Giornate capitalistiche: Governance e sfida della crescita (tenere i conti a posto e contemporaneamente accompagnare la crescita)

Giornate capitalistiche: Governance e sfida della crescita (tenere i conti a posto e contemporaneamente accompagnare la crescita)

Premessa

Non ha molta importanza nominare l’autore/declamatore delle formule contenute nel titolo, potrebbe trattarsi di uno dei tanti amministratori politici dell’economia capitalistica (o di un giornalista, di un accademico, o addirittura di un uomo della strada che chiacchiera al bar). La formula (stereotipata) è suddivisa in due parti tendenzialmente inconciliabili: conti a posto e crescita.

L’obiettivo dei conti a posto implica, da molti decenni, la successiva richiesta (da parte degli amministratori politici di turno) di ‘inevitabili sacrifici’ ai ‘cittadini’.

Perché tutto questo debba accadere (ed essere accettato senza proteste) viene spiegato in modo altrettanto stereotipato dalla solita sequenza di amministratori, giornalisti, studiosi, comuni cittadini: Il sacrificio serve a risanare i conti pubblici, quindi a diminuire il peso del debito pubblico, delle famiglie e delle imprese in Italia, in vista del ritorno alla crescita economica e all’agognato ‘benessere’.

Nel seguito del presente articolo cercheremo di analizzare il significato ‘concreto’ di questo ‘mantra’ ideologico, cioè le sue conseguenze operative sul piano socio economico, e quindi la sua natura di quadro narrativo funzionale allo svolgimento delle ‘leggi’ tendenziali dell’economia capitalistica.

 

Parte prima: Sacrificium

Flautate voci del capitale richiedono sacrifici alle moltitudini, quasi sospinte da echi di lontani rituali religiosi, ma cosa significa ‘etimologicamente’ la parola sacrificio? Sacrificio deriva dal latinosacrum facere’, in altre parole rendere sacro. In origine è un atto religioso, che implica la rinuncia di un bene, o addirittura di se stessi, a vantaggio di una (presunta) entità posta su un piano superiore a quello umano. Dunque l’atto sacro della rinuncia, alienazione potremmo dire, di un bene o della propria vita, svolge la funzione di collegamento fra il piano umano e un presunto piano sovrumano. Nel ‘Saggio sulla natura e la funzione del sacrificio’, i due sociologi Mauss e Hubert attribuiscono al sacrificio la natura di mezzo per instaurare un collegamento fra il sacro e il profano. Secondo questi due studiosi l’animale sacrificale (o anche una vittima sacrificale umana) sono un ponte fra il sacro e il profano. Pensiamo che sia sintomatico, ai fini dello svelamento della attuale condizione strumentale delle classi oppresse (vittima sacrificale della fame da lupi di plus-lavoro del capitale), la continua reiterazione del termine ‘sacrificio’ da parte degli amministratori politici del sistema. Verrebbe da concludere che la persistenza di sovrastrutture ideologiche (di tipo religioso sacrificale), appartenute a precedenti società classiste, si manifesti inconsapevolmente anche nelle continue e stereotipate richieste di ‘sacrifici’ per far ripartire l’economia, proclamate dai soliti pifferai del capitale.

Le richieste di sacrifici vengono rivolte, spudoratamente, a un corpo sociale formato anche da una consistente e crescente sovrappopolazione relativa. Vediamo dunque più da vicino il significato di questo fenomeno socio-economico.


Marx. FORME DIFFERENTI DI ESISTENZA DELLA SOVRAPPOPOLAZIONE RELATIVA. LA LEGGE GENERALE DELL’ACCUMULAZIONE CAPITALISTICA.

La sovrappopolazione relativa esiste in tutte le sfumature possibili. Ne fa parte ogni operaio durante il periodo in cui è occupato a metà o non è occupato affatto. Fatta astrazione dalle grandi forme, che si ripresentano periodicamente, che le imprime l’alternarsi delle fasi del ciclo industriale in modo che essa appaia ora acuta al momento delle crisi, ora cronica in epoca di affari fiacchi, essa ha ininterrottamente tre forme: fluida, latente e stagnante.

