Conflitto sociale, organismi sindacali, partito comunista
Premessa
Il piano del presente lavoro è imperniato su due concetti principali: uno, il conflitto sociale fra sfruttati e sfruttatori, con il corollario di battaglie parziali vinte e perse dal proletariato nel corso ultra secolare di vita del capitalismo, costituisce la base sociale reale su cui è fondato il partito proletario, la sua dottrina invariante e il suo programma politico, a breve e medio-lungo termine. Due, l’azione di difesa immediata (economico-sindacale) non può modificare, in se stessa, la natura schiavistica del dominio borghese, mentre le lotte economiche possono trasformarsi in lotte politiche, cioè sfociare sul piano politico della distruzione dei rapporti di produzione capitalistici e dell’attrezzatura statale di oppressione del capitale, solo per mezzo della direzione del partito. In una logica di cambiamento sistemico, infatti, il ruolo degli organismi sindacali può diventare funzionale al cambiamento solo se l’intensità del conflitto di classe è tale da mettere in grado il partito di guidarli, di orientarli verso gli obiettivi del programma comunista (storicamente invariante). Non ha senso politico marxista, quindi, parlare di sindacati autonomi, indipendenti, classisti, senza specificare le condizioni concrete (del conflitto di classe) in cui un organizzazione sindacale dei lavoratori può trasformarsi in fattore attivo di trasformazione sociale (spezzando la prassi dei cedimenti alle compatibilità di bilancio dell’economia capitalistica). Un testo degli anni 50, da noi recentemente ripreso, specifica che ci sono tre condizioni storiche basilari affinché il sindacato diventi un mezzo al servizio della trasformazione sociale di sistema. In primo luogo la presenza di una forte maggioranza di proletari raggruppati dentro gli organismi sindacali. In secondo luogo la scomparsa delle garanzie del welfare, e delle riserve patrimoniali e reddituali, che formano la base materiale dell’opportunismo e dell’aristocrazia operaia. In terzo luogo la presenza di un forte partito comunista in grado di controllare e dirigere, in base al suo programma politico, la classe proletaria associata negli organismi sindacali. Su queste precondizioni dovrebbero ragionare gli attivisti che continuano a scambiare il mezzo (sindacale) con il fine (politico-programmatico), coniando termini come sindacato di classe, o alternative surroganti come ‘comitati di lotta’, ‘coordinamenti’, etc, etc. Invece di concentrarsi sul reale (cioè sugli aspetti qualitativi e quantitativi dello scontro di classe, in una determinata congiuntura socio-economica), gli attivisti si soffermano sulle forme organizzative che dovrebbero derivare da un conflitto sociale ancora debole e stagnante. Invece di studiare le lezioni del passato, invece di sforzarsi di capire in base ad esse il presente e le prospettive future del conflitto sociale, e in fondo rifiutando di fare un analisi concreta della situazione concreta, gli attivisti pregiudicano a se stessi un ruolo positivo nel famoso ‘movimento reale’ che abolisce l’esistente società capitalistica. Concludiamo la premessa citando la recente nota redazionale al testo ‘Partito e Classe‘: ‘Abbiamo di recente scritto sul tema delle lotte ‘economiche’ immediate, le lotte messe in campo per conservare o ‘migliorare’ la retribuzione e il corpo di norme che regolano i rapporti di lavoro. Parlare di miglioramenti economici e normativi per i proletari, all’interno dell’economia capitalistica, tuttavia non è molto verosimile, data la storica tendenza al peggioramento delle condizioni di vita generali del proletariato. A breve termine ritorneremo sull’argomento delle lotte economiche immediate, tentando di sfatare alcune illusioni attivistiche dure a morire. Sindacato di classe, comitati di lotta autonomi, coordinamenti operai. Queste parole vorrebbero esprimere un percorso e una possibile alternativa alla prassi dei maggiori organismi sindacali, troppo preoccupati per le compatibilità di bilancio dell’economia nazionale. Et voilà, un bel sindacato di classe, o meglio ancora un comitato di lotta indipendente dalle sigle e siglette sindacali ( ma di fatto svolgente lo stesso ipotetico lavoro del sindacato di classe), e il problema dei sindacatoni di sistema troppo mosci è risolto. Recentemente abbiamo rispolverato il concetto di sindacato di lotta e di sistema, evidenziando l’intreccio fra un ipotetico aumento del livello dello scontro di classe e la formazione transitoria di organismi sindacali ‘indipendenti’ (dalla prassi generale dei sindacati di sistema).Quando il fuoco delle lotte immediate si spegne, tuttavia, anche i sindacati di lotta tendono ad accettare qualche compromesso con l’esistente ( e d’altronde il loro ruolo, per molti, è proprio quello di trattare con la controparte per ottenere delle concessioni a favore dei propri iscritti).Il problema non è dunque il sindacato di lotta o di sistema, in quanto organizzazioni in cui il partito può svolgere con minore o maggiore libertà la sua propaganda, ma il ruolo improprio e velleitario che gli viene cucito addosso da alcune forze politiche. Il sindacato, inteso come organismo di aggregazione di una parte significativa del proletariato, ricopre un ruolo ‘progressivo’ per le sorti del cambiamento sociale, solo a patto che l’intensità dello scontro sociale di classe ponga in essere le condizioni per la sua direzione da parte del partito di classe (e quindi il sindacato può essere definito di classe non in se stesso, ma solo in quanto si fa mezzo e strumento al servizio del programma del partito di classe).Sindacato di lotta, di classe, indipendente; scopriamo cosa contiene ‘Partito e Classe’ in merito a questo argomento, e con tale anticipazione chiudiamo la nota redazionale: ‘Ma ai sindacalisti antichi e moderni non è sfuggito il fatto che il grosso dei sindacati era dominato da elementi di destra, che la dittatura di dirigenti piccolo-borghesi sulle masse si fondava, più ancora che sul meccanismo elettorale degli pseudo-partiti socialdemocratici, sulla burocrazia in cui erano inquadrati i sindacati. Ed allora i sindacalisti, e con essi moltissimi elementi mossi soltanto da uno spirito di reazione all’andazzo riformista, si diedero a studiare nuovi tipi di organizzazione sindacale, e costituirono nuovi sindacati indipendenti da quelli tradizionali. Come tale espediente era teoricamente falso, poiché non superava il criterio fondamentale dell’organizzazione economica, di accogliere necessariamente tutti quelli che sono in date condizioni per la loro partecipazione alla produzione senza chieder loro speciali convincimenti politici e speciali impegni ad azioni che potessero anche esigere il proprio sacrificio, poiché inseguendo il “produttore” non riusciva a varcare i limiti della “categoria”, mentre solo il partito di classe, considerando il “proletario” nella vasta gamma delle sue condizioni e delle sue attività, riesce a destare lo spirito rivoluzionario nella classe – così, quell’espediente si rivelò in fatto insufficiente allo scopo.
