Burghiba, le basi militari dell’imperialismo e la loro eliminazione

Nota redazionale: Nella nota relativa al precedente articolo dal titolo ‘Ad ognuno il suo mezzogiorno’, abbiamo rimarcato il collegamento fra il diverso grado di sviluppo dei territori e delle regioni all’interno dei confini nazionali di una economia capitalistica, e la diffusione di movimenti localistici, secessionisti, indipendentisti o addirittura a sfondo (in certe zone del mondo) religioso-fondamentalista. Sotto le appena menzionate bandiere, per noi marxisti, si celano i soliti interessi di bottega delle frazioni belligeranti di borghesia capitalistica (in questo caso  come rappresentanti  di aree sviluppate oppure sottosviluppate). Il fatto curioso che alcune forze politiche, di variegata derivazione ‘marxista’, intravedano nelle lotte tra frazioni borghesi, sorte sulla spinta di peculiari interessi economici radicati su base territoriale, una interessante occasione di progresso nella lotta di classe, non deve meravigliare. L’ideologia dominante è un fattore di condizionamento perfino delle analisi politiche di taluni ‘marxisti’, e poi abbiamo sempre saputo che l’abito non fa il monaco. L’articolo su ”Burghiba, le basi militari dell’imperialismo e la loro eliminazione” ha il pregio di analizzare una vicenda storica particolare, traendo da essa degli spunti generali di valutazione e previsione del divenire capitalistico.

Innanzitutto viene proposto, nel testo suindicato, un bilancio consuntivo del vasto movimento delle lotte anti-coloniali, un movimento che presentava le potenzialità di uno sviluppo diverso da quello realmente svoltosi: ”Su queste colonne abbiamo più Volte ripetuto che non solo non esistono diverse vie nazionali al socialismo, ma ne esiste una sola ed internazionale, e che il movimento anti-colonialista l’avrebbe presa, conformemente alla sua natura e alla sua tendenza profonda, se il proletariato avesse potuto dirigerlo. Solo la degenerazione dell’Internazionale Comunista ha permesso di sparpagliare in mille vie locali e nazionali una lotta anti-colonialista la cui spinta era tuttavia così unitaria da investire contemporaneamente e in modo irresistibile l’intera scena sociale dell’ultimo ventennio. Questo frazionamento e questa dispersione potevano andare solo a vantaggio dell’imperialismo delle metropoli ritardando un processo violento e consentendo di raggiungere soluzioni negoziate dopo prove di forza sanguinose” .

Dunque è stato lo sparpagliarsi in mille vie locali e nazionali (della) lotta anti-colonialista”’ (un dato di fatto in cui ha giocato un ruolo importante ”la degenerazione dell’Internazionale Comunista”)  che ha favorito ‘‘l’imperialismo delle metropoli”.

Le lotte locali e nazionali sono dunque qualificate, nel testo del 1964, senza equivoco alcuno, come fattore di vantaggio dell’imperialismo delle metropoli”, in quanto esse incarnano lo svilimento del movimento anti-colonialista (cioè della sua possibilità di intraprendere una via internazionale al socialismo, conformemente alla sua natura e alla sua tendenza profonda, se (solo) il proletariato avesse potuto dirigerlo”).

I moti anti-coloniali, nell’analisi del testo del 1964, per avere un significato socialista avrebbero dovuto travalicare l’orizzonte politico-sociale in cui furono invece ingabbiati: ”la direzione del moto avrebbe dovuto, come Lenin nel 1917, perseguire una seconda rivoluzione socialista, e prendere la guida delle masse contadine in rivolta. Avrebbe dovuto dire agli uomini lanciati all’assalto delle grandi proprietà coloniali non solo che se le tenessero, ma che espropriassero anche i compari tunisini dei coloni francesi, il che avrebbe voluto dire cacciare a pedate lo stesso Burghiba. I protagonisti del dramma sociale sarebbero allora stati il proletariato e le masse rurali espropriate e sotto-occupate che costituiscono il grosso della sovrappopolazione (o, in altri termini, della disoccupazione) prodotta dall’insieme del capitalismo mondiale”.

