Nota redazionale: Ermeneutica di un testo, riscoperta del suo senso complessivo e fedeltà ad esso nella successiva riesposizione. Normalmente dovrebbe funzionare così, tuttavia scopriamo che alle volte le letture dello stesso testo portano due lettori a interpretazioni differenti, antitetiche, ma come può accadere?
Un testo della nostra corrente non dovrebbe suscitare interpretazioni contrapposte, prendiamo ‘Danza di fantocci’, come si può negare che esso attribuisca solo al partito un ruolo politico cosciente, dal momento che in una società alienata non è realistico pensare che il pensiero della maggioranza non sia esso stesso alienato? Questi concetti sono espressi in modo chiaro e netto nel testo che vi riproponiamo: eppure qualcuno dirà, ugualmente, che non è proprio vero che le parole che a noi sembrano inequivocabili vogliano dire quello che dicono. Ma allora cosa vogliono dire, verrebbe da chiedere. Ma è chiaro, vogliono dire il contrario di quello che dicono. Un individuo ingenuo, semplice di spirito, privo delle astute sottigliezze ermeneutiche dei nostri esploratori semantici, si chiederà allora perché chi scriveva ‘Danza di fantocci’ negli anni 50 avrebbe scritto il contrario di quello che intendeva dire. Si trattava di un messaggio criptato, di una semplice dissimulazione o addirittura di un gioco letterario? Per quanto ci riguarda il contenuto del testo appena ripubblicato coincide con la sua espressione letterale, dunque escludiamo la presenza (in esso) di allegorie e metafore che diano adito a interpretazioni lontane dalla lettera. Se il testo contiene una proposizione del tipo; il partito è l’organo cosciente della classe, allora il contenuto della proposizione non può essere interpretato ulteriormente in direzioni antitetiche al suo senso di partenza. Tuttavia cosa succede nella realtà della vita vissuta? In questa realtà è possibile che qualcuno sostenga che la luna è il sole, e che trovi anche persone disposte a crederci. Riepiloghiamo: sulla base del dato empirico, fattuale, consistente nella vocazione di molti umani a credere in talune (bislacche) concezioni, spesso senza una loro adeguata analisi preventiva, si comprende anche il successo di alcune recenti distorsioni ermeneutiche dei testi storici della corrente. Siamo nel regno del paradosso, in cui un articolo scritto con l’intento non secondario di criticare talune deformazioni del marxismo, è invece impiegato al fine di avallare le stesse (o almeno similari ) deformazioni. Il nostro compito si trasforma dunque in una fatica di Sisifo; costretti senza requie a ricomporre di giorno il quadro semantico dei testi che di notte, infaticabilmente, qualcuno deforma (Cicero pro domo sua). Tuttavia non è solo l’innata credulità degli esseri umani, alienati dal meccanismo socio-economico capitalistico, a spiegare l’esistenza della macchina della deformazione (del marxismo).
Le righe del 1953 ricordano la base sociale del fenomeno distorsivo del senso rivoluzionario del marxismo: innanzitutto l’esistenza di una aristocrazia proletaria ben integrata nel sistema, fonte di condizionamento riformista delle altre parti della classe.
Non si tratta dunque di un errore puramente ‘filosofico-ermeneutico’, determinato da una ipotetica incapacità di comprensione delle righe marxiste, e del quadro reale degli eventi (da parte di qualcuno). Questo deficit esiste e gioca un ruolo, tuttavia è preponderante il condizionamento sociale del pensiero, e quindi la presenza di fattori generali che orientano il singolo o il gruppo verso una lettura distorta della realtà, e in ultima perfino dei testi che hanno cercato e cercano di descrivere/analizzare la società capitalistica.
In una logica socio-funzionale ogni fenomeno sociale (anche la macchina della deformazione) trova una sua ragione di essere e quindi un suo utilizzo (per il consolidamento del sistema esistente o per il conflitto con il sistema). Ai lettori il compito di trovare la risposta adeguata al caso in esame.
Nei prossimi giorni proporremo delle note al testo sottostante, con l’intento di confrontare il suo contenuto con le dinamiche delle nostre giornate capitalistiche.
Postilla
Il lettore dentro il racconto, come agente di cooperazione interpretativa limitata e attualizzatore delle potenzialità di significato contenute implicitamente nei testi narrativi, questo è quanto sostiene Umberto Eco nel saggio ‘Lector in fabula’.
Ammettiamo una certa limitata possibilità di interpretazioni (non esattamente identiche) anche per i testi non narrativi, e chiediamoci se questa cosa possa significare – in pratica – la ammissibilità di interpretazioni antitetiche in riferimento allo stesso segno/semantema testuale. Ebbene, anche la tradizione semiologica pone dei limiti all’interpretazione, negando (ad esempio in Peirce, come ben ricorda Eco, la percorribilità della semiosi illimitata). In un articolo del luglio 2015 abbiamo già affrontato la questione, adesso lo riproponiamo (repetita iuvant).
