“Giocando sul fatto che la borghesia ha finito per eseguire parecchie di quelle misure che per la sua incapacità erano affidate agli sforzi rivoluzionari del proletariato (istruzione obbligatoria, Banca di Stato, ecc. ), il riformismo ne ha dedotto la possibilità di applicare nella legalità e senza urto violento tutte le rivendicazioni del Manifesto, passando vigliaccamente sotto silenzio che la presa violenta del potere da parte della classe operaia è la condizione sine qua non per la loro applicazione e per il superamento del capitalismo, prima nella politica e poi nella economia – come deve essere in ogni vera rivoluzione”.
[da Le forme di produzione successive nella teoria marxista, cap. Programma rivoluzionario IMMEDIATO nei paesi sviluppati, Ediz. 19/75, pag. 270].
I – Violenza effettuale e potenziale.
Lungo tutta la storia dell’umanità si constata il continuo uso della violenza fra individui e fra gruppi sociali il cui esito porta a lesioni o distruzione degli stessi.
Tale violenza risulta essere un dato importante dell’energia sociale, ma soprattutto un fattore fondamentale nelle grandi trasformazioni date dal succedersi delle diverse forme della vita sociale, delle periodiche mutazioni delle forme sociali di produzione, senza dimenticare che essa è continuamente presente anche sine effusione sanguinis.
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L’era moderna si caratterizza per un gigantesco sviluppo delle forze produttive, accompagnato da un grande salto nella conoscenza delle leggi fondamentali del mondo fisico. Col superamento 7 della fisica aristotelica e della scolastica medioevale si unificano e si sottopongono ad un unico corpo teoretico, due grandi campi della conoscenza umana fino ad allora divisi: la meccanica terrestre e la meccanica celeste. 8
Vediamo allora che le grandi conquiste della conoscenza consistono essenzialmente nell’aver spazzato i termini di antiche e assolutizzanti concezioni, e di aprire così la via alla possibilità di ulteriore conoscenza dei rapporti reali della natura.
Resta comunque il fatto storico della demolizione dell’ostacolo costituito dalla tesi aristotelica secondo cui una sfera ideale concentrica alla Terra separava due mondi incompatibili fra loro: quello ‘terreno’ e quello ‘celeste’.
L’unificazione dei due campi aiuta ad analizzare e generalizzare il concetto di energia di un corpo, fino a chiarire non solo quanto sia corretto vedere in esso la differenza fra energia potenziale ed energia cinetica, quanto soprattutto la loro possibilità di trasformarsi l’una nell’altra: cosa questa che permette di quantificare il rapporto materia/energia e, dunque, di costruire a scala umana 9 quelle macchine che oggi conosciamo e che inumanamente il più delle volte vengono usate.
In ogni caso, ciò che rimane storicamente un notevole passo avanti è l’aver fatto proprio il concetto che un qualsiasi corpo materiale ha una determinata quantità di riserve potenziali di energia pronte a trasformarsi in energia cinetica – quindi a produrre effetti – appena il corpo viene messo in movimento. 10
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Saltando dal mondo minerale a quello animale, possiamo osservare le stesse trasformazioni dell’energia là dove un individuo o gruppo, lungo il proprio ciclo vitale, è costretto a lottare incessantemente – con possibilità di ferirsi gravemente e anche di morire –, quindi a far uso della violenza, sia contro le avversità dell’ambiente fisico in cui si trova, sia contro elementi della propria specie o appartenenti a specie diverse.
Pian piano, lungo il percorso della storia della conoscenza, compare la mistica, l’etica, forme del pensiero che permettono quella casistica utile all’uomo per confondere e mistificare a se stesso i vari aspetti di violenza: si odia la violenza del lupo quando uccide l’agnellino; si benedice il macellaio che uccide l’agnello affinché finisca nel nostro piatto (meglio se prima lo si offre ad un qualche dio). Si condanna il ladro che uccide un uomo, ma si premia il bombardiere che ne falcia a decine (ovviamente purché sia fatto in nome di una qualche patria).
‘Amore’ e ‘odio’ non sono elementi così contrapposti: è fuor di dubbio che siamo disposti ad offrire la nostra carne alla violenza del bisturi del medico, se questo permette la guarigione del proprio corpo; così, proprio perché amiamo la comunità di cui facciamo parte, siamo pronti all’odio più feroce verso chi ne mette in discussione la esistenza.
Al di là di ogni corbelleria moralisteggiante, la stessa causa ed effetto dell’impiego della violenza può presentarsi come potenziale o virtuale da un lato, come cinetica ed attuale dall’altro.
Esistono moltissimi casi dove la violenza potenziale rimane sufficiente per scoraggiare l’avversario, senza bisogno dunque di esplicarsi materialmente: il cane se la dà a gambe alla sola vista del leone; talvolta basta il terrore prodotto dal carnivoro per immobilizzare la preda al punto da impedirle qualsiasi tentativo di fuga.
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Nelle aggregazioni umane primitive si intrecciano sempre più i rapporti fra gli individui. Il differenziarsi del linguaggio – fondamentale strumento di produzione –, allargando la sfera delle relazioni, accompagna lo sviluppo di attitudini diverse e su queste una divisione di compiti funzionali alla caccia, alla pesca, alla raccolta di vegetali, alla preparazione e conservazione dei cibi, ecc.
Comincia ad apparire la società organizzata e sorge il principio di ordine e di autorità.
La comunità originaria di adatta a regole che vengono rispettate senza la immediata costrizione fisica, ma con la consapevolezza da parte del potenziale trasgressore di una sicura punizione se non addirittura dell’uccisione.
L’uomo delle comunità primitive, dunque, comincia ad assoggettarsi sempre più ad una rete di vincoli sociali via via più stretti che prendono il nome di ordine, di autorità, di diritto.
Statisticamente diminuiscono in tal modo i casi di violenza cinetica (fattuale, punitiva) fra singoli individui, nello stesso momento – storicamente parlando – in cui aumenta la violenza potenziale (di minaccia), al punto che l’individuo impara ad obbedire, scansando così le pesanti sanzioni.
Alla base dunque del principio di autorità, alla base del diritto comunitario non sta alcun “contratto sociale”, alcuna ‘naturale idea innata’; alla base di tutto ciò va messo il principio della forza dettato, a ciascun individuo e alla sua necessità di associarsi ad altri individui, dal bisogno di ciascuno di soddisfare le esigenze primarie di vita e dall’impossibilità di soddisfarle individualmente. 11
Nei rapporti sociali dunque, la violenza (senza specificazioni) non è data una volta per tutte, dettata dall’originaria “mamma natura”. Essa si presenta costantemente e diventa chiaramente individuabile qualora se ne precisino i termini, scindendola in violenza potenziale e violenza cinetica.
L’elemento caratterizzante la società ‘civile’ rimane sempre la violenza potenziale che può riservare ai casi estremi il ricorso alla violenza costrittiva impiegata in modo cinetico.
Alla base dell’origine di tali società ‘civili’ ricordiamo ancora la ripartizione di compiti che, partendo dalla semplice constatazione di utilità comunitaria, si trasforma via via in una divisione del lavoro che diviene una vera e propria costrizione degli elementi e gruppi più deboli, fino al punto che il minus habens (il più sciocco) impara che non solo non conviene ribellarsi al nuovo ordine, ma addirittura che questo risulta ‘vantaggioso’ per tutti.
Se inizialmente chi comanda in guerra e in pace (il re, il capo militare, lo stregone, ecc.) risulta colui che nell’espletamento delle proprie funzioni trova le migliori soluzioni per il bene della comunità, con il tempo tale autorità sociale si trasforma in autorità personale: il surplus dell’energia comunitaria che prima (il re, ecc.) distribuiva all’insieme della comunità, si trasforma ora in una accumulazione personale.
L’uomo ha assoggettato a un tale rapporto di dipendenza in primo luogo l’animale di altra specie. Ha imparato col tempo ad assoggettare la forza del bue e di altri animali al giogo dei propri interessi e, col sorgere della schiavitù, ad applicare tale rapporto al proprio simile (il prigioniero sconfitto in guerra, l’inadempiente per debiti, ecc.). 12
Bue e uomo inizialmente cercano di ribellarsi finché la violenza cinetica del padrone li convince ad accettare – qui la violenza potenziale – la propria situazione al posto di ricevere morte sicura. La differenza fra bue e uomo schiavizzato è che il secondo è più duttile e può offrire una gamma maggiore di servizi … e impregnare il proprio cervello della santità dell’essere servo (in onore di Dio, della legge e più tardi della scheda … onore al quale il bue non potrà mai aspirare).