Tutto questo non è accaduto (sul piano storico), il livello energetico della classe proletaria (locale e internazionale) non è stato in grado di fare affluire sufficienti risorse (teoriche e pratiche) alla forma partito comunista, e quindi il movimento l’ha diretto (infine) la borghesia.

Morale della favola, non bisogna stupirsi se gli stati ‘indipendenti’ sorti sull’onda del movimento anti-coloniale, da buoni emuli degli antichi colonizzatori  ”si lancino in una guerra «folle» ai confini del loro paese non appena all’interno le masse danno segni di inquietudine; è parimenti normale che le operazioni «patriottiche» si fermino non appena le masse di «straccioni» cessano di tendere a un movimento autonomo capace di schierarle contro la borghesia nazionale e internazionale; è normale che il moto anti-colonialista si chiuda entro le frontiere di Stati nazionali in concorrenza reciproca, e non trovi il suo naturale sbocco di classe”.

Ecco dunque le considerazioni valide in via generale (di cui parlavamo all’inizio della nota), tratte dalle vicende particolari in oggetto: in altre parole quando il conflitto di classe proletario divampa è prevedibile che gli stati borghesi ”si lancino in una guerra «folle» ai confini del loro paese”, mentre ”non appena le masse di «straccioni» cessano di tendere a un movimento autonomo capace di schierarle contro la borghesia nazionale e internazionale”, allora viene meno anche l’esigenza di dirottare la protesta proletaria verso il nemico (ugualmente proletario) della nazione confinante. In questo schema interpretativo non è escluso il conflitto fra stati borghesi anche in assenza dei fattori di causa sopraindicati, perché si tratta comunque di Stati nazionali in concorrenza reciproca”, quindi in lotta per il controllo di risorse energetiche, vie commerciali e masse di produttori di plus-valore.

Abbiamo ritrovato e analizzato queste dinamiche anche nelle recenti vicende mediorientali (Libia, Iraq, Siria…), dove seppure in assenza di moti anti-coloniali, si sono manifestate delle forme di conflitto sociale connaturate al malessere sociale basico prodotto dal sistema capitalista. Nelle vicende mediorientali i moti endogeni emersi dal sottosuolo sociale non sono stati in grado di produrre una sufficiente energia cinetica anti-sistema, tale da metamorfizzarsi in una teoria e prassi adeguata a un reale cambiamento dei paradigmi economico-sociali. Di conseguenza le primavere arabe sono state funzionalizzate agli scontri infra-nazionali, nazionali e internazionali della borghesia (allo scopo del controllo di risorse energetiche, vie commerciali, masse di produttori di plus-valore e anche per orientare il conflitto sociale proletario nell’alveo della conservazione del sistema). Quando abbiamo esposto pubblicamente queste deduzioni, qualche ‘marxista’ creativo e innovatore ci ha tacciato di cospirazionismo(1), forse ignaro del fatto che le stesse deduzioni erano contenute in un articolo di ‘Programma Comunista’ del 1964: sic transit gloria mundi.

(1). E’ il caso di rammentare che in uno dei primi articoli pubblicati sul sito (‘Dalla guerra come difesa e offesa….) abbiamo ben precisato il doppio ruolo prevalente della guerra capitalistica: economico e politico.

I) Economico, in quanto funzionale alla distruzione del surplus di capitale costante e variabile (distruzione necessaria alla rigenerazione del ciclo di valorizzazione del capitale). 

II) Politico, in quanto funzionale alla disattivazione di unmovimento autonomo capace di (schierare le masse di straccioni) contro la borghesia nazionale e internazionale”; tale disattivazione è conseguita, di prassi, attraverso il riorientamento della protesta proletaria verso il nemico (ugualmente proletario) della nazione confinante, oppure verso un capro espiatorio interno (immigrati et similia), in base al sempiterno principio del ”divide et impera”.

