Caos, scienza del proletariato e necessità storica della rivoluzione.
Nella precedente conferenza pubblica di fine ottobre, sempre qui al Bruco, abbiamo avuto modo di ricordare – con il tema Sogno di una rivoluzione – quegli eventi che un secolo fa hanno portato sulla scena del mondo intero il proletariato ed i contadini della Russia zarista. Era l’Ottobre 1917 quando, a partire da Pietrogrado e Mosca, si assistette allo snodarsi di quelli che il giornalista americano John Reed titolò, in un suo famoso libro, I dieci giorni che sconvolsero il mondo. E, all’interno di quel 1917, vogliamo soffermarci su di un episodio: uno sciopero nella località di Viborg.
Viborg era un grande distretto industriale di Pietrogrado che, nella storia della rivoluzione in Russia – particolarmente nella storia dell’insurrezione del 1917 – occupa un posto di tutto rispetto.
Vanno accennate le condizioni di vita di tutta la popolazione: in particolare quella delle masse popolari. La guerra 1914/’18 vede passare l’esercito russo di sconfitta in sconfitta sotto la pressione delle armate tedesche, e si vede dunque costretto ad accaparrare per sé qualsiasi risorsa gli possa tornare utile al fine di evitare la rivolta all’interno delle sue stesse fila.
La fame dilaga e gli operai di Viborg, come tutta la rimanente popolazione, cominciano a sentire sempre più insopportabili queste condizioni. Le necessità della guerra costringono la macchina produttiva a girare ancora più velocemente e l’aumento dello sfruttamento della forza-lavoro si accompagna pure con l’abbassamento nominale dei salari.
Un’attenzione particolare meritano le operaie delle fabbriche tessili del distretto. Per loro non solo vi erano le medesime condizioni di sfruttamento dei loro fratelli o mariti (a salari più bassi), ma anche l’incombenza di fare la ‘coda’ (quindi uscire di casa ben prima degli operai maschi) per poter arrivare a comprare quel po’ di pane necessario per tutta la giornata.
Dato un simile quadro, non è certo per fare dell’allarmismo che i dispacci di polizia al centro imperiale lanciano forte l’allarme che vi è la possibilità di alimentare la popolazione per una sola settimana circa e, di fronte a tale prospettiva, paventano il pericolo di una generalizzata esplosione sociale.
Le difficoltà dunque si accumulano e con esse la rabbia di non potersi liberare di quella gabbia che condanna all’impotenza assoluta. I giorni scorrono uno dopo l’altro con in-fame ripetitività: le braccia stese e, fino allora, rassicuranti del “piccolo-padre”, lo zar, e le prediche dei pope non bastano più a riempire le teste pur continuando a lasciar vuote le pance.
È in queste condizioni che si apre la giornata del 23 febbraio, la Giornata internazionale della donna (8 marzo, secondo il calendario giuliano), ed è da tale situazione che possiamo immaginare un collettivo urlo rabbioso di queste operaie tessili delle fabbriche di Viborg: BASTA! SCIOPERO! I comitati di lotta che esse formano, invitano immediatamente i metallurgici delle fabbriche all’intorno ad unirsi nello sciopero.
Questi ultimi al momento tentennano, ma non sono i soli. Tentennano pure i dirigenti dei loro partiti rivoluzionari: quel giorno tentennano anche i bolscevichi con la ‘mai-vecchia’ affermazione: “non è il momento adatto”.
Non servirà a nulla!
Di fronte ad una simile accumulazione di contraddizioni sociali, in una situazione esplosiva come quella di febbraio 1917, quello che ben presto si chiamerà Partito Comunista Russo (bolscevico) dovrà cercare di mettersi alla testa del movimento oppure – assieme agli altri partiti e gruppi che si definiscono ‘operai’ o ‘popolari’ – essere spazzato via.
Il movimento insurrezionale messo in moto dalla scintilla esplosiva di Viborg, porterà dopo soltanto una settimana all’abdicazione dello zar Nicola II e, nel giro di pochi mesi, all’insurrezione di Pietrogrado e Mosca.
Per la vecchia Russia zarista sarà il crollo totale.
Una domanda si impone: che cosa rappresenta l’area del distretto industriale di Viborg, col suo movimento di scioperi, al confronto del vastissimo spazio dell’impero zarista che va dal Mar Baltico all’Oceano Pacifico? Che cosa rappresenta quell’iniziale e locale esplosione che ha cambiato la storia del mondo intero?
Viborg si mostra come il detonatore di una situazione esplosiva che fa crollare completamente il fatiscente edificio imperiale russo. Ecco il senso del sottotitolo posto a questa nostra serata, ovvero “una infinitesima perturbazione può provocare dei giganteschi mutamenti”.
E poi: perché proprio Viborg? perché proprio quella particolare fabbrica tessile riuscì ad innescare il successivo incendio di tutte le fabbriche del gruppo Putilov? E chissà quale è stato il gruppo di operaie che ha convinto tutte le altre. … Tali domande, a pensarci bene, sono superflue.