Il caso Grecia: risposta ad un lettore
‘ Abbiamo di recente ricevuto delle osservazioni interessanti e garbate da un nostro lettore. Il perno centrale della sua critica è basato sulla nostra presunta sopravvalutazione del conflitto sociale, ovvero della sua attuale e potenziale qualità ed intensità anti-sistemica, che non terrebbe nella giusta considerazione la reale passività del proletariato, e la conseguente pace sociale ultra-settantennale. In altre parole ci viene obiettato di scambiare un alito di vento per una tempesta, poiché il gigante proletario occidentale, da almeno settanta anni integrato nel welfare capitalistico (in quanto beneficiario del sopraprofitto imperialista) si muoverebbe (forse) solo per difendere le condizioni privilegiate raggiunte nella passata fase economica espansiva. Potremmo rispondere ‘eppur si muove’, e ricordare che le crisi, qualunque significato si voglia attribuire a questa parola, sono di frequente accompagnate da un incremento della conflittualità sociale. In effetti nei vari articoli dedicati al caso Grecia, ci siamo limitati a ipotizzare un cedimento ( gia verificato e documentato) del governo Tsipras ai diktat del capitale finanziario-usuraio internazionale, e un conseguente aumento dello scontento sociale proletario (in via di sviluppo). Non abbiamo mai parlato di situazione esplosiva, prerivoluzionaria, o altro, limitandoci a constatare, invece, la presenza strutturale del conflitto di classe dentro, e questo sarebbe addirittura tautologico, una società divisa in classi di sfruttati e sfruttatori. La stessa sociologia funzionalista americana, realisticamente, prende atto della costante del conflitto sociale, interpretandolo (prevalentemente) come un aspetto funzionale all’equilibrio stesso di un qualsiasi sistema sociale, mentre altre correnti (diciamo di sinistra) del funzionalismo tendono a inserire il conflitto nel quadro di un mutamento storico, postulando dunque la possibilità che in una certa fase storica, il conflitto sfoci in un cambiamento dei precedenti paradigmi di forma ed equilibrio sociale (andando oltre, quindi, la semplice funzione di riequilibrio sistemico assegnatagli dai sociologi conservatori). Passiamo oltre, siamo ben consapevoli che una sezione della classe proletaria, definibile come aristocrazia operaia, esercita una ‘funzione’ di sostegno e puntello al sistema, condizionando con le sue scelte una parte consistente della classe, e rappresentando la base sociale dell’opportunismo politico e sindacale. Sappiamo, tuttavia, che esiste pure, reale e documentata, una avanguardia di lotta operaia, statisticamente una minoranza numerica rispetto alla maggioranza della classe, integrata o semplicemente rassegnata. Questa minoranza rappresenta la base sociale materiale del partito comunista internazionale, che distinguiamo nella doppia veste di ricettacolo della conoscenza umana di specie (partito storico), e come organo di azione politica (partito formale). Gli inevitabili processi di mutamento sociale, innescati dalle interiori contraddizioni del modo di produzione capitalistico, per quanto lenti e impercettibili, sono un fatto reale, e non certo il delirio settario e apocalittico di pochi illusi, separati dalla vita reale. Anche noi siamo consapevoli delle difficoltà e dei condizionamenti che si frappongono a un mutamento di orizzonte di grande portata, tuttavia il modo di produzione capitalistico, in maniera invariante, nel tentativo di riequilibrare le sue interiori difficoltà e contraddizioni, mette in essere fenomeni distruttivi di lavoro vivo e capitale costante in eccesso (CRISI, GUERRE..). In queste circostanze, forse, è ipotizzabile un apertura di spiragli sociali, di possibilità di conflitto, potenzialmente superiori alle situazioni di routine. Ipotesi e possibilità non sottovalutate dai poteri ‘sistemici’, i quali si affrettano a prevenirle oliando e rafforzando lo stato borghese (attrezzatura di oppressione). La nostra analisi si basa su queste considerazioni di tipo materialistico, suffragate da ampie e documentabili evidenze storiche, e dalla conoscenza tratta dalle esperienze di lotta proletaria passate e presenti. I testi recentemente riproposti sul sito, pubblicati prevalentemente negli anni sessanta da ‘il programma comunista’, rimarcano e chiariscono senza alcun bisogno di ulteriori interpretazioni esegetiche, l’origine e la funzione del partito comunista, e in modo particolare il suo ruolo insostituibile nei processi di mutamento sociale. Sulla base di considerazioni dedotte dalle variegate esperienze storiche, vengono in quei testi formalizzate delle inequivocabili linee in ordine al problema politico del partito. In assenza di una modificazione della natura socio-economica del regime capitalista, non si comprende la preoccupazione di chi ritiene importante ulteriormente dissertare sul centralismo organico, o sul vero significato di una parola o di un presunto pensiero recondito dei compagni che negli anni passati hanno elaborato una coerente concezione del partito. Ferma restando la possibilità di scolpire e mostrare in tutti i suoi lati una determinata conoscenza, storicamente invariante, appare comunque superflua o addirittura fuorviante la pretesa di possedere, al di là delle inequivocabili pagine prodotte dalla corrente in tempi diversi, la giusta chiave di lettura per comprendere, oggigiorno, cosa pensava e cosa voleva davvero dire un certo compagno, quando ha contribuito alla stesura di determinati documenti politici. Documenti che, oltretutto, avevano anche lo scopo di mettere fine al balletto delle interpretazioni, degli aggiornamenti e delle revisioni innovative. Di fronte a questi sofismi, e ai sottintesi intenti di rottamazione pratico-teorica della funzione e del ruolo della forma partito, anche a costo di apparire schematici e dogmatici, si ritiene, valido il motto latino ‘la carta canta’. Di conseguenza si ritiene che vada nettamente criticata la ulteriore interpretazione di concetti, presenti in documenti, chiari e inequivocabili, al fine di sostenere una certa linea politica nettamente dissonante con il contenuto di quegli stessi documenti. Non vogliamo qui addentrarci nel campo della semiotica, e della polemica sulla semiosi illimitata, cioè sulla possibilità di attribuire signicati illimitati a un certo significante (testo, opera d’arte, oggetto, azione e via dicendo). Infine proprio uno dei fondatori della semiologia, Peirce, oltre un secolo fa, sosteneva realisticamente che il processo di semiosi si inserisce in un contesto storico – culturale che orienta e limita le possibilità di lettura, e quindi di attribuzione di significati, rispetto a un certo ente significante. La semiosi illimitata è quindi valutata da Peirce come una pratica possibile, talvolta in ambiti ed esperienze particolari (arte, follia…..), tuttavia da ritenersi impraticabile nella vita sociale reale. I limiti dell’interpretazione sono dunque dati dal contesto materiale, storico e socio-culturale, in cui si attualizza l’attività di semiosi. In altre parole una variazione del tema: l’essere sociale determina la coscienza. Centralismo organico e partito possono dunque essere letti con sfumature di significati lievemente diversi, accentuando il peso di un aspetto più di un altro, e tuttavia non è semiologicamente e politicamente ammissibile negare il complesso degli aspetti strutturali dei due concetti (centralismo organico e partito), o addirittura proporre interpretazioni in contraddizione con il senso attribuito a questi due concetti (che si implicano reciprocamente), rispetto alle letture prevalenti (politicamente e culturalmente) su base storico-sociale. Questa base storico-sociale (determinata dal livello raggiunto dal conflitto sociale di classe, e dagli insegnamenti passati e presenti ad esso collegati ) ci fornisce il dizionario e l’enciclopedia per comprendere il significato storicamente plausibile e accettato dei due concetti. Chi insiste pervicacemente in letture eccentriche rispetto al senso ben centrato sulla base reale dell’interpretazione politica prevalente, deve assumere su di sé i rischi di ricadere nel caos della semiosi illimitata, e quindi nella fuga da quella realtà determinatamente suscettibile di possedere certi significati (e non altri) all’interno di un certo contesto socio-culturale’.
Buona lettura
Danza di fantocci: dalla coscienza alla cultura
Con questo terzo «Filo» sullo stesso argomento, ossia sulla deforme dottrina del gruppo francese «Socialisme ou Barbarie», che non ha altra importanza oltre quella di fornire occasione utile a delucidazioni interessanti, abbiamo collegata la formidabile svista storica di vedere (in Russia o dovunque) nella burocrazia una nuova classe sociale, con la palese confusione tra i concetti di ordine e di classe.
