Spegnere il tizzone ardente: la nascita dell’individuo borghese come oscuramento finale dell’uomo sociale
Il tizzone ardente, in alcune antiche tradizioni orientali, esprime l’attaccamento dell’ego alle apparenze illusorie del Samsara. Il velo di Maya che nasconde la realtà della relazione dialettica delle parti del tutto. L’individuo indipendente da tutto è una di queste illusioni, mentre l’uomo è viceversa una forma di vita sociale, dipendente da molteplici legami e relazioni sociali. Il linguaggio verbale e non verbale che l’uomo utilizza quotidianamente svolge una funzione di comunicazione con altri esseri viventi. In senso più ampio le forme di comunicazione sono composte da segni, la semiotica studia l’utilizzo e il significato dei segni. Pittura, scultura, parola, scrittura, musica, canto, gesti, sono dei segni che servono a comunicare un contenuto di senso, facendo interagire un essere con altri esseri. L’individuo isolato, solitario, autosufficiente è quindi una impostura negata in partenza già dal fatto che l’insieme dei segni – che quotidianamente riceviamo e inviamo – sono funzionali a una esistenza di relazione, e dunque di condivisione di un senso. Tuttavia nel corso della storia si è verificata una frattura all’interno delle società umane, infatti i rapporti sociali organici, di condivisione, caratteristici di un modo di produzione basato sulla proprietà e sull’uso sociale dei mezzi di produzione, sono stati sostituiti da altri tipi di rapporti basati sul dominio di classe. Con il monopolio dei mezzi di produzione da parte di una classe di padroni, è sorta la base materiale per la separazione di un segmento della società dalla sua totalità. Infine, dopo alcuni millenni di sviluppo, la separazione della parte dalla totalità ha raggiunto forme parossistiche, estreme, rappresentate bene dal fantasma della libertà del moderno individuo borghese. Le legislazioni sorte dalla rivoluzione francese riconoscono ampie libertà formali all’individuo, cioè al prodotto finale di un percorso storico di alienazione. È curioso constatare che mentre l’essere umano nel corso della storia veniva privato della sua essenza onnilaterale, quindi veniva alienato dal suo autentico essere di uomo sociale, integrato nella natura e nella vita di specie, di pari passo cresceva come compensazione, nel corso dei secoli, la sua potenza individuale illusoria. Battilocchi, energumeni, superuomini, sono diventati il sale della vita, e quindi il motore della storia, almeno nel senso comune dominante. Eppure proprio l’esaltazione di queste figure eccezionali, la loro idolatria, il culto della loro personalità, non è stato e non è nient’altro che l’espressione di un processo storico iniziato con la fine delle ultime società comuniste, avvenuta all’incirca 5000 anni fa. Con il sorgere delle società divise in classi di padroni e di schiavi vengono poste le basi sociali per l’apparizione dell’individuo. Tale figura rappresenta, sia nel ruolo del padrone, sia nel ruolo dello schiavo, la conseguenza di una separazione del singolo dall’intero comunitario che originariamente lo comprendeva (e di cui egli era parte integrante). Anassimandro sostiene che all’origine della separazione c’è una forza che si può definire come ‘Hibris’, ebbrezza, euforia, senso di grandezza e di libertà. Sfuggendo dalle catene ben salde dell’essere, liberandosi dai legami dialettici che collegano ogni ente alla intera totalità dell’essere, l’hibris spinge i fuggitivi verso la rovina, verso una vuota erranza nichilista, senza senso, senza scopo, senza una ragione umana, fino a quando non irrompe Dike, la giustizia, che nel poema di Anassimandro riporta con la frusta del logos intramontabile le parti ubriache di hibris nel recinto dell’essere, costringendole a seguire la necessità (che ogni ente sia unito a tutto ciò che esiste). Anche nelle varie versioni del mito di Narciso si manifesta la dialettica fra l’hibris della bellezza individuale riflessa in uno stagno e il successivo destino di sventura. Narciso è la metafora dell’ego che varca