A ciascuno il suo Mezzogiorno

Nota redazionale: Nel 1964 non era semplice andare controcorrente e sostenere, dati alla mano, che l’economia ‘sovietica’ non aveva proprio nulla di socialista. Chi si accollava tale compito era destinato ad essere una voce fuori dal coro dominante ( poiché tale coro era condiviso sia dai critici del ‘comunismo’ sovietico, che dai sostenitori dello stesso). Ancora oggi, anno 2017, non sono pochi, anche nel campo del pensiero politico e della cultura marxista, a ritenere che in Russia (ma anche in Cina) stessero proprio costruendo il ‘socialismo’. Uno strano socialismo però, guarda caso afflitto dagli stessi ‘problemi’ economici e sociali del capitalismo, come appare dimostrato dalle righe contenute nelle riviste economiche ‘sovietiche’ di quel periodo: ad esempio nel nr. 34 del 1963 della «Economiceskaia Gaseta» troviamo scrittoLa irrazionale ripartizione delle aziende di trasformazione del petrolio porta inevitabilmente a costi di trasporto irrazionali”.

Dunque ecco la prova dell’esistenza dell’anarchia produttiva e distributiva, invece del millantato socialismo reale, ossessivamente propagandato dagli epigoni dello stalinismo fino alla nausea. Il dirigismo statale, i piani quinquennali ‘sovietici’, ma anche la ‘programmazione economica’ attuata a ciclo continuo dai governi dichiaratamente liberisti (a dispetto di ogni proclama di ‘deregulation’ e ‘laissez faire’) non possono scalfire di un millimetro le leggi dell’economia capitalistica, e infatti, di conseguenza, non appare strano che  ”l’economia russa sia soggetta a determinate leggi che i «dirigenti» non riescono affatto a «dirigere», ma possono solo constatare a posteriori levando appena un timido grido di sorpresa per un risultato non atteso e meno ancora voluto; e queste leggi non sono né nuove né particolari della Russia, perché, come ripetutamente e in studi più impegnativi abbiamo dimostrato, sono quelle del capitalismo classico, che si sviluppa in base all’imperativo categorico del: produci dove puoi ben guadagnare!”

Gli investimenti di capitale non seguono, in ultima istanza, gli schemi preordinati dai piani o dalla programmazione economica dei governi, a meno che, beninteso, tali piani e programmazioni non vadano incontro ai ‘basic instinct’ dell’economia borghese, cioè alla fame da lupo di plus-lavoro del capitale (e in effetti è proprio quello che sempre accade).  

Al di là delle menzogne e delle favole per bambini sempre disponibili per gli allocchi, il testo della nostra corrente del 1964 dice a chiare lettere che:È chiaro: dove la base produttiva è costituita dall’azienda, che cura il proprio interesse, l’obiettivo sarà quello di produrre e vendere il più possibile, alle condizioni economiche migliori possibili e in tutti i territori possibili, in concorrenza con le altre aziende”.

Sono le necessità del profitto aziendale, e quindi il contenimento dei costi di produzione, commerciali, amministrativi, fiscali e contributivi a guidare la ‘ratio’ capitalistica dell’organismo azienda, nella lotta per la concorrenza e la conquista dei mercati. L’anarchia della produzione, sostenuta come fenomeno reale dalla nostra corrente nel 1964, a dispetto di ogni errata comprensione del parallelo fenomeno della centralizzazione dei capitali, costituisce l’ostacolo ad ogni pretesa efficacia dei piani e delle programmazioni economiche ( a meno di non essere consapevoli della vera funzione di questi ultimi, cioè la funzione di semplici strumenti di facilitazione dei processi capitalistici guidati dalla legge del profitto). Nel corso del suo sviluppo il ‘mostro’ economico-sociale capitalistico crea delle sempre maggiori disparità (diseguaglianze) nel tenore di vita della popolazione, sullo sfondo della legge della miseria crescente, e delle collegate differenziazioni nel grado di crescita economica dei territori, regioni, aree, nazioni: ” E poiché ogni regione rappresenta un complesso produttivo a se stante con a capo un suo Sovnarchos, dopo le aziende saranno le stesse regioni a entrare in concorrenza fra di loro – Tomsk contro Estremo Oriente e viceversa – e avranno aspetti differenti l’una dall’altra, cioè floridi se riescono a produrre a costi di produzione bassi (per ragioni naturali e per disponibilità di forze produttive), e stentati, rachitici, da «Mezzogiorno sovietico», se producono a costi elevati. E allora si strilla che la «cattiva ripartizione delle singole aziende e gli irrazionali rapporti di produzione fra distretti recano gravi perdite all’economia nazionale, specialmente nei trasporti». Ma che cos’è tutto ciò se non il fenomeno comune a tutti i paesi che si industrializzano, cioè che impiantano la forma di produzione capitalistica? È la concentrazione dell’industria in zone «redditizie» e a danno di quelle che offrono prospettive di redditibilità meno favorevoli, e queste ultime non solo rimangono indietro alle prime – e magari sono costrette a pagare di più, a causa delle spese di trasporto, beni che potrebbero produrre in loco, -ma decadono a ritmo accelerato, cioè diventano sempre più sottosviluppate. La formazione di aree sottosviluppate si riscontra infatti non solo da una regione all’altra, ma nell’ambito della stessa regione.”