La parola classe che il marxismo ha fatto propria è la stessa in tutte le lingue moderne: latine, tedesche, slave. Come entità sociale-storica è il marxismo che la ha originalmente introdotta, sebbene fosse adoperata anche prima. La parola è latina in origine, ma è da rilevare che classis era per i Romani la flotta, la squadra navale da guerra: il concetto è dunque di un insieme di unità che agiscono insieme, vanno nella stessa direzione, affrontano lo stesso nemico. Essenza del concetto è dunque il movimento e il combattimento, non (come in una assonanza del tutto… burocratica) la classificazione, che ha nel seguito assunto un senso statico. Linneo metafisicamente classificò le specie vegetali ed animali in gruppi fissi, Darwin dimostrò lo sviluppo evolutivo da una specie nell’altra, de Vries fornì le prove che in dati svolti non si hanno lentissimi cambiamenti insensibili ma brusche mutazioni improvvise.
Chi riduce il marxismo ad una analisi catalogatrice della società secondo gli interessi economici, è veramente buffo in veste di completatore moderno del marxismo, in quanto non ne ha assimilata la prima vitale battuta. Marx avrebbe solo «cominciata» l’analisi della società moderna, e posto solo le basi di un programma socialista; sono questi signori che hanno assunta
«la continuazione di questa analisi oggi, con il materiale infinitamente più ricco che un secolo di sviluppo storico ha accumulato, e che permette di avanzare molto più di Marx nella nuova elaborazione del programma socialista».
Per disperdere simili piacevolezze è di troppo incomodare la dialettica: basta il pernacchio (entità resa nel nord erroneamente femminile: la pernacchia).
Senza quindi prendere simili cose sul serio, troviamo tuttavia utile battere in argomento la nostra strada, ricostruendo la presentazione organica del marxismo, edificio che possediamo dalle fondamenta al tetto, sicché non acquistiamo da nessuna parte nuovi materiali. Queste analisi sociali ci ricordano chissà perché una vignetta francese di un umoristico militare, rimastaci impressa dal tempo del ginnasio. Un soldatino guarda le scritte sulle porte dei cessi: truppa, caporali, sottufficiali, ufficiali:
«Ces messieurs-là doivent faire du matériel d’une qualité bien supérieure».
Classe dunque indica non diversa pagina del registro di censimento, ma moto storico, lotta, programma storico. Classe che deve ancora trovare il suo programma è frase vuota di senso. Il programma determina la classe.
N.r. La classe sociale non va confusa con una quantità statistica, definita sulla pura base del tipo di fonte da cui un certo numero di persone trae il proprio reddito, e quindi i mezzi necessari per vivere.La differenza fra classe in sè e classe per se rimanda proprio alla differenza fra un puro aggregato statistico, e un moto di lotta associato a un certo programma storico. D’altronde un semplice gruppo sociale per essere tale deve possedere una omogeneità di interessi e una convergenza di vedute, e quindi una visione condivisa che ne cementa l’unione.
Ordine invece è una partizione della società che vorrebbe conservarla immobile e garantita contro le rivoluzioni. In grado diversissimo le partizioni sociali che la storia ha presentato sono suscettibili di lasciar prorompere lotte di classe: Marx spiega perché le società asiatiche sono ostinatamente immutabili: lo stesso modo locale e spesso ancora «comunista» di produzione non genera contrasto tra forze produttive e schema sociale. Di qui la gigantesca importanza, se in Persia, in India, in Indocina, in Cina, il contrapporsi delle classi è scattato.
Gli ordini della società medioevale ad un certo punto non resistettero alla trasformazione in classi: navigazione, commercio, manifattura, scoperte meccaniche, fecero il miracolo.
Ordine in francese si dice, ricordammo, «État», colla stessa parola che indica lo Stato politico centrale, che in fondo nel primo feudalesimo è appena delineato e si riduce alla corte militare dell’imperatore o re. Quando Luigi XIV, in pieno rigoglio di forze capitaliste di produzione sotto la monarchia assoluta, dice «l’État c’est moi», sono io lo Stato, si tratta dello Stato politico. Gli ordini erano allora tre, secondo l’organamento feudale. Primo ordine, premier état, la nobiltà, chiusa in un gruppo ereditario di famiglie e di titoli araldici; secondo ordine, deuxième état, il clero, secondo l’organismo gerarchico della chiesa cattolica; troisième état, terzo ordine, fu detta la borghesia, che in effetti non partecipava al potere, pure essendo rappresentata negli «stati generali» ossia nella assemblea nazionale degli ordini, corpo non legislativo e tanto meno esecutivo, ma appena consultivo del re e del suo governo: tali borghesi erano allora mercanti, finanzieri, funzionari. Per Parlamento intendevasi nella Parigi e nella Francia del tempo la magistratura giudiziaria nei suoi vari gradi, che sempre al servizio del re godeva di una tal quale autonomia almeno dottrinale, che il capitalismo le ha tolto.
Ricordi scolastici ma che hanno nella costruzione marxista una nuova luce. Quando il modesto e poco decorativo terzo ordine diventò la possente e rivoluzionaria classe capitalista si disse: cosa è il terzo Stato? Nulla. Cosa vuole essere? Tutto!
Ma poiché coi capitalisti veniva sulla scena una nuova classe, i lavoratori delle manifatture (male non sarà dire anche che gli artigiani liberi non erano un ordine costituito, ma si organizzavano in corporazioni di mestiere, e solo le professioni liberali avevano un posto nel terzo Stato) piacque nel tempo che può dirsi romantico del movimento operaio parlare non della nuova classe rivoluzionaria nella società borghese ma di un nuovo ordine, di un quarto Stato.
Nessuna costituzione storica ha mai riconosciuto un simile ordine: quelle feudali negavano la partecipazione ad ordini del contadino servo e dei proletari, quelle borghesi clamorosamente abrogarono tutti gli ordini e conobbero solo cittadini di diritto eguale.
Molte deviazioni ben note del marxismo di cui possediamo i verbali di approfondite autopsie si lasciano ridurre alla confusione della classe con l’ordine, e ricordiamo lo sdegno di Marx quando Lassalle passò la Arbeiterklasse ad insipido ordine operaio, Arbeiterstand. Ripetita iuvant.
I signori addottorati in «materiali» di un secolo oltre Marx non si avvedono che i loro materiali, i «ricchi» loro dati storici, non sono ancora arrivati alla presa della Bastiglia. Non analyse de la misère, ma misère de l’analyse.
N.R: Gli ordini feudali, aboliti dalla trionfante borghesia nella sua nuova costituzione, rinascono nelle deviazioni ben note del marxismo, nella confusione della classe con l’ordine, nella riduzione a semplice statistica economica (e quindi alla pura fonte di reddito) di una potenzialità storica di aggregazione politica di fasce sociali prevalentemente proletarie (ma anche non proletarie). Si parla di aggregazione intorno a un programma comunista di parte della società ( sotto la guida di un partito che fa proprio questo programma).La scelta di lottare in una classe è in fondo differente dalla ripartizione statistica dei componenti di una società in base alla fonte del proprio reddito ‘La parola è latina in origine, ma è da rilevare che classis era per i Romani la flotta, la squadra navale da guerra: il concetto è dunque di un insieme di unità che agiscono insieme, vanno nella stessa direzione, affrontano lo stesso nemico. Essenza del concetto è dunque il movimento e il combattimento, non (come in una assonanza del tutto… burocratica) la classificazione, che ha nel seguito assunto un senso statico’.