Nei centri dell’industria moderna — fabbriche, manifatture, ferriere e miniere ecc. — gli operai sono ora respinti, ora di nuovo attratti in massa maggiore, cosicché in complesso il numero degli operai occupati aumenta, seppur in proporzione costantemente decrescente della scala di produzione. La sovrappopolazione esiste qui in forma fluttuante.

Tanto nelle fabbriche vere e proprie quanto in tutte le grandi officine, in cui entrino come fattore le macchine o sia semplicemente attuata la moderna divisione del lavoro, si fa uso in massa di operai maschi fino al momento in cui essi abbiano compiuto l’età giovanile. Una volta raggiunto questo termine, soltanto un numero molto esiguo rimane usabile nei medesimi rami d’industria, mentre la maggioranza viene regolarmente licenziata. Essa costituisce un elemento della sovrappopolazione fluida il quale cresce col crescere dell’estensione dell’industria. Una parte di essa emigra e in realtà non fa che seguire il capitale emigrante. Ne consegue che la popolazione femminile aumenta più rapidamente di quella maschile, teste l’Inghilterra. Il fatto che l’aumento naturale della massa operaia non saturi i bisogni di accumulazione del capitale e tuttavia li superi al tempo stesso, costituisce una contraddizione del movimento stesso del capitale. Esso abbisogna di maggiori masse di operai di età giovanile, di masse minori di operai in età virile. La contraddizione non è più stridente di quest’altra, che cioè in uno stesso periodo di tempo si lamenti la mancanza di braccia e molte migliaia si trovino sul lastrico, perché la divisione del lavoro li incatena a un determinato ramo d’industria. Il consumo della forza-lavoro da parte del capitale è inoltre talmente rapido che l’operaio di età media nella maggioranza dei casi è già più o meno alla fine della sua vita. Egli precipita nelle file degli operai in soprannumero oppure viene spinto da un grado più in alto a un grado più in basso. Per l’appunto fra gli operai della grande industria incontriamo la più breve durata di vita. « Il dott. Lee, funzionario dell’Ufficio d’igiene di Manchester, ha constatato che in quella città la durata media della vita è di 38 anni per la classe benestante e di soli 17 per la classe operaia. A Liverpool la durata media è di 35 anni per la prima, di 15 per la seconda. Ne consegue dunque che la classe privilegiata ha un titolo di credito sulla vita (have a lease of life) più che doppio di quello dei suoi concittadini meno favoriti». In queste condizioni l’aumento assoluto di questa frazione del proletariato richiede una forma che ingrossi il suo numero, benché i suoi elementi si consumino presto. Dunque, si ha un rapido darsi il cambio delle generazioni operaie (La stessa legge non ha vigore per le altre classi della popolazione). Questo bisogno sociale viene soddisfatto mediante matrimoni contratti in età giovanile, conseguenza necessaria delle condizioni in cui vivono gli operai della grande industria, e mediante il premio che lo sfruttamento dei figli degli operai assegna alla loro produzione.

Non appena la produzione capitalistica si è impadronita dell’agricoltura ossia nel grado in cui se ne è impadronita, la domanda di popolazione operaia agricola diminuisce in via assoluta mano a mano che vi aumenta l’accumulazione del capitale in funzione, senza che la sua ripulsione, come anche nell’industria non agricola, venga integrata da una maggiore attrazione. Una parte della popolazione rurale si trova quindi costantemente sul punto di passare fra il proletariato urbano o il proletariato delle manifatture, e in agguato per acciuffare le circostanze favorevoli a questa trasformazione (Manifattura qui nel senso di ogni industria non agricola). Questa fonte della sovrappopolazione relativa fluisce dunque costantemente. Ma il suo costante flusso verso le città presuppone nelle stesse campagne una sovrappopolazione costantemente latente il cui volume si fa visibile solo nel momento in cui i canali di deflusso si schiudono in maniera eccezionalmente larga. L’operaio agricolo viene perciò depresso al minimo del salario e si trova sempre con un piede dentro la palude del pauperismo.

