La deformazione/reificazione dei rapporti sociali assume aspetti parossistici negli omicidi insensati compiuti dai serial killer, nel femminicidio, nelle uccisioni di infanti da parte di genitori, nel terrorismo, nella miriade di atti di violenza quotidiana innescati sulla base di futili motivi (precedenza al parcheggio, osservazioni pesanti sulla fidanzata…). In termini generali questa violenza diffusa è una figura “a-sociale” tipica della modernità, un cascame avvelenato di una società malata nel suo stesso fondamento esistenziale. La nostra ipotesi è la seguente: esiste una stretta correlazione fra l’anomia e la reificazione degli esseri umani nella contemporanea società capitalistica, e la violenza (in espansione) sugli esseri-cosa (quindi disumanizzati), che abitano il nostro mondo. Qualcuno obietterà che stiamo ripetendo le solite solfe sulle colpe della società. Per quanto ci riguarda non è così: noi sosteniamo che ci sono molteplici cause all’origine di ogni fenomeno sociale: si tratta quindi di capire e valutare il peso specifico dei diversi fattori in campo. Attribuire alla sola psicologia individuale, ai traumi personali, oppure ad eventuali caratteristiche genetiche familiari, la genesi di alcuni comportamenti patologici, appare un approccio restrittivo. Se non vogliamo scomodare il marxismo, esiste comunque un campo di studi denominato ‘psicologia sociale’, riconosciuto e accettato in campo scientifico, dunque perché escludere una interconnessione/coesistenza fra i due momenti (individuale e sociale) nella psicologia personale? Materialismo dialettico: se è vero che i comportamenti individuali si manifestano dentro un quadro sociale prestabilito, dunque i rapporti fra questi due elementi (individuale e sociale) non possono essere ignorati. E’ facilmente verificabile che ogni persona reagisce in modo parzialmente diverso a stimoli ambientali simili, tuttavia questa diversità è a sua volta graduabile in un arco di intensità variegato. L’esperienza ci insegna che esiste una elevata probabilità che si verifichino solo delle lievi differenze di risposta (di fronte a stimoli comuni), e non viceversa. Dunque torniamo alla domanda di partenza: è corretto, da un punto di vista scientifico, indagare sul grado di correlazione tra comportamento individuale e società? La domanda è retorica, lo stesso concetto di individuo è il frutto di un certo sviluppo storico-sociale, e a ben vedere la sua libertà di pensiero e di opinione è, in questa società, una pura impostura ideologica. Esistono varie tipologie di violenza diffuse nella società contemporanea, tuttavia l’elemento comune a tutti questi tipi è la separazione (estraneazione) del soggetto, o dei soggetti, su cui viene esercitata, da colui/coloro che la esercitano. La psicologia sociale utilizza il concetto chiave di cornice di riferimento, per tentare di spiegare certi comportamenti di massa in apparenza inspiegabili. Questo concetto esprime il grado di condizionamento di alcuni fattori generali, fuori dall’ordinario, sull’agire di determinati gruppi sociali. Pensiamo a fattori come la guerra, un derby calcistico, una catastrofe naturale. In questi casi l’agire sociale si manifesta dentro una cornice di riferimento (cioè di significato) differente da quella della vita normale. Si richiede al singolo, in questi casi, di essere forte e spietato, di combattere contro un nemico (umano o naturale), accantonando i comportamenti abituali, di routine. Dunque, mutando la cornice di riferimento sociale muta, in concomitanza con determinate situazioni di pericolo o emergenza, anche il significato (positivo/negativo) di alcuni comportamenti. Tale mutamento giustifica poi la sospensione della morale ordinaria, e lo scatenamento della violenza (socialmente accettata) su altre esistenze. Tuttavia la sospensione (dei precedenti paradigmi comportamentali) diventa possibile solo se non esiste un limite inviolabile alla violenza dell’uomo sull’uomo, quindi solo se (già all’origine) la società permette e prevede la violenza come elemento essenziale (regolatore) dei rapporti sociali. Non si parla di società in astratto, è chiaro, ma di organizzazioni sociali basate sulla violenza di classe. Le società divise in classi sono imperniate sulla violenza, questa violenza si esercita attraverso lo sfruttamento della classe dominata, e, a cascata, si riproduce nei vari ambiti di manifestazione della vita. La violenza originaria dello sfruttamento (e quindi la riduzione della vita umana a mezzo, cosa, strumento per il capitale ) è la matrice di ulteriori e derivate forme di violenza (in cui l’essere vivente può essere ferito, lacerato, torturato e infine ucciso, in quanto cosa, oggetto, mezzo, separato da un legame comunitario inscindibile con il suo agente distruttore). Lo scioglimento da un legame comunitario di reciproco riconoscimento, quindi l’estraneità, la mutua separazione, l’indifferenza, pongono in essere la riduzione dell’altro a strumento, trasformandolo infine in nemico da distruggere. La cornice di riferimento dell’agire sociale (in situazioni non di routine), fa da supporto e giustificazione alle azioni violente, portando la logica amico /nemico fino alle estreme conseguenze. Tuttavia bisogna domandarsi se questa logica (e la sua genealogia materiale nelle società di classe) non sia essa stessa il presupposto della violenza, e quindi se le diverse cornici di riferimento (ordinarie e straordinarie, routine e non routine) non esprimano altro che due momenti della stessa realtà: la realtà del rapporto schiavo/padrone, sfruttato /sfruttatore, nel suo dualismo di violenza latente o cinetica, potenziale o attuale.