Non si cessa tuttavia dal cercare una simile ricetta anche oggi. Una interpretazione affatto errata del determinismo marxista, un concetto limitato della parte che hanno nella formazione delle forze rivoluzionarie sotto la originaria influenza dei fattori economici i fatti di coscienza e di volontà, conduce molti ad inseguire un sistema “meccanico” di organizzazione, che inquadrando, direi quasi automaticamente, la massa secondo certi rapporti della situazione degli individui che la compongono rispetto alla produzione, si illude di trovarla senz’altro pronta a muoversi per la rivoluzione e con la massima efficienza rivoluzionaria. Risorge la soluzione illusoria di collegare la soddisfazione quotidiana degli stimoli economici col risultato finale di un capovolgimento del sistema sociale, risolvendo con una formula organizzativa il vecchio problema dell’antitesi tra le conquiste limitate e graduali e la massima realizzazione di programma rivoluzionario. Ma – giustamente disse in una sua risoluzione la maggioranza del partito comunista tedesco, quando queste questioni erano in Germania più accese (e determinarono poi la secessione del Partito Comunista del Lavoro) – la rivoluzione non è una questione di forma di organizzazione.
La rivoluzione esige un organamento di forze attive e positive, affasciate da una dottrina e da una finalità. Notevoli strati ed innumeri individui che materialmente appartengono alla classe, nell’interesse della quale la rivoluzione trionferà, sono al di fuori di questo affasciamento. Ma la classe vive, lotta, avanza, vince, mercé l’opera di quelle forze che ha enucleate dal suo seno nei travagli della storia. La classe parte da una omogeneità immediata di condizioni economiche che ci appare come il primo motore della tendenza a superare, ad infrangere l’attuale sistema produttivo, ma per assumere questa parte grandiosa essa deve avere un suo pensiero, un suo metodo critico, una sua volontà, che miri a quelle realizzazioni che l’indagine e la critica hanno additate, una sua organizzazione di combattimento che ne incanali ed utilizzi col migliore rendimento gli sforzi ed i sacrifici. Ed in tutto questo è il partito’.
Parte prima: Attivismo ieri e oggi
In questa prima parte tenteremo di dare una definizione generale del concetto di attivismo, secondo alcune analisi contenute nei testi della corrente. L’attivismo viene collegato, nel testo del 1951, dal titolo ‘Armamento e investimento’, ai periodi storici controrivoluzionari. Esso infatti esprime la capacità di condizionamento della controrivoluzione, intesa come spinta alla deriva attivistica, velleitaria, sorgente dall’interno stesso di una frazione del movimento proletario, condannato a inseguire vani sogni e chimere. Dunque un mero effetto reattivo, un riflesso condizionato dell’azione controrivoluzionaria, a cui si oppone una chimerica azione (politico-sindacale) scollegata dalla conoscenza invariante del marxismo, che invece dovrebbe esserne la guida. Le azioni sbagliate hanno sempre un prezzo, come accade in guerra, quando lo stato maggiore ordina una offensiva senza valutare correttamente la forza dell’avversario (e di converso la debolezza delle proprie forze). In linea generale l’errore attivistico si configura (sul piano pratico) innanzitutto come uno spreco di risorse umane, impiegate senza criterio e discernimento in attività (politico-sindacali) inconcludenti e inutili (a mutare i rapporti di forza reali fra le classi). Il testo del 1951 parla della disperazione del rivoluzionario, da cui sorge il vano desiderio di negare la realtà (dei rapporti di forza sociali esistenti nei periodi di controrivoluzione), e il conseguente delirio attivistico (funzionale alla conservazione sociale capitalistica, proprio in quanto dispendio di energie di lotta dentro una prassi politicamente sventata, cioè velleitaria e attivistica). ‘La nostra scuola non solo ha conosciuti e trattati a fondo i periodi controrivoluzionari, non solo ha stabilito ad ogni passo che nessuna classe storica è venuta innanzi senza subire controrivoluzioni prima della sua vittoria generale, ma ha detto di più: le controrivoluzioni sono la conferma teorica, la scuola pratica, la garanzia storica della Rivoluzione. Può pretendere di capire il futuro chi non ha capito ed assimilato il passato? E può mai in nessun momento della lotta mettersi da banda l’esame continuo degli eventi passati come cibo quotidiano per la nostra azione? L’esperienza mostra che più che mai urge ripiegarsi e tempificare. Da allora il socialismo è passato dalla utopia alla scienza. Ora, Radek pensò che, nel 1919, fosse passato dalla scienza alla azione; ma la controrivoluzione non aveva ancora chiuso i suoi corsi scolastici, come a lui e noi pareva’. Una prima riflessione emerge dalla lettura del testo del 1951, ed è quella che in tutti i periodi della lotta di classe (siano essi rivoluzionari o controrivoluzionari) una forza politica comunista deve fare tesoro delle lezioni del passato, infatti il testo dice che ‘in nessun momento della lotta (può) mettersi da banda l’esame continuo degli eventi passati come cibo quotidiano per la nostra azione’. Inoltre se è vero che dall’esperienza pratica di lotta nasce la posizione politica, e da essa la nozione teoretica, è anche vero che le conoscenze acquisite in determinati momenti di scontro acuto di classe, restano valide e invarianti, fino a quando non muta radicalmente il tipo di società e di economia (di conseguenza esse restano valide soprattutto nei periodi di controrivoluzione, quando maggiore è la potenza dei condizionamenti dell’ideologia borghese). Infatti il testo del 1951 dice:
‘E come deve sempre parere nel periodo rivoluzionario ai buoni rivoluzionari: se è vero in linea di vero marxismo che dall’azione nasce la posizione politica, e dalla posizione politica la nozione teoretica, di cui si avrà un complesso definitivo solo a cose fatte, essendo arrivati a tal risultato dopo una serie di maree storiche che involgono tutto: azione, organizzazione, teoria. Nel periodo controrivoluzionario, come appare evidente, è l’attivismo che per forza di cose decade; è il problema «che fare?» che non dilegua, ma muta di senso; ed è proprio la disperazione rivoluzionaria che, conducendo ad un attivismo surrogato e malato, produce la sostituzione della buona dottrina e del buon metodo con quelli corrotti, e le apologie tante volte sentite di fini ed ideali nemici, al posto dei nostri.