 

 

Burghiba, le basi militari dell’imperialismo e la loro eliminazione

La stampa ufficiale francese e, di riflesso, quella italiana hanno finto d’essere sorprese della «iniziativa» di Burghiba per il «recupero» delle terre dei coloni stranieri in Tunisia. In realtà questo recupero ha una lunga storia, e in essa l’illustre presidente ha recitato la parte più del pompiere che dell’«aggressore». Non è solo vero che, come narra lo stesso giornalista sedicentemente «sorpreso» di «Le Monde» (12-5-64), fin dal 27 aprile Burghiba aveva proposto l’apertura di negoziati
«per risolvere su nuove basi il problema delle terre mediante il rapido incameramento delle terre dette di colonizzazione»;
è anche vero che, «con l’accordo del marzo 1963, il governo tunisino si era già impegnato a riscattare i beni degli agricoltori francesi in rate successive; un primo lotto di 150.000 h. (sui 600.000 «ereditati» dal protettorato!) era stato riscattato nel 1963; un secondo, di 50.000 ettari, doveva esserlo nel 1964», e i fondi versati agli ex coloni sarebbero stati pacificamente trasferibili in Francia, pronti per investirsi in fruttuose operazioni industriali o commerciali.

Il giornalista «sorpreso» dimentica d’altra parte di collegare il «recupero» delle terre coloniali con l’evacuazione della base di Biserta 1963, venuta a mancare la quale l’operazione «recupero» non ha più nulla del colpo di forza; è solo una mossa nel gioco di quei mercanteggiamenti internazionali e, se mai, di quei colpi di… teatro, in cui i leader delle nuove borghesie ex-coloniali si distinguono. Ma si tratta di una dimenticanza che, lungi dall’essere fortuita, prova come, malgrado gli «incomprensibili» scatti di ipocondria, Burghiba rimanga pur sempre l’amico della Francia, e, in ogni caso, non abbia nulla che vedere con le «violenze» commesse a danno dell’imperialismo francese in Tunisia o altrove. Perciò, anche a prescindere dalle misure di ritorsione che può sempre trovare il governo parigino, comitato di amministrazione generale degli interessi francesi (compresa l’eventuale sospensione dell’«aiuto» concesso nel quadro della «cooperazione» fra i due stati), si può essere certi che il «recupero» delle «terre di colonizzazione», nella misura in cui è una iniziativa di Burghiba, si concilierà perfettamente con gli interessi «superiori» della ex metropoli. D’altronde, lo sgombero di Biserta non è avvenuto nel corso stesso della prima operazione di riscatto (cioè di vendita e compera) di quelle terre?

Il punto è proprio qui: la faccenda dell’evacuazione della base di Biserta non sempre è stata un problema da regolare all’amichevole, e tutta la storia del moto anticoloniale tunisino dimostra che, se la sua direzione fosse sfuggita di mano a colui che si vanta d’essere il «capo supremo della rivoluzione tunisina», le cose sarebbero andate in tutt’altro modo: cioè, prima di tutto, le terre coloniali sarebbero state «recuperate» esattamente come se le erano prese i coloni francesi, cioè con la forza e senza mollare un quattrino; poi, sarebbero state distribuite a coloro che le avrebbero riconquistate, i contadini poveri (il che avrebbe provocato un terremoto sociale non solo in Tunisia, ma in tutta l’Africa del Nord); infine, e per conseguenza, la base navale di Biserta, non avendo più nulla da proteggere, sarebbe diventata automaticamente un pezzo di museo, e sarebbe stata sgombrata o fatta sgombrare in fretta e furia…

Non è un’ipotesi astratta: questa soluzione, l’unica vera, è stata sempre in filigrana nei moti tunisini degli ultimi 20 anni, e nessuno l’ha combattuta più aspramente, più sistematicamente e più direttamente, che Burghiba.