Giorgio Sorel, il vivace e brillante fondatore della dottrina del sindacalismo rivoluzionario, accreditò tra i suoi non pochi seguaci, all’inizio del secolo, la formulazione di aristocrazia operaia. È solo dopo e soprattutto nella critica di Lenin basata sulle precise linee di Marx ed Engels (soprattutto per la industria inglese) che la nostra scuola designò come aristocrazia proletaria, ossia parte più alta del proletariato, i lavoratori a più alto salario, gli specialisti qualificati, ricercati e corteggiati, – e più colti – facilmente adescati dalle ideologie conformiste e preda e sostegno dei capi opportunisti. Ma nel concetto dei sindacalisti soreliani non si trattava di una parte della classe operaia superiore al resto, si trattava invece di considerare il proletariato tutto, la classe degli operai salariati, come una aristocrazia nel complesso della società, capovolgendo così il primato e la direzione della opposta classe capitalista, e deridendo – solo fin qui erano nel giusto – la loro democrazia parlamentare, la beffa della loro uguaglianza davanti allo Stato.
Il sindacalismo ebbe successo in quanto contrapposto al riformismo legalitario dilagante nel tempo del capitalismo pacifista ed idilliaco, prosperoso e progressista. I sindacalisti denunziarono i gravi pericoli dell’azione parlamentare che sostituiva l’arbitrato dei poteri legali all’urto degli interessi economici nelle vertenze del lavoro, e denunziarono i funzionari sindacali che vietavano ai lavoratori l’uso della violenza nei conflitti coi padroni e sconfessavano il mezzo dello sciopero generale.
Ad un certo momento (per esempio in Francia ed in Italia tra il 1900 e il 1910) tutto il problema dell’azione proletaria parve ridotto ad un dialogo tra i riformisti ed i sindacalisti alla Sorel. Solo gradatamente il marxismo radicale reagì alla grave deviazione di questi.
Sorel negava la funzione del partito politico proletario e scorgeva la rivoluzione come un urto diretto tra i sindacati rossi e lo Stato borghese. Non vedeva il problema marxista del potere storico, del centralismo di classe: le lotte locali di categoria o di azienda gli bastavano, purché ne fosse tolto il veleno della collaborazione di classe, per arrivare al rovesciamento del potere borghese e alla espropriazione dei padroni. Questa visione illusoria dello sciopero generale espropriatore non solo non conteneva le necessarie fasi della trasformazione sociale, e riduceva la conquista della società alla conquista della fabbrica, ma soprattutto non scorgeva che se la peste della collaborazione tra le classi è sempre risorta, è proprio in quanto la lotta da rapporti in limiti aziendali, locali, nazionali, non ha potuto assurgere alla generale unità della lotta politica del proletariato mondiale, che ha come solo organo il partito comunista mondiale.
Sorel riduceva il determinismo dialettico ad un esasperato volontarismo attivo della classe, luogo per luogo, gruppo per gruppo; non poneva stadi diversi, né nell’individuo in lotta, né nei suoi aggruppamenti, tra l’interesse, la coscienza, la volontà. Puri proletari, operai salariati che si affiancano: ed altro non occorreva per dar loro volontà di combattere e conoscenza degli scopi. In fondo – come sempre notiamo – è l’azione che è fine a sé stessa senza bisogno di una generale direzione verso un lontano punto di arrivo storico; ed in questo non faceva che a sua volta ricadere in una filosofia premarxista, e come i suoi lontani successori di oggi speculava su una frase di Marx: val meglio un’oncia di azione che un mucchio di programmi; laddove egli frusta programmatori di immediate e contingenti conquiste entro l’ordine costituito.
N.R: Dunque Sorel esaltava l’azione pura, non vedendo stadi diversi nell’individuo e nel gruppo tra l’interesse, la coscienza, la volontà. Allora, non distinguendo le fasi di un processo socio-politico complesso, non comprendendo la dialettica fra avanguardia di classe/specie umana (racchiusa nel partito) e masse (la classe in sé), poteva giungere a sostenere l’azione fine a se stessa. Egli ‘negava la funzione del partito politico proletario e scorgeva la rivoluzione come un urto diretto tra i sindacati rossi e lo Stato borghese. Non vedeva il problema marxista del potere storico, del centralismo di classe: le lotte locali di categoria o di azienda gli bastavano, purché ne fosse tolto il veleno della collaborazione di classe, per arrivare al rovesciamento del potere borghese e alla espropriazione dei padroni’.
L’errore di Sorel e dei suoi, rivelato storicamente dal fatto che non meno dei revisionisti di destra questi ardenti e barricadieri revisionisti di sinistra, nel 1914, con quasi tutti i lor capi e confederazioni operaie più note passarono alla causa della guerra (basti rammentare Hervé e Corridoni…), si può ridurre proprio al trattare il proletariato rivoluzionario non come una classe nel potente senso di Marx, ma come un banale ordine. La società che questi di oggi chiamano post capitalismo, si distinguerebbe da questo: invece di essere sotto la menzogna della democrazia una aristocrazia di borghesi sui sottoposti operai, sarà una aristocrazia di operai. Il quarto Stato sarà il primo: ecco tutto.
I gravi problemi della teoria e dell’organizzazione del movimento, risolti in partenza con splendente completezza nel marxismo, sicché chi vi tocca vi guasta, come Lenin e tutti gli altri ortodossi hanno cento volte ripetuto, si sciolgono banalmente nel concetto di ordine aristocratico. Il nobile di nascita non ha bisogno di educazione, di cultura, di inquadramento e di organizzazione; porta in sé tutto dalla nascita e dal primo vagito; ha nel sangue la sua coscienza di membro dell’ordine eletto e si terrà sempre lontano e nemico dagli ordini sottoposti e dal loro materiale umano. Solo o organizzato, ignorante o sapiente, egli è di natura, di volontà e di automatica coscienza di un pezzo solo: è nobile. Egli è che la sua rendita è insequestrabile – come lo stipendio del burocrate.
La borghesia moderna sarebbe un ordine mascherato sotto l’abolizione degli ordini, e non resterebbe che opporle un giustiziere; come l’ordine borghese, il terzo Stato, ha spazzati via quelli nobiliari e chiesastici; così il quarto Stato spazzerà l’ordine dei padroni di impresa.
Ridotta la ricetta a questo, restano avulse tutte le pagine di fiamma con cui il Maestro descrive l’epopea della borghesia durante dieci secoli, in cui si rivela classe, abbatte non dati ordini, ma il sistema degli ordini; e restano avulse tutte le pagine della massima opera di Marx in cui viene sulla scena questa forza sociale, non più legata come le precedenti a gruppi di persone e a tipi personali di dipendenza, il Capitale. Borghesia non suona ordine, ma rischio.