“Tutto il nostro discorso su questa elementare materia vuole condurre a questo risultato: mettere sul conto del fondamentale fattore della forza tutta la somma 13 degli effetti che da esso derivano, non solo quando la forza è impiegata allo stato attuale, con violenza sulle persone fisiche, ma anche e soprattutto quando esso fattore forza agisce allo stato potenziale e virtuale senza i rumori della lotta e lo spargimento del sangue”. 14
Con un salto di millenni, arriviamo alla presente società capitalistica dove si potrà ben vedere come il rapporto “violenza potenziale”/“violenza in atto (cinetica)”, sia costantemente osservabile, ed è sulla base di una tale consapevolezza che sarà possibile collocarsi sul terreno del futuro affossamento dell’attuale mondo dello sfruttamento e dell’ignominia capitalistica.
II – Rivoluzione borghese
A questo punto ci limiteremo al confronto del “dosaggio” della violenza (potenziale e virtuale) fra l’attuale società capitalistica e la precedente aristocratica-feudale dalla quale è nata.
Secondo un primo schema, la rivoluzione che permise la distruzione della società feudale – attuando i sacri principi di “libertà”, “uguaglianza”, “fraternità” – fu una conquista universale e definitiva. Con questa rivoluzione si eliminava l’eventualità storica di ogni ulteriore grave conflitto sociale che portasse a rotture rivoluzionarie del nuovo assetto liberal-democratico.
Un secondo schema ammetteva, invece, delle possibilità di conflitti sociali: si trattava in ogni caso di continuità di un percorso finalizzato a ‘miglioramenti’ dell’ordine ormai costituito, che possono arrivare da un ‘riformismo roosveltiano’ dall’alto o da un ‘socialismo popolareggiante’ dal basso.
Si aggiunga quel che si vuole, entrambi gli schemi non hanno nulla a che vedere con la lettura di tutto il processo storico dato dal comunismo rivoluzionario (Marx, ecc.). Nella nostra condanna del sistema feudale, non vi è nessuna concessione al sistema di dominio e di sfruttamento capitalistico.
Allo stesso tempo, contro ogni “socialismo reazionario” che con la critica del nuovo ordine borghese propugnava un ‘ritorno’ al vecchio mondo aristocratico, agreste e feudale, i comunisti hanno sempre indicato la necessità di una alleanza rivoluzionaria del proletariato con la borghesia al fine di accelerare la distruzione del vecchio mondo.
“Se quindi i socialisti rivoluzionari seguono da oltre un secolo le vittorie del moderno capitalismo e la sua impressionante espansione nel mondo guardando ad esse come ad utili condizioni del divenire sociale, ciò avviene perché le caratteristiche essenziali del capitalismo – come la concentrazione delle forze produttive, macchine e uomini, in potenti unità, la trasformazione di tutti i beni d’uso in beni di scambio, il concatenamento di tutte le economie che hanno vita sul pianeta – costituiscono l’unica strada per attuare, dopo altri imponenti conflitti politici, la nuova società comunista. Il che resta vero e necessario pur sapendosi perfettamente che la società industriale e capitalistica moderna è peggiore e più feroce di quelle che l’hanno preceduta”.
Questa chiara enunciazione viene certamente rifiutata, come fumo negli occhi, dal buon borghese che considera ogni condanna al proprio ordine come desiderio di antichi dispotismi: indicazioni da Santa Inquisizione, da auto da fé, ecc.
Ma affrontata con criteri scientifici, ci si rende subito conto dell’infamia e della miseria sociale – per non parlare dei milioni di morti provocati dalle sue guerre – su cui poggia questa civile, democratica e parlamentare società borghese, pronta a scagliarsi contro il comunismo determinato a favorire la distruzione di ogni forma di proprietà, ma sempre pronta a dimenticare che uno degli aspetti del rivolgimento sociale attuato dal capitalismo è la violenta, disumana espropriazione del lavoratore artigiano e contadino. Il primo, via via espropriato dei suoi pochi mezzi di produzione e reso nullatenente, è costretto ad entrare (violentemente) nelle “case di lavoro”, antesignane delle odierne fabbriche. Stessa sorte subisce il contadino servo della gleba, fino a quel momento costretto a lavorare gratuitamente a favore del proprietario terriero, che almeno gli lascia l’uso di una magra zolla che gli permetta di sopravvivere. Anche a questo spetta lo stesso destino dell’artigiano: essere espropriato, cacciato dalla terra, e spedito nelle nascenti manifatture.
Il tutto, ovattato dalla nebbia di un’ideologia che giustifica giuridicamente (ecco il diritto borghese!) questa aperta violenta pressione delle forze economiche messe in moto, come una liberazione dalle corvè e dalle gilde medievali, trasformando il lavoratore in un (presunto) ‘uomo libero’ in un ‘libero Stato’. 15
Ecco dunque che senza infingimenti, diventa semplice comprendere come per il marxismo sia una necessità storica la distruzione del feudalesimo da parte del nascente capitalismo, pur poggiando quest’ultimo su basi ben più miserabili e distruttive rispetto al primo.
Il punto essenziale da stabilire è questo: chiedersi se il processo storico che vede il succedersi dal feudalesimo al capitalismo – nonostante l’aumento del peso delle catene dello sfruttamento e delle disparità sociali – abbia promosso lo sviluppo di più potenti e complesse forze produttive, forze che sono la premessa di una ulteriore transizione ad un più alto livello di organizzazione sociale; precisamente, ad una organizzazione comunista dove il rapporto fra uomini non sia più dato da mercato e rapporti di valore.
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Va sottolineato che la grande trasformazione sociale operata dal capitalismo non va vista come un innalzamento del tenore di vita delle grandi masse umane, ma solo come la trasformazione dello schieramento della piccola minoranza dominante (nuova borghesia contro la tramontata aristocrazia, formata da grandi prelati e nobiltà).
Nel nuovo tipo di società (e qui si parla di modello capitalistico ‘puro’, astraendo da ogni particolarità nazionale) gli appartenenti alla classe dominante sono liberi da legami di interdipendenza, in quanto proprietari di aziende di produzione e (in genere) di ‘affari’, perennemente in guerra economica l’uno contro l’altro.
È indubbio che la rivoluzione, che ha portato alla definitiva scomparsa del feudalesimo, ha interessato tutti gli strati sociali. Con una differenza: al di là della nuova ideologia imperante, la rivoluzione operata dal Capitale ha posto al potere una classe di famelici borghesi (sorretta da una schiera di politicanti, preti, alti funzionari, ecc.), la cui vita poggiava, ancora più di prima, sul lavoro gratuito di operai, contadini e piccola e marginale borghesia.
Di fronte alle insulse chiacchiere sulla ‘libertà di pensiero’ e sul suo ‘libero esercizio’ e simili, la tesi materialista afferma che l’ideologia dominante rimane sempre quella della classe dominante e che, ad esempio, non vi è alcun ‘tempo libero per un qualsiasi libero pensiero’ per chi deve occupare tutto il proprio tempo, tutta la propria giornata, nel tentare di sfamare a sufficienza se stesso e la propria famiglia.
Una deformazione piattamente meccanicista e immediatista del determinismo economico riduce un tale problema alla meschina scala individuale secondo cui il problema della conoscenza sarebbe dato dalla immediata posizione economica che ogni individuo occupa all’interno della società: in base a ciò, solo il borghese potrebbe coltivare la conoscenza del corso economico del mondo, mentre al prete andrebbe la cura dell’incessante legame fra la Terra e il Cielo, e al proletariato la conoscenza del materialismo dialettico, del comunismo e della rivoluzione.