La terza categoria della sovrappopolazione relativa, quella stagnante, costituisce una parte dell’esercito operaio attivo, ma con un’occupazione assolutamente irregolare. Essa offre in tal modo al capitale un serbatoio inesauribile di forza-lavoro disponibile. Le sue condizioni di vita scendono al di sotto del livello medio normale della classe operaia, e proprio questo ne fa la larga base di particolari rami di sfruttamento del capitale. Le sue caratteristiche sono: massimo di tempo di lavoro e minimo di salario. Abbiamo già fatto la conoscenza della sua forma principale nella rubrica del lavoro a domicilio. Essa prende le proprie reclute ininterrottamente fra gli operai in soprannumero della grande industria e della grande agricoltura, e specialmente anche fra quelli dei rami industriali in rovina nei quali l’esercizio artigianale soccombe alla manifattura e quest’ultima soccombe alle macchine. Il suo volume si estende allo stesso modo che con il volume e con l’energia dell’accumulazione progredisce la « messa in soprannumero ». Ma essa costituisce allo stesso tempo un elemento della classe operaia che si riproduce e che si perpetua e che in proporzione partecipa all’aumento complessivo della classe operaia in misura maggiore che non gli altri suoi elementi. Effettivamente non soltanto la massa delle nascite e dei decessi, ma anche la grandezza assoluta delle famiglie è in proporzione inversa del livello del salario, quindi della massa dei mezzi di sussistenza, di cui dispongono le differenti categorie operaie. Questa legge della società capitalistica suonerebbe assurda fra i selvaggi o anche fra colonizzatori inciviliti. Essa ricorda la riproduzione in massa di alcune specie di animali individualmente deboli e spietatamente cacciati.

Il sedimento più basso della sovrappopolazione relativa alberga infine nella sfera del pauperismo. Astrazione fatta da vagabondi, delinquenti, prostitute, in breve dal sottoproletariato propriamente detto, questo strato sociale consiste di tre categorie.

Prima: persone capaci di lavorare. Basta guardare anche superficialmente le statistiche del pauperismo inglese per trovare che la sua massa si ingrossa ad ogni crisi e diminuisce ad ogni ripresa degli affari.

Seconda: orfani e figli di poveri. Sono i candidati dell’esercito industriale di riserva e, in epoche di grande slancio, come nel 1860 per esempio, vengono arruolati rapidamente e in massa nell’esercito operaio attivo.

Terza: gente finita male, incanaglita, incapace di lavorare. Si tratta specialmente di individui che sono mandati in rovina dalla mancanza di mobilità causata dalla divisione del lavoro, individui che superano l’età normale di un operaio, infine le vittime dell’industria, il cui numero cresce con il crescere del macchinario pericoloso, dello sfruttamento delle miniere, delle fabbriche chimiche ecc., mutilati, malati, vedove ecc. Il pauperismo costituisce il ricovero degli invalidi dell’esercito operaio attivo e il peso morto dell’esercito industriale di riserva. La sua produzione è compresa nella produzione della sovrappopolazione relativa, la sua necessità nella necessità di questa; insieme con questa il pauperismo costituisce una condizione d’esistenza della produzione capitalistica e dello sviluppo della ricchezza. Esso rientra nei faux frais della produzione capitalistica, che il capitale sa però respingere in gran parte da sé addossandoli alla classe operaia e alla piccola classe media.

Quanto maggiori sono la ricchezza sociale, il capitale in funzione, il volume e l’energia del suo aumento, quindi anche la grandezza assoluta del proletariato e la forza produttiva del suo lavoro, tanto maggiore è l’esercito industriale di riserva. La forza-lavoro disponibile è sviluppata dalle stesse cause che sviluppano la forza d’espansione del capitale. La grandezza proporzionale dell’esercito industriale di riserva cresce dunque insieme con le potenze della ricchezza. Ma quanto maggiore sarà questo esercito di riserva in rapporto all’esercito operaio attivo, tanto più in massa si consoliderà la sovrappopolazione la cui miseria è in proporzione inversa del tormento del suo lavoro. Quanto maggiori infine lo strato dei Lazzari della classe operaia e l’esercito industriale di riserva tanto maggiore il pauperismo ufficiale.IL CAPITALE LIBRO I SEZIONE VII IL PROCESSO DI ACCUMULAZIONE DEL CAPITALE CAPITOLO 23 LA LEGGE GENERALE DELL’ACCUMULAZIONE CAPITALISTICA”.