Non si è evidentemente ancora all’altezza di capire che cosa significa nelle pagine di Marx o di Engels la differenza tra la servitù delle persone propria del medioevo e quella della forza lavoro propria dell’evo moderno, tra il dominio sulla persona dello schiavo, sulla forza del servo, e sulla merce.
Questi trapassi radicali, sconvolgitori, tra forme diverse della produzione e della società sono abbassati a semplici scambi di gruppi nella successione di uno stesso banale episodio: l’exploitation, lo sfruttamento.
Vede lo sfruttamento al centro di tutto solo chi è condannato a pensare fino alla morte da marcio borghese: in un rapporto tra uomini non vi è che l’affare: un affare andato a male, ecco la relazione tra le classi!
Ridotta dunque la rivoluzione alla conquista di una preminenza di ordine, alla lotta per una aristocrazia, si capisce l’origine della famosa scoperta: all’ordine dei padroni si è sostituito quello dei funzionari, la burocrazia è la moderna aristocrazia: fate aristocratici i proletari di officina e la rivoluzione è raddrizzata! La loro automatica consultazione di coscienza, salverà tutto.
Come chi nasceva nella culla nobiliare sapeva già tutto il suo comportamento sociale, così sa tutto della rivoluzione chi viva entro le mura di un’officina e riceva la busta salario, chi abbia la sensazione fisica della exploitation.
Ed allora non serve a nulla avere il programma della società senza classi e senza classe dominante, che a più forte ragione è senza aristocrazia, e si capisce bene che, come già voleva Sorel, a nulla serve il partito.
E a nulla serve la storia che mostrò, negli anni di fuoco che seguirono la Bastiglia, tanti dei raffinati aristocratici dimenticare la voce del sangue, e svegliare dalla loro ignavia di speculatori privati al grandioso compito di classe, i borghesi di Francia, i capitalisti del mondo.
N.R: Non si tratta, sostiene il testo del 1953 di sostituire un ordine sociale con un altro ordine: ‘La società che questi di oggi chiamano post capitalismo, si distinguerebbe da questo: invece di essere sotto la menzogna della democrazia una aristocrazia di borghesi sui sottoposti operai, sarà una aristocrazia di operai. Il quarto Stato sarà il primo: ecco tutto’.
Nel sorelismo tutto si riduce a un passaggio di consegne fra attori sociali diversi, mentre in esso resta invariata la logica del potere di una aristocrazia sul resto della società: ‘Ridotta dunque la rivoluzione alla conquista di una preminenza di ordine, alla lotta per una aristocrazia, si capisce l’origine della famosa scoperta: all’ordine dei padroni si è sostituito quello dei funzionari, la burocrazia è la moderna aristocrazia: fate aristocratici i proletari di officina e la rivoluzione è raddrizzata!’
Quello che sfugge al sorelismo e ai suoi attuali emulatori è la natura sociale del proletariato, infatti la prevalente assenza di rapporti di possesso di questa classe con cose e oggetti (beni mobili e immobili, mezzi di produzione…) lo rende refrattaria (come classe) a perpetuare la logica del dominio in cui, regolarmente, un ordine aristocratico viene soppiantato da un altro ordine aristocratico. Il proletariato, possessore solo della propria forza-lavoro, rappresenta la potenzialità di una società umana, senza classi, quindi senza nuovi ordini e aristocrazie di comando e possesso: ‘Ed allora non serve a nulla avere il programma della società senza classi e senza classe dominante, che a più forte ragione è senza aristocrazia, e si capisce bene che, come già voleva Sorel, a nulla serve il partito.’
È vecchia storia di oppositori trotzkisti alla compressione stalinista quella della «democrazia proletaria». Secondo tali vari gruppetti la critica della democrazia borghese consisterebbe tutta nel condannare la sua sovrapposizione a due classi sociali opposte, o più, e nell’inganno che essendo i lavoratori maggioranza numerica sui borghesi, il meccanismo elettorale giochi a loro favore. In verità anche tale critica non reggerebbe, se non fosse da escludere che il proletariato possa sotto il regime capitalista raggiungere una completa «coscienza» di classe. Comunque alla critica della democrazia «borghese» e della democrazia «in generale», si fa poi seguire non solo la tolleranza, ma la invocazione della «democrazia interna alla classe». Si afferma che tutta la degenerazione stalinista dipende dal non aver fatto funzionare un meccanismo di delega elettorale e di rappresentanza a tipo parlamentare, nel senso della classe operaia, consentendole consultazione, controllo, decisione maggioritaria sugli indirizzi politici dello Stato.
Tutto questo è puro vaneggiamento. La forma storica della democrazia è quella che corrisponde alla politica della classe capitalistica nelle fasi in cui esce dal grembo del mondo feudale, ed essa consiste in corpi rappresentativi di tutti i cittadini sui quali la ideologia dominante afferma fondato il potere materiale dello Stato. Come la produzione capitalistica è uno stadio necessario dello sviluppo economico, così è necessario trapasso storico, in date «aree» e in dati periodi, il completo sviluppo giuridico delle forme democratiche. Allorché per l’Europa 1848-1871 o per la Russia 1902-1917 Marx, Engels, Lenin o Trotzky hanno tanto affermato, come affermare si potrebbe oggi per l’Asia, essi non parlavano di una democrazia in generale e tanto meno dell’ibrido della democrazia proletaria, ma esattamente e proprio della democrazia borghese. Ossia di un movimento e di una forma politica che corrisponde, in quanto ancora ci è necessaria, ci era necessaria, ad uno sviluppo di forme borghesi rivoluzionarie sostenute dal proletariato, passo pregiudiziale al passare oltre.
La forma della specifica rivoluzione del proletariato è politicamente la dittatura. Non dittatura personale, si intende, ma dittatura di classe. Questa si forma i propri organi originali e specifici, che sono organi di gestione del potere statale in fase di piena lotta. Ma se la dittatura di un ordine ben potrebbe identificarsi con una «democrazia interna all’ordine», la dittatura di una classe rivoluzionaria è qualcosa di assai meno banale, formalistico, e soggetto alle oscillazioni di stupide conte di voti. La dittatura è definita dalla forza e dalla direzione di questa forza: non si deve dire che essa costruisce il socialismo a condizione di essere la giusta dittatura, ma che essa è la vera dittatura proletaria quando cammina verso il comunismo.