Con una caricatura del genere del marxismo e del processo storico, si giunge facilmente alla banalità che, costituendo i proletari, economicamente oppressi
“la grande maggioranza dei popoli, essi non tarderanno ad avere nelle mani gli organismi rappresentativi ed esecutivi e, via via proseguendo, la ricchezza e il capitale”. 16
E partendo da una tale analisi, la conclusione politica spingerà allora, contro le ‘inutili chiacchiere’, all’accelerazione verso l’unità del movimento: verso i blocchi di forze, i fronti uniti, e i più svariati pasticci popolareschi e popolareggianti: operai, contadini, proletari, piccola borghesia … uniti nella lotta!
In risposta a tali sciocche caricature, va stabilita
“una legge e un metodo di portata generale e sociale. Per spiegare il significato delle ideologie prevalenti in una data epoca storica presso un popolo governato da un dato regime, noi dobbiamo fondare l’analisi sui dati della tecnica produttiva e dei rapporti di ripartizione dei beni e dei prodotti, sui rapporti di classe tra gruppi privilegiati e collettività produttrici”.
Quando la società entra irreversibilmente in crisi e, per la classe dominante si prospetta la necessità di distruggere materialmente – con la guerra – una grande quantità di forze di produzione (abitazioni, fabbriche, forze-lavoro umane), allora l’‘ideologia del benessere’ entra in discussione e le chiacchiere sulla democrazia e l’arma schedaiola perdono ogni credibilità.
Questo non porta automaticamente ad una rivoluzione: questa 17 è matura quando il generale sviluppo dei mezzi di produzione entra in contraddizione con i limiti del mercato, al punto che larga parte dei manutengoli del passato regime è pronto a voltare le spalle alla stessa classe dominante. È in tal modo che lo schiavismo – come il successivo servaggio – cadde definitivamente quando si rivelò un sistema poco redditizio di sfruttamento del lavoro e poco vantaggioso per la stessa classe dominante.
Dunque, è in questo periodo storico che il programma rivoluzionario comincia a farsi spazio all’interno del proletariato, serrando in partito comunista una sua minoranza agguerrita.
La borghesia dedica molte delle proprie forze di propaganda ideologica (scuola, stampa, radio, cinema, web, ecc.) e questa fa parte di quella che abbiamo definito violenza potenziale, elevandola al massimo grado rispetto alle forme del passato: al punto che lo stesso obbiettivo di tale violenza, la classe operaia ed il proletariato tutto, impara a far proprie le ragioni di tale violenza (democrazia, parlamento, difesa dello stato esistente mercantile e salariato).
E quando l’assetto formale capitalistico necessiterà di elevare il proprio grado di concentrazione e centralizzazione del proprio Stato, ecco presentarsi storicamente le forme del fascismo, dello stalinismo, del nazismo, del roosveltismo, ecc., accompagnate dal necessario grado di violenza cinetica, grazie all’azione di polizia, esercito, magistratura e via di seguito … seguendo il tutto, ovviamente, dalla propaganda ideologica (ancora violenza potenziale) che renda giustificabile questa aperta nuova forma di violenza diretta, dunque cinetica.
In questi cambiamenti di forma di dominio non vi è alcuna trasformazione nel dominio di classe. Per tal motivo, indicare come proprio obbiettivo la difesa dello stato precedente a quella dell’uso della violenza aperta – es., “difesa della democrazia” contro il fascismo e la dittatura in generale – è sì una posizione di classe, ma della classe borghese che non abbandona per un attimo la sua potenziale violenza contro il programma della rivoluzione comunista.
III – Regime borghese come dominazione
Dal punto di vista strettamente economico, sarebbe possibile quantificare il rapporto potenziale/cinetico della violenza presente in questa società, osservando statisticamente e storicamente il rapporto assolutamente favorevole fra la piccola massa di uomini che vivono agiatamente sulle spalle della massa maggiore della popolazione mondiale.
Seguendo lo sviluppo storico del capitalismo, vediamo che i suoi inizi furono possibili solo con lotte aperte e sanguinose contro le forze del vecchio regime aristocratico. In seguito, la sua espansione extraeuropea fu segnata dalle spedizioni coloniali che portarono a vere e proprie stragi, e in certi casi allo sterminio di intere popolazioni. 18
Fra parentesi, è utile porre qui un bel paradosso. Non vi è mai stato dubbio che lo sviluppo sanguinoso del capitalismo sia stato visto dal marxismo come un fatto progressivo alla scala umana, grazie all’aumento delle forze produttive che esso permetteva, pur rimanendo sempre a fianco delle popolazioni colorate in lotta. 19
Non vi è dubbio che in questo percorso la violenza (potenziale e cinetica) aumenti. Comunque, non si può rifiutare lo sviluppo storico della siderurgia, della meccanica, ecc., per il fatto che grazie ad esse aumenterà di gran misura la produzione di armi (cannoni, fucili, blindati, ecc.) utili a schiacciare più facilmente masse di sfruttati in rivolta; il tutto accompagnato dalla sua complementare violenza potenziale (scuola, stampa, chiesa, ecc.) con tutti i più disparati mezzi formanti la cosiddetta ‘opinione pubblica’.
La critica rivoluzionaria ha sempre avuto chiaro che lo Stato – anche nella più democratica delle repubbliche – è l’organizzazione indispensabile per la difesa degli interessi della classe dominante 20. Esso, nell’attuale forma capitalistica, può paragonarsi al serbatoio delle energie della borghesia: conservandole allo stato potenziale quando il proletariato è disposto ad accettarne il dominio, ma subito pronta a farle esplodere nella forma cinetica non appena dal sottosuolo sociale si manifesti un qualche erompere di fremiti rivoluzionari.
Tale il senso delle classiche analisi di Marx e di Engels, e di Lenin e Trotsky e della Internazionale Comunista subito dopo la prima guerra mondiale.
D’altra parte, l’equivalente delle tesi marxiste sul crescere della miseria, sull’accumulazione e la concentrazione del capitale, nella sfera dei fatti politici, non poteva essere altro che il concentrarsi e potenziarsi dell’energia racchiusa nella sfera statale. Non a caso è una nostra classica tesi, più volte sottolineata, che la terza e più moderna fase del capitalismo si definisce in economia come monopolistica e pianificatrice, in politica come totalitaria e fascista.
In determinati paesi (vedi Italia 1922 e Germania 1933) la crisi politica ed economica – a causa dei rapporti interimperialistici usciti dalla fine della prima guerra mondiale – divenne tale che la soluzione democratica della violenza potenziale dello Stato dovette lasciare il posto alla soluzione violenta nello scontro di classe contro l’assalto dei paventati tentativi rivoluzionari,
“tendente secondo l’insegnamento di Marx e di Lenin non ad occuparlo, ma a spezzarlo in frantumi fino alle ultime conseguenze”.21
Il grande errore tattico e strategico fu, a quel tempo, di considerare migliore una situazione democratica borghese a quella apertamente fascista, e quindi di sostituire l’obbiettivo della conquista proletaria del potere con quello della lotta al fascismo per il ritorno alle regole democratiche da parte dello Stato.
“Il male arrecato allo sviluppo delle energie rivoluzionarie e alle prospettive per la realizzazione di una società socialista non è dipeso dal fatto che la borghesia organizzata a tipo fascista sia più potente e più efficiente nella difesa del suo privilegio di una borghesia ancora organizzata a tipo democratico. La potenza e l’energia di classe è nei due casi la stessa; in fase democratica si tratta di energia potenziale; sulla bocca del cannone si tiene l’innocua custodia di tela. In fase fascista l’energia si manifesta allo stato cinetico, il cappuccio è tolto, il colpo deflagra. La richiesta disfattista e idiota rivolta dai capi traditori del proletariato al capitalismo sfruttatore e oppressore è quella di rimettere l’ingannevole schermo sulla bocca dell’arma. Per tal modo l’efficienza del dominio e dello sfruttamento non sarebbe diminuita, ma soltanto incrementata dal rinnovato espediente dell’inganno legalitario”. [… Dunque,] lottare per il rinvio di questo palesarsi delle opposte energie sociali di classe, svolgere una propaganda vana e retorica ispirata a uno stupido orrore di principio per la dittatura, è tutto lavoro svolto soltanto a favore del sopravvivere del regime capitalistico, del prolungarsi dell’asservimento e della oppressione sulla classe lavoratrice”.