È Trotzky, che partendo da una lettera di Lassalle a Marx, scrive nel 1905:
«Sembrerà forse un paradosso dire che la caratteristica psicologica dell’opportunismo è la sua incapacità di aspettare. Eppure è così. Nei periodi in cui le forze sociali alleate ed avversarie, col loro antagonismo e le loro mutue reazioni, portano nella politica una piatta calma… l’opportunismo, divorato dalla impazienza, cerca attorno a sé nuove vie, nuovi mezzi… esso si getta avidamente sul letamaio del liberalismo, lo scongiura, lo chiama… esso vuole il successo immediato!».
L’opportunismo attivistico vuole il successo immediato, è incapace di aspettare e quindi cerca nuove vie e nuovi mezzi, e infine divorato dall’impazienza indica alle scarse risorse di lotta disponibile degli obiettivi impossibili da raggiungere, come ben ricorda già negli anni 20 ‘Partito e Classe’, da cui estraiamo la seguente citazione: ‘Una interpretazione affatto errata del determinismo marxista, un concetto limitato della parte che hanno nella formazione delle forze rivoluzionarie sotto la originaria influenza dei fattori economici i fatti di coscienza e di volontà, conduce molti ad inseguire un sistema “meccanico” di organizzazione, che inquadrando, direi quasi automaticamente, la massa secondo certi rapporti della situazione degli individui che la compongono rispetto alla produzione, si illude di trovarla senz’altro pronta a muoversi per la rivoluzione e con la massima efficienza rivoluzionaria. Risorge la soluzione illusoria di collegare la soddisfazione quotidiana degli stimoli economici col risultato finale di un capovolgimento del sistema sociale, risolvendo con una formula organizzativa il vecchio problema dell’antitesi tra le conquiste limitate e graduali e la massima realizzazione di programma rivoluzionario. Ma – giustamente disse in una sua risoluzione la maggioranza del partito comunista tedesco, quando queste questioni erano in Germania più accese (e determinarono poi la secessione del Partito Comunista del Lavoro) – la rivoluzione non è una questione di forma di organizzazione’.
Parte seconda: Piccolo dizionario revisionista, lettera A = attivismo
Il titolo della parte seconda fa richiamo a un testo pubblicato nell’aprile del 1952, ‘Dizionarietto dei chiodi revisionistici: attivismo’, da noi messo in rete nel dicembre 2015. In questo testo l’attivismo viene indicato come uno dei fattori di base dell’opportunismo. Il quadretto delineato nell’analisi del 1952 merita di essere letto: ‘Tutti i salmi attivisti finiscono nella gloria elettorale. Alla data 1917, la vedemmo la fine schifosa dei super-attivisti della socialdemocrazia: in decenni di attività spesi per intero nella conquista di seggi parlamentari, di leve sindacali, di influenze politiche, diedero spettacolo di inarrestabile attivismo. Ma quando scoccò l’ora dell’insurrezione armata contro il capitalismo si vide che a farlo ci riuscì solo un partito che meno di tutti aveva “lavorato nelle grandi masse” durante gli anni di preparazione, che più di tutti aveva lavorato alla messa a punto della teoria marxista. Si vide allora che chi possedeva una salda preparazione teorica marciava contro il nemico di classe, mentre chi aveva un ‘glorioso’ patrimonio di lotte si impappinava vergognosamente e passava al nemico. Oh, se li conosciamo i maniaci dell’attivismo. Al loro cospetto i ciarlatani da fiera sono dei galantuomini. Perciò sosteniamo che esiste un solo mezzo per salvarsi dal loro contagio: il classico calcio nel sedere’.