La storia è piena di democrazie interne all’ordine. Esse sono forme precapitalistiche, in quanto la borghesia, prima, teorizzò e formalmente, costituzionalmente attuò la democrazia per tutti. Democrazie interne ad ordini erano quelle greche e romane poiché pareggiavano i cittadini liberi lasciando fuori di ogni sovranità le masse degli schiavi e degli iloti. Nell’ordinamento feudale germanico quando i nobili o principi di un certo grado eleggevano il re, si trattava di una democrazia ad uso interno di un ordine, e così nei casi in cui i baroni eleggevano il principe. Così nelle repubbliche oligarchiche ed aristocratiche italiane o fiamminghe. Nello stesso ordine ecclesiastico si elegge con democrazia interna il papa (e una volta i vescovi).
Una postuma scimmiottatura di questi innumeri sistemi antiquati è la proposta di parlamentarismo operaio che dovrebbe «liberamente» controllare la macchina della dittatura, nello Stato costituito dopo la rivoluzione operaia, e nel quale, come è pacifico, i privati proprietari e padroni di aziende, in quanto sopravvivano, non hanno diritto politico (il che non si riduce alla banalità di deporre schede, ma vuol dire avere organismi, partiti, sedi, giornali, tribune da cui parlare, ecc.; ingerenza nella scuola, nell’arte, nel teatro, ecc.).
I barbaristi si trovano in questo nel più grande imbarazzo, e così quasi tutti gli analisti del mistero russo. Proprietari ed imprenditori non ce ne sono più, ed allora andrebbe buttata via la dittatura e ripristinata la libera elezione delle cariche tutte. Ma per tema di ricadere tra i puri socialdemocratici, o di confessare di non essere altro che tali, sostengono che la dittatura consiste nel non lasciar votare… i funzionari. Ed allora saranno solo i non funzionari ad eleggere i funzionari, per poi… consegnare tutto nelle loro mani. Questa vuota finzione non è dunque parto di una nuova dottrina, ma della involuzione dal concetto di classe rivoluzionaria a quello diaristocrazia, che sarebbe quella delle mani callose al posto di quella delle unghie curate, con un meccanismo parlamentare interno per eleggere non si sa poi chi e a che cosa.
Quali siano le forze produttive in gioco, quali i rapporti di produzione, quale il trapasso da un tipo sociale all’altro di produzione che si sta compiendo e come tutto ciò determini l’urto delle varie classi sociali, e che cosa quindi rispecchi e sostenga la forza dell’attuale Stato, non pensano nemmeno di chiederselo.
In ogni modo tutto questo ipotetico ed irreale meccanismo di controllo e di scelta non funziona se non si ammette, sia pure dopo averlo poggiato sugli effettivi di una sola classe, che tutti gli individui di questa siano coscienti, non solo, ma che la coscienza di uno valga quella di un altro, senza di che non si spiega la copiatura del fraudolento sistema borghese di elezioni. Perché solo con questi presupposti si può assumere che la giusta direzione storica sia quella indicata, a dati svolti, dalla numerica maggioranza di suffragi operai.
Se si perde in viaggio un pacco di pezzi di carta, ciò basta a cambiare di 180 gradi il cammino della rivoluzione!
Più grave ancora è quando la stessa ricetta la si vuole applicare, sotto il pieno gioco del capitale, a ritrovare la via smarrita del socialismo e della rivoluzione con analoghe tastate di polso statistiche a tutti i proletari.
Vediamo un poco quanto è facile capovolgere il valore delle tesi marxiste anche in questa materia, leggendo a rovescio, ad esempio in Trotzky, quello che, in questa stupida opera di sindacato e di critica, e da chi dovrebbe piuttosto pensare a farsi strigliare a fondo, si approva a torto, come in altro caso si condanna non meno a torto.
Gli stenditori di malauguratissimi «documenti» in cui passano tutto al vaglio della propria meschinissima testa, in nome della libertà di critica (non siamo oltre Lutero, primatista dei collitorti) concedono approvazione a Trotzky che disse:
«il socialismo, all’opposto del capitalismo, si edifica coscientemente».
Ma poco dopo, come vedremo, stigmatizzano a tutto spiano altre tesi dello stesso autore. Non vedono, i poveruomini di tale tipo, che prima di arrivare all’altezza di un Trotzky, che non corre il rischio di enunciare tesi isolate non armonizzate con un indirizzo unitario ed organico, devono consumare una tonnellata di sale.
E come parafrasano essi l’enunciazione di Trotzky? Facendogli dire una cosa tanto diversa, che mentre l’espressione di lui era rigorosa ed esatta, quella dei suoi «sindaci», stavolta clementi, è scorretta in ogni parola e soprattutto nell’arrière-pensée, piattamente borghese:
«dunque l’attività cosciente delle masse è la condizione essenziale dello sviluppo socialista».
Questa tesi insensata, che firmerebbe con entusiasmo non solo ogni socialista destrissimo, ma ogni borghese, non è degna di Trotzky, ma di Bertoldo, che scelse la pianta di fragola avendo ottenuta la grazia di essere impiccato all’albero che voleva. Ogni capitalista accetterà il pieno socialismo, se glielo vincoliamo alla condizioneessenziale (!) che lo preceda l’attività cosciente delle masse.
Tutta questa palinodia servirebbe a correggere Marx che nientemeno avrebbe praticato «empirismo» a proposito del programma socialista, asserendo che importa solo distruggere la classe e lo Stato capitalista per dar libero corso alla costruzione del socialismo. Marx avrebbe avuto questa idea ambigua dei caratteri programmatici della società socialista, se la sarebbe cavata vagamente colla statizzazione e la pianificazione della produzione, e adesso questi documentisti gli somministrano un’idea «non ambigua» del socialismo, che si riduce a questa idiozia: eliminare lo sfruttamento! o la disuguaglianza!
Per molto meno di questo il sig. Dühring fu tacciato di «delirio di grandezza».
Contentiamoci di rimandare alla nostra esauriente lettura in tutti i passi di Marx della descrizione della società socialista. Ma Marx batte a morte l’Utopismo! E come! L’utopismo descrive la società futura come propone e vuole che sia; Marx la descrive come sarà. Ma ne dà connotati così salienti e taglienti in tutti i campi, che il tardivo e vuoto, non ambiguo ma decisamente antirivoluzionario, egualitarismo e giustizialismo dei suoi «raddobbatori» appare solo una rifrittura di secolaridoléances.
Torniamo a Trotzky. Il capitalismo non è stato preceduto da una coscienza dei suoi caratteri, il socialismo lo è. Questo concetto non ha nulla a che fare colla nozione puramente idealista di «attività cosciente» delle masse, che non saprebbe risolversi che in una attività cosciente di individui, elevata a condizione, dunque a causa motrice degli accadimenti storici.
Risalimmo a suo tempo al passaggio classico che le epoche di sovversione sociale non si giudicano dalla coscienza che hanno di sé stesse. I capi e i promotori della rivoluzione antischiavista travestirono la lotta contro la forma schiavista di produzione, che era il reale contenuto storico del trapasso, sotto una dottrina, del tutto compiuta ed esauriente, in cui appariva la liberazione dello spirito dalla carne e l’obiettivo di una vita ultraterrena come movente di tutta l’azione. L’attività delle masse non era cosciente, esse non lottarono per il paradiso, né sapevano che al posto della schiavitù sarebbe venuta una nuova forma di servitù. La coscienza del passaggio non era nelle masse, né in alcuna scuola, dottrina, gruppo. Soltanto dopo essa fu chiara.