 

Soffermiamoci su questo passaggio finale: ”Quanto maggiori sono la ricchezza sociale, il capitale in funzione, il volume e l’energia del suo aumento, quindi anche la grandezza assoluta del proletariato e la forza produttiva del suo lavoro, tanto maggiore è l’esercito industriale di riserva.”

L’esercito industriale di riserva cresce dunque in relazione diretta alle variazioni in aumento della ricchezza sociale e del capitale in funzione, esso dipende in ultima istanza dalla variazione ‘storica’ della composizione tecnica del capitale aziendale investito nei processi economici, cioè dall’aumento della parte costante a discapito della parte variabile. Le politiche economiche e fiscali degli stati capitalistici (i sacrifici) non possono fare altro che assecondare l’aumento dello sfruttamento (sul piano estensivo e intensivo) della forza-lavoro; un aumento richiesto dall’esigenza di limitare gli effetti della caduta del saggio medio di profitto (caduta a sua volta determinata dalla riduzione reale e percentuale della parte variabile -lavoro salariato- rispetto alla parte costante del capitale impiegato). Questo ultimo aspetto si spiega con il fatto che il lavoro salariato è la fonte ultima della creazione di valore e di plus-valore, creazione indispensabile per perpetuare la riproduzione allargata del capitale, cioè la riproduzione e l’incremento del capitale investito.

La terza categoria della sovrappopolazione (quella stagnante) presenta dei tratti particolari, essacostituisce una parte dell’esercito operaio attivo, ma con un’occupazione assolutamente irregolare”, dunque le ‘‘sue condizioni di vita scendono al di sotto del livello medio normale della classe operaia, e proprio questo ne fa la larga base di particolari rami di sfruttamento del capitale”. ”Abbiamo già fatto la conoscenza della sua forma principale nella rubrica del lavoro a domicilio”.” Essa prende le proprie reclute ininterrottamente fra gli operai in soprannumero della grande industria e della grande agricoltura, e specialmente anche fra quelli dei rami industriali in rovina nei quali l’esercizio artigianale soccombe alla manifattura e quest’ultima soccombe alle macchine”.

Nel saggio sulla ”Guerra” come sterminio di forza-lavoro in eccesso abbiamo già analizzato questa categoria di sovrappopolazione, allora era evidente il fattore di pericolo e rischio per il sistema, in quanto elemento della classe operaia che si riproduce e che si perpetua e che in proporzione partecipa all’aumento complessivo della classe operaia in misura maggiore che non gli altri suoi elementi.”

Questa caratteristica viene descritta così da Marx: ”effettivamente non soltanto la massa delle nascite e dei decessi, ma anche la grandezza assoluta delle famiglie è in proporzione inversa del livello del salario, quindi della massa dei mezzi di sussistenza, di cui dispongono le differenti categorie operaie. Questa legge della società capitalistica suonerebbe assurda fra i selvaggi o anche fra colonizzatori inciviliti. Essa ricorda la riproduzione in massa di alcune specie di animali individualmente deboli e spietatamente cacciati.”

Dunque una riproduzione in massa ”in proporzione inversa del livello del salario, quindi della massa dei mezzi di sussistenza”.

