PREMESSA
Gli appetiti, e vitii del Principe di una Monarchia sono da esser molto temuti: perché non si raffrenando è forza, che venga ad essere la ruina del suo Imperia… (Machiavelli)
Negli ultimi due anni, in seguito all’intervento militare russo in Siria, e alle batoste inferte alle variegate forze militari fondamentaliste, dall’esercito siriano, Hezbollah, truppe scelte iraniane e russe, una parte significativa dei sostenitori del cambio di regime ha cercato un patteggiamento con la potenza vincitrice russa. Nel giugno/luglio dell’anno scorso è stato il caso della Turchia, riavvicinatasi di fatto alla Russia dopo il fallito colpo di stato contro Erdogan. Negli ultimi giorni tiene banco invece la visita a Mosca di un regnante di un importante paese del golfo persico, per negoziare eventuali accordi politici ed economici con la dirigenza russa. Qualche mese prima è stato il turno del regnante del Qatar di recarsi a Mosca, per colloqui politici ed economici , mentre la leadership israeliana è andata più di una volta nella capitale russa negli ultimi due anni. Come interpretare questi movimenti di varie leadership verso Mosca? Si tratta di normale amministrazione, oppure di qualcosa di più? Tenendo conto della cornice politico-militare in cui si svolgono questi viaggi-pellegrinaggi, ovvero la sconfitta di fatto della strategia imperiale USA del caos, è probabile che tali viaggi travalichino la normale routine diplomatica. In altre parole questi viaggi sono la ratifica, anche a livello di azioni diplomatiche ufficiali, o meglio di relazioni formali fra stati, dei nuovi rapporti di forza esistenti fra i blocchi capitalistici concorrenti dopo il vittorioso intervento militare russo. Quello che accade è riassumibile in questi termini: uno stuolo di attori/players geopolitici, non solo mediorientali, sta modificando il proprio approccio alla questione siriana, con pragmatismo e realismo, pesando la forza e la debolezza dei due colossi imperiali che agiscono sullo scacchiere mediorientale. L’impero USA è minato al proprio interno da una debolezza economica strutturale, le cui tracce di superficie sono il volume spaventoso del debito totale (62.000 miliardi di dollari), suddiviso in parti uguali fra debito pubblico, debito delle imprese e debito delle famiglie. Basti pensare che il debito totale USA è pari al debito pubblico mondiale. Il fenomeno del debito pubblico è sempre funzionale allo sviluppo capitalistico industriale (vedasi ‘Imprese economiche di Pantalone’), tuttavia il caso del capitalismo ‘ultra-maturo’ USA, è diverso dall’esempio delle repubbliche marinare o dal capitalismo dei primordi nell’Inghilterra descritta da Marx. Il debito pubblico USA viene impiegato principalmente nel puntellamento/salvataggio dell’edificio del capitale finanziario, e quindi dei suoi strumenti tecnici (banche). Da dove nasce la iper-proliferazione creditizia-finanziaria USA? Perché il settore della produzione industriale perde colpi, si contrae, almeno nel territorio USA? Cerchiamo di capire le cause di questa debolezza economica strutturale degli USA. Fascia della ruggine è il nome dato alla deindustrializzazione di larghe parti del tessuto economico USA, conseguenza delle politiche di investimento di capitali in ‘poli di valorizzazione’ fruttiferi di maggiori rendimenti. Coloro che si dolgono per la diffusione della fascia della ruggine, dovrebbero riflettere su alcune caratteristiche invarianti della economia capitalistica. Il punto di vista capitalistico è il punto di vista della ricerca della massima redditività del capitale impiegabile in un certo settore dell’economia (primario, secondario, terziario), secondo una logica di questo tipo è del tutto normale ricercare in ogni angolo del globo le migliori possibilità di investimento. D’altronde è quello che fa anche il piccolo risparmiatore, quando chiede al promotore finanziario un consiglio per investire il proprio capitale monetario, e questi gli suggerisce un ventaglio di opzioni (BOT, CCT, BTP, Fondi comuni, depositi bancari ordinari o vincolati, azioni od obbligazioni emesse da SPA). I fattori che orientano la scelta dell’investitore sono fondamentalmente di due tipi: limitazione del rischio di perdita del proprio capitale e al contempo massima remunerazione possibile del capitale. I poli di valorizzazione sono le realtà economiche (economie nazionali, aree economiche infra-nazionali, regioni, territori) dove esistono maggiori possibilità di impiegare con sicurezza e redditività un certo capitale. Negli ultimi tre decenni abbiamo assistito ad un