Analogamente avvenne per la rivoluzione capitalista contro il feudalesimo. Si trattava di trapasso al modo di produzione basato sul salariato, ma i postulati, da una non meno possente scuola filosofica e politica, furono presentati, ben altrimenti, come libertà dell’uomo o del cittadino… trionfo della ragione.
In questi trapassi e in molti altri una nuova classe dominante sorgeva dopo la caduta dell’antica. Ma nella rivoluzione socialista, che abolirà le classi si hapreventivamente una conoscenza abbastanza definita e chiara dei suoi obiettivi. Dove e da parte di chi? Ecco il punto. Attribuire a Trotzky che questa precedente conoscenza del processo debba formarsi in chiunque sia schierato a lottare per la rivoluzione e contro gli ostacoli che la strozzano, è cosa insensata. Per noi marxisti basta che la conoscenza ci sia prima del processo; ma non nella universalità, non nella massa, non in una maggioranza (termine privo di senso deterministico) della classe, ma in una sua minoranza anche piccola, in un dato tempo in un gruppo anche esiguo, ed anche – scandalizzatevi dunque o attivisti! – in uno scrittomomentaneamente dimenticato. Ma gruppi, scuole, movimenti, testi, tesi, in un lungo procedere di tempo, formano un continuo che altro non è che il partito, impersonale, organico, unico proprio di questa preesistente conoscenza dello sviluppo rivoluzionario. Il capitalismo non ha presentato un simile fenomeno processo e sviluppo: ecco che disse Trotzky, e non altro.
Al solito, a dimostrare che Trotzky non era di quei baggiani che eruttano documenti nuovi, ma enunciava tesi che sono patrimonio comune del partito, inteso al di là di confini di popoli e generazioni, è ribattuta ancora la tesi centrale di Marx: le rivoluzioni sociali derivano da contrasti di materiali rapporti e in generale hanno una deformata coscienza di sé stesse; la coscienza giusta viene molto dopo gli scontri la lotta e la vittoria; ricorriamo al decisivo Engels.
Mettete da parte la pisciata della statizzazione e della pianificazione di una economia mercantile, salariale e monetaria, e, una volta di più, sentite. Non redigete documenti, non esercite la suprema facoltà della libera critica: fate una cosa alla portata di tutti: spilateve ‘e recchie: rendete pervio il canale auditivo.
«Con la presa di possesso da parte della società dei mezzi di produzione è eliminata la produzione di merci e con ciò il dominio del prodotto sui produttori. L’anarchia insita oggi nella produzione sociale è rimpiazzata da una organizzazione cosciente e rispondente ad un piano determinato. La lotta individuale per l’esistenza finisce. Con ciò l’uomo per la prima volta si separa, in un certo senso, definitivamente dal regno animale e passa da condizioni animalesche a condizioni di esistenza umane… Le leggi della propria azione sociale che fino ad oggi stavano loro di contro come leggi naturali esterne, dominatrici, vengono dagli uomini con piena cognizione di causa applicate, e quindi dominate.
Lo stesso socializzarsi degli uomini che finora si opponeva ad essi come largito dalla natura e dalla storia, è ora un loro proprio libero atto. Le forze obiettive estranee che finora dominavano la storia passano sotto il controllo degli uomini medesimi. Per la prima volta da ora innanzi, gli uomini faranno da sé la loro storia con piena coscienza, per la prima volta da ora le cause sociali da essi poste in movimento avranno anche in misura prevalente e continua gli effetti da essi voluti. È il passaggio dell’umanità dal regno della necessità in quello della libertà.
Realizzare questo atto di redenzione è il compito storico del proletariato moderno. Spiegarne le condizioni sociali e quindi la natura e portare così le classi oggi oppresse e chiamate all’azione, alla consapevolezza della propria azione, è il compito della espressione teoretica del movimento proletario, del socialismo scientifico».
Di che razza di altri documenti avete mai bisogno? Smettete di fare con materiali «tanto più ricchi» costruzioni tanto miserabili.
L’ora dipinta nel potente squarcio di Engels è quella che verrà dopo la presa di possesso sociale dei mezzi di produzione, la fine della concorrenza economica e del mercantilismo: ossia verrà molto dopo la conquista del potere politico. Allora per la prima volta si avrà un’attività cosciente degli uomini, della collettività umana. Allora, in quanto non vi saranno più classi.
In ogni attività di classe quindi, per i marxisti, la coscienza non solo non è una condizione, e tanto meno essenziale, ma è assente, poiché verrà per la prima volta non come coscienza di classe, ma come coscienza della società umana, controllatrice finalmente del proprio processo di sviluppo, che fu determinato dall’esterno fin che vi erano classi oppresse.
La rivoluzione è il compito storico della classe proletaria chiamata all’azione da forze di cui è per ora inconsapevole. La consapevolezza dello sbocco non è nelle masse, ma solo nello specifico organo portatore della dottrina di classe: il partito. Rivoluzione, dittatura, partito sono processi inseparabili, e chiunque cerca la via opponendoli l’uno all’altro, non è che disfattista.
Sul terreno della cultura «di classe» – vedremo subito che razza di classismo sia questo – rovinano invece addosso a Trotzky aspri rimbrotti. Ma egli non dice nei citati passi che la stessa cosa di quello trionfalmente accolto per varare l’attività cosciente, e non è lui che elucubra, o prende brevetti personali: si tratta di tesi proprie di Marx, di Engels, di Lenin; che diciamo? di cento e mille diffusori della scuola marxista, e come dicevano i buoni compagni greci di tutti gli «archeiomarxisti», marxisti antichi. Altro che aggiornatori!
Non bastava una trave nelle gambe della rivoluzione, l’irraggiungibile coscienza, viene la seconda:
«La costruzione del comunismo presuppone l’appropriazione della cultura da parte del proletariato: e ciò non significa solo la assimilazione della cultura borghese, ma anche la creazione dei primi elementi della cultura comunista».
Magnifico. Tutto questo non ha che un solo senso: credere che per avere il benessere occorre avere il potere, che per il potere occorre avere la volontà di lottare, per la volontà occorre la coscienza, per la coscienza occorre la cultura, che la cultura non è un’espressione di classe, ma un eterno «assoluto valore del pensiero» e che quindi non sono fatti materiali che scatenano le azioni e proiettando le ideologie, bensì processi spirituali che condizionano la lotta storica. Solo chi ha questo nella testa, e lo nasconde oppure non se ne sa accorgere, può scrivere in quel modo.