Per farla breve, va considerato che la molla che fa scattare negli individui il meccanismo di abbandono dell’ideologia borghese non è indagabile, perché inerente all’universo di determinazioni minute, all’interno del quale non si potranno mai conoscere le “condizioni iniziali” di una qualsiasi forma di movimento.
L’unica cosa sensata che si può dire, per ricollegarci alla prima relazione ed agli schemi presentati da Adriano, è che qui possiamo collocare quel battito d’ali della farfalla che mette in moto le onde sismiche di un mondo nuovo – registrate fin dal 1861, con la riforma di Alessandro II e successivamente analizzate magistralmente da Marx – un mondo nuovo, soggiacente al vecchio e decadente impero: mondo nuovo che ci riporta ad un capitolo fondamentale nella storia della conoscenza.
Con un salto pindarico possiamo porci a cavallo dei secoli 1700/1800 ed osservare come sia la stessa borghesia nel suo periodo rivoluzionario – all’alba dunque dell’attuale modo di produzione capitalistico – ad indicare che tale forma sociale che le è propria, è il prodotto necessario – in quanto inevitabile – dovuto a tutto il precedente corso storico.
I presupposti scientifici di una tale conoscenza li possiamo riscontrare, dopo Galilei, in Newton, che con i successivi Boscovich e Laplace sono forse le migliori espressioni, sul piano scientifico teoretico, di questa inevitabilità del modificarsi continuo delle forme.
Già ricordato nelle relazioni precedenti, non serve citare nuovamente Laplace sulla possibilità di prevedere il futuro in base alla conoscenza del passato. Aggiungiamo solo che a Napoleone, che gli rimproverava di non aver collocato Dio all’interno del suo schema, Laplace rispondeva tranquillamente: “Maestà, non ho avuto bisogno di prendere in considerazione questa possibilità !”.
Potente affermazione, espressione di una borghesia rivoluzionaria pronta ad ergersi contro ogni conoscenza sulla natura ricevuta dal passato ed orgogliosa della propria nuova conoscenza che pretende di arrivare a ‘dominare’, un giorno, l’insieme del mondo naturale nel quale vive.
I Quesnay, gli Adam Schmidt, i Ricardo, a cavallo dei secoli XVIII/XIX, con le loro analisi sullo sviluppo del mondo delle merci e del Capitale, sono i classici rappresentanti di un mondo borghese che comincia a prendere consapevolezza della propria esistenza e del proprio sviluppo; rappresentanti di un mondo che formatosi nei pori della società feudale e giunto alla fine del proprio percorso fetale, ad un certo punto vede la luce in modo rivoluzionario.
Ben presto però, la consapevolezza rivoluzionaria della borghesia si ferma e si adagia su di un “materialismo volgare” (v. Marx e le varie “robinsonate” borghesi) che non sa far altro se non considerare eterno, dalle origini dell’uomo fino al futuro più lontano, questo mondo delle merci.
Il corso del capitalismo, con la sua ‘rivoluzione industriale’ dei decenni successivi, se ha mostrato le ricadute pratiche in termini di sviluppo dei mezzi di produzione – tendenziale possibilità per un futuro miglioramento delle condizioni di vita di tutti gli uomini –, ha nello stesso tempo impoverita via via questa capacità di universalismo scientifico, e l’orgogliosa sfida che la borghesia rivoluzionaria aveva lanciato contro il Dio delle ombre del passato e contro i suoi rappresentanti in Terra si è ben presto trasformata nella adorazione del lucente Dio-denaro e nell’abbraccio col decadente pretume.
La borghesia dimentica che, a partire dalla fine delle società del comunismo originario, la storia dell’uomo è sempre stata storia delle lotte fra classi sociali antagoniste, e che tale lotta continua all’interno del suo mondo nella forma della lotta fra proletariato e borghesia stessa, nella forma della giornaliera contrapposizione – “giornaliera guerra civile” la definisce Marx – fra Capitale e lavoro salariato.
È a partire da queste lotte che il proletariato impara a conoscere se stesso, la propria natura contraddittoria: quella di essere classe in sé, vale a dire classe per il Capitale e, di contro, classe per sé, ovvero classe per il superamento rivoluzionario del mondo del Capitale: è in questo “conoscere se stesso” che esso si impadronisce di tutti quegli strumenti di lotta e di conoscenza che gli sono possibili e ad organizzarsi in partito politico.
Limitandoci ad esprimerlo in tal modo, però, sentiremmo ancora l’eco della linearità di un Newton, di un Laplace e, con l’adagiarci su di essa, sarebbe arduo concludere che saremmo riusciti a salire sulle spalle di questi giganti per poter vedere oltre il loro orizzonte – per i loro tempi – positivamente lineare.
Nel corso del suo sviluppo, infatti, il proletariato impara a non limitarsi all’osservazione della quantità di moto nello spazio di una certa massa e, quindi, a prevedere la sua posizione futura in un determinato momento: esso impara soprattutto che la quantità di moto di una certa massa (che significa pure: la quantità di relazioni fra questa massa ed il mondo che la circonda) modifica, a poco a poco, la sua stessa natura.