Funzione controrivoluzionaria

Su queste colonne abbiamo più Volte ripetuto che non solo non esistono diverse vie nazionali al socialismo, ma ne esiste una sola ed internazionale, e che il movimento anti-colonialista l’avrebbe presa, conformemente alla sua natura e alla sua tendenza profonda, se il proletariato avesse potuto dirigerlo. Solo la degenerazione dell’Internazionale Comunista ha permesso di sparpagliare in mille vie locali e nazionali una lotta anti-colonialista la cui spinta era tuttavia così unitaria da investire contemporaneamente e in modo irresistibile l’intera scena sociale dell’ultimo ventennio. Questo frazionamento e questa dispersione potevano andare solo a vantaggio dell’imperialismo delle metropoli ritardando un processo violento e consentendo di raggiungere soluzioni negoziate dopo prove di forza sanguinose, e di questo frazionamento il vero campione si può dire che sia stato proprio Burghiba, come dimostra tutta la sua politica nei confronti dei fellagha insorti nel suo paese prima ancora che insorgessero i loro fratelli di Marocco e di Algeria.

Nei nostri studi sugli sviluppi del moto algerino, abbiamo mostrato come tutta la controrivoluzione, imperialista e staliniana, si unisse allora per difendere e mantenere lo status quo sociale, e come, in questo gioco per salvare il salvabile, la sinistra francese spalleggiasse costantemente la destra alternandosi con essa al potere quando si trattava di riottenere in tutto o in parte, per mezzo di trattative (e sfruttando il ricatto delle minacce e delle accuse della destra), ciò che il cannone aveva perduto. Cosi, la firma dell’armistizio in Indocina (con la garanzia di Ciu-En-lai e l’avallo dell’osannante sinistra francese, lungi dall’essere una capitolazione, fu un salvataggio delle forze coloniali di repressione senza di cui l’Africa del Nord sarebbe rapidamente sfuggita di mano all’imperialismo bianco-rosso-blù; così pure, la Francia non sarebbe stata in grado condurre la guerra d’Algeria senza l’aiuto di Burghiba e della sua controfigura coronata del Marocco, e senza questo la sinistra francese non avrebbe potuto «capitolare» concedendo l’indipendenza alla Tunisia al momento giusto, cioè prima che i fellagha potessero sferrare azioni decisive.

È necessario ricordarlo nel momento in cui il «grande capo della rivoluzione tunisina» si prepara a recitare la parte del liquidatore delle «ultime radici» del colonialismo nel suo paese, ed è verosimile che la reciti proprio per guadagnarsi degli allori agli occhi delle masse contadine precedendo una loro minacciosa entrata in scena con mezzi violenti.

In quegli anni, deviando o spezzando un moto che si sarebbe potuto saldare a quelli del Marocco e dell’Algeria e renderli invincibili, Burghiba barattò la guerra santa contro la pace alla sola condizione dell’indipendenza formale o, in altri termini, della sua ascesa al potere. La finzione dell’indipendenza celava un tradimento inaudito: i francesi conservavano tutte le loro terre, cioè la metà circa del suolo coltivato. Ora, a questa forza economica francese la Tunisia indipendente non aveva da opporre nemmeno un’industria, e va da sé che, non disponendo che di una frazione minima delle risorse economiche nazionali e volendo riscattare le terre dei coloni, il governo doveva spremere all’inverosimile le masse ultra-misere senza per questo riuscire a sviluppare le basi di una economia industriale qualunque, con l’aggravante che le modalità di pagamento delle terre «recuperate», scaglionandolo su un periodo piuttosto lungo, danno alla proprietà fondiaria un netto vantaggio. La stampa reca ora che Burghiba ha lanciato un grande prestito «nazionale», destinato evidentemente ad essere sottoscritto dai pretendenti alle terre dei coloni stranieri. Ma chi impedirà agli ex proprietari di ritornare per questa via traversa sulle proprietà di un tempo, specie trattandosi di grandi società proprietarie che godono di solidi legami nel paese e dispongono di quattrini in abbondanza? Chi impedirà loro perfino di guadagnarci sopra, rivendendo più caro di quanto non abbiano speso per riacquistare il «perduto»? Comunque, Burghiba troverà ampia materia al compromesso, all’esercizio di una «abilità» e di una «diplomazia» consumate.