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A dispetto di tutte le oche delle sinistre borghesi – pronte a starnazzare contro le fasi totalitarie per la perdita della loro seggiola parlamentare –, pur tenendo presente che la borghesia è sempre pronta ad utilizzare, nei tempi diversi, le diverse forme della sua violenza di Stato (potenziale e cinetica), la somma dell’oppressione di classe risulta maggiore nella fase democratica. 22
Nel suo processo storico, con la forma fascista la borghesia attua una specie di autolimitazione del generale sfruttamento del proletariato, mirando a livellare verso una media l’estorsione di plusvalore. Infatti, se aumenta l’oppressione dello Stato nella sua forma cinetica, l’insieme della pressione sul proletariato non ne risulta aumentato ma diminuito. Il fascismo dunque consiste nell’integrazione fra l’abile riformismo sociale e l’aperta difesa armata del potere statale.
Va aggiunto che, quando si parla della forma fascista e dittatoriale dell’ordine borghese, ci si deve riferire sempre alla sua azione collettiva e generale di classe, non alle cosiddette grandi figure individuali (si chiamino Hitler, Mussolini, Churchill, Stalin, ecc.). Come va derisa la glorificazione dell’uomo-individuo comune, allo stesso modo va derisa quella del grande-uomo di genio.
Questo non significa che si possa vivere in tempo di autogoverno dei popoli: questo non lo credono nemmeno le galline.
Siamo in mano a grandi mostri statali che, quando la situazione lo richieda, sanno trasformare tutta la loro energia potenziale di classe in energia cinetica, in forza di distruzione che sa mettere tranquillamente da parte ogni ipocrita scrupolo morale così facilmente sbandierato in ogni momento.
IV – Lotta proletaria e violenza
Arrivati a questo punto, è utile una brevissima sottolineatura della divisione del tema fin qui svolto che si è articolato in tre parti: a) una fondamentale distinzione tra energia potenziale ed energia cinetica, osservando come queste forme complementari siano presenti in natura in tutti i più diversi generi: animale, vegetale e minerale; b) confronto fra la società feudale e quella capitalistica: progressivo sviluppo delle forze produttive accompagnato ad un maggior violenza da parte del dominio di classe; c) confronto fra le forme democratiche del dominio borghese e quelle apertamente fasciste e dittatoriali: quindi storico movimento generale dalle prime alle seconde.
Detto questo, si tratta ora di analizzare l’uso della forza e della violenza quando ad impugnare questi mezzi sia il proletariato moderno, la forza rivoluzionaria che dovrà abbattere il Leviathan (il mostro mondiale) del dominio di classe.
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Sul problema e sui metodi della “lotta di classe” molte chiacchiere in violente polemiche si sono spese in passato, molte se ne spendono e ancor più se ne spenderanno nel prossimo domani. Per noi la posizione deve essere chiara ed è data già da un secolo:
“Lenin, Trotsky, i gruppi di sinistra che confluirono nella Internazionale di Mosca sistemarono in modo che deve ritenersi definitivo per il campo teoretico e programmatico le questioni sulla forza, la violenza, la conquista del potere, lo Stato e la dittatura”.
Condanna radicale dunque a qualunque tipo di “vie nuove”, scoperte di natura riformistica e socialdemocratica – scoperte e presentate con un’opportuna “politica dei piccoli passi” – nei diversi tempi successivi, e utili a rallentare la classe operaia e il proletariato nella congiunzione col suo programma comunista rivoluzionario. A tal fine è classica la sporca utilizzazione di una considerazione di Marx-Engels là dove affermano 23 che, dato lo sviluppo in Inghilterra dei mezzi di produzione, la classe operaia inglese avrebbe potuto prendere il potere con mezzi pacifici e legali. D’altra parte, precisa Engels
“egli non ha dimenticato di aggiungere che difficilmente si aspettava che le classi dominanti si sarebbero assoggettate a tale rivoluzione pacifica e legale senza una “proslavery rebellion”.” 24
I comunisti vengono via via accusati di coltivare l’uso della violenza per quello che sembra un gusto aprioristico e quasi sadico di tale strumento, mentre la realtà dello sviluppo storico del capitalismo mostra che quello riformista non è tanto un culto dell’antiviolenza quanto un’apologia degli strumenti e dei principi dell’ordine borghese.
Per la socialdemocrazia storicamente intesa – passata, presente e futura – non è la violenza ‘in astratto’ che si deve combattere, quanto quella delle classi oppresse per la propria liberazione dallo sfruttamento del Capitale. Diversamente, viene considerata legittima la repressione più brutale da parte di questo, qualora venissero messe discussione i sacri principi costituzionali e parlamentari sulla Democrazia, Oro, Dio e Patria.
Non va dimenticata la ‘posizione intermedia’ che ammette la violenza proletaria e popolare, di fronte al tentativo di abolire le garanzie costituzionali, o per ripristinarle qualora non si abbia avuta la forza di farlo a suo tempo 25. Su tale piano, lo Stato borghese costituzionale e democratico rimane sempre il punto di riferimento e il ‘socialismo’ una delle tante ipotesi di carattere riformista che si possono avanzare all’interno del suo quadro istituzionale.
Ben diversa l’ipotesi di Marx, di Lenin, della Sinistra Comunista e nostra: dalla considerazione – valida ieri, oggi e domani – che lo Stato è una macchina di oppressione di una classe da parte di un’altra, si arriva alla lapidaria conclusione che
“la forza proletaria di classe non può penetrare in questa macchina e adoperarla per i propri sviluppi, ma deve più che conquistarla, infrangerla e disperderla in frantumi.
La lotta proletaria non è lotta nell’interno dello Stato e dei suoi organismi, ma lotta dall’esterno dello Stato contro di esso e contro tutte le sue manifestazioni e forme”.
Tuttavia, per la completa distruzione dello Stato della borghesia si rende necessaria la presenza dello Stato della dittatura proletaria
“per la necessità di dirigere l’impiego di un’organica violenza con cui si estirpano i privilegi del capitale e si consente l’organizzazione delle svincolate forze produttive nelle nuove forme comunistiche, non private, non mercantili.
Si parla perciò esattamente di conquista del potere, intendendo non legale e pacifica, ma violenta, armata, non legale”. 26
Non si confonda: “conquista del potere” non ha nulla in comune con la “conquista dello Stato”: se è opportunista parlare di “conquista dello Stato”, corretto è invece parlare di “conquista del potere”. Per noi, la parola potere poggia non solo su una visione statica della forza e delle leggi presenti, ereditate dal passato, ma soprattutto una visione dinamica che permette alla dittatura, distruggendo i legami con le categorie economiche e politiche della borghesia (merce, salario, mercato, libertà costituzionali, ecc.), di passare oltre, verso la piena società comunista.
Lo Stato della borghesia dunque deve essere distrutto e sostituito dallo Stato della dittatura del proletariato. Questo rimarrà in vita per tutta una fase di transizione durante la quale la forza e la violenza (legislazione, forza armata, carceri, …) rivoluzionaria rimarrà in atto contro tutti i tentativi controrivoluzionari, fino al momento in cui, venuti meno tutti gli elementi della vita dell’ordine capitalistico precedente – quindi venuta meno l’esistenza stessa delle classi sociali –, lo Stato politico subirà un processo di dissoluzione (Auflössung in Engels).
“È molto notevole che anche gli scarsi gruppi che nel campo comunista hanno reagito alla degenerazione opportunista dei partiti della disciolta Internazionale di Mosca tendano 27 a mostrare delle esitazioni su questo punto; preoccupati di lottare contro la soffocante centralizzazione della burocrazia staliniana, sono condotti a revocare in dubbio le posizioni di principio del marxismo ristabilite da Lenin e mostrano di credere che questi – e con lui tutti i comunisti rivoluzionari nel glorioso periodo 1917-1920 – abbia errato in senso statolatra. […]
Vada fortemente chiarito che la corrente della sinistra marxista italiana […] respinge ogni revisione del principio fondamentale di Marx e di Lenin secondo cui la rivoluzione, come è per eccellenza un processo violento, così è sommamente un fatto autoritario totalitario e centralizzatore”.