Ma allora questo significa pure che il proletariato, nel corso della sua storica traiettoria, incontra un momento di rottura (la ‘farfalla’ da qualche parte ha battuto le ali !) – che gli impone di riconoscere in se stesso non solo di essere a) parte ed affermazione vitale – in quanto servo salariato – di questo mondo capitalistico, b) ma anche e soprattutto negazione vivente – in quanto lavoratore complessivo – del mostro che lo opprime nel momento stesso in cui gli sta dando ossigeno.
Ed è a partire da qui che esso salterà un giorno su di un piano diverso e non avrà alcuna importanza in quale ‘negozio’ si potrà trovare quel particolare diapason che gli darà il ‘la’.
I vari Marx ed Engels non sono altro dunque che l’espressione fisica di questa consapevolezza ed il materialismo storico e dialettico ne diventa l’espressione teoretica. Il proletariato impara dalla stessa borghesia che nulla è inamovibile, che tutto si muove e cambia. Si rende così consapevole che non è una sua peculiare scoperta l’esistenza dell’‘eterna guerra’ giornaliera fra classi antagoniste: ciò che ben presto impara – ed esprime con i lavori di Carlo Marx – è che la lotta fra proletariato e borghesia sfocerà inevitabilmente un giorno nello Stato della dittatura proletaria.
Ecco allora la capacità di leggere una precisa sovrapposizione di stati diversi e contrapposti – come la deterministica sovrapposizione delle diverse traiettorie osservabili nella schematizzazione del pendolo-doppio data dalla relazione precedente –; quindi capacità di individuare, nello spazio delle fasi sociali, quell’attrattore ‘strano’ rivoluzionario (la produzione e distribuzione in comune lungo il filo del tempo che unisce le società del comunismo originario a quello nostro futuro) che permette ai nostri occhi di poter danzare dall’esistente realtà della valorizzazione del capitale alla stessa e contemporanea realtà della sua negazione.
È in questo che vediamo la potenza del metodo dialettico lasciatoci da Marx ed è a partire da questo che possiamo comprendere i ‘limiti’ dei giganti della conoscenza del passato e la potenza di una visione del proletariato rivoluzionario – non-lineare, visione per salti –, nello studio delle contraddizioni nell’insieme della natura e, per quanto ci interessa in modo immediato, della società attuale.
È, allora, a partire da questo che rifiutiamo di cadere in ogni forma di acritica genuflessione di fronte alle moderne enunciazioni teoriche sul caos, sulla complessità e sulle non-linearità, come se da esse dovesse emergere un qualcosa che potesse portare al superamento dei paradigmi posti da Marx fin dal secolo XIX°. Da tale rifiuto, poniamo una nostra chiara tesi: le moderne enunciazioni sulle teorie del caos, ecc., possono essere da noi utilizzate in quanto inglobabili dal programma del comunismo sin dalle fondamentali enunciazioni del programma della rivoluzione sviluppate in blocco già dal Manifesto del 1848. Il movimento contrario non sarà mai possibile.
Eccoci dunque alla nostra conclusione: è con lo studio della genesi della forma capitalistica che Marx descrive la tendenza del Capitale, liberatosi delle pastoie dell’antica società feudale, di concentrare via via i mezzi di produzione nelle mani di un sempre minor numero di capitalisti, in modo tale che di questo passo si sviluppa
“su scala sempre crescente la forma cooperativa del processo di lavoro, la consapevole applicazione tecnica della scienza, lo sfruttamento metodico della terra, la trasformazione dei mezzi di lavoro in mezzi di lavoro utilizzabili solo collettivamente …
[In tal modo] … La centralizzazione dei mezzi di produzione e la socializzazione del lavoro raggiungono un punto in cui diventano incompatibili col loro involucro capitalistico. Ed esso viene spezzato. Suona l’ultima ora della proprietà privata capitalistica. Gli espropriatori vengono espropriati.
Il modo di appropriazione capitalistico che nasce dal modo di produzione capitalistico, e quindi la proprietà privata capitalistica, sono la prima negazione della proprietà privata individuale, fondata sul lavoro personale. Ma la produzione capitalistica genera essa stessa, con l’ineluttabilità di un processo naturale, la propria negazione. È la negazione della negazione.” …
Viene forse da credere inconcepibile, oggi, una tale certezza, “visti i tempi che corrono”. Ma noi, nella nostra inossidabile fiducia, in chiusura di questa breve esposizione sul tema Caos, determinismo e rivoluzione, ripetiamo col Manifesto del Partito Comunista:
“Lo sviluppo della grande industria toglie dunque di sotto i piedi della borghesia il terreno stesso sul quale essa produce e si appropria i prodotti. Essa produce innanzi tutto i suoi propri seppellitori; il suo tramonto e la vittoria del proletariato sono egualmente inevitabili …”.