La storia umana è disseminata di guerre scoppiate intorno al pretesto di un casus belli. Ovviamente, nella fattispecie, ci riferiamo alle recenti dichiarazioni di una delle parti in causa sull’imminente utilizzo di armi chimiche da parte dall’esercito siriano. Ipotesi decisamente inverosimile, considerando che l’esercito siriano è attualmente vittorioso su tutti i fronti del conflitto, e quindi non avrebbe nessun bisogno di ricorrere alle armi chimiche, in una guerra che può vincere con il semplice utilizzo delle armi convenzionali. La Siria è, insieme all’Ucraina, la nazione dove maggiormente convergono le tensioni causate dagli opposti interessi dei blocchi economico-politici contemporanei. Il gigante capitalistico USA e i suoi sodali giocano da tempo in Siria una partita senza speranza, a meno di non pensare che vogliano perseguire la reciproca distruzione garantita con l’avversario. Ma davvero pensiamo che i neocon e le élite di potere USA siano desiderose di beccarsi una scarica di migliaia di testate nucleari sulla testa? In una logica di puro confronto di potenza e forza militare, in fondo è dalla fine della seconda guerra mondiale che i rapporti fra le due maggiori potenze statali capitalistiche stanno così, quindi solo a patto di ignorare questo dato storico, possiamo ipotizzare una vicinanza al fatale confronto apocalittico fra concordi/discordi conglomerati capitalistici. Ma davvero pensiamo, è il caso di ripeterlo, che le élite politiche e militari che guidano i maggiori apparati statali borghesi nel gioco della contesa geopolitica, abbiano proprio ora deciso di suicidarsi? Certo, il capitalismo ha l’esigenza economica di distruggere una certa quota di forza-lavoro in eccesso (sovrappopolazione di riserva) e di capitale costante sovra accumulato. Tuttavia la distruzione rigeneratrice è funzionale alla ripresa temporanea del ciclo economico di valorizzazione del capitale, e non alla distruzione del capitalismo in se stesso, cosa che avverrebbe nell’ipotesi di uno scontro nucleare totale. Gli organismi socio-economici borghesi, su base nazionale e sovranazionale, per quanto intrinsecamente distruttivi verso il proletariato internazionale e verso le borghesie concorrenti, possiedono comunque l’impulso a continuare e perseverare il proprio esistere in quanto capacità di progettare, volere, e infine ottenere gli scopi prefissi (questo il senso ultimo del dominio politico della élite borghese).
Ci stiamo interessando alla vicenda siriana dal 2013, quando furono chiari i giochi che si addensavano come nubi minacciose su quella nazione. Come già avvenuto in altre lande del globo, le proteste sociali interne sorte sulla base della miseria crescente, non riuscendo a mutare i rapporti capitalistici di produzione, erano state successivamente strumentalizzate da opposte fazioni borghesi nazionali e internazionali. Incapaci di intendere correttamente queste dinamiche, ancora oggi alcune sedicenti analisi marxiste raffigurano alternativamente i contendenti presenti sul campo come forze antimperialiste, mentre il connotato oggettivo di queste forze è proprio l’esatto contrario. Intruppata sotto le false bandiere delle lotte nazionali e religiose, la classe proletaria diventa lo strumento delle dispute economiche che dividono periodicamente la classe dei propri sfruttatori. In questo farsi strumento del proprio avversario sociale, il proletariato smette di essere una minaccia immediata per la conservazione del regime borghese. La guerra per procura, svolta in Siria dai vari belligeranti, sotto le bandiere più svariate, è in realtà funzionale al controllo di grosse risorse energetiche e collegati snodi distributivi. Il fine ultimo del gioco siriano, o ucraino, è il potere, anzi la definizione temporanea di linee di influenza da parte di un conglomerato capitalistico a danno di un conglomerato rivale. Dunque un conflitto interimperialistico allo stato puro. Appare chiaro che chi ha sbagliato ripetutamente l’analisi della situazione, condizionato dalla bislacca teoria del superimperialismo unico globale, non potrà ora riconoscere la realtà (già chiarita nel ‘Manifesto’, d’altronde) del conflitto perenne fra i fratelli coltelli borghesi. E neppure capire come un imperialismo declinante diventi un chaos imperium, pur di conservare una qualche forma di egemonia globale, ricorrendo, al pari del proprio rivale capitalistico, a tutti i mezzi di guerra asimmetrica esistenti e dunque disponibili. Alla fin fine uno dei contendenti vince, quando l’altro, semplicemente, non può portare a termine i suoi piani di regime change. È quello che è accaduto in Siria dove l’esercito nazionale, supportato da Iran, Hezbollah, e Russia (e sullo sfondo dalla Cina) ha progressivamente sconfitto le forze militari rivali in oltre cinque anni di scontri feroci.
In definitiva è difficile sostenere con sicurezza se la vittoria di uno dei due contendenti sia preferibile a quella dell’altro. Si può forse ipotizzare che la netta sconfitta dei piani USA, e quindi la percezione di questa sconfitta da parte del proletariato americano, possa diventare una delle cause di una maggiore conflittualità sociale. Dunque potremmo concludere che una sconfitta nella politica estera imperiale USA (almeno in Siria) abbia poi delle ripercussioni interne in termini di caduta del consenso e aumento del conflitto sociale. La passività delle masse non è un dato eterno, ma una risultante di varie cause concomitanti. Si può immaginare che il venire meno di una di esse, produca delle conseguenze degne di rilievo. Non possedendo ancora la boccia di cristallo per leggere il libro del destino, ci limitiamo a formulare delle semplici previsioni (basate tuttavia su qualche non raro precedente storico).