Data dunque la lotta e la vittoria per la conquista del potere, “dittatura è il secondo e dialettico aspetto della forza rivoluzionaria” del proletariato che, in un primo momento si esprime dal basso nella direzione di costituirsi in classe dominante e dunque spezzare definitivamente l’organizzazione statale esistente e, in un secondo tempo, si esprime dall’alto nella volontà e capacità della sua parte più consapevole – il partito comunista – di reprimere ogni tentativo controrivoluzionario con interventi, da parte del nuovo Stato, “ancora più robusti, decisi e, se occorre, spietati e terroristici di quello sconfitto”.
Banali sono le invocazioni alla democrazia contro il potere dei pochi o del ‘grande capo’, come se il problema dello scontro fra le classi e la sua soluzione fosse dato da una qualsivoglia libidine di potere. Ma allora, cosa si deve intendere da parte nostra per dittatura?
“È dittatura quel regime in cui la classe sconfitta pur esistendo fisicamente e costituendo in linea statistica una parte notevole dell’agglomerato sociale viene tenuta con la forza fuori dallo stato. E viene altresì tenuta in condizioni di non poter tentare la riconquista del potere, essendole vietata l’associazione, la propaganda, la stampa”.
Quindi, il grande “segreto” storico della dittatura – vedi la Comune di Parigi del 1871, vedi l’”Ottobre” del 1917 in Russia – consiste nel fatto che essa “nega sopravvivenza politica ai componenti la classe sconfitta e a tutti i multiformi suoi partiti”. 28
Chiarito dunque il concetto del nuovo rapporto fra le classi dato dalla situazione rivoluzionaria dell’esistenza della dittatura del proletariato esercitata dal partito comunista, si tratta ora di chiarire il rapporto fra i suoi vari organismi (partito politico, organizzazioni economiche di categoria, organizzazioni territoriali, ecc.) mirando da subito a liquidare il problema della cosiddetta “democrazia proletaria”, falso obbiettivo (presente anche in testi dell’Int. Com.) in sostituzione della ormai morta democrazia borghese.
V – Degenerazione russa e dittatura
Di fronte all’esperienza della sconfitta della rivoluzione in Russia, si pone in maniera sbagliata la domanda: come si poteva o si potrebbe evitare una tale rovina. È corretto invece predisporre un lavoro che individui i caratteri specifici di un tale processo degenerativo della rivoluzione in modo da riconoscere le condizioni per un prossimo evento rivoluzionario.
Qui, volendo seguire passo passo il testo in esame,
“al termine dell’esposizione storica sui problemi della violenza e del potere, rispondiamo a quelle obiezioni critiche secondo le quali la degenerazione in senso burocratico oppressivo è una conseguenza diretta dell’avere trasgredito e violato i canoni e i criteri della democrazia elettiva”.
La difesa della democrazia è una vecchia forma di dominio che è servita storicamente alle nascenti borghesie rivoluzionarie europee: essa si è ben presto rivelata simile alla grande affabulazione ideologica utile solo a sventolare falsi obbiettivi per imporre le proprie finalità ad una massa di schiavi pronti a farsi massacrare per fini non propri.
Passata poi la fase storica di slancio progressivo del capitalismo, e legato al proprio carro il proletariato e l’insieme delle grandi masse, oggi la borghesia non ha più avuto bisogno di questa maschera democratica e le forme costituzionali e parlamentari vengono via via messe da parte.
* * *
Conquistato il potere politico dal proletariato, fa ben presto capolino la tesi sulla “democrazia proletaria”: i fautori di questa – si veda l’esperienza passata della Russia rivoluzionaria – sono perfettamente d’accordo sulla messa fuori legge di ogni organizzazione borghese da parte della dittatura proletaria, ma passata una prima fase meno facile è sradicare la falsa tesi della “democrazia proletaria”. 29
Questa si basa su un modo sbagliato di intendere il determinismo economico e sociale, che pone la consapevolezza delle proprie condizioni politiche sull’opinione individuale dettata dalla specifica collocazione economica all’interno della società. Ciò non è stato valido a suo tempo per i borghesi e similmente non lo è oggi per i proletari e a nulla vale l’argomento che oggi la situazione sarebbe molto favorevole alla rivoluzione, perché i proletari formano la “maggioranza della popolazione”. 30
Anche con la presa del potere, non può esservi immediata liberazione dalla inerzia della precedente propaganda ideologica della borghesia (stampa, scuola, chiesa, spettacolo, ecc.), ed anche qualora questa fosse messa dittatorialmente a tacere, le categorie economiche capitalistiche continuerebbero a sottolineare l’importanza della propria situazione locale e individuale.
Per tal motivo è fondamentale comprendere che la dittatura del proletariato o è dittatura della parte più avanzata del proletariato cioè dittatura del partito del proletariato, oppure è nulla. Non basta dunque essere un salariato in una fabbrica, piccola o grande che sia, per avere chiarezza del percorso generale del lavoro salariato; parliamo dunque di quella chiarezza, di quella consapevolezza rivoluzionaria, che si innerva sì nelle organizzazioni che sorgono dalla massa indifferenziata degli sfruttati, ma solo nel momento in cui tali organizzazioni sono a guida del partito comunista.
Ripetiamo: la falsa posizione di quelli che vogliono applicare la democrazia aritmetica nel seno della massa lavoratrice o di suoi dati organismi risale quindi ad una falsa impostazione dei termini del determinismo marxista. La “democrazia aritmetica” – ‘operaia’ o ‘proletaria’ – nasconde il fatto che l’ideologia dominante è sempre quella della classe dominante, e la massa che è asservita nel corpo lo è pure nello spirito e nella mente.
L’abusato tema della coscienza si poggia su questa serie errata: cause economiche influenti, coscienza di classe, azione di classe; la serie corretta è invece: cause economiche determinanti, azione di classe, coscienza di classe. La coscienza viene alla fine e, in maniera generale, dopo la vittoria decisiva.
La rivoluzione sarà un prodotto della massa degli ‘ignoranti’?
I comunisti sanno bene che non sarà l’appropriazione della generale conoscenza, della generale cultura dominante a spingere sul terreno della rivoluzione l’insieme del proletariato; questo il senso della affermazione “la rivoluzione sarà il prodotto degli ignoranti”. Ciò non va a negare l’importanza che essi hanno sempre dato alla parte dottrinale del movimento rivoluzionario, denunciando costantemente l’assenza di principi, e nello stesso tempo invitando allo studio consapevole dei momenti fondamentali, non solo del capitalismo, ma di tutta la storia dell’umanità.
Un compito del genere non può essere risolto individualmente dalla somma di tanti o pochi proletari, ma un organismo
“differenziatosi nel seno della massa utilizzando gli elementi individuali come cellule che compongono i tessuti, ed elevandoli ad una funzione che è resa possibile solo da questo complesso di relazioni; questo organismo, questo sistema, questo complesso di elementi ciascuno con funzioni proprie 31, analogamente all’organismo animale cui concorrono sistemi complicatissimi di tessuti, di reti, di vasi e così via, è l’organismo di classe, il partito 32, che in certo modo determina la classe di fronte a se stessa e la rende capace di svolgere la sua storia”.
* * *
Ne consegue che, di fronte alla possibilità – prima e dopo la conquista del potere – che il partito comunista possa degenerare 33, le cause non vanno cercate nelle forme di organizzazione, nella mancanza di democrazia interna fra individui oppure fra organizzazioni del partito stesso. 34
Così, non sarà che la garanzia contro la degenerazione del movimento rivoluzionario possa essere data dalla conta numerica e sociologica del numero di operai e dunque dalla preminenza nell’insieme del partito delle sue specifiche organizzazioni.
La forma sindacato – di categoria e poi d’industria – ha mostrato come la sua natura specifica lo porti a privilegiare la soluzione dei problemi contingenti dei lavoratori piuttosto del generale problema storico dell’abbattimento della schiavitù salariata. Aspetto fondamentale, in ogni caso, è che la forma sindacato, lungo il corso del capitalismo passa attraverso tre fasi: quella del divieto dell’associazione e dello sciopero, quello della tolleranza e quello della conquista e assoggettamento da parte del sistema borghese. 35
Anche in una situazione di dittatura proletaria il sindacato può ancora aver ragione di esistere nonostante la possibile insorgenza di conflitti di interessi fra categorie diverse di lavoratori. Non va dimenticato infatti che le categorie economiche del capitale sussistono ancora, anche là dove le industrie siano passate dalle mani di capitalisti individuali a quelle dello Stato. Ciò che comunque rimane fondamentale è capire che come si sviluppa il superamento del capitalismo da parte del comunismo così cade la necessità del particolarismo sindacale.