Quindi, chi aveva ‘lavorato alla messa a punto della teoria marxista’ e possedeva di conseguenza una salda preparazione teorica marciava contro il nemico di classe’, mentre le forze politiche che avevano lavorato nelle grandi masse passavano giulivamente nel campo avversario. Le solite accuse di attendismo che qualche solone del nulla rivolge talvolta alla nostra concezione politica, sono già confutate nel testo del 1952: ‘Siamo eternamente accusati di fare “astrazione dalla situazione”, siccome diceva Bucharin. Ebbene, guardiamola un momento codesta famosa situazione. Ecco come si presenta il mondo borghese, anno corrente: la classe dominante è riuscita, manovrando le leve dell’opportunismo, a schiacciare fino alle midolla il movimento rivoluzionario, in una guerra maledetta che doveva concludere il processo di involuzione controrivoluzionaria dei partiti operai. Una macchina statale di proporzioni e di capacità repressiva inaudite tiene incatenate le masse allo sfruttamento, peggio che alla ruota il corpo del suppliziato. La confusione caotica e le sofferenze delle masse sono tali e tante che la classe operaia è trasformata in un troncone sanguinante che si dimena incoscientemente: il suo cervello è oscurato e intossicato, la sua sensibilità narcotizzata, gli occhi non vedono, le mani torcono sé stesse. Al posto della lotta di classe, c’è il raccapricciante strazio della lotta intestina, propria dei naufraghi sulla zattera in balìa delle onde. Nelle fabbriche, e non è cosa nuova nella storia, impera lo spionaggio, la delazione, il rancore, la vendetta meschina e farabutta, l’opportunismo più stolido e bestiale, la prepotenza, il sopruso nevrastenico, ma nelle masse, oppresse dalle conseguenze di trent’anni di tremende sconfitte, non esiste nemmeno la forza di provare autentica nausea, perché questa si esprime nelle esalazioni miasmatiche dell’aziendismo, del corporativismo e, sul piano politico, del conciliazionismo sociale e del pacifismo imbelle.
In siffatte condizioni di tragica devastazione delle forze di classe, che fa il proletariato cosciente, il rivoluzionario serio, cioè non dilettante, non teatralista, non rincoglionito dalla brama velleitaria del successo immediato e personale? Egli capisce anzitutto, pur fremendo di repressa impazienza per il lento spietato decorso storico, che la funzione del partito rivoluzionario, nelle condizioni odierne, è di prendere coscienza chiara della controrivoluzione imperante e delle cause obiettive del ristagno sociale, di salvare dai dubbi revisionisti il patrimonio teorico e critico della classe battuta, di fare opera di diffusione delle concezioni rivoluzionarie, di dispiegare una ragionevole attività di proselitismo. Anzitutto, il rivoluzionario non pagliaccesco si rende conto realisticamente del rapporto di forze tra le classi e teme, quanto la perdita della vista, di dissipare le forze del partito, forze minime, forze ridotte a un filo organizzativo, in imprese improntate all’attivismo spaccone ed inconcludente, votato al fallimento demoralizzante o al rammollimento opportunista’.
Sarà difficile accusarci di avere decontestualizzato una frase o una parola singola dal senso generale del testo del 1952, la sciocchezza nefasta dell’attivismo è analizzata e condannata alla salutare pedata nel sedere,in quel testo, senza alcuna possibilità di equivoco. L’errore politico dell’attivismo di vario genere è quello di cui parlavamo già nella prima parte del presente lavoro, ovvero ‘dissipare le forze del partito, forze minime, forze ridotte a un filo organizzativo, in imprese improntate all’attivismo spaccone ed inconcludente’. Non è attendismo dunque studiare la situazione reale del conflitto di classe, preservare il patrimonio teorico marxista, fare attività di diffusione delle concezioni rivoluzionarie e attività di proselitismo, cose queste indicate anche nel testo del 1952 come il massimo dell’azione possibile, all’interno di determinate circostanze storiche reali: ‘la funzione del partito rivoluzionario, nelle condizioni odierne, è di prendere coscienza chiara della controrivoluzione imperante e delle cause obiettive del ristagno sociale, di salvare dai dubbi revisionisti il patrimonio teorico e critico della classe battuta, di fare opera di diffusione delle concezioni rivoluzionarie, di dispiegare una ragionevole attività di proselitismo’.
I soliti saputelli ci ricorderanno che il testo del 1952 viene scritto in prossimità di determinate vicende interne alla corrente, in polemica con talune posizioni attivistiche del tempo, e dunque il suo valore teorico generale dovrebbe essere messo in relazione a determinati scontri politici passati, mentre per il presente….Anche in questo caso ci troveremmo di fronte ad obiezioni che si auto-negano, non essendo neppure presente nel testo, infatti, l’oggetto contingente della polemica, le sue generalità anagrafiche, trovandosi in esso, viceversa, solo una analisi politica dell’errore attivistico (sempre valida proprio in ragione della persistenza della società capitalistica che ne è all’origine).
Parte terza: persistenti derive attivistiche (sindacato di classe, comitati, coordinamenti, movimenti)
E’ difficile spiegare le ragioni che spingono talune forze politiche a perseverare nell’errore attivistico, anche a dispetto della negativa verifica dei fatti. L’impazienza rivoluzionaria riveste un ruolo, questo è certo, tuttavia anche l’incapacità di studiare e di comprendere il senso reale del patrimonio teorico invariante (come chiave di lettura del presente), deve, giocoforza, avere un peso nella riproposizione monotona e stucchevole del variegato armamentario di lotte nazionali, sindacali, e variamente movimentistiche (Occupy, no Tav, no dal Molin, indignados, Nuit Debout).
L’impreparazione politica, unita al delirio/malessere attivistico, sorpassano le stesse distinzioni sociologiche fra rivolta e rivoluzione, spingendo determinati soggetti politici a prediligere la vana agitazione del momento al paziente lavoro di restauro della dottrina, e alla sua diffusione ( azione, questa, dal carattere rivoluzionario, nel contesto dei rapporti di forza esistenti).
La società capitalistica va compresa, al di là di ogni illusione indotta dall’ideologia dominante, come un luogo violento, dove all’azione di oppressione e sfruttamento della minoranza sociale borghese, si oppone, per ora debolmente, la reazione di difesa del proletariato. E’ politicamente sbagliato, in questa realtà sociale ‘dissipare le forze del partito, forze minime, forze ridotte a un filo organizzativo, in imprese improntate all’attivismo spaccone ed inconcludente’.