Siamo già nell’orizzonte sociale di una massa di lavoratori precari, a basso reddito annuo, potenzialmente più pericolosi di altri segmenti proletari per l’equilibrio di sistema, in quanto virtuale fattore maggiorato (sul piano quantitativo e qualitativo) di proteste e disordini. La disattivazione/prevenzione del rischio di sistema insito nella proliferazione abnorme della terza categoria e nel ”sedimento più basso della sovrappopolazione relativa (il) pauperismo” viene realizzato con le guerre (che svolgono anche questa funzione) e con i sacrifici periodici imposti dai governi borghesi (tagli all’assistenza sanitaria, inasprimenti del carico fiscale, tagli generali agli ammortizzatori sociali esistenti). I sacrifici periodici producono tendenzialmente, almeno nel medio-lungo periodo, un calo nell’aspettativa di vita media, operando da controtendenza e freno alla riproduzione in massa ”in proporzione inversa del livello del salario, quindi della massa dei mezzi di sussistenza”, tipica della terza forma di sovrappopolazione relativa. Dunque possiamo dedurre (dalle precedenti analisi) che i ‘sacrifici periodici’ svolgano una funzione univoca di conservazione del sistema capitalistico attraverso un ventaglio di effetti derivati e collegati: in primo luogo l’incremento del saggio di sfruttamento della forza-lavoro necessario a controbilanciare la caduta tendenziale del saggio medio di profitto; in secondo luogo la disattivazione/prevenzione del rischio di sistema insito nella proliferazione abnorme della terza categoria e nel ”sedimento più basso della sovrappopolazione relativa (il) pauperismo’.

Scrivendo della esigenza ‘sistemica’ di distruzione di capitale costante e variabile, non facciamo altro che ripetere le analisi della corrente in merito al ‘Capitalismo inteso come fattore di distruzione di capitale vivo’: in questo senso appaiono fuori luogo le critiche di pochi presunti ‘marxisti’ in merito alla in-verificabilità di tale caratteristica del sistema.

Se la società capitalistica occupa ormai ogni angolo del mondo, non si comprende perché non debba essere imputato ad essa anche la strage quotidiana di esseri umani per fame, malattie, epidemie. Oltretutto non si comprende perché la distruzione di ‘capitale vivo’ non debba essere analizzata nel suo rapporto di interconnessione con l’organismo sociale capitalistico, di cui è un fenomeno derivato (e palesemente funzionale alla sua perpetuazione). Soltanto nel bel paese italico, prestando fede alle statistiche, sono oltre sei milioni gli esseri umani a rischio di morte per indigenza, dunque a causa di una insufficiente alimentazione, di inadeguate cure mediche, e di precarie e malsane condizioni abitative. C’è bisogno di ripeterlo? Allora lo ripetiamo: Marx ”Il sedimento più basso della sovrappopolazione relativa alberga infine nella sfera del pauperismo. Astrazione fatta da vagabondi, delinquenti, prostitute, in breve dal sottoproletariato propriamente detto, questo strato sociale consiste di tre categorie.

Prima: persone capaci di lavorare. Basta guardare anche superficialmente le statistiche del pauperismo inglese per trovare che la sua massa si ingrossa ad ogni crisi e diminuisce ad ogni ripresa degli affari.

Seconda: orfani e figli di poveri. Sono i candidati dell’esercito industriale di riserva e, in epoche di grande slancio, come nel 1860 per esempio, vengono arruolati rapidamente e in massa nell’esercito operaio attivo.

Terza: gente finita male, incanaglita, incapace di lavorare. Si tratta specialmente di individui che sono mandati in rovina dalla mancanza di mobilità causata dalla divisione del lavoro, individui che superano l’età normale di un operaio, infine le vittime dell’industria, il cui numero cresce con il crescere del macchinario pericoloso, dello sfruttamento delle miniere, delle fabbriche chimiche ecc., mutilati, malati, vedove ecc.”.