Storicamente le regioni economicamente più sviluppate di una nazione, o addirittura le aree di una regione, tendono a perseguire i propri interessi capitalistici (anche) attraverso la richiesta ‘politica’ di secessione, autonomia regionale, federalismo, et similia. 

Tali richieste, che per semplicità semantica sintetizzeremo nel vetusto termine ‘questione nazionale’, hanno spesso tratto in inganno anche dei ‘brillanti’ marxisti, alcuni dei quali tutt’oggi persuasi che appoggiare una frazione di borghesia locale rampante contro una opposta frazione arrancante costituisca una mossa furba sullo scacchiere della lotta di classe.

Lo ripetiamo (soprattutto a questi candidi e inguaribili sognatori): sotto le contemporanee bandiere etnicistiche, fondamentaliste, nazionaliste-sovraniste, secessionistiche, si celano solo le leggi del divenire capitalistico, l’interesse mercantile, il profitto, perché in un’economia mercantile, gli organi amministrativi sono gli strumenti degli interessi dominanti, anche locali, anche aziendali; non è la società che detta legge alle sue membra armoniche per il bene del complesso dell’organismo sociale unico; sono le membra caotiche ed anarchiche che impongono ciascuna la sua legge ad una società disarticolata”. 

 

A ciascuno il suo Mezzogiorno

Non si creda che il grido sulla necessità di una «razionale ripartizione geografica delle forze produttive, importante premessa allo sviluppo economico del Paese», si levi soltanto dalle terre «benedette» del capitalismo tradizionale: quel grido è il titolo di uno studio apparso sul nr. 34 del 1963 della «Economiceskaia Gaseta», organo teorico di quella che pretende di essere un’«economia socialista»: l’economia russa. Vi si legge una critica (s’intende «costruttiva») della suddivisione delle forze produttive fra le diverse località; in altre parole, vi si mette involontariamente in evidenza come lo sviluppo della economia russa sia soggetta a determinate leggi che i «dirigenti» non riescono affatto a «dirigere», ma possono solo constatare a posteriori levando appena un timido grido di sorpresa per un risultato non atteso e meno ancora voluto; e queste leggi non sono né nuove né particolari della Russia, perché, come ripetutamente e in studi più impegnativi abbiamo dimostrato, sono quelle del capitalismo classico, che si sviluppa in base all’imperativo categorico del: produci dove puoi ben guadagnare!

Dalla lettura dell’articolo, infatti, emergono una volta di più, in rapporto all’URSS, due caratteri propri dell’economia capitalistica: l’anarchia della produzione, e l’incapacità, derivata dalla prima, di utilizzare razionalmente le risorse produttive neppure con sedicenti «piani razionali». Ci troviamo insomma di fronte a un aspetto di quello sviluppo diseguale, che nel mondo capitalista vige non solo su scala internazionale, dove paesi industrializzati a forte concentrazione stanno gomito a gomito con poverelli sottosviluppati, ma anche su scala nazionale, nel senso che ogni paese capitalista ha il suo «Mezzogiorno», più o meno grande, più o meno «vergognoso».

L’investimento di capitale non ubbidisce a sentimentalismi: dove trova un terreno adatto, li si avvinghia, richiamando altri capitali che a poco a poco vi si affollano per dividersi il bottino. La terra intorno, prima coltivata e tranquilla, vede nascere – oh scempio! – lunghi moccoloni fumiganti; l’aria un tempo pulita la si indovina ormai solo dietro una cortina di fumo, simbolo della marcia avanzante del progresso. Un’attività febbrile ha inizio: è la concentrazione che sta per avverarsi – a danno di altre zone e dell’intera rete di approvvigionamento del paese.