flusso continuo di investimenti USA e UE in Cina, in India e in altre economie emergenti. Una parte dei profitti realizzati a causa del limitato costo del lavoro e del regime fiscale di favore, sono rientrati, è vero nel circuito economico-fiscale USA -UE, tuttavia i capitali USA-UE hanno contribuito anche, in definitiva, allo sviluppo della base industriale delle economie emergenti, contribuendo a renderle autonome dagli investimenti di capitali USA-UE (basti pensare al rapporto fra impieghi di capitale UE-Cina, anno 2016, nelle proprie rispettive economie: la Cina ha investito 32 miliardi nell’acquisto di aziende europee già funzionanti, mentre gli investimenti europei in Cina ammontavano a soli 8 miliardi). Oltre tremila miliardi di debito pubblico USA sono in mani cinesi, ma si può ben concludere che questo enorme apporto di capitale monetario non è servito a fermare la deindustrializzazione USA, bensì a finanziare il ciclo drogato del credito pubblico alle imprese decotte, alle famiglie, alle banche, per pompare la domanda di beni e servizi, e tentare di far girare (come si dice) l’economia. Il vantaggio attuale per il finanziatore cinese è ovviamente la cedola di interessi che può staccare periodicamente, anche se questo frutto (l’interesse) del capitale dato in prestito allo stato USA, significa maggiore prelievo fiscale sui redditi dei proletari e tagli all’assistenza e ai servizi pubblici, per reperire le somme da versare come interesse al capitale cinese. Con lo sviluppo di una base industriale capitalistica avanzata, le economie emergenti (BRICS) rappresentano ormai oltre un terzo del PIL mondiale. La Cina ha ormai raggiunto il PIL USA. La progressiva crescita del potere economico delle nazioni estranee al circuito USA-UE, e il correlato rafforzamento degli apparati militari industriali di Russia e Cina, ha determinato un cambiamento/ridimensionamento dei rapporti di forza fra il blocco di interessi economico-politici capitalistici a guida USA e l’opposta fazione borghese. Nei capitoli successivi tenteremo di analizzare alcuni aspetti dei cambiamenti in corso, principalmente (ma non solo) sul piano dei nuovi rapporti fra la potenza statale-militare russa e una parte delle nazioni che fino all’altro ieri gravitavano intorno al centro imperiale USA.
Capitolo uno
Federazione russa: movimenti nella sfera della produzione, degli investimenti e della circolazione valutaria
Lo studio dei dati economici e dei movimenti relativi ai meccanismi di scambio valutario della Federazione Russa, negli ultimi tre anni, mostrano alcune sorprese. Innanzitutto il dato economico: dopo la decisione USA-UE di imporre delle sanzioni economiche alla Federazione Russa, a detta di vari osservatori e investitori si sono verificati cambiamenti che hanno aumentato la competitività di specifici rami dell’economia russa. Il meccanismo combinato di sanzioni economiche e ribasso del prezzo del petrolio, nel periodo fra il 2014 e oggi, ha spinto le compagnie petrolifere russe a ridurre i costi, inducendole a cooperare e sviluppare con le proprie forze delle efficaci tecnologie di trivellazione. Anche le imprese russe del settore agro-alimentare hanno ottenuto dei benefici dalle contro-sanzioni russe alle importazioni alimentari UE. Se pensiamo bene non c’è nulla di nuovo sotto il sole, infatti lo studio marxista delle leggi dell’economia capitalistica ha da tempo chiarito che la concorrenza fra capitali conduce ineluttabilmente alla centralizzazione degli stessi. Monopoli, oligopoli, rapporti fra SPA collegate o controllate, definizione di piani strategici comuni a imprese formalmente indipendenti (cartelli). Questi termini alludono tutti al fenomeno della centralizzazione dei capitali. Sotto la spinta della concorrenza (nel caso della Federazione Russa, la concorrenza subita dalle aziende nazionali ha assunto la forma di sanzioni e ribasso del prezzo del petrolio), interi gruppi di imprese del settore primario energetico e agroalimentare hanno sviluppato una cooperazione funzionale all’abbattimento dei costi. La riduzione dei costi nel campo petrolifero è stata ottenuta con lo sviluppo autonomo di tecniche di estrazione/trivellazione, in grado di fare superare al ramo economico in questione la dipendenza da interventi esterni (e il collegato aggravio di costi). Il principio ‘la necessità aguzza l’ingegno’ è la traduzione popolare dei processi descritti. Una volta resa più redditizia la produzione agroalimentare (effetto principalmente delle contro-sanzioni) e più efficiente l’attività estrattiva, i profitti sono