 

La formula imparata a memoria e recitata/biascicata come una giaculatoria dai vari amministratori politici del sistema (tenere a posto i conti e rilanciare la crescita economica), viene calata in una realtà sociale attraversata (in parte considerevole) dai fenomeni della sovrappopolazione stagnante e del pauperismo. Abbiamo sostenuto in precedenza che le due parti di questa stucchevole formula ‘politico-amministrativa’ sono in tendenza autoescludentesi. Infatti i sacrifici implicati nella prima parte della formula (tenere a posto i conti), rendono vana la realizzazione pratica della seconda parte (accompagnare/rilanciare la crescita). Non ci vuole un nobel dell’economia per comprendere che su un piano macroeconomico i sacrifici vanno ad incidere sul reddito medio nazionale, e quindi sulla domanda globale di beni e servizi, rendendo problematica la ripresa. D’altronde da un sistema fondato sull’anarchia della produzione e sul dispendio di risorse (tecniche e umane), possiamo attenderci solo il ‘cupio dissolvi’ della miseria crescente e dell’aumento del grado di sfruttamento e di dispotismo aziendale (1).


(1)
Dunque, la concentrazione di masse piuttosto grandi di mezzi di produzione in mano di singoli capitalisti costituisce la condizione materiale della cooperazione degli operai salariati e la misura della cooperazione, ossia la scala della produzione, dipende dalla misura di tale concentrazione.

In principio era apparsa necessaria una certa grandezza minima del capitale individuale affinché il numero degli operai simultaneamente sfruttati e quindi la massa del plusvalore prodotto, fosse sufficiente a esimere dal lavoro manuale la persona che impiegava gli operai, e a farne da piccolo mastro artigiano un capitalista, istituendo così formalmente il rapporto capitalistico. Adesso, quella grandezza minima si presenta come condizione materiale della trasformazione di molti processi lavorativi individuali dispersi e indipendenti gli uni dagli altri in un processo lavorativo sociale combinato.

Così pure in principio il comando del capitale sul lavoro si presentava solo come conseguenza formale del fatto che l’operaio, invece di lavorare per sé, lavora per il capitalista, e quindi sotto il capitalista. Con la cooperazione di molti operai salariati il comando del capitale si evolve a esigenza della esecuzione del processo lavorativo stesso, cioè a condizione reale della produzione. Ora l’ordine del capitalista sul luogo di produzione diventa indispensabile come l’ordine del generale sul campo di battaglia.

Ogni lavoro sociale in senso immediato, ossia ogni lavoro in comune, quando sia compiuto su scala considerevole, abbisogna, più o meno, d’una direzione che procuri l’armonia delle attività individuali e compia le funzioni generali che derivano dal movimento del corpo produttivo complessivo, in quanto differente dal movimento degli organi autonomi di esso. Un singolo violinista si dirige da solo, un’orchestra ha bisogno di un direttore. Questa funzione di direzione, sorveglianza, coordinamento, diventa funzione del capitale appena il lavoro ad esso subordinato diventa cooperativo. La funzione direttiva riceve note caratteristiche specifiche in quanto funzione specifica del capitale.

Motivo propulsore e scopo determinante del processo capitalistico di produzione è in primo luogo la maggior possibile autovalorizzazione del capitale, cioè la produzione di plusvalore più grande possibile, e quindi il maggiore sfruttamento possibile della forza-lavoro da parte del capitalista. Con la massa degli operai simultaneamente impiegati cresce la loro resistenza, e quindi necessariamente la pressione del capitale per superare tale resistenza. La direzione del capitalista non è soltanto una funzione particolare derivante dalla natura del processo lavorativo sociale e a tale processo pertinente; ma è insieme funzione di sfruttamento di un processo lavorativo sociale ed è quindi un portato dell’inevitabile antagonismo fra lo sfruttatore e la materia prima da lui sfruttata. Così pure, col crescere del volume dei mezzi di produzione che l’operaio salariato si trova davanti come proprietà altrui, cresce la necessità del controllo affinché essi vengano adoperati convenientemente. Inoltre, la cooperazione degli operai salariati è un semplice effetto del capitale che li impiega simultaneamente; la connessione delle loro funzioni e la loro unità come corpo produttivo complessivo stanno al di fuori degli operai salariati, nel capitale che li riunisce e li tiene insieme. Quindi agli operai salariati la connessione fra i loro lavori si contrappone, idealmente come piano, praticamente come autorità del capitalista, come, potenza d’una volontà estranea che assoggetta al proprio fine la loro attività.