Si auspica, a ciclo continuo, la formazione di sindacati di classe, comitati, coordinamenti, oppure si inneggia all’ennesimo movimento (Occupy, Nuit Debout…) senza ricordare, cioè immemori, di quello che è stato scritto, saggiamente, in ‘Partito e Classe’: ‘la rivoluzione non è una questione di forma di organizzazione’, e neanche di movimenti effimeri, senza orizzonti politici di classe, senza consapevolezza del problema della violenza dell’apparato statale borghese, e quindi non è questione di avere o meno “lavorato nelle grandi masse”, (poiché) ‘quando scoccò l’ora dell’insurrezione armata contro il capitalismo si vide che a farlo ci riuscì solo un partito che meno di tutti aveva “lavorato nelle grandi masse” durante gli anni di preparazione, che più di tutti aveva lavorato alla messa a punto della teoria marxista. Si vide allora che chi possedeva una salda preparazione teorica marciava contro il nemico di classe, mentre chi aveva un ‘glorioso’ patrimonio di lotte si impappinava vergognosamente e passava al nemico’.
Qualcuno potrebbe chiedersi perché ci accaniamo contro le variegate derive attivistiche, cosa fa di male, in fondo, un po di azione spesa a vuoto? Leggiamo allora qualche riga tratta da ‘Gracidamento della Prassi’ ‘Se riteniamo di gran peso per la formazione del partito rivoluzionario il continuo impiego del materiale di esperienza di passate lotte, sostenute nella forma di conflitti di “tendenza” e che hanno condotto a “scissioni” nel movimento, è perché in condizioni e luoghi diversi sotto diverse forme si sono reiterate volte verificate le stesse “aggressioni” al corpo integrale della dottrina rivoluzionaria, e la lunga contesa ha avuto lo stesso sbocco. Appunto seguendo un metodo storico e non scolastico, ne facciamo il bilancio in base al preciso richiamo di fatti acquisiti e sicuri, che permettono di fondarsi sui punti di arrivo di detti cicli, fornendo riprove nettamente sperimentali della giusta impostazione del marxismo originale, cristallizzato dalla storia nella sola epoca in cui la sua delineazione poteva e doveva avvenire’.
Come dire, si tratta di un film già visto, che conduce sistematicamente alle stesse “aggressioni” al corpo integrale della dottrina rivoluzionaria’. Quindi si tratta in fondo della stessa minestra riscaldata, in cui alcune forze politiche ripiombano, spinte da un meccanismo simile alla coazione a ripetere studiata nella psicologia. Andare verso la classe, avere le antenne dentro i movimenti…leggiamo cosa è scritto in ‘Gracidamento della Prassi’: ”Parecchi dei nostri critici revisionisti immaginano che Marx abbia affermato che lo sviluppo economico e la lotta di classe non soltanto creano le condizioni della lotta socialista, ma generano anche direttamente la coscienza della sua necessità… È falso… Socialismo e lotta di classe nascono uno accanto all’altra e non uno dall’altra… la coscienza è qualche cosa di importato nella lotta di classe dall’esterno e non qualche cosa che ne sorge spontaneamente (urwüchsig)”. La lunga citazione è robusta e chiara; si intende che, ad esempio, lasci un gramsciano perplesso: ci vuole lunga preparazione dialettica per intendere come l’illusione della “autonomia spontanea di coscienza” sia del tutto controrivoluzionaria. “Perché, domanderà il lettore, il movimento spontaneo, il movimento che segue la linea del minimo sforzo, conduce al predominio della ideologia borghese? Per questa semplice ragione, che per le sue origini l’ideologia borghese è ben più antica di quella socialista, che essa è meglio elaborata in tutti i suoi aspetti e possiede una quantità incomparabilmente maggiore di mezzi di diffusione” (vedi sopra reciso, assonante passo in Marx). “La coscienza politica di classe può essere portata all’operaio solo dall’esterno, cioè dall’esterno della lotta economica, dall’esterno della sfera dei rapporti tra operai e padroni (piglia e porta a casa). Il campo dal quale è soltanto possibile attingere questa coscienza è il campo dei rapporti di tutte le classi e di tutti gli strati della popolazione con lo Stato e con il governo, il campo dei rapporti reciproci di tutte le classi. Perciò alla domanda: che fare per dare agli operai delle cognizioni politiche? non ci si può limitare a rispondere: andare tra gli operai. I comunisti devono andare tra tutte le classi della popolazione, inviare in tutte le direzioni i loro distaccamenti”. Amaro farmaco, ma quanto necessario al peggiore filisteismo, quello dei “seduttori del proletariato”!
Riteniamo che la lunga citazione non abbia bisogno di una esegesi particolare, essa è limpida ed esauriente, utilissima per far comprendere che le cose fondamentali sono state sempre scritte, dette e spiegate, anzi ripetute in vari modi e in tempi diversi, a chi doveva studiarle e capirle (ad esempio in ‘Partito e classe’, ‘Dizionarietto dei chiodi revisionistici: attivismo’,‘Gracidamento della prassi’, ‘Falsa risorsa dell’attivismo’….).
Tuttavia un piccolo appunto vorremmo farlo, a chi esalta (dopo le cantonate prese con ‘Occupy’) l’ultimissimo movimento dal nome evocativo e pieno di charme: ‘Nuit Debout’ . Saremo di sicuro pedanti, ma ci diverte riproporre queste righe: “Perché, domanderà il lettore, il movimento spontaneo, il movimento che segue la linea del minimo sforzo, conduce al predominio della ideologia borghese? Per questa semplice ragione, che per le sue origini l’ideologia borghese è ben più antica di quella socialista, che essa è meglio elaborata in tutti i suoi aspetti e possiede una quantità incomparabilmente maggiore di mezzi di diffusione”.
