Nota redazionale: Cinque anni ci separano dall’articolo del gennaio 2013, in esso veniva analizzato il carattere mistificatorio del rituale elettorale, e soprattutto la sua funzione al servizio dello status quo. Dicembre 2017, sono ormai vicine le prossime elezioni politiche, fra pochi mesi si voterà, e ancora una volta, in modo gattopardesco, le oligarchie politiche ed economiche del capitale propaganderanno l’illusione che stia per cambiare tutto, mentre invece non cambierà nulla. Alla fine del rituale elettorale, un corpo di volenterosi amministratori politici, vecchi e nuovi, continuerà ostinatamente a curare gli affari della borghesia (soprattutto della sua frazione usuraia/finanziaria). Nulla di nuovo sotto il sole, e anche il popolo degli elettori, seppure sempre più ridotto dalla massa dei non votanti, confermerà come sempre il suo ruolo di puntello (involontario?) alla forma democratico-parlamentare del dominio borghese. Il successo del rituale elettorale sancirà la forza del modello di pensiero dominante, che attraverso stili di vita edonistico/consumistici, collegati al nichilismo di fondo dell’attuale ‘civiltà’, continuerà ad influenzare il modo di pensare e di agire delle masse, sospingendole nella spirale della vacuità e del non senso di una esistenza assurda. Un circolo vizioso di condizionamenti e di riflessi condizionati, a cui tuttavia la legge storica della miseria crescente sottrae lentamente energie e base di consenso popolare. E infatti è su questa lenta erosione ‘storica’ del consenso popolare che si basa la nostra prospettiva di cambiamento. Sprechiamo ora qualche considerazione sull’offerta elettorale attualmente proposta al cittadino, in vista del prossimo rito elettorale. Questa offerta pullula di vecchie glorie sul viale del tramonto, ben decise a non far mancare il loro contributo alla ‘soluzione dei problemi del paese’, ma anche di giovani virgulti desiderosi di far sentire al popolo elettore la potenza e l’audacia di nuove idee. L’agone politico-elettorale trabocca dunque di energie tese al confronto per la soluzione dei problemi del paese, c’è solo l’imbarazzo della scelta, e dunque vinca il migliore. Una volta concluse le elezioni, noi lo sappiamo, e in effetti lo abbiamo sempre saputo, che chiunque sarà il favorito dal responso delle urne, non potrà che cercare di amministrare l’esistente meccanismo economico-sociale capitalistico, all’interno delle sue leggi economiche imprescindibili, peraltro storicamente ricorrenti e verificate. Come in precedenza sostenuto (ad esempio in ‘Ragione di stato e dominio di classe’ ) il soggetto politico-statale borghese alternerà sapientemente bastone e carota, pugno di ferro e guanto di velluto, nella gestione/governance del conflitto di classe. Tuttavia, in considerazione del ciclo economico negativo, oltre che delle tendenze immanenti alla crescita della miseria di massa, è prevedibile che l’apparato statale sia costretto a ricorrere con maggiore frequenza alla violenza cinetica, quindi al pugno di ferro e alla violazione di talune regole dell’ordinamento liberale.
Diritti umani, libertà del cittadino (et similia) non sono compatibili, in certi momenti storici, con il regime sociale borghese, infatti, nelle situazioni sociali in cui si presenta il rischio di acutizzazione quantitativa e qualitativa del conflitto di classe, la classe dominante è spinta a ricorrere a metodi di governo totalitari (alle situazioni di eccezione, quindi fuori dall’ordinario, si risponde con misure straordinarie-Machiavelli).
Sinceramente incoerente con la realtà storica di questa tendenza demo-fascista (il guanto di velluto democratico che occulta il pugno di ferro fascista), appare invece la teoria dell’indebolimento degli stati. Abbiamo spesso criticato questa teoria, per cui rimandiamo al lavoro presente sul sito ‘Dell’indebolimento degli stati’.
Ricordiamo solo che determinate idee sono spesso l’espressione di determinate condizioni di vita, ma anche di esperienze politiche su cui non si è riflettuto in modo adeguato.