La forma consiglio di fabbrica ritenuto un tempo un passo avanti utile ad organizzare i settori più combattivi della classe operaia, è in realtà un passo indietro perché lega gli operai all’orizzonte ristretto non solo della propria categoria, ma al pollaio della propria fabbrica o azienda. 36
La storia, circa un secolo fa, ha indicato una ulteriore forma di organizzazione: il soviet (degli operai, contadini e soldati), una struttura territoriale. In esso, ogni individuo appartenente alle vecchie classi dominanti era bandito, formando in tal modo la base della struttura della dittatura proletaria nell’assunzione in se stessa le funzioni del potere rappresentativo, esecutivo e giudiziario.
Sembrerebbe dunque che la storia abbia trovato la soluzione organizzativa per la rivoluzione e che tale soluzione stia lì nella raccolta dei principi e modelli universali, pronti ad essere usati indipendentemente dai processi storici reali e dai relativi rapporti di forza fra le classi. Nel caso della rivoluzione in Russia poi, va ricordato la debolezza politica del governo provvisorio – non mettendo immediatamente fine alla guerra, nel febbraio ‘17 – che non seppe difendere quella Assemblea costituente di fronte alla parola d’ordine dei comunisti: “tutto il potere ai soviet”.
Va sottolineato comunque che
“l’ingranaggio dei soviet, come è suscettibile di essere poderoso strumento rivoluzionario, così può cadere sotto influenze controrivoluzionarie, e in conclusione non crediamo a nessuna immunizzazione costituzionale contro tale pericolo, che appunto sta soltanto in relazione con lo svolgimento dei rapporti interni e mondiali delle forze sociali”.
Non è, dunque, la rappresentazione sociologica di un organismo che ne determina la sicurezza nel percorso rivoluzionario, ma la forza che, in quel dato momento storico, le classi sanno esercitare l’una contro l’altra.
Va aggiunto che anche il partito comunista come lo Stato della dittatura del proletariato, non sono entità indipendenti dal reale processo storico. Essi pure si sgonfieranno col fiorire della società comunista, cambiando la propria natura in organismi tecnici di ricerca scientifica (il partito) e in organizzazione tecnica (lo Stato) della produzione e della distribuzione di quanto necessiterà all’insieme della specie.
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[Una utile parentesi, riprendendo la Nota 6. Nella ristampa del 1972, alla fine del testo viene stesa una POSTILLA che spiega come l’ultima parte – quella che segue, relativa al rapporto base-centro – sia stata aggiunta nel 1948 dati i pressanti problemi esistenti in Battaglia Comunista, che porteranno alla divisione del 1952 e alla pubblicazione de il programma comunista.]
Il problema delle rappresentanze va esteso pure al rapporto fra centro e base del partito.
Alla base del rapporto fra militante e partito vi è un rapporto di doppio flusso – doppia direzione, dialettico, bidirezionale – che determina la famosa disciplina di partito. Il militante di base obbedisce disciplinatamente alle direttive del centro del partito nella misura in cui il centro obbedisce alla natura, alla storia e al programma che il partito ha elaborato fino a quel dato momento. Ed è nella disciplina verso il programma del partito – programma che impedisce la scoperta di “vie nuove”, di “svolte”, e poi di “capriole tattiche” – che centro e base devono sentirsi disciplinati.
Nella storia del partito comunista – storicamente inteso – vi sono state crisi, divisioni in tendenze, lotte interne e noi dobbiamo giudicare tali manifestazioni come un fatto positivo: allo stesso modo che una grande febbre, in un bambino, è la manifestazione prima di una qualche malattia e poi della liberazione da essa. Questo, però, non significa che si possa ammettere costituzionalmente, statutariamente quella “libertà di critica” così magistralmente condannata fin dai tempi del Che fare? di Lenin.
In conclusione, non esiste un formula organizzativa, un ricettario che possa salvare il partito comunista, in maniera automatica, dalla possibilità di cadere nell’opportunismo.
L’unica possibilità di rimanere fedeli al programma del comunismo rivoluzionario è data da alcune fondamentali indicazioni:
1) difendere ed affermare con massima chiarezza la continuità della dottrina comunista svolgentesi da oltre un secolo, senza proclamazioni di principio che si presentino in contrasto anche parziale con i suoi cardini teorici.
2) proclamare apertamente l’integrale contenuto del suo programma quanto alle attuazioni economiche, sociali e politiche, e soprattutto in ordine alla questione del potere, della sua conquista con la forza armata, del suo esercizio con la dittatura.
“I comunisti – dice il manifesto – disdegnano di nascondere i loro scopi”. Coloro che vantano di raggiungerli tenendoli nascosti sono soltanto i rinnegatori del comunismo.
3) il partito deve attuare uno stretto rigore di organizzazione.
4) il partito deve lottare per una chiara comprensione storica del senso antagonista della lotta: esso non partecipa a lotte per obbiettivi non classisti quali difesa della libertà, patria, democrazia e menzogne simili.
5) sulla base dell’esperienza storica, i comunisti rifiutano quella rosa di compromessi e espedienti tattici quali “fronte unico”, “governo operaio”, “governo popolare”, “democrazia progressiva”, ecc.
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Per una contingente conclusione
Quando ci si pone un obbiettivo – magari una semplice ripresentazione di questo vecchio “Forza violenza dittatura …” – via via che il lavoro prosegue ci si accorge che questo non può mai essere una “semplice ripresentazione”. A distanza di una settantina d’anni dalla sua apparizione sulla rivista Prometeo – con la fine della guerra e il successivo corso del capitalismo mondiale (fino all’attuale crisi storica) – i problemi si sono accumulati e l’‘accontentarsi’ di un qualcosa che sembra un semplice riassunto diventerebbe estremamente riduttivo, se non ridicolo.
Ecco allora che un testo del genere diventa ben presto una traccia di lavoro che via via va ad ancorarsi ai più diversi problemi della attuale lotta rivoluzionaria per il comunismo: problemi che sembra rendano necessario un ‘superamento’ di quanto esposto a quel tempo, perché non basta imparare, sia pure a memoria, una partitura.
Come potrebbe articolarsi tale traccia di lavoro? Temi derivati se ne possono già intravvedere:
a) vecchie impostazioni sul tema della violenza e dello Stato a cavallo della prima g.m. e derivati dalla storia della Internazionale Comunista;
b) continuità/rottura della forma Stato dopo la seconda g.m;
c) problemi della insurrezione e della formazione dei nuovi Stati nelle aree ex coloniali:
d) impostazioni del problema nelle forze che si richiamano al comunismo rivoluzionario;
e) ecc.
Ecco dunque un possibile superamento di quel lavoro di settanta anni fa. Ma attenzione: si può parlare di reale “superamento” – cioè reale salita sulle spalle dei giganti delle generazioni passate – solo se abbiamo fatta veramente nostra quella traccia indicata sopra. Fatta nostra non solo – e forse non tanto – con la testa, quanto con la pancia: di teste sottili ce ne sono molte; di braccia muscolose che pensano (avrebbero detto i nostri vecchi), per ora non troppe. Non diamo dunque per scontata una comprensione comune che, al primo alito di vento, può mostrarsi tanto leggera-leggera al punto che di “comune” rimarrebbe solo il “dare per scontato”.
Prima di una qualsiasi articolazione di un lavoro, si fissino le fondamenta del problema: la strada sarà sicuramente lunga, ma il 50% della fatica sarà felicemente compiuta.
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1 Dal volume PARTITO E CLASSE edizione il programma comunista, 1972. Il testo è stato a sua volta ripreso dalla rivista Prometeo 1946/1948, n. 2, 4, 5, 8, 9, 10.