Dunque la direzione capitalistica è, quanto al contenuto, di duplice natura a causa della duplice natura del processo produttivo stesso che dev’essere diretto, il quale da una parte è processo lavorativo sociale per la fabbricazione di un prodotto, dall’altra parte processo di valorizzazione del capitale; ma quanto alla forma è dispotica. Questo dispotismo sviluppa poi le sue forme peculiari mano a mano che la cooperazione si sviluppa su scala maggiore. Prima, il capitalista viene esentato dal lavoro manuale appena il suo capitale ha raggiunto quella grandezza minima che sola permette l’inizio della produzione capitalistica; ora torna a cedere a sua volta a un genere particolare di operai salariati la funzione della sorveglianza diretta e continua dei singoli operai e dei singoli gruppi di operai. Allo stesso modo che un esercito ha bisogno di ufficiali e sottufficiali militari, una massa di operai operanti insieme sotto il comando dello stesso capitale ha bisogno di ufficiali superiori (dirigenti, manager) e di sottufficiali (sorveglianti, capireparto, controllori) industriali, i quali durante il processo di lavoro comandano in nome del capitale. Il lavoro di sorveglianza si consolida diventando loro funzione esclusiva. Chi tratta di economia politica, quando confronta il modo di produzione dei contadini indipendenti o degli artigiani autonomi con il sistema delle piantagioni fondato sulla schiavitù, annovera questo lavoro di sorveglianza fra i faux frais de production. Invece, quando esamina il modo di produzione capitalistico, egli identifica la funzione direttiva, in quanto deriva dalla natura stessa del processo lavorativo comune, con la stessa funzione, in quanto portato del carattere capitalistico, quindi antagonistico, di questo processo. Il capitalista non è capitalista perché dirigente industriale ma diventa comandante industriale perché è capitalista. Il comando supremo nell’industria diventa attributo del capitale, come nell’età feudale il comando supremo in guerra e in tribunale era attributo della proprietà fondiaria”.IL CAPITALE – LIBRO I – SEZIONE IV – LA PRODUZIONE DEL PLUSVALORE RELATIVO – CAPITOLO 11 – COOPERAZIONE. Marx

 

 

Parte seconda: Il risanamento dei conti pubblici come narrazione ideologica

Abbiamo ipotizzato nelle righe precedenti che i sacrifici imposti dalle autorità politiche capitaliste servano a scopi diversi da quelli dichiarati: possiamo dedurre (dalle precedenti analisi) che i ‘sacrifici periodici’ svolgano una funzione univoca di conservazione del sistema capitalistico attraverso una ventaglio di effetti derivati e collegati: in primo luogo l’incremento del saggio di sfruttamento della forza-lavoro necessario a controbilanciare la caduta tendenziale del saggio medio di profitto; in secondo luogo la disattivazione/prevenzione del rischio di sistema insito nella proliferazione abnorme della terza categoria e nel ”sedimento più basso della sovrappopolazione relativa (il) pauperismo’.

Il sacrificio viene abitualmente realizzato con l’aumento dell’imposizione fiscale.

In effetti l’incremento del carico fiscale sui redditi proletari (in quanto fattore di aumento/lievitazione del costo della vita, e quindi di conseguente svalutazione della capacità di acquisto media dei salari) svolge un ruolo di intensificazione indiretta del grado di sfruttamento. Se l’aumento diretto del grado di sfruttamento può essere normalmente ottenuto con l’allungamento della giornata lavorativa a parità di salario (plus-lavoro assoluto), oppure con l’aumento della produttività oraria media dei lavoratori (quantità di merci prodotte divisa per il numero di ore impiegate) l’aumento del costo della vita agisce come fattore di sfruttamento ‘indiretto’. Con l’esazione fiscale lo stato borghese reperisce le somme monetarie per il pagamento degli interessi sul debito pubblico, e da questo punto di vista è uno dei modi privilegiati per convogliare una parte del plus-valore prodotto nei processi produttivi reali verso il capitale finanziario. Tuttavia, come ben ricordato prima, gli inasprimenti del carico fiscale sui redditi medio-bassi determinano regolarmente un effetto depressivo sulla domanda interna di beni e servizi, rendendo illusoria e chimerica la contemporanea pretesa di rilancio della crescita economica. Anche la prospettiva di ridurre il costo del lavoro nazionale, per consentire alle imprese di competere meglio sul mercato internazionale, spesso viene vanificata dal perseguimento di uguali prospettive da parte della agguerrita concorrenza estera.