«Nella regione del Volga – scrive l’autore – l’industria petrolifera e quella dei cuscinetti a sfere hanno registrato uno sviluppo ipertrofico. Qui, comprendendo la Baschiria, sono concentrati il 38 per cento della produzione di cuscinetti a sfere dell’Unione, e una parte notevole della lavorazione preliminare del petrolio grezzo. La irrazionale ripartizione delle aziende di trasformazione del petrolio porta inevitabilmente a costi di trasporto irrazionali. Singoli prodotti petroliferi vengono trasportati di qui nell’Estremo Oriente, nei distretti orientali della Siberia o nella regione di Murmansk. Il fenomeno, purtroppo, non è osservabile solo nel caso del petrolio. Oggi, si trasporta carbone da Kisel a 2.000 km., da Peciora fino ai distretti centrali, mentre sull’altro binario viaggia il carbone del bacino del Donez e della regione del Volga».

Che cos’è, questa, se non anarchia produttiva e perciò distributiva?

Ma il fenomeno non si ferma qui. Per esempio, i costi di trasporto della birra prodotta nella RSFSR e in Ucraina assommano, per effetto dell’irrazionalità della distribuzione geografica dei centri di produzione, a 5 milioni di rubli. Nel 1961, 1,4 milioni di tonnellate di legname vennero spedite nel Kasakstan, nella Siberia e nell’Asia Centrale sovietica: ma a Karaganda 1 metro cubo di traversine per ferrovia in provenienza dall’Estremo Oriente costa 15 rubli e 57 copechi mentre costa 6 rubli e 13 copechi in provenienza dalla regione di Tomsk.

È chiaro: dove la base produttiva è costituita dall’azienda, che cura il proprio interesse, l’obiettivo sarà quello di produrre e vendere il più possibile, alle condizioni economiche migliori possibili e in tutti i territori possibili, in concorrenza con le altre aziende. E poiché ogni regione rappresenta un complesso produttivo a se stante con a capo un suo Sovnarchos, dopo le aziende saranno le stesse regioni a entrare in concorrenza fra di loro – Tomsk contro Estremo Oriente e viceversa – e avranno aspetti differenti l’una dall’altra, cioè floridi se riescono a produrre a costi di produzione bassi (per ragioni naturali e per disponibilità di forze produttive), e stentati, rachitici, da «Mezzogiorno sovietico», se producono a costi elevati. E allora si strilla che la «cattiva ripartizione delle singole aziende e gli irrazionali rapporti di produzione fra distretti recano gravi perdite all’economia nazionale, specialmente nei trasporti». Ma che cos’è tutto ciò se non il fenomeno comune a tutti i paesi che si industrializzano, cioè che impiantano la forma di produzione capitalistica? È la concentrazione dell’industria in zone «redditizie» e a danno di quelle che offrono prospettive di redditibilità meno favorevoli, e queste ultime non solo rimangono indietro alle prime – e magari sono costrette a pagare di più, a causa delle spese di trasporto, beni che potrebbero produrre in loco, -ma decadono a ritmo accelerato, cioè diventano sempre più sottosviluppate. La formazione di aree sottosviluppate si riscontra infatti non solo da una regione all’altra, ma nell’ambito della stessa regione.

«Da noi si è formata una situazione per cui le aziende industriali vengono installate nei grandi centri regionali (all’incirca in 25-27 centri), mentre molte piccole città, che dispongono di un fondo di abitazioni e di forze lavoro [salariati o salariabili], vengono sviluppate insufficientemente dal punto di vista industriale».

Il contraccolpo di questo fenomeno è la formazione di «sacche» di disoccupazione che aggravano lo squilibrio fra la città e i distretti di campagna e provocano una fuga ininterrotta verso i centri urbani ad alta concentrazione industriale.

«Secondo comunicazione dei collaboratori scientifici dell’Accademia delle Scienze della Repubblica Socialista Lettone, B. Meshgajlis e O. Buka, le forze lavoro vengono utilizzate in modo molto insufficiente nelle piccole e medie città della Lettonia. Della popolazione in grado di lavorare di Daugavpils il 26 per cento lavora nell’industria; a Resekua il 20 %, mentre in città come Karsava, Viljani, Silupe la percentuale è del 10 %. Allo stesso tempo a Riga continua la concentrazione, dove già ora si produce una parte notevole della produzione totale della repubblica». (Dove va a finire la soluzione del contrasto fra città e campagna?) «Dislivelli si possono osservare anche nella ripartizione della produzione agricola».