2 Dunque “libertà istituzionali”, legiferate a suo tempo, a esclusiva difesa dei propri interessi di classe.
3 Ripetiamo qui quanto già detto in un incontro dell’anno scorso, ricordando il I° Libro del Capitale. , cap. 8, La giornata lavorativa. Qui, Marx parla precisamente della lotta per “la creazione della giornata lavorativa normale [che] è dunque il prodotto di una guerra civile fra la classe dei capitalisti e la classe degli operai, lenta e più o meno velata”. Si può veramente parlare di “guerra civile”? Basta intendersi. Se per “guerra civile” si intende lo scontro fra due parti di una stessa comunità (città, aree geografiche, nazioni) al fine di sovvertire sì l’ordine esistente nella salvaguardia dei rispettivi interessi, ma rimanendo assolutamente all’interno del quadro normativo generale preesistente, allora si può affermare che in pv/v possano esservi gli elementi di una guerra civile; se invece il fine dello scontro all’interno della stessa comunità è quello di distruggerne la struttura di base, allora, al di là del termine usato, tale scontro assume carattere diverso … storicamente esplosivo e rivoluzionario, dunque radicalmente distruttivo di tutta l’impalcatura politica, economica e sociale esistente fino a quel momento.
Nel primo caso la guerra civile servirebbe per ri-formare (cambiare la forma conservandone la struttura) la comunità e il suo eventuale Stato, nel secondo per distruggere, per tras-formare (cambiare la forma a seguito della distruzione della struttura) le fondamenta di esistenza di entrambi.
4 Vedi Che fare?, in conclusione del cap. “Piano” di un giornale politico. Corsivo nostro.
5 Qui la classica distinzione fra partito storico (col suo invariante programma) e partito formale (con la sua possibilità di rinnovare l’attacco al futuro ‘Palazzo d’Inverno’).
6 Nella ristampa del 1972, alla fine del testo viene posta una “POSTILLA” che spiega come l’ultima parte – quella relativa al rapporto base-centro – sia stata aggiunta nel 1948 dati i pressanti problemi esistenti in Battaglia Comunista, che porteranno alla divisione del 1952 e alla stampa de il programma comunista.
7 Superamento che per brevità viene associato ai nomi di Galileo e Newton.
8 Rimanendo sul semplice terreno della divulgazione scientifica, si pensi alla “caduta della mela” di Newton ed al suo “esperimento mentale” – vero volo d’aquila – che lo porta ad immaginare il rapporto fra un albero di mele reale con uno immaginario che arriva fino alla Luna e una mela reale in rapporto alla Luna (come fosse una “mela” attaccata all’“albero immaginario” appena pensato). Posto così il problema, la mela e la Luna obbediscono alla stessa legge del moto e della gravità: l’una e l’altra tendono a cadere verso il centro della Terra. Ma allora, se l’albero immaginario di Newton può arrivare fino alla Luna, esso può innalzarsi fino ad Andromeda, fino a qualsiasi punto dell’Universo. Risultato: le leggi che governano il movimento dei corpi sulla Terra, sono le stesse che governano il movimento su Andromeda e su un qualsiasi altro punto dell’Universo.
9 “a scala umana” precisa il testo “e con gioco di forme di energia non intra-atomica”.
Qui si apre un capitolo che ‘un giorno’ sarà tutto da studiare. Va ricordato che la guerra mondiale è appena terminata e che la bomba atomica è la prima ‘infernale’ (è proprio il caso di dire!) dimostrazione del rapporto materia/energia. La “Guerra Fredda” porterà alla ribalta l’importanza dell’energia ‘intra-atomica’ – e della fisica quantistica – oltre a fondamentali problemi epistemologici che vedranno messi in discussione certi fondamenti della stessa ‘fisica classica’ da parte della ‘fisica quantistica’.
10 Vedi, ad esempio, l’acqua ferma in un bacino idrico prima di cadere su una turbina, con seguente produzione di energia elettrica.
11 È un paradosso, ma l’odierna forza sociale dell’animale Uomo rispetto a gran parte delle altre specie animali, è data dalla sua originaria (e attuale) debolezza individuale. Da qui la costante necessità all’associazione comunitaria.
12 Si pensi a due comunità primitive in competizione per l’uso esclusivo di un determinato territorio. Originariamente un loro scontro terminava con lo sterminio della comunità sconfitta; in tempi successivi, il vincitore risparmiava la vita dello sconfitto e lo asserviva schiavo, al pari di un animale da lavoro. Questo diventava il “nuovo ordine vantaggioso per tutti”: il vincitore viveva grazie al lavoro del vinto; il vinto non veniva ucciso e continuava a vivere.
13 Slide 1.
14 Tutti i passi citati e riportati in tal modo sono ripresi da Forza violenza dittatura nella lotta di classe, nel volume Partito e classe (edizioni il programma comunista, 1972, n. 4), pagine 96-118.
15 Sulla differenza fra i termini “servo” e “schiavo”. Nella lingua dell’antica Roma non compare la parola “schiavo”: esiste solo il termine “servus” che può essere di “proprietà personale” oppure un lavoratore “a giornata”, “a salario”. Marc Bloch dice (in Apologia della storia) che il termine “schiavo” appare nell’XI secolo, a seguito della messa “a servitù” delle popolazioni slave (slavo, sciavo, schiavo).
Per i comunisti risulta importante notare la differenza delle diverse sequenze, nella loro successione storica: a) servo personale – servo della gleba – servo salariato; b) schiavo – servo della gleba – libero lavoratore salariato.
È comprensibile il perché la ‘cultura’ dominante preferisca la seconda serie.
16 È evidente qui la sottolineatura ironica che ne fa Bordiga, contro ogni immediatismo riformista passato e presente. In realtà, viene qui esposta la classica tesi del gradualismo riformista a cui si lega di fatto l’odierno ‘grido di battaglia’ che spesso si legge sulle pagine del web: “Siamo il 99 %”.
17 Meglio sarebbe dire “una rottura rivoluzionaria”, operando una distinzione fra la curva della rivoluzione, da una parte, e la sua rottura rivoluzionaria, o suo punto di discontinuità dall’altro.
18 In più diversi lavori di storici contemporanei si può leggere che la conquista del continente americano da parte degli europei, a partire dall’inizio del XVI secolo, ha visto la scomparsa di circa 80 milioni (ottanta milioni!) di suoi nativi … ah, già, ma questa è dietrologia!
19 A titolo d’esempio, contro la repressione dei Mau-mau del Congo, da parte del colonialismo belga, il programma comunista degli anni ’50 non esitò a schierarsi “con la zagaglia nera”: classica ‘contraddizione’, marxisticamente illustrata correttamente, fra la visione storicamente progressiva del capitalismo e le sue contingenti infami vicissitudini.
20 Sempre si è incontrato e si incontrerà chi sa giocare con dei bambineschi sillogismi: se lo Stato è l’organizzazione indispensabile per la difesa dell’ideologia e degli interessi della classe dominante, e se il proletariato con la sua azione di massa “conquista lo Stato”, allora i suoi interessi di classe verranno automaticamente assicurati, assieme all’accettazione del suo programma! Quindi il problema consisterebbe (ieri come oggi) nel comprendere se “siamo entrati adesso in un periodo di lotte per la direzione dello Stato e per il potere politico.” (Si veda il Kautsky di un secolo fa … e dei suoi possibili pronipoti attuali).
21 “non ad occuparlo ma a spezzarlo”! Questo nel testo di Prometeo che corregge anzitempo quanto (lo si prenda come esempio) può leggersi su qualche rivista dell’odierno movimento ‘antagonista’: “anche la conquista dello stato nemico e la sua distruzione sono seguiti dalla formazione di un altro Stato, quello proletario”. Sintetizzando, nel programma del comunismo rivoluzionario non vi è nulla che abbia a vedere con un tale gradualismo, con una tale successione temporale data da: prima la “conquista”, poi la “distruzione”, poi ancora la “formazione”.
Attenzione. Sarebbe un banale sofisma affermare che per spezzare una organizzazione bisogna impossessarsene. La corretta successione è che lo Stato della borghesia comincia a disgregarsi (con la crisi generale dell’intero assetto della produzione e circolazione del Capitale) per proprie cause indipendenti dalla volontà del partito comunista, il quale penetra nelle organizzazioni del proletariato che nega tutte quelle asservite agli interessi borghesi. La disintegrazione dello Stato comincia prima per proprie debolezze strutturali e viene favorita e completata poi dal movimento del proletariato che si fa classe dominante con alla propria testa il Partito comunista. Quel che resta della vecchia organizzazione statale verrà spazzata dal nuovo Stato – in formazione – della dittatura del proletariato.