Ancora una volta, nella elegia di questo movimento nuovissimo dal nome ‘Nuit Debout’ ritroviamo l’affermazione ardita che ormai è il comunismo, già in atto nel mondo reale, che tende a scrollarsi di dosso il peso del capitalismo (si suppone attraverso i movimenti effimeri di rivolta), autonomamente, spontaneamente. Quindi sbagliava la corrente, quando scriveva in ‘Gracidamento della Prassi’ ‘Facciamo dunque a pezzi la spontaneità e l’autonomia della coscienza di classe con le parole formidabili di lui. La coscienza a mare “Abbiamo detto che gli operai non potevano ancora possedere la coscienza comunista. Essa poteva essere loro apportata soltanto dall’esterno. La storia di tutti i paesi dimostra che la classe operaia, colle sue proprie forze solamente, è in grado di elaborare una coscienza soltanto tradunionista, vale a dire la convinzione della necessità di unirsi in sindacati, di condurre la lotta contro i padroni, di reclamare dal governo questa o quella legge. La dottrina del socialismo è sorta da teorie economiche e storiche che furono elaborate da rappresentanti colti delle classi possidenti”. Giovanilmente crudo, ma quanto anche oggi utile a frustar via fessi!
Infine, pur non volendo togliere a nessuno l’ennesima infatuazione per l’ultimo movimento comparso in Francia, ci limitiamo a riproporre queste chicche chiarificatrici trovate in ‘Gracidamento della Prassi’: ‘Ma il senso del celebre libretto di Lenin va oltre le questioni di allora del particolare movimento russo, ove il partito marxista era sovraccaricato del compito di sostenere prima la lotta antizarista e poi quella antiborghese. Quel testo ricalca e richiama i cardini fondamentali del marxismo, e se è tutto un errore, tale è tutta la costruzione di Marx. E Lenin sostiene la sua tesi riportandosi cento volte ai testi fondamentali. Nel congresso di unificazione del 1901, come altra volta ricordammo, Lenin aveva poco parlato sul programma; solo insorse quando si propose l’emendamento: crescono il malcontento, la solidarietà, il numero e la coscienza dei proletari. “Sarebbe, egli disse da maestro, un peggioramento. Darebbe l’idea che lo sviluppo della coscienza è un fatto spontaneo. Ma al di fuori dell’influenza del partito, non vi è attività cosciente dei lavoratori”. Lenin avrebbe rimangiato questo? Come e dove? È lui che sottolinea il termine coscienza. Ed infatti l’attività è dei lavoratori, la coscienza solo del loro partito. L’attività, la prassi, è diretta e spontanea, la coscienza è riflessa, ritardata, anticipata solo nel partito, e solo quando vi è questo e questo opera la classe cessa di essere un freddo episodio da censimento e diviene forza operante nell’epoca di sovversione”, e rovescia su un mondo nemico un’azione, che possiede un fine conosciuto e voluto. Conosciuto e voluto non da individui, siano gregari o capi, soldati o generali, ma dalla impersonale collettività del partito, che copre paesi lontani, e generazioni in catena, e non è quindi patrimonio chiuso in una testa: ma nei testi sì, altra migliore tecnica non avendosi per passare al vaglio più rigido e il soldato e il generale soprattutto’.
Ora, dopo questa illuminante lettura, le cose saranno forse un poco meno oscure, perfino agli estimatori del nuovissimo movimento ‘Nuit Debout’. Altrimenti, in caso contrario, si può sempre sostenere che del ‘patrimonio (teorico) chiuso (non) in una testa: ma nei testi’, non ce ne frega nulla, e quindi nessuno ci può giudicare (nemmeno noi… proprio come sulla falsariga di una vecchia canzone degli anni 60).
Ultimo ‘memento’, sempre in merito al partito, al sindacato, ai movimenti, alle classi…eccolo qui il sigillo finale, contenente la quintessenza del significato storico del partito comunista: ‘sempre più la classe operaia, nel suo lungo corso storico verso la rivoluzione, ha bisogno del suo partito politico! Successivamente muoiono le prime forme di associazione, mutualista, cooperativa; sindacale (dopo la rivoluzione), aziendale, statale (soviet o simile che nasce dopo la rivoluzione e in quanto vi è la dittatura di classe): il partito in tutto questo corso si potenzia sempre più ed in un certo senso non sparisce mai, anche dopo la sparizione delle classi, poiché diviene l’organo di studio e organizzazione della lotta tra la specie umana e le condizioni naturali’.
Organismi sindacali, movimenti, partito: alcune considerazioni riepilogative
Ripercorrendo la traccia contenuta nei testi della corrente, relativamente agli anni 50 e 60, sono emerse alcune costanti analitiche che ora proveremo a riassumere. La spinta ad agire, anche quando le condizioni socio-politiche si dimostrano sfavorevoli, mentre la ragione politica consiglierebbe di attendere, è un errore ricorrente nella storia del movimento proletario. L’errore produce normalmente effetti di grave spreco e dissipazione delle scarse risorse di lotta e militanza disponibili, e quindi torna utile di fatto al sistema di potere borghese. Tale errore sembra derivare da due cause concatenanti, a loro volta messe in essere dalla potenza del regime di dominazione del capitale (in una certa fase della lotta di classe): dunque, una causa è data dall’impazienza e dalla disperazione delle forze politiche attivistiche, mentre l’altra causa è data dall’offuscamento e dal relativo sviamento teorico di queste stesse forze attivistiche. Una determinata condizione sociale oggettivamente sfavorevole al proletariato e alle sue avanguardie, in ultima analisi, produce anche la deriva attivistica, la quale va intesa come un elemento reattivo condizionato, sfociante in un ulteriore peggioramento e indebolimento delle scarse forze politiche proletarie.