La farsa elettorale
‘Se fosse utile votare non
ce lo lascerebbero fare”
Mark Twain
Viviamo in un mondo in cui anche le cose più inutili spesso hanno uno scopo; sembra che questo valga anche per le vicine elezioni politiche del 24 febbraio 2013. A prima vista, allestire una consultazione elettorale sembrerebbe uno spreco insensato di tempo e di denaro, ben sapendo che chiunque sia vincitore, alla fine, esso potrà solo, inevitabilmente e indipendentemente dalla sua volontà, adeguarsi al sistema capitalistico, continuando a mettere in atto ‘i provvedimenti le riforme necessari che ci sono richiesti dall’Europa’. Infatti, chiunque esca vincitore dal confronto delle urne non metterà mai in questione, per debolezza intrinseca ed adesione passiva allo status quo, le prescrizioni e i diktat esterni provenienti dagli organismi mondiali, politici e finanziari. Assodata questa necessità, sosteniamo che – in ogni caso – dal parlamento ai comuni, qualunque amministrazione potrà affrontare i problemi posti dalla complessa macchina sociale contemporanea, soltanto adeguandosi alle leggi che regolano il capitalismo. Per nostra sventura l’unica legge fondamentale che regola questo sistema, da cui tutte le altre derivano, è quella della produzione di plusvalore attraverso lo sfruttamento del lavoro salariato. Di conseguenza, qualunque sia il colore della compagine politica che dovrà governare l’Italia dopo le elezioni, le attuali tendenze all’inasprimento delle condizioni di sfruttamento e di schiavitù della classe lavoratrice, non cambieranno di una virgola.
Possiamo anche chiarire meglio cosa sono le tendenze di cui stiamo parlando. Usiamo i dati – probabilmente ottimistici – di una fonte ufficiale come il Censis, così non ci accuseranno d’essere catastrofisti.
Il Censis nel Rapporto 2012 descrive una crisi peggiore delle altre, “perfida”, che ci rende inermi di fronte a “eventi estremi”, quasi al di fuori della comprensione.
I consumi di molte famiglie sono ritornati ai livelli del 1997 e, in certi casi, anche più indietro nel tempo. Il reddito medio è sceso a 15.700 euro annui pro capite. Una percentuale pari a 83% delle famiglie italiane ha riorganizzato la spesa alimentare, ricercando offerte speciali e cibi meno costosi, il 65,8% ha drasticamente ridotto gli spostamenti in auto per risparmiare, il 42% ha rinunciato a viaggi e vacanze, il 39,7% all’acquisto d’abbigliamento e calzature, 2,5 milioni di famiglie hanno venduto oro e altri oggetti preziosi, 2,7 milioni di italiani hanno iniziato a coltivare ortaggi e verdura, quasi 11 milioni di italiani preparano in casa quasi tutti i generi alimentari per l’autoconsumo familiare.
In dieci anni la ricchezza finanziaria è scesa mediamente da 26.000 a 15.600 euro a famiglia, tuttavia la quota percentuale di nuclei familiari con una ricchezza finanziaria superiore a 500.000 euro è più che raddoppiata, spostandosi dal 6% al 12,5% (Miracoli della crisi, che come la guerra fa sopravvivere e arricchire solo i più forti). I disoccupati, secondo la stima prudente del Censis ammontano 2.753.000 unità (tuttavia tale numero non comprende l’enorme esercito di lavoratori precari e sottoccupati). Aumentano inoltre i soggetti costretti a vendere la propria casa, rassegnandosi a vivere in affitto (+2,6%).Inoltre nei centri urbani, la percentuale delle famiglie in affitto è cresciuta fino al 30%.