Biserta al centro della proprietà coloniale in Tunisia

L’ultimo contrattacco in grande stile del colonialismo europeo contro l’assalto anti-imperialista allora concentrato in Algeria fu la spedizione del governo repubblicano democratico e socialista di Guy Mollet, e dell’alleato governo conservatore di S. M. Britannica, contro l’Egitto: ed è noto che esso finì in una clamorosa batosta. Ma il fatto, se mostra all’evidenza il legame generale ed internazionale sia del moto anti-imperialista, che dello stesso imperialismo, se smaschera la sinistra democratica come più colonialista che la destra e ancor più aggressiva dell’O.A.S., indica altresì che il moto anti-coloniale avrebbe avuto allora delle possibilità eccezionali di radicalizzazione e di estensione e se non le sfruttò fu per l’intervento di un efficacissimo freno.

Burghiba non poteva allora impedire agli algerini residenti in Tunisia di raggrupparsi militarmente con le truppe dell’F.L.N, rifugiatesi nel territorio della Repubblica, tanto più che queste godevano la simpatia delle masse locali; il suo compito era un altro, quello di mantenerle nel quadro – e quindi nella prigione – della sovranità statale tunisina, ed egli lo assolse fino in fondo. È chiaro, per esempio, che episodi come quello di Sakhiet (in cui gli imperialisti francesi minacciarono di invadere la Tunisia, il che avrebbe provocato a breve scadenza una generale e irresistibile insurrezione di tutte le masse dell’Africa del Nord, e moltiplicato le difficoltà dei colonialisti in Algeria e le chances di sconfitta totale del colonialismo francese), servirono al presidente per frenare anziché promuovere le rivendicazioni delle sue masse rurali, e quindi, fra l’altro, consolidare invece di erodere la grande proprietà «straniera».

Ecco, allora, il gioco. Burghiba dichiara di preferire sempre l’«Occidente» e gli accordi all’amichevole, cioè i compromessi con l’imperialismo metropolitano; questi, in cambio, lo paga a spese delle masse popolari del Maghreb. In breve, da quando la sua influenza è preponderante, da quando la Tunisia è «libera», egli sfrutta i buoni rapporti con l’imperialismo a detrimento della lotta anti-coloniale sostenuta dalle masse arabe alla porta di casa, che pur finge di approvare; per lui (e non solo per lui) «indipendenza» e collaborazione con i governi costituiti sono due facce dello stesso capolavoro politico. Era soprattutto dopo il voluto fallimento dei negoziati franco-algerini di Melun, che gli insorti d’Algeri avevano bisogno della solidarietà popolare tunisina; e questa, spontaneamente, si mise in moto. Bisognava che il moto anti-colonialista rispondesse alle provocazioni francesi estendendo e intensificando i suoi attacchi; bisognava che completasse le offensive condotte dagli algerini nella stessa metropoli spingendole sino ai confini dell’Africa del Nord. Le masse tunisine lo compresero d’istinto, e generosamente si lanciarono all’assalto della fortezza militare di Biserta.

Da parte sua, Burghiba era certo che l’assalto dei duemila bracci nudi (o armati di semplici fucili, il che è lo stesso) si sarebbe concluso in uno scacco militare sanguinoso. Finì quindi per dare copertura ufficiale all’operazione, ben sapendo che questa, nelle sue mani, si sarebbe fermata al punto e al momento giusti, e che, soprattutto, il suo rapido esaurirsi avrebbe impedito alla solidarietà algerina di scendere in campo (è noto che i 50.000 soldati algerini accampati in Tunisia rappresentavano una forza ben superiore a quella di cui Burghiba disponeva).

La strategia di un movimento anti-colonialista rivoluzionario era, in quel caso, dettata dalla forza delle cose: non occorreva essere degli strateghi tipo… Mao per capirlo. Lanciare una folla armata rudimentalmente contro il punto forte di un nemico già dotato di un armamento infinitamente superiore, contro una fortezza irta di cannoni, mitragliatrici e congegni mobili, significa, dal punto di vista militare, votarla in partenza alla sconfitta: a meno di voler fare dei propri reparti una povera e indifesa carne da cannone. Bisogna, al contrario, attaccare il nemico nel punto più vulnerabile. Perché non si è scelta questa strategia, tanto ovvia per i marxisti, così tipica di quell’apparente ricorso alle soluzioni «meno estreme» in vista della preparazione di risultati ed obiettivi tanto vasti e generali che è l’alfa e l’omega della strategia rivoluzionaria di un Lenin? La risposta è chiara: perché le finalità e la direzione del movimento lo imprigionavano nel quadro assassino dell’ordine stabilito.