Dunque, nessuna successione temporale, nessuna gradualità – e, allo stesso modo, nessun dualismo di poteri: “il potere non si divide” (Struttura economica e sociale...) –, ma contemporaneità del processo generale.
22 Vedi slide n. 1. Questa mostra che la somma della violenza potenziale più quella cinetica è sempre pari a 10 (con un massimo di nove e un minimo di 1, per ogni insieme di tali forme). Quindi si potrebbe aggiungere che non la somma, ma il prodotto dei diversi livelli, mostra l’equilibrio o meno della stabilità del dominio di classe attraverso l’azione dello Stato.
23 “Le lotte di classe in Francia”.
24 “Prefazione all’edizione inglese” del Capitale, 5 novembre 1886.
25 Uno fra i classici esempi, fu l’antifascismo al tempo della II.a guerra mondiale.
E oggi? Il 22 marzo scorso è stato costituito ufficialmente a Roma il movimento “Alternativa per l’Italia”. Che esso voglia ritornare alla “Costituzione del 1948” può fare poca notizia, se non portare a qualche beffardo sorriso, ma i suoi inviti (sentiti a Radio Gamma 5) alla eventualità di riprendere, un domani, la lotta armata per il ripristino dei “valori del 1948” è sintomatico di una tendenza partigiana – contro il sempre meno strisciante “nazi-fascismo” dell’attuale esecutivo italiano – da non sottovalutare … e, va da sé, contro il movimento rivoluzionario del proletariato che della Costituzione del 1948 non sa proprio che farsene!
26 Qui è chiaramente espresso il concetto che “conquista del potere” deve intendersi cosa del tutto differente dalla “conquista dello Stato”. La confusione dei due termini sarebbe un ritorno al centrismo di Kautsky, così ben espresso nel suo La via al potere (1907).
Contro ogni forma di centrismo passato e futuro va sottolineato che un partito politico, che non sia solamente un’accolita di insulsi servi, è tale se mira sempre alla “conquista del potere”. Ma va pure sottolineato che, per un partito comunista rivoluzionario questa affermazione programmatica, lasciata a se stessa, è una pura scempiaggine, che vale meno della classica “foglia di fico”, perché non può nascondere l’impotenza – già programmatica ancor prima che politica – di fronte allo Stato in mano all’avversario. In sintesi:
a) se “conquista del potere” significa “conquista dello Stato”, allora (e ci si metta una croce sopra) è lo Stato ad aver conquistato quel particolare partito politico, prima ancora che esso apra bocca; b) se si nega che “conquista del potere” significhi “conquista dello Stato”, allora il primo termine acquista senso rivoluzionario alla sola condizione che si accompagni al concetto di “distruzione dello Stato” nemico.
Questo e non altro sta ad indicare la chiara enunciazione espressa dal testo che qui commentiamo: “conquista del potere, intendendo non legale e pacifica, ma violenta, armata, non legale”.
Così Lenin, nel suo “La rivoluzione proletaria e il rinnegato Kautsky”: “La dittatura è un potere che poggia direttamente sulla violenza e non è vincolato da alcuna legge. La dittatura rivoluzionaria del proletariato è un potere conquistato e sostenuto dalla violenza del proletariato contro la borghesia, un potere non vincolato da alcuna legge”.
A quanti, sbuffanti e annoiati – e annoianti –, ripetono “cristo, ma queste cose le sappiamo da un secolo” si dovrebbe augurare: buon viaggio!
27 Non si dimentichi che siamo nell’immediato dopoguerra.
28 Riprendendo dal testo, affinché non sfugga la chiarezza: la dittatura del proletariato saprà “reprimere ogni tentativo controrivoluzionario con interventi, da parte del nuovo Stato, ancora più robusti, decisi e, se occorre, spietati e terroristici di quello sconfitto”.
Sì, anima candida! Tu, classe borghese, per qualche secolo hai sguazzato nel sangue di milioni di proletari e dei milioni di ‘colorati’ sparsi per il mondo, adesso, in quanto classe, sei con le ginocchia nel fango. Restaci, perché contro di te saremo molto più spietati di quanto tu possa aver insegnato e sapremo farti sentire l’odore del terrore nel quale possiamo immergerti, al punto che tu possa desiderare una rapida fine nel terrore piuttosto di un terrore senza fine.
Si vedano in particolare “Russia e rivoluzione…” e “Struttura economica e sociale della Russia d’oggi”, dove verranno posti i compiti della rivoluzione che da Ovest marcia verso Est – verso gli immensi territori asiatici – e che in Russia contingentemente porrà il problema di una “doppia rivoluzione”.
29 Secondo tale visione, è stata la mancanza di una tale democrazia a condurre alla degenerazione la rivoluzione in Russia.
30 Questa è veramente una tesi non solo opportunista, ma anche completamente idiota, conducibile all’odierna cantilena auto-gratificante: “Siamo il 99%”! Manca solo il vecchio slogan del ‘68 “Padroni, borghesi, ancora pochi mesi”, e la soluzione di ogni problema è assicurato.
31 “Complesso di relazioni”, “rete” e “piramide”
32 Qui una delle tante nostre definizioni di “partito” quale “complesso di relazioni”, “sistema complicatissimo di tessuti, di reti, di vasi”, “complesso di elementi ciascuno con funzioni proprie”. In un incontro generale (Napoli, settembre 1951) della piccola formazione PC Internazionalista, fu presentato uno schema del rapporto partito/classe (“Tav, IX – Schema del centralismo marxista”) che rappresenta senza ambiguità la prassi a cui si deve attenere tutto il complesso della vita di partito, una volta stabilite le direttive programmatiche del procedere della lotta rivoluzionaria.
A tale schema, opporre una ‘nuova’ concezione di “organizzazione a rete” è una falsa risorsa che pretende di dare una risposta alle sconfitte e ai fallimenti dei tentativi rivoluzionari del passato, rifiutando di riconoscere che si ricadrebbe nella vecchia dicotomia ‘masse/capi’, tanto fallace quanto cara alla vecchia sinistra tedesca e olandese di un secolo fa. Oltre a ciò, e questo è meno accettabile, risulta essere un maldestro “tentativo movimentista” che porta non tanto ad annegare preventivamente il partito comunista (che ora non c’è), quanto l’esistente e reale programma del comunismo – vivo da oltre centocinquant’anni –, in quel movimento del “siamo il 99%, che nel frattempo si agita nel mare delle buone proposte, ma che del reale programma del comunismo (partito centralizzato, insurrezione armata, distruzione dello Stato borghese e dittatura del proletariato) si guarda bene dal far proprio, in maniera chiara ed esplicita.
33 E in questo caso è tutto il movimento che degenera: non succede mai che un cervello sia colpito da tumore in un corpo sano e, in quel dato tempo, biologicamente non corrotto. Quando una malattia colpisce, è tutto il corpo ad essere colpito, anche qualora essa si manifesti inizialmente in un singolo organo.
34 Il “centralismo organico”, ossia la vita e il lavoro centralizzato organicamente nel partito, non ha nulla a che vedere con un preteso ‘desiderio’ di vita organica. Tale centralismo – date le adeguate condizioni storiche – nasce in blocco col movimento rivoluzionario della classe e, se muore, muore in blocco con lo stesso corpo della classe, compresa la sua testa.
35 Vedi Marxismo e questione sindacale, ne il programma comunista 1972.
36 L’istituzione dei consigli di fabbrica dei primi anni ’70 del secolo scorso, ha avuto l’opportunistico scopo di sottolineare chiaramente che non solo un operaio metalmeccanico aveva interessi specifici rispetto ad un operaio chimico, ma – con l’istituzione dei delegati di reparto – addirittura, rimanendo all’interno, ad es., di una fabbrica chimica, l’operaio addetto alla produzione di etilene aveva interessi diversi rispetto a quelli addetti alla produzione di cloruri, pur essendo entrambi anelli dell’unica catena produttiva.