Quali cose possono dire adesso, di fronte a questi dati ufficiali, tutti coloro che ancora l’altro ieri irridevano e trattavano con sufficienza il vecchio Marx e le sue scoperte scientifiche sulla caduta tendenziale del saggio di profitto, l’impoverimento della popolazione, le crisi economiche? Quanti ci hanno creduto, fino in fondo, nel libero mercato e nella impresa? Quanti sono quelli che ci credono, ancora adesso, al pari di quei soldati giapponesi che non sapevano che la guerra era finita? Soprattutto, quanti sono gli ingenui che ancora ritengono d’essere liberi, solo perché gli è consentito di scegliere con il voto democratico la propria amministrazione politica? Quando questi signori dicono che terranno fede agli impegni assunti con le principali cancellerie straniere, con l’UE, il FMI, i mercati, ecc. e, poiché questi obblighi rappresentano una politica obbligata di impoverimento delle proprie popolazioni, si può avere finalmente presente il valore del voto. La sua efficacia è dunque meno di niente. Per questo motivo si può ben sostenere che la democrazia è il miglior involucro di una dittatura strisciante e surrettizia la quale, attraverso una partecipazione fittizia ed inessenziale della “società civile” alle decisioni istituzionali (preventivamente selezionate e dettate dalle necessità del capitale, e per ciò stesso disattivate di ogni loro eventuale carica critica), ritualizzata negli eventi elettorali a cadenze prefissate, ottiene il plebiscito dei “cittadini” a garanzia di istanze preordinate, sulle quali “il popolo” ha apparentemente voce in capitolo.
Nella società capitalistica, l’efficienza e l’efficacia di una buon’amministrazione politica, si misurano attraverso la capacità di far continuare il processo di valorizzazione del capitale (efficacia), limitando al minimo la stato di conflitto sociale e i pericoli rivoluzionari latenti (efficienza). In questo senso, non solo il rito elettorale ma anche le successive rappresentazioni farsesche del teatro parlamentare e governativo, non sono inutili, ma svolgono l’importante funzione ideologica di persuadere le moderne moltitudini di schiavi d’essere liberi e di potere scegliere democraticamente il proprio governo. Verrebbe da dire nulla di nuovo sotto il sole, ricordando in particolare che i condizionamenti ideologici sono una costante nella storia umana, e hanno lo scopo ultimo di garantire – senza l’uso diretto della violenza – il dominio di una classe sociale su un’altra classe sociale.
La Sinistra comunista ha da tempo affermato, che dopo la seconda guerra imperialista la vittoria sostanziale è stata del modello fascista, non militarmente ma socialmente. Cosa intendiamo dire? Esattamente questo: la democrazia è la forma rappresentativa più limpida/efficace della dittatura del capitale. La dittatura agisce per conto della democrazia in quanto mezzo estremo per la difesa del “principio democratico” (principio vitale per lo sviluppo del capitalismo), la democrazia agisce per conto della dittatura in quanto mezzo di consenso formidabile per la difesa del “principio di realtà” ovvero dello “Stato di classe”. Sostenere che la dittatura (dichiarazione di aperta guerra sociale) sia sostanzialmente diversa dalla democrazia (organizzazione del consenso politico sulla base di una violenza potenziale, di uno stato d’allerta), significa voler isolare l’atto di forza repressivo dalla sua matrice sociale (“ la guerra non è la continuazione della politica con altri mezzi”?). Ciò che distingue i due momenti politici del dominio di classe del capitale (democrazia borghese/fascismo) sono i mezzi non la finalità. Ovviamente è errato sostenere che ci troviamo oggi in una “società autoritaria” o in uno “stato di polizia”. Manca, per la manifestazione di una tale una tale realtà, l’antagonista, il proletariato, attualmente invischiato in una tela di rapporti (di subordinazione e condizionamento) che ne debilitano le forze e le spinte elementari. Abbiamo più volte espresso questa condizione storica con la formula di “democrazia blindata” o di “fascistizzazione”.Tuttavia è di fronte a una crisi economica e politica sistemica, quale quella ormai in corso da decenni e senza soluzioni immediate in vista, che il capitale è costretto a