Ed allora Trotzky, che invece mette le cose al punto giusto, viene «raddobbato» a dovere. Egli si permise di dire:
«Il proletariato al più può assorbire la cultura borghese».
Ed anche:
«finché il proletariato resta proletariato, esso non può assimilare altra cultura che quella borghese, e quando potrà essere creata una nuova cultura questa non sarà una cultura proletaria, perché il proletariato come classe avrà cessato di esistere».
Queste posizioni di Trotzky suscitano indignazione, ma non vale la pena di riportare la serie di scempiaggini che ad esse si contrappone. Esse infatti esprimono puramente il nocciolo del determinismo marxista. Sul terreno scuola, stampa, propaganda, chiesa, ecc., fin che la classe lavoratrice sarà sfruttata la diffusione della ideologia borghese avrà sempre un immenso vantaggio sulla diffusione del socialismo scientifico. La partita sarà perduta per la rivoluzione fino a che non si fa assegnamento su forti masse che lottano, senza presupporre nemmeno per sogno che siano uscite dalla influenza culturale ed economica borghese, ma per la ineluttabile spinta del contrasto delle forze produttive materiali non ancora divenuto coscienza dei combattenti, e tanto meno poi scientifica cultura!
Ma lo sfondo puramente idealista della posizione – stravecchia – del gruppetto antibarbaro si rivela nella prospettiva di questa lotta tra due culture. Ben presto essa si riduce alla lotta per una sola cultura, per la cultura.
Il proletariato dovrebbe – prima di sottrarsi alla esecrata exploitation, prima d’avere il diritto di insorgere – costruire sulla assimilazione delle culture esistenti le basi di una cultura nuova. Vuole ciò dire che la classe deve sviluppare la propria ideologia per poter combattere? Vuol dire di peggio!
«Una cultura non è mai una ideologia né una orientazione, ma un insieme organico (?) una costellazione di ideologie e di correnti (organicità dunque, o basso eclettismo?)».
E questo che vuol mai dire? Lo spiegano le deduzioni che se ne traggono:
«La pluralità delle tendenze che costituiscono una cultura implica che condizione essenziale dell’appropriazione creatrice della cultura da parte del proletariato è la libertà di espressione».
Ci siamo: che accidente è questa libertà di espressione? Ecco chiarito:
«Le correnti ideologiche reazionarie che non mancheranno di manifestarsi nella società di transizione, dovranno essere combattute, nella misura in cui non si esprimono che sul terreno ideologico (?!) con armi ideologiche e non con mezzi meccanici limitanti la libertà di espressione».
Ecco a che serve la cultura di classe, la cultura comunista a cui si vuole obbligare il proletariato prima che prenda il potere! Quando lo avrà preso dovrà rispettare tutte le possibili culture, ed esercitare la dittatura in modo che un borghese non possa mettere bombe nelle macchine, ma ben possa predicare ideologia e filosofia «reazionaria», obbligandosi a contrastarlo solo con mezzi ideologici, e, ohibò, non meccanici. Il mezzo meccanico sarebbe evidentemente quello di una legnata sulla testa o di privarlo della macchina tipografica. Al contrario lo si pregherà di scrivere e di parlare sui giornali comunisti e nelle adunate, e si opporrà solo una deferente «confutazione» filosofica e con armi ideologiche!
Chi ha del ferro, ha della scienza
Non occorre di più di questa, che è la conclusione finale di un preteso studio sul «programma socialista» che deve rimpiazzare quello «empirico» e «ambiguo» di Carlo Marx, per stabilire che si tratta di autentico idealismo e democratismo borghese puzzante di muffa trisecolare almeno. Libertà di espressione! E che vi è in questa nuova aggiunta a Marx che non sia già stato detto da illuministi e protestanti, le cui dottrine sono state dal marxismo stritolate senza rivincita?
Qui non si tratta solo di fare rinculare Lenin, di fare indietreggiare Marx, ma addirittura di annacquare il generoso ardore del primo comunista, Babeuf, sceso nella lotta politica, che volle colla forza fisica condurre la battaglia contro la forza delle idee.
Perfino il vecchio Blanqui aveva detto:
«chi ha del ferro ha del pane!»,
comprendendo che in dati svolti della storia la violenza bruta risolve la rivendicazione economica. Si dovrà per questo discutere la cultura dell’avversario? E concedergli libertà di espressione per riguadagnare la causa perduta, ferro alla mano? Babeuf e Blanqui, con materiale tanto povero, bene avevano scoperto che chi ha del ferro ha della scienza.
Si vuole insegnare alla dittatura la più imbelle delle autolimitazioni. Ma proprio questa pretesa smidollatrice mostra l’abisso che corre tra costoro, tra i vari gruppetti che fanno pellegrinaggi e penitenze per gli sfregi recati dalla rivoluzione – sia pure stalinista – alla santità extrastorica della libertà di espressione, e il marxismo.
Non ci vogliono che i fautori dell’«attività cosciente» per sostenere la balordata: libertà di azione no, libertà di espressione sì!
È soprattutto per questo che al di fuori delle forme di dittatura statale capitalista vigenti in Russia, va rivendicata la funzione del partito come agente della dittatura. Perché non si tratta solo di reprimere conati sabotaggi e congiure contro il potere proletario, ma di tutelare proprio la rigorosa unità dottrinaria della correntecomunista, che esclude tutte le altre.
Vano sarebbe legare le unghie e gli artigli ai borghesi e ancora più al mostro tentacolare e impersonale del capitale, e poi rispettarne l’apologia verbale. Un vagoordine operaista potrebbe scendere a questo suicidio, ma la rivoluzione proletaria vincerà quando e in quanto il suo organo dottrinale, il partito, imporrà il bavaglio alla libertà di espressione delle lunghe a morire ideologie e culture tradizionali, proprie delle classi debellate.
Queste ricerche modernissime sulla dittatura del proletariato e sul programma socialista, non sono dunque che il completo svuotamento dell’una e dell’altra, per il ritorno ad una ipocrita gara di idee in nulla dissimile da quella decantata dalle peggiori propagande borghesi occidentali.
Il giro quindi si chiude come doveva: il sostenere una libertà ed una democrazia «interna alla classe» non serve che a ricadere in pieno nell’unica libertà e democrazia storicamente possibili prima della compiuta trasformazione comunistica della società: la democrazia e libertà borghesi. Che coincidono con la dittatura borghese, e mentre non lasciano gracchiare che le cornacchie, stroncano nella organizzazione rivoluzionaria, in primis et ante omnia, proprio la libertà di espressione.
Corre epoca sfavorevole alla classe proletaria, alla rivoluzione, ed al partito rivoluzionario. Ma le tre cose risorgeranno inseparabili, quando l’ora verrà. Urge per ora anche nel seno del piccolo movimento che noi siamo, stroncare le velleità e le nostalgie per questa dissolvitrice libertà di fesseria.
«Il Programma Comunista», n. 12 del 1953