I due autori hanno anche mostrato che la Lettonia si presterebbe molto bene ad una ripartizione razionale dell’industria in quanto le cittadine sono distribuite a poca distanza una dall’altra e con buoni collegamenti e dispongono di superfici adatte alla costruzione di edifici sia per case che per fabbriche, luoghi pubblici, ecc.

Come risulta dai rapporti della Unione degli Economisti («Delovoj club») anche altri centri geografici presentano analoghe condizioni favorevoli; tuttavia non ha sosta lo sviluppo dei grandi centri come Mosca, Leningrado, Kiev, sebbene in essi la costruzione di nuovi edifici sia proibita («Le mani sulla città?»). Nella seduta del «Delevoj club» è risultato che «per esempio a Voronesh viene prodotta una grande parte della produzione globale regionale, mentre contemporaneamente, città come Borisglebsk, Liski, Rossosh, ecc., dove oltre il 20 per cento della popolazione in grado di lavorare non lavora, non si sviluppano industrialmente». (È questa la realizzazione del principio, che si vanta in vigore in Russia, secondo cui ciascuno riceve secondo la sua prestazione? E chi non lavora, perché lo sviluppo economico non glielo consente, che cosa riceve?). Altri critici rilevano come lo sviluppo preponderante dell’industria pesante in certe aree a danno di quella leggera e alimentare (per esempio nella Transcaucasia) «liberi» una manodopera femminile che rimane perennemente «inutilizzata», cioè sul lastrico.

Potremmo continuare, ma quanto abbiamo riferito basta a definire un quadro ben noto a chi, per esempio, conosca il nostro Mezzogiorno: sono le stesse pubblicazioni ufficiali a documentare il crescente squilibrio fra Nord e Sud, fra aree a capitalismo sviluppato e aree «depresse». La produzione non risponde a fini sociali, non è determinata da considerazioni di utilità umana e collettiva, non si distribuisce secondo criteri di bisogno, non circola sotto forma di entità fisiche destinate a soddisfare esigenze fisiche e non fisiche, non si distende in modo armonico sull’estensione del paese: conosce una legge sola, quella del profitto; parte dall’azienda e vi ritorna: come merce, non come valore d’uso, nel primo caso, come equivalente monetario della merce e come realizzazione di plusvalore nel secondo.

L’illusione dei «critici» del sistema è che a questo stato di fatto si rimedi e si possa rimediare con una «pianificazione razionale». È l’illusione di tutti i creatori di Casse del Mezzogiorno di tutti i paesi del mondo; ma quale razionalità si può introdurre, in un apparato produttivo di cui si subiscono le leggi? Gli autori dell’articolo citato, per esempio, chiedono che le autorità compongano un elenco delle aziende di «effettiva economicità» (cioè che «rendono» dal punto di vista del bilancio aziendale di entrata e di uscita) e «che si adattino all’installazione nei distretti in cui sono disponibili forze di lavoro libere» (cioè disoccupate). Ma, quand’anche questa installazione avvenisse, il risultato sarebbe di creare nuove tensioni regionali fra distretto e distretto, nuove concorrenze fra unità produttive, e alla fine il bilancio sarà che il modo «più economico» (dal punto di vista sempre della redditibilità capitalistica) di utilizzare le forze di lavoro «libere» è di lasciarle tranquillamente attirare ed assorbire dalle aree già sviluppate e sovraindustrializzate. Non è un’esperienza italiana che mai come da quando esiste una Cassa del Mezzogiorno, con relativa «pianificazione razionale dell’impiego delle forze produttive», c’è stata e c’è un’emorragia di forze-lavoro dalle aree che si pretendeva di favorire verso quelle già favorite? Un ingenuo compagno, si legge nell’articolo sovietico, ha protestato perchè «gli organi di pianificazione, specialmente quelli del Gosplan dell’URSS, non esercitano uno stretto controllo sui complessi industriali e talvolta non impediscono il modo di fare campanilistico dei Sovnarchos nella ripartizione delle industrie per località »: ma in un’economia mercantile, gli organi amministrativi sono gli strumenti degli interessi dominanti, anche locali, anche aziendali; non è la società che detta legge alle sue membra armoniche per il bene del complesso dell’organismo sociale unico; sono le membra caotiche ed anarchiche che impongono ciascuna la sua legge ad una società disarticolata.

Come si chiama una società del genere? Si chiama: capitalismo.

«Il Programma Comunista», 4-18 gennaio 1964, N.1, p.1-2

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