uscire allo scoperto, e ad agire, sia in ambito nazionale che internazionale, in sintonia con la forma “moderna ed adeguata ” del suo dominio politico: il fascismo. Questa forma strisciante di ‘governance’ continua l’adeguamento alle difficoltà economiche di una lunga fase discendente, in maniera irreversibile, dimostrando la difficoltà di continuare a fingere una dichiarata “libertà ed uguaglianza” di tutti i cittadini di fronte alla legge. L’attuale fase totalitaria dell’epoca borghese, vede le forme parlamentari, anche se continuamente osannate, in netto declino, esse tendono sempre più a diventare “camere di ratifica” per il progressivo rafforzamento dell’esecutivo. Il meccanismo stesso delle decisioni dello stato capitalistico, che devono essere tempestive per rivelarsi adeguate alla soluzione dei problemi, mette in crisi l’edificio della democrazia rappresentativa in tutte le sue componenti: i parlamenti, i partiti, le assemblee locali ecc. Le scelte attraverso cui si esprime l’interesse del capitale tramite il potere pubblico (decisioni di investimento, interventi anticongiunturali, gestione dei servizi, rapporti politici internazionali, politiche salariali e fiscali) sfuggono ormai completamente alla discussione ed al controllo delle assemblee parlamentari. Le rinnovate funzioni affidate agli stati nazionali, dal grande capitale monopolistico finanziario transnazionale, sono funzioni anzitutto economiche, di raccordo finanziario e monetario per l’estrazione del plusvalore, la concentrazione del denaro e la circolazione del capitale. Ma tali atti economici statali possono esprimersi appieno solo se le forme istituzionali che li debbono racchiudere siano a essi adeguate e corrispondenti. Il potere reale si trasferisce verso l’esecutivo, e da questo ad una struttura burocratica statale che si estende dall’apparato amministrativo statale all’impresa pubblica fino ai maggiori gruppi privati e alle maggiori centrali sindacali. I contenuti delle “scelte” operate dai poteri pubblici, vengono sempre più tecnicizzandosi, nascondendo la loro sostanza politica e generale sotto il velo di calcoli specialistici, poiché, per loro stessa natura, in quanto scelte sempre subordinate alla conservazione e riproduzione del capitale e dei suoi interessi, cioè ad una realtà non modificabile del sistema, si presentano come alternative variamente efficienti (governi di destra o di sinistra) per la soluzione di problemi parziali il cui senso generale è fuori dalle loro stesse capacità. Di conseguenza, ogni reale parentela tra l’esercizio del potere statale ed i programmi generali o l’ideologia delle forze politiche diviene sempre più formale; tutti si uniformano alla necessità di conservazione del sistema economico sociale ed i programmi governativi si assomigliano come fotocopie, almeno sulle questioni di vitale interesse per il capitale. Così alla crisi dei parlamenti si associa la crisi dei partiti, la loro trasformazione in apparati e in macchine finalizzate alla gestione del potere, la loro disgregazione in sistemi di clientele e corruzione, e la loro parziale sostituzione con organizzazioni di tipo corporativo. Dall’incalzare di questa crisi e dalle spinte centrifughe che da essa si sprigionano (instabilità, incertezza del potere, inefficienza) sorge un rafforzamento del potere esecutivo nella sua forma estrema: il potere personificato. La delega al “capo carismatico” diventa la sola forma possibile di mediazione fra il simulacro della “sovranità popolare” e la realtà del potere borghese. Dunque le “riforme istituzionali” e costituzionali, che caratterizzano e accompagnano la presente fase di crisi, non sono meri contraccolpi del disordine “politico” ma rappresentano una tappa necessaria del generale riassetto del potere imperialistico internazionale. La caricatura plebiscitaria e maggioritaria della democrazia diretta è consona a questa mistificazione istituzionale.
Nella storia umana il pensiero e la pratica riformista hanno rappresentato la migliore attività di produzione ideologica – di cui il capitale è riuscito a dotarsi – per sconfiggere l’infezione rivoluzionaria (paragonabile, in questo, alla produzione d’anticorpi da parte delle difese immunitarie di un organismo biologico).
