Statistiche sull’occupazione
Premessa
I dati sull’occupazione in Italia, presentati in alcune recenti ricerche statistiche, evidenziano impietosamente la situazione di aumento della sottoccupazione e del precariato. I dati evidenziano che nel novembre 2017 lavoravano in Italia 23 milioni 183 mila persone, questo numero è il più alto dal 1977, data di inizio dei rilevamenti sull’occupazione. Il lavoro cresce, nel senso che aumentano coloro che nella settimana di riferimento hanno lavorato almeno un’ora. Occupazione, nel parametro statistico utilizzato da alcuni ricercatori, indica infatti che un soggetto ha lavorato almeno un’ora settimanale. Sulla base di questi parametri può verificarsi il caso, non tanto paradossale, di un decremento delle ore di lavoro globali all’interno di una economia, e il contemporaneo aumento degli occupati.
Una parte del ceto politico potrà vedere in questo ultimo dato un bicchiere mezzo pieno, ignorando che l’aumento dell’occupazione è in realtà principalmente aumento della sottoccupazione e del precariato.
Nel corso della sua storia il capitalismo modifica in modo crescente la composizione organica e tecnica del capitale aziendale delle varie imprese economiche: sotto la spinta della concorrenza e quindi dell’anarchia della produzione, è costretto a ridurre i costi aziendali introducendo macchinario al posto del lavoro salariato. In definitiva la concorrenza fra le imprese capitalistiche suscita la creazione di un capitale costante in grado di sostituire il lavoro umano. In una società comunista tale circostanza significherebbe la liberazione dell’umanità da buona parte dell’attuale carico di lavoro (gravante sulle spalle dei ‘fortunati’ occupati), mentre nella società capitalistica significa solo la miseria crescente derivante dalla disoccupazione, sottoccupazione e precarietà derivate dalla variazione della composizione tecnica/organica del capitale aziendale.
Parte prima: dati numerici recenti
Dunque i dati mostrano un calo della disoccupazione totale e in particolare della disoccupazione giovanile. L’occupazione totale è la percentuale di coloro che sono “occupati” sul totale della popolazione in età attiva, quest’ultima comprende la fascia di soggetti che hanno tra i 15 e i 64 anni. In questa fascia gli occupati sono attualmente più di 23 milioni, un numero che corrisponde al tasso percentuale del 58,4%. Ricordiamo di nuovo che ‘fanno numero’ anche coloro che nella settimana di riferimento della rilevazione statistica svolgono poche ore di lavoro, o addirittura una sola ora di lavoro. Torniamo ai dati numerici presenti in alcuni studi. Dal 2013 ad oggi si è registrato un aumento di un milione di posti di lavoro (oltre trecentomila sarebbero stati creati solo nel 2017), a fronte di una ripresa economica nazionale del 1,5%. Quest’ultimo dato rivestirebbe un ruolo importante nel comprendere le variazioni dei dati numerici e percentuali sull’occupazione, secondo alcuni analisti economici, infatti, l’incremento del PIL sarebbe correlabile direttamente all’aumento dell’occupazione. La relazione fra i due fenomeni è a nostro avviso di tipo non direttamente proporzionale, in quanto essa va inserita nel processo generale di variazione della composizione del capitale aziendale, variazione che vede il capitale costante (macchinario) sostituire progressivamente il capitale variabile (lavoro salariato). In altre parole, di fronte ad un certo tasso di crescita percentuale delle attività economiche, ci sarà tendenzialmente un tasso inferiore di crescita percentuale dell’occupazione, almeno se consideriamo come parametro di confronto il totale delle ore di lavoro svolte in una certa economia nazionale, e non il semplice incremento dei soggetti occupati (nel cui numero le statistiche comprendono anche chi lavora una sola ora settimanale). Nella cornice delle precedenti argomentazioni, si può inserire realisticamente il calo della disoccupazione, che passa dal 13% del 2013 all’attuale 11%. Anche questo dato può essere meglio compreso, solo se si ricorda che le statistiche rilevano le variazioni intervenute nella fascia di soggetti che sono ufficialmente alla ricerca di un lavoro, e quindi iscritti nelle liste provinciali dei centri per l’impiego o nelle liste delle agenzie per il lavoro, mentre non rientrano nel conto i soggetti non presenti nelle liste suddette. Questi ultimi, secondo le stesse statistiche, sono almeno pari al numero dei disoccupati ufficiali, essi hanno semplicemente cessato la ricerca di un lavoro, oppure seguono dei percorsi al di fuori delle liste ufficiali su cui si fondano le statistiche.