Che fare ? I testi della corrente, citati estesamente nei precedenti capitoli, spiegano senza ombra di dubbio che il programma di azione marxista in un contesto di rapporti di forza di un certo tipo è molto semplice: conservazione e salvaguardia del patrimonio teorico storicamente invariante, trascritto e contenuto nei testi (e quindi non nelle teste ‘geniali’ dei singoli maestri di pensiero), un patrimonio invariante a cui devono aderire tutti gli organi funzionali del corpo formale del partito. Il termine dittatura del programma indica per l’appunto questa realtà organizzativa e operativa del partito, sottratto ai personalismi, alle frazioni, alle discussioni sul nulla, proprio in quanto organismo finalizzato alla realizzazione integrale e condivisa dello stesso programma politico. Un aggregazione di energie di lotta pratica e teorica, saldamente in possesso di una conoscenza efficace, perché storicamente verificata, dei processi socio-economici capitalistici.
Che fare ? Gli stessi testi della corrente indicano che oltre a conservare e salvaguardare il patrimonio teorico marxista, è fondamentale diffondere questo stesso patrimonio, e le analisi della realtà da esso derivate, nei vari strati della società (proprio così, ai proletari ma anche ai non proletari): dunque, attività di propaganda e proselitismo.
Infine questi testi suggeriscono di sviluppare, nei limiti delle risorse militanti disponibili e delle condizioni socio-politiche sfavorevoli, l’azione di contatto con i proletari anche dentro gli organismi sindacali esistenti, le assemblee, le riunioni, senza ignorare il grave livello di asservimento delle principali organizzazioni sindacali alle compatibilità di bilancio dell’economia capitalistica. Le ampie citazioni riportate analizzano con chiarezza il problema della coscienza politica sviluppabile dentro i movimenti interclassisti o dentro le organizzazioni di difesa economica immediata; ebbene, la valutazione data in merito alle ipotesi di sviluppo di una salda coscienza di classe in questi contesti, è nettamente negativa. Il proletario, nel sindacato sviluppa (tendenzialmente) solo una visione della difesa dei propri interessi congiunturali e particolari, salariali e giuridici (sempre reversibili), mentre resta prevalentemente esclusa da tale visione particolare l’esigenza di una salvaguardia permanente dei propri interessi (umani) di classe, attraverso l’azione politica volta al superamento del regime sociale borghese. I testi lo ripetono in continuazione, la coscienza viene portata da un ambito esterno alle lotte salariali, questo ambito esterno è il partito, infatti il partito condensa in se stesso una conoscenza raggiunta nei momenti di massimo scontro politico con l’avversario di classe borghese (conoscenza non realizzabile, dunque, sul piano delle ordinarie lotte salariali/sindacali). Un altro aspetto ricordato e sottolineato nei testi citati è la decisiva partecipazione dei transfughi/traditori delle classi dominanti alla formulazione della ‘ideologia’ socialista, tale circostanza serve a ribadire che la condizione economico-sociale proletaria non implica, meccanicamente, una maggiore propensione alla formulazione/adesione al programma comunista (rispetto al quadro sociale generale). In modo particolare la teoria e la salda chiarezza delle cose è sempre successiva all’azione di lotta, almeno nei casi storicamente verificati, per cui si può affermare che la rivoluzione la fanno gli ignoranti (a condizione di essere diretti da chi la teoria e la salda chiarezza delle cose già la possiede da tempo).
Affrontata la pars construens, volgiamoci ora alla pars destruens, cioè alle variegate casacche indossate dall’errore attivistico (sindacati indipendenti, coordinamenti e comitati proletari, movimenti di lotta nazionali, movimenti interclassisti).
In merito alle cosiddette sigle sindacali indipendenti, già in ‘partito e classe’ troviamo un netto giudizio negativo, essendo tali realtà essenzialmente apolitiche, cioè raggruppanti soggetti uniti solo dalla difesa congiunturale e particolare dei propri interessi economici. Teorizzando gli stessi concetti abbiamo usato in un precedente lavoro i termini sindacato di lotta e sindacato di sistema, spiegando la parabola di progressiva integrazione dentro le ragioni del sistema aziendale anche da parte dei sindacati di lotta (nati sull’onda dello scontento e del conflitto sui luoghi di lavoro, quando esso non è rappresentato dai preesistenti sindacati di sistema). Abbiamo verificato che quando il livello dello scontro (immediato-economico) in certi luoghi di lavoro tende a decadere (scontro condotto beninteso da una minoranza dei lavoratori), allora anche le piattaforme rivendicative dei sindacati minoritari di lotta si adeguano alla mutata situazione, non ricevendo più stimoli di forza e orientamento dalla loro base associativa. Quale senso politico può avere dentro questa dinamica ricorrente di lotta e integrazione sindacale, esaltare i sindacati indipendenti, oppure i coordinamenti e i comitati spontanei, facendo del mezzo quasi un fine in se stesso. I testi della corrente chiariscono bene che in una situazione sociale sfavorevole, le dinamiche fondamentali sono quelle di una utilizzazione dello strumento sindacale da parte dei poteri capitalistici dominanti, mentre risulta storicamente problematico (o sterile) lo stesso lavoro di contatto e propaganda del programma comunista dentro tali strutture associative. In merito ai sindacati minoritari di lotta, dovrebbe essere chiaro che la loro stessa verificata condizione minoritaria è il termometro della inanità degli sforzi volontaristici di chi indica nella creazione/diffusione di sindacati indipendenti una tappa decisiva della ripresa dello scontro di classe. Come qualcuno ha opportunamente ricordato di recente, le lotte (o i movimenti di lotta) non si creano, ma vengono messi in essere da fattori storici e circostanze socio-economiche non direttamente controllabili dal soggetto politico (il partito), anche se talvolta il partito ha dimostrato di avere la forza e l’influenza, conferitegli da una sintesi di fattori storici oggettivi e soggettivi, in grado di fargli guidare i movimenti di lotta sul piano della trasformazione di sistema. Ma oggi esistono le condizioni oggettive e soggettive per parlare di guida del partito nei confronti dei proletari di avanguardia associati nelle organizzazioni sindacali, almeno quelle numericamente significative ? Esistono oggi le tre condizioni concomitanti considerate fondamentali per parlare di uso proletario dello strumento sindacale?