Dunque alla fin fine i sacrifici ottengono risultati controversi sul piano macro-economico, mentre agiscono invece come fattore di incremento diretto (bassi salari, precarietà, aumento dei ritmi e dei tempi di lavoro) e indiretto (inasprimento della leva fiscale) dello sfruttamento. Nel primo caso con l’offerta di plus-lavoro assoluto o relativo al capitale, nel secondo caso riducendo il potere d’acquisto dei salari. Questo complesso principale di effetti diretti e indiretti legato ai ‘sacrifici’ si metamorfizza in seguito in un calo medio dell’aspettativa di vita (soprattutto in riferimento a quella parte della sovrappopolazione proletaria definita ‘stagnante’ o pauperizzata).(2)

(2).”Stalin ebbe a definire l’uomo il «capitale più prezioso». Sotto la spudorata espressione si cela la duplice verità che l’uomo è un mezzo di produzione come una macchina qualsiasi, e che, come mezzo di produzione, è «uomo» finché serve a produrre, o finché il capitalismo intende servirsene. Si assiste allora, proprio come per le macchine, al fatto che, mentre una parte di uomini lavora nella forma salariata, un’altra giace o inerte, inutilizzato, o in stato di sotto-remunerazione. Si dà poi il caso che la sovra-produzione imponga la distruzione di capitale, cioè di macchine e uomini, di prodotti ed impianti”. Da ‘Capitalismo: distruzione di capitale vivo’ .

Parte terza

Grecia anno zero 

C’è la lotta di classe, e siamo noi, la classe dei ricchi, che la vinciamo”

La perla di un finanziere, anno 2006.

Nel 2010 la Grecia presentava i seguenti dati economici: il PIL ammontava a 222,151 mld mentre Il debito pubblico era al 148,3% in rapporto al PIL. La disoccupazione era al 12,5%. I Greci che vivevano sotto la soglia della povertà erano il 27,6%. Si trattava di dati molto negativi, all’origine di proteste e tensioni socio-politiche durate vari anni. Poi sull’onda delle proteste è andata al governo una coalizione di ‘sinistra’, la quale ha stipulato degli accordi con varie entità economico-finanziarie creditrici internazionali (rinegoziando le scadenze del debito). In una logica di puro risanamento dei conti sono stati richiesti ulteriori ‘sacrifici’ a una parte della popolazione, e gli effetti sono oggi ben visibili: il PIL è ridotto a 186,54 mld, mentre il debito pubblico è ora al 176% in rapporto al PIL. Le cifre percentuali sulla disoccupazione ci dicono che essa riguarda il 26%, soprattutto giovani. La percentuale di Greci che vivono sotto la soglia di povertà è pari al 34,6% del totale, cioè 3.795.100 persone. Da un punto di vista macroeconomico (per la Grecia) si tratta di una catastrofe, in quanto una economia già in fase recessiva (in base ai dati del 2010), subendo una politica di ulteriore spremitura fiscale e di austerità, imposta dal capitale internazionale (tagli al welfare e alla spesa pubblica), è piombata in un gorgo formato da debito-recessione-austerità.

La pauperizzazione in questo caso opera sia sul proletariato che sulla classe media, accelerando i processi di discesa del tenore di vita e del reddito sia per il ceto medio che per alcune frazioni di aristocrazia operaia, aggravando ulteriormente anche le condizioni di vita della frazione occupata e inoccupata della classe operaia. La falcidia sociale prodotta dal meccanismo capitalistico dunque non lascia scampo a parti crescenti di popolazione, relegando soprattutto nel ghetto della sovrappopolazione stagnante le vittime di questo strano ‘modello di sviluppo’ chiamato capitalismo.

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