piovuti copiosi, e così pure gli investimenti di capitali dall’estero. Riassumendo, i dati macroeconomici oggettivi sono i seguenti: inflazione in decrescita al 3%, moderata ripresa economica, e incremento delle partecipazioni di oltre un centinaio di fondi di investimento, con un giro di attività di oltre 300 miliardi di dollari. Di questi fondi, oltre il 72 per cento punta alla Russia. In altre parole il quadro generale di riduzione dei costi, sviluppo di nuovi prodotti e nuove tecnologie, crescita dei profitti, rafforzamento dell’industria, induce i gestori dei fondi internazionali ad avere fiducia nei ‘fondamentali’ dell’economia russa (e quindi nella sicurezza e nella redditività degli investimenti in questa economia nel medio-lungo periodo). Concludiamo il primo capitolo con una piccola nota sul sistema SWIFT, una sorta di sistema centralizzato di regolazione del traffico dei messaggi di trasferimento di denaro, fondamentalmente influenzato dagli USA. Dopo il 2014 qualche voce zelante del blocco capitalistico EU-USA aveva addirittura ipotizzato l’esclusione della Federazione Russa da questo sistema. Bene, a livello attuale la Russia ha creato un’alternativa allo SWIFT, e se la minaccia di essere esclusa dallo SWIFT diventasse reale, diventerebbe immediatamente operativo un sistema di transazioni analogo, e tutte le operazioni in formato SWIFT continuerebbero a funzionare.
Secondo capitolo: I conquistatori
“Il meglio del meglio non è vincere cento battaglie su cento bensì sottomettere il nemico senza combattere.” Sun Tzu
“Può la disciplina nella guerra più che il furore”
Machiavelli
Diversi osservatori e analisti, sia politici che militari, hanno rilevato la relativa piccolezza del contingente russo in Siria (poche migliaia di uomini, divisi in soldati e personale tecnico, e una cinquantina di aerei ed elicotteri). Alcuni analisti hanno sostenuto che questo contingente avrebbe potuto essere facilmente sopraffatto dagli eserciti avversari presenti nell’area ( alleanze militari sopranazionali ed eserciti nazionali regolari). Ma allora perché nessuna potenza regionale o alleanza sopranazionale ha attaccato? Perché l’abbattimento del jet russo da parte di due caccia turchi, nel novembre 2015, non è stato seguito da un conflitto più ampio con il dispositivo militare della Federazione Russa?
Le potenze capitalistiche ‘occidentali’ e i loro alleati mediorientali hanno di fatto evitato un confronto diretto con il contingente russo, perché, esso, era solo l’articolazione più avanzata di un dispositivo militare letale, composto da sistemi missilistici di difesa e attacco dispiegati in terra, nei cieli, nel mare e sotto la superficie del mare. In verità il contingente russo in Siria non era solo, i missili che colpivano le basi, i centri di comunicazione, i depositi di armi delle forze ‘ribelli’ islamiste, variamente sostenute dai soliti noti, partivano alle volte da migliaia di km di distanza, lanciati da sommergibili o incrociatori posizionati in acque territoriali russe o internazionali. Di fatto la Federazione Russa, come nella allusiva citazione iniziale di Sun Tzu, ha sottomesso il nemico senza combattere; infatti la semplice percezione del pericoloso ingranamento di cui era parte il piccolo contingente russo in Siria, ha dissuaso i fautori regionali e internazionali del ‘regime change’ ad osare l’affondo diretto. E proprio per questo hanno perso ed ora cercano un accordo con i conquistatori, prendendo atto con pragmatismo dei nuovi rapporti di forza. L’influenza americana in medio oriente esce in definitiva indebolita sia sul piano militare che su quello economico, dal fallito tentativo di ‘regime change’ in Siria. L’ultima mossa disperata USA, in ordine di tempo, è stata quella di supportare l’avanzata delle forze curde verso i pozzi petroliferi presenti nella provincia di Deir Ezzour. Una mossa resa inutile dal contemporaneo attraversamento del fiume Eufrate da parte dell’esercito regolare siriano, che grazie all’opera dei genieri russi e alla protezione dell’aviazione russo-siriana, si è rapidamente avvicinato all’area petrolifera contesa (sbarrando il passo all’avversario). Non sono stati pochi i proclami bellicosi provenienti dal campo USA, basti pensare al progetto di una ‘no fly zone’ sui cieli della Siria, inopinatamente vagheggiata da qualche alto papavero della politica USA appena nell’ottobre del 2016, ma si pensi anche alla salva di missili lanciati contro una base aerea siriana nell’aprile 2017 (su entrambi i fatti abbiamo scritto negli stessi mesi in cui sono avvenuti).