Se le risposte sono negative, allora perché non limitarsi a proseguire sulla linea di azione prescritta nei testi della corrente, cioè il contatto con i proletari, anche dentro gli organismi sindacali esistenti, le assemblee, le riunioni, senza ignorare il grave livello di asservimento delle principali organizzazioni sindacali alle compatibilità di bilancio dell’economia capitalistica e d’altro canto la stessa parabola integrativa dei sindacati di lotta, in assenza di un grado adeguato di conflitto sociale di classe dentro i luoghi di lavoro. La pretesa attualità delle lotte nazionali, e il successivo sostegno ad esse da parte dei ‘marxisti’, oggi, nell’anno 2016, continua a lasciarci senza parole. Ancora più assurda è la pretesa di mistificare in termini di lotta antimperialistica le forze variegate del terrorismo fondamentalista, fenomeno su cui abbiamo scritto anche di recente, evidenziandone la funzione di terrore di stato al servizio di specifici interessi di frazioni locali di borghesia e di centri capitalistici di potenza imperiali. Per meglio approfondire il tema rimandiamo ai testi presenti sul sito, soprattutto a ‘Isis e politica americana del caos’, ‘Dinamiche di confronto e scontro fra blocchi imperiali concorrenti’, ‘Chaos Imperium’, ‘Evviva la questione nazionale: ancora tu ?’.
Resta assodato che anche questa forma di poliedrico attivismo a sostegno delle lotte nazionali/fondamentaliste conduce alla deformazione dei principi teorici marxisti. Infatti, al di là delle pittoresche e furbesche coloriture raggiunte dallo sforzo inane di motivare la richiesta di un sostegno proletario, oggi, anno 2016, alle lotte interne di frazioni nazionali e internazionali del capitale, in definitiva è proprio la realtà di competizione concreta di interessi interna al capitale, invece, che serve a spiegare l’agitazione teorico-pratica degli ultimi incalliti adepti dell’attualità delle lotte nazionali (succubi e condizionati, nel loro presunto ‘libero pensiero’, dalle forze economico-sociali borghesi che mascherano le loro contese, fondate sul venale interesse geo-economico, sotto le false bandiere nazionali e religiose). Anche in questo caso la funzione di classe di questo specifico tipo di opportunismo attivistico è quella di sempre, validamente definita da Lenin nei termini di disarmare teoricamente i proletari per indirizzarli verso la sconfitta pratica, cioè, in questo caso, il dispendio delle scarse risorse di militanza del partito a sostegno di lotte interne alla classe avversaria.
Non possiamo concludere il riepilogo delle questioni affrontate nell’articolo senza fare almeno un cenno ai moderni movimenti a soggetto. Con tale neologismo indichiamo fenomeni sociali effimeri e congiunturali come ‘Occupy’ (la madre di tutti i movimenti interclassisti), No Tav, No dal Molin, Indignados, e infine il recente ‘Nuit Debout’ .
Una elementare analisi ‘sociologica’ della composizione di classe di questi movimenti ci direbbe, in primo luogo, che in essa prevale l’elemento piccolo borghese, e in secondo luogo che questo elemento/fascia sociale predominante è soggetto (in sincronia con la nascita di un certo movimento) al peggioramento della propria condizione o status socio-economico. E’ possibile collegare le due cose, e comprendere il sorgere e lo sparire di questi effimeri movimenti di protesta con la ridefinizione in atto delle quote percentuali di plus-valore, da spartire fra i soggetti variamente collegati alla classe parassitaria borghese?
Una volta chiarita la natura, o meglio la composizione di classe prevalente, di siffatti fenomeni, possiamo davvero inseguirli, additandoli come l’ennesimo segnale della nuova società comunista che avanza, quando già i testi della corrente, negli anni cinquanta, spiegano che in tali fenomeni sociali prevale alla fine l’impronta ideologica del regime di classe dominante, e quindi è a maggior ragione velleitario sostenere che questi movimenti non si creano ma si dirigono: cosa dirigiamo, lo scontento reattivo di frazioni sociali piccolo borghesi che protestano contro la perdita del precedente status socio-economico?
‘Nuit debout’, un movimento di rivolta contro il rimescolamento degli status socio-economici interni alle classi dominanti, assolutamente inserito nelle regolarità di funzionamento dell’organismo sociale capitalistico, come le periodiche rivolte sottoproletarie delle periferie metropolitane (Ferguson), anch’esse fraintese e rincorse incautamente dagli stessi predicatori dell’effimero quotidiano e del nulla politico (come se la distinzione ottocentesca marxista fra rivolta e rivoluzione non fosse mai esistita, come se la polemica con Bakunin e Proudon non si fosse mai verificata).
Ultimo pensiero ‘inattuale’ sulla inveterata moda di esaltare/mistificare tutto ciò che si muove sulla superficie sociale del mondo contemporaneo. Il marxismo autentico non si ferma mai alla superficie dei fenomeni, ma cerca di indagare le cause profonde e nascoste di questi fenomeni, utilizzando la sicura bussola della conoscenza invariante (raggiunta da alcuni gruppi di uomini nel momento del più intenso scontro pratico con il regime sociale borghese). Gli innovatori e i de-formatori di tale patrimonio teorico invariante non si avvedono di riprodurre, nell’ossessiva pulsione a inseguire tutto ciò che si muove sulla superficie sociale del mondo contemporaneo, i vecchi e stagionati errori opportunistici già compiuti in un lontano passato, da altri gruppi di erranti utili alla conservazione del regime di oppressione del capitale.