i confini della realtà, alienato e incapace di avere relazioni con gli altri, innamorato solo della propria immagine riflessa in uno stagno: cosa che lo condurrà alla morte. Quando affermiamo che la libertà dell’individuo borghese è una impostura non è perché siamo sostenitori del suo contrario, ma perché, semplicemente, questa libertà non esiste. Ad esempio con il voto espresso attraverso la scheda elettorale non è stato mai sottratto il potere alla classe dominante. Anche la libertà di stampa e di opinione, come quella dell’arte e della scienza sono condizionate dalle fasi contingenti del dominio borghese, e quando questo dominio è minacciato seriamente dal conflitto sociale le libertà vengono sospese (e compare il fascismo). In senso più ampio, anche nei periodi di esistenza della legalità ‘democratica’, e quindi delle sacre libertà dell’individuo, è molto arduo negare che la cosiddetta libertà di opinione e di voto non venga condizionata dalla ideologia della classe dominante. Il mondo borghese offre ai suoi ospiti umani solo il fantasma della libertà individuale, mentre nel contempo omologa i gusti, le opinioni, il modo di pensare, e infine le scelte del mitico individuo, al fine di ottenere un docile lavoratore da sfruttare e un consumatore allocco a cui vendere le merci in precedenza da lui stesso prodotte. Sciolto dai precedenti legami di servitù feudale, il servo diventa proletario, cioè libero di uscire dal feudo, di migrare dove il capitale ha bisogno di forza lavoro, quindi libero formalmente di vendere la propria forza lavoro o di crepare di fame. Una alternativa del diavolo si diceva un tempo. Il marxismo rivoluzionario esprime una dura critica alle presunte libertà appena elencate. Nella società borghese tutto è permeato dall’alienazione/separazione, ogni rapporto umano tende alla mercificazione, ogni reminiscenza di socialità rischia di trasformarsi in un involucro vuoto. Eppure il marxismo rivoluzionario sostiene che almeno un soggetto (non individuale ma collettivo), il partito, può essere libero di pensare fuori dagli schemi ideologici del sistema, ed essere così prodotto e produttore della storia. Il partito può incidere, entro certi limiti, sul divenire storico. Questa tesi è contenuta, ad esempio, in ‘Dialogato con i morti’. Non abbiamo abolito il soggetto, dice quel testo, ma lo abbiamo fatto diventare un soggetto collettivo. Questo soggetto è diverso dal mito del battilocchio, superuomo, energumeno, esso è l’unità organica di molti esseri, e quindi è una forza attiva anonima, espressione moderna di una classe sociale (il proletariato) che possiede le potenzialità per ricollegarsi alle forme di esistenza e di pensiero (non alienati) delle società di condivisione originarie.
In merito a questa ultima tesi riproponiamo a scopo di maggiore chiarimento l’ultimo capitolo del lavoro dal titolo ‘Conoscenza’, pubblicato nel mese di agosto 2017.
Postilla
Capitolo terzo: verità scientifica relativa come processo di approssimazione al vero in Engels e Lenin
«Se mai l’umanità arrivasse al punto di non operare che su verità eterne, su risultati del pensiero che posseggano il valore sovrano e l’incondizionata pretesa di verità, essa sarebbe pervenuta a quel punto in cui l’infinità del mondo intellettivo sarebbe esaurita tanto in atto che in potenza, e sarebbe compiuto il celeberrimo miracolo dell’innumere numerato.»
Engels
«il pensiero umano per sua natura, è capace di darci e ci da effettivamente, la verità assoluta che è formata dalla somma delle verità relative. Ogni passo nello sviluppo della scienza aggiunge nuovi granelli a questa somma di verità assoluta, ma i limiti della verità di ogni tesi scientifica sono relativi, giacché vengono ora allargati, ora ristretti col progredire della conoscenza […] Dal punto di vista del materialismo moderno, cioè del marxismo, i limiti di approssimazione delle nostre conoscenze della verità obiettiva, assoluta, sono storicamente relativi, ma l’esistenza di questa verità è incontestabile, come è il fatto che noi ci avviciniamo ad essa.»