Per noi marxisti, una base militare non è una «cosa in sé» da prendere come tale. Ogni fortezza ha due facce: la sua realtà militare e il suo scopo politico (nel caso specifico: la difesa della proprietà francese in Tunisia), e queste due facce sono inseparabili. Già Stalin aveva negato per la classe proletaria quella doppia realtà del capitalismo per cui, dovunque è proprietà, ivi sono a difenderla un gendarme, un soldato, un giudice, un prete, ed è la proprietà a creare ed armare questi personaggi. Ma non l’aveva fatto a caso: pretendendo che le basi militari dell’imperialismo scomparissero sotto l’offensiva di militanti «comunisti» armati di… petizioni firmate da «tutto il popolo», piccolo-borghesi in testa, il generalissimo perseguiva il fine strategico di assicurare la demoralizzazione delle energie proletarie già accecate da una lunga degenerazione, e di garantire il trionfo della controrivoluzione, e quindi del capitalismo, non soltanto in Russia, ma nel mondo intero. Nel caso della Tunisia, sarebbe stato infinitamente più facile prendere Biserta «a rovescio», nel suo punto debole militare, nella sua giustificazione economica; cioè lanciando i contadini poveri e senza terra all’assalto delle tenute coloniali. Non è la prima volta che una violenza spettacolare basta a seminare il panico e la disperazione nei templi della dominazione capitalistica, prima di tutto nelle colonie. La forza militare concentrata a Biserta sarebbe stata travolta minandone con la violenza le basi economiche e sociali: imbelle «linea Maginot», non sarebbe stato neppure necessario perforarla per causarne il crollo. Ma, perché questa soluzione si realizzasse, mancava una premessa: la direzione del moto avrebbe dovuto, come Lenin nel 1917, perseguire una seconda rivoluzione socialista, e prendere la guida delle masse contadine in rivolta. Avrebbe dovuto dire agli uomini lanciati all’assalto delle grandi proprietà coloniali non solo che se le tenessero, ma che espropriassero anche i compari tunisini dei coloni francesi, il che avrebbe voluto dire cacciare a pedate lo stesso Burghiba. I protagonisti del dramma sociale sarebbero allora stati il proletariato e le masse rurali espropriate e sotto-occupate che costituiscono il grosso della sovrappopolazione (o, in altri termini, della disoccupazione) prodotta dall’insieme del capitalismo mondiale.

Ma gli interessi di queste masse erano e sono, in contrasto diretto con l’ordine borghese tanto di Burghiba in Tunisia quanto dei suoi colleghi altrove; ed è appunto il carattere borghese della direzione del moto anti-coloniale che spiega l’apparente «enigma» Burghiba, cioè i compromessi e i mercanteggiamenti col capitalismo e l’imperialismo ai quali si abbandonano tutti gli Stati resisi indipendenti. Giunti alla mèta borghese che si erano prefissi, Hassan del Marocco e Ben Bella d’Algeria hanno fatto nulla di diverso da Burghiba? È quindi normale che Krusciov prometta loro un appoggio (!?) che aveva negato – per ammissione dello stesso FLN ora al governo – durante la lotta delle masse proletarie e semi-proletarie algerine; è normale che gli stessi Ben Bella e Hassan si lancino in una guerra «folle» ai confini del loro paese non appena all’interno le masse danno segni di inquietudine; è parimenti normale che le operazioni «patriottiche» si fermino non appena le masse di «straccioni» cessano di tendere a un movimento autonomo capace di schierarle contro la borghesia nazionale e internazionale; è normale che il moto anti-colonialista si chiuda entro le frontiere di Stati nazionali in concorrenza reciproca, e non trovi il suo naturale sbocco di classe. Burghiba raccoglie oggi gli allori della sua politica passata: si acquista falsi meriti all’interno e spiana il terreno a nuovi e schifosi patteggiamenti all’estero.

«Programma Comunista», 1 giugno 1964, n. 11

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