Punzecchiature, progetti velleitari, accompagnati però dal supporto malcelato ma reale alle forze di opposizione al governo siriano, in nome della esportazione della democrazia. Sugli interessi economici e geopolitici connessi al calderone siriano abbiamo scritto spesso, a partire dal settembre 2013, quando una prima minaccia di intervento diretto ‘occidentale’ si risolse in un nulla di fatto. In seguito abbiamo analizzato (dicembre 2014), nel testo ‘IS e politica imperiale del caos’, le dinamiche profonde insite nella strategia di uno dei contendenti imperiali coinvolti nella ‘querelle’ siriana.
Ora sembra emergere, sullo scenario medio orientale, un inedito triangolo russo-iraniano-turco, testimoniato d’altronde dalla vicenda (fallita) dell’indipendenza del kurdistan iracheno, dove Iran, Iraq e Turchia hanno di comune accordo sigillato le frontiere e lo spazio aereo del sedicente neo-staterello curdo, costringendo la fazione curda che aveva propugnato la mossa del referendum indipendentista (forse nell’illusione di un aiuto politico-militare esterno) a patteggiare e negoziare con il governo iracheno i termini di una semplice autonomia federale. Significativo, in questo senso, è stato l’ingresso dell’esercito iracheno nella città di Kirkuk, e nell’area petrolifera circostante, precedentemente presidiata (dal 2014) dalle milizie curde, che di fatto hanno deciso di abbandonare un territorio a scarsa prevalenza di popolazione curda, per fare ritorno nei territori storicamente curdi (anche in considerazione dell’assenza di aiuti politico-militari esterni).
Possiamo dunque constatare che i tentativi sporadici di ostacolare l’avanzata del proprio avversario, messi in atto da uno dei due contendenti imperiali (gli USA), si sono risolti, almeno finora, in vari e ripetuti insuccessi. Il problema di non poco conto è che l’avanzata dell’avversario degli USA si è ora consolidata in una conquista di posizioni salde, sicure, fortificate; per cui sempre più ardua appare l’impresa di scalzarlo da queste posizioni di forza. Egitto e Libia (la parte orientale) sono da almeno due anni in rapporti commerciali e politico-militari con la Federazione Russa (l’Egitto ha svolto recentemente esercitazioni militari congiunte con dei reparti russi), mentre la Turchia sta svolgendo un intervento militare concordato (con russi e siriani) nel nord della Siria, in funzione anti-terrorismo, e inoltre ha stretto nuovi rapporti con la Federazione Russa dopo il fallito golpe del luglio 2016 (questi nuovi rapporti hanno implicato la fine della precedente politica turca a favore del ‘regime change’ in Siria).
Qualcuno osserverà che delle alleanze strategiche, di alcune potenze capitalistiche regionali, con una superpotenza imperiale, non possono mutare da un momento all’altro. Questo probabilmente è vero, tuttavia è anche vero che i fatti da noi costatati e descritti sono reali, e quindi se questi fatti non possono significare semplicemente un brusco mutamento strategico di campo (imperiale) da parte di alcuni attori statali mediorientali, certamente non escludono che questi attori si pongano ora il problema della tutela dei propri interessi (nella cornice dei mutati rapporti di forza fra le superpotenze). Ponendosi l’esigenza di tutelare i propri interessi economici e politici, alcuni attori statali mediorientali scoprono, ‘obtorto collo’, che gli conviene recarsi alla corte dei conquistatori, e chiedere di negoziare, trattare, cercare compromessi e patti. Poiché, in definitiva, bisogna pur fare i conti con la realtà, e se la guerra è solo la continuazione della politica con altri mezzi, allora, quando sul campo di battaglia si delinea con nettezza la presenza di un conquistatore, è con esso (e non più con il precedente dominus) che bisognerà inevitabilmente confrontarsi e cercare un accordo.