Lenin
La conoscenza del mondo reale e dei suoi fenomeni non è compiuta, la ricerca del vero ha sospinto l’uomo, secondo Lenin, verso successive approssimazioni conoscitive. Le verità scientifiche sono relative, non assolute, ma la somma dei risultati della ricerca scientifica ci avvicinano alla verità. Per questa ragione abbiamo sostenuto, nella premessa, che la scienza moderna, diversamente dalla scienza antica, rigetta il concetto di legge immutabile, ponendosi su un piano metodologico ipotetico probabilistico. Lenin scrive che il contenuto delle tesi scientifiche non è immutabile, ma viene ristretto o allargato con il progresso della conoscenza. Dunque niente di più lontano dal postulato che associa una tesi scientifica relativa alla verità assoluta. Parafrasando Engels, sarebbe come dire che l’innumerevole è stato numerato. Ma allora tutto è relativo ci obietterà il nostalgico della verità con la maiuscola. Siamo forse piombati nell’indeterminismo? Lenin argomenta e risponde nel modo seguente: la realtà, in tutti i suoi aspetti, è conoscibile in un percorso di ricerca progressivo. «La dialettica materialistica di Marx ed Engels contiene in sé incontestabilmente il relativismo, ma non si riduce ad esso, ammette cioè la relatività di tutte le nostre conoscenza, non nel senso della negazione della verità obiettiva, ma nel senso della relatività storica dei limiti dell’approssimazione delle nostre conoscenze a questa verità.» Lenin
È domanda oziosa chiedere se un giorno potremo numerare l’innumerevole. E se quindi la ricerca della verità troverà un termine. Forse la natura del reale è proprio quella di essere conoscibile in una ricerca senza termine. In merito al relativismo, abbiamo definito il marxismo teoria storicamente invariante, cioè relativa ad una certa fase della storia umana, poiché il suo oggetto di studio, il capitalismo, possiede degli organi che svolgono delle funzioni necessarie alla sua vita. Nel corso del tempo possono cambiare i dettagli di questi organi, ma non la loro funzione di supporto alla vita dell’organismo capitalistico. Da dove deriviamo queste considerazioni? La teoria marxista è l’espressione di una conoscenza derivata dalla lotta del proletariato contro un certo sistema sociale. Nel corso della lotta il proletariato (la sua avanguardia) ha appreso certe cose sulla natura del suo nemico di classe. Queste cose potevano essere svelate solo costringendo l’avversario a rendersi visibile nel corso di uno scontro pratico, così come avvenuto nella metà del 1800. Azione e conoscenza sono in effetti interdipendenti. L’azione pone le basi per una esperienza conoscitiva, che a sua volta funge da insegnamento per successive azioni legate a circostanze similari. Dunque il marxismo si collega ad una classe di uomini che non possiede nulla, alienata dai mezzi di produzione e dal prodotto del proprio lavoro. Questo aspetto presenta somiglianze e dissonanze con la condizione degli uomini del comunismo primitivo, che ugualmente non possedevano individualmente i mezzi di produzione e i prodotti del lavoro. Tuttavia, a differenza del proletario alienato, essi li usavano e ne godevano in quanto gruppo sociale comunitario. Questa caratteristica materiale di assonanza /dissonanza fra il proletariato e l’umanità comunista delle origini consente al marxismo di collegarsi (ponte di conoscenza) alle forme di pensiero delle società aclassiste. Il proletariato dunque è la base sociale della teoria invariante, che tuttavia non è solo una sociologia economica del capitalismo (con le sue leggi scientifiche) , ma anche una concezione della totalità dell’essere come intero dialettico (direttamente derivata dalla filosofia tedesca, sociologia francese, ed economia politica inglese, è vero, ma anche e soprattutto dal ponte di conoscenza lanciato dal conflitto di classe rivoluzionario, nella ‘mezzeria’ del 1800, con la concezione della realtà delle società comuniste delle origini). Sono le epoche e i periodi rivoluzionari, infatti, come ben ricordato nel ciclo di relazioni sulla conoscenza degli anni 60, che permettono alla conoscenza di progredire, e di lanciare ponti con il passato. La borghesia, invece, non può che produrre una scienza drogata, ideologicamente legata ai propri interessi di classe sociale proprietaria dei mezzi di produzione (in termini recenti soprattutto dal controllo di questi mezzi). Il percorso conoscitivo del partito comunista si fonda sull’azione e sul pensiero di una classe che non possiede nulla, e quindi può, almeno potenzialmente, vedere la realtà senza la lente distorsiva dell’attaccamento morboso alla roba, cioè ad una condizione di privilegio e di arroccamento, e quindi di separazione dal resto della società umana.