Ritroviamo nel primo volume dell’opera dal titolo “Storia della sinistra comunista” le seguenti considerazioni, a nostro parere ancora attuali e calzanti rispetto ai temi imposti dal presente. La lotta di classe…“ Il riformista la concepisce come conflitto d’interessi fra i padroni capitalisti e le maestranze operaie, fra i quali lo stato interviene secondo l’influenza dei partiti borghesi e operai in lotta nel parlamento. Non troviamo un solo congressista (Si parla del IV congresso socialista svoltosi nel settembre del 1900) che ricordi la tesi marxista che lo stato democratico e parlamentare difende per sua natura gli interessi del capitale…(in definitiva) per il marxismo, vi è uno stato in cui il proletario è inferiore al capitalista; e se ne prevede uno in cui il capitalista è inferiore al proletario, anzi in cui il primo è nulla e il secondo è tutto: l’assurdo sta nel ritenere che ci si arrivi passando per una forma di stato storico in cui il proletario e il capitalista siano giuridicamente e politicamente uguali. Qui il nocciolo della demolizione della democrazia in cui la dottrina marxista consiste, e qui la centrale scoperta di Marx: la dittatura proletaria”. Pag.30
Il contenuto di questa citazione può aiutarci a leggere in modo appropriato le farsesche vicende elettorali recenti, la citazione, infatti, mette in luce il fondamentale vizio del pensiero riformista, che si rivela (alla resa dei conti) illogicamente assurdo e funzionale al sistema. Un conto, infatti, è affermare che nel divenire storico il negativo (lo Stato borghese), può trasformarsi in positivo (lo stato proletario) – attraverso il non secondario evento definito rivoluzione – un altro conto è sostenere che, mentre il negativo è negativo, può essere anche, contemporaneamente, qualcosa di diverso da se stesso, dunque lo stato borghese in quanto stato borghese, può essere anche stato proletario.
Riprendiamo le vivaci riflessioni critiche contenute nel testo a pag.31, dove si ricorda come nella visione riformista di Turati e Treves ” lo Stato democratico (è il luogo) dove il proletario si senterealmente uguale, politicamente e giuridicamente, al capitalista”. Sarebbe a questo punto una crudeltà inutile ricordare anche ai nostri moderni riformisti democratici, più che mai sognatori, che un luogo del genere non può esistere – e, infatti, non è mai esistito – e nel mondo capitalistico reale lo stato, assuma una forma esteriore democratico – parlamentare o una forma fascista, è sempre l’arma che permette al capitale di perpetuare la schiavitù e lo sfruttamento del proletario. Le illusioni democratico – elettorali, tuttavia, non sono solo dei sogni innocui. Nell’esperienza reale della vita, la tesi assurda che pone come effettivamente esistente una dimensione in cui “Lo stato democratico (è il luogo) dove il proletario si sente realmente uguale, politicamente e giuridicamente, al capitalista”, si rovescia nella concretezza di una società dove, invece,il proletario continua ad essere schiavo, politicamente, giuridicamente ed economicamente del capitalista e del suo stato, anche grazie all’assurda irrealtà delle tesi riformiste, che svolgono la funzione pratica di persuadere le moderne moltitudini di schiavi d’essere liberi e di potere scegliere democraticamente il proprio governo. L’aggravamento della crisi economica cui si assiste da anni, tuttavia, aumentando la disoccupazione e i tagli al welfare, spinge una parte dei proletari a ribellarsi, erodendo nel frattempo l’importanza politica della funzione riformista e della farsa elettorale democratica, poiché, alla carota e al guanto di velluto, lo stato del capitale è obbligato a sostituire il bastone e il pugno di ferro della repressione.
Il mascheramento ugualitario del capitale non regge più, in pratica ciò è diventato tanto più evidente sotto l’urto inconfutabile di una realtà sociale in disgregazione che non permette di andare oltre un certo grado di efficacia dell’imbonimento democratico-parlamentare, pertanto il capitale persegue l’adeguamento alla difficoltà economica di una lunga fase discendente in maniera irreversibile, trovandosi nell’impossibilità di continuare a fingere su una dichiarata “uguaglianza” di tutti. Inizia a tramontare quindi il tempo delle favole democratico – riformiste, e al loro posto appare in tutta la vera natura il volto Demo – fascista del Moloch capitalista, il quale cerca di sopravvivere ad ogni costo, impiegando tutti i mezzi a sua disposizione. Alla lotta elettorale e alle sue bugie si sostituisce dunque una tendenza allo scontro di classe diretto con il capitale e il suo apparato statale.
Gennaio 2013