I giovani sono spesso ‘attenzionati’ dalle ricerche statistiche sull’occupazione, e infatti anche i recenti report ci informano che la disoccupazione giovanile è diminuita al 32,7 per cento, di fronte a dati superiori al 40 per cento negli anni precedenti. A nostro avviso avremo un quadro realistico del mercato del lavoro giovanile, in cui inserire anche il calo della disoccupazione giovanile, solo considerando i contratti di formazione-lavoro, e tutta la marea di attività lavorative a progetto o a chiamata diretta, oggi predominanti. Dunque si può parlare di un calo della disoccupazione giovanile, specificando che i dati numerici sono stati rilevati secondo il parametro dell’ora settimanale di lavoro, e che inoltre la rilevazione evidenzia un larga diffusione del lavoro a tempo determinato (ritornando dunque alla nostra ipotesi di partenza sull’aumento della precarietà e della sottoccupazione, e quindi della miseria crescente).
Una causa dell’aumento dell’occupazione (soprattutto femminile) risiede, paradossalmente, nella riforma delle pensioni Fornero. Infatti l’allungamento dell’età pensionabile delle donne, in particolare nel settore privato, ha prodotto un aumento dell’occupazione (semplicemente obbligando alcune imprese a dilazionare nel tempo l’introduzione di tecnologia sostitutiva del lavoro salariato, o l’impiego dei contratti a tempo parziale e a termine previsti dalle ultime ‘riforme’.
Vediamo ora cosa contengono le statistiche in merito alla qualità degli aumenti quantitativi occupazionali (a conferma ulteriore delle nostre ipotesi di partenza).
Tra il novembre 2016 e il novembre 2017 si è verificata la crescita di quasi 340 mila nuovi posti di lavoro. Questo dato rappresenta il saldo fra l’aumento dei posti di lavoro dipendente e il calo di quelli autonomi. Dunque i posti di lavoro dipendente sono aumentati all’incirca di mezzo milione, mentre quelli da lavoro autonomo sono calati, evidentemente di 160.000, infatti (500.000-160.000= 340.000). Il dato interessante (alla luce dell’ipotesi di partenza sull’aumento della sottoccupazione e precarietà ) è che solo 48 mila dei 500.000 mila nuovi posti di lavoro dipendente, sono regolati da contratti a tempo indeterminato, la parte restante (90%) è invece regolata da contratti a termine. Bisogna ricordare che il regime delle de-contribuzioni previsto dal Jobs act (contratti a tutele crescenti, costati 20 miliardi di euro di mancati introiti all’erario da parte delle imprese) ha permesso alle imprese di assumere a tempo indeterminato ottenendo uno sconto fiscale triennale. Tale possibilità è durata fino al 2015, e infatti in questo periodo gli aumenti occupazionali sono stati quasi per la metà rappresentati da contratti a tempo indeterminato, tuttavia i mancati introiti fiscali e contributivi (da cui lo stato capitalista attinge per il pagamento degli interessi al capitale finanziario possessore del debito pubblico), hanno suggerito di porre fine all’esperimento. Con la fine delle de-contribuzioni
i posti di lavoro precario sono tornati a crescere. Inutile ricordare che l’occupazione precaria è retribuita, generalmente, con salari e stipendi inferiori alla media delle retribuzioni degli occupati a tempo indeterminato. Interessante notare, alla luce del nostro schema di analisi, che vede il capitale finanziario assumere un peso predominante nell’attuale equilibrio di forze interno alla classe dominante, che la de-contribuzione (favorevole alla parte ‘industriale-produttiva’ della classe borghese) sia stata ben presto accantonata, per recuperare i 20 miliardi di mancate entrate tributarie (direttamente collegate alla soddisfazione degli interessi del capitale finanziario titolare del debito pubblico). Ovviamente non tutto il capitale finanziario ha tratto giovamento dalla fine della de-contribuzione, è infatti ipotizzabile che una parte del capitale finanziario, investito in titoli azionari comprati nelle contrattazioni di borsa, avesse l’interesse alla continuazione della de-contribuzione in quanto fattore di migliori risultati economici annuali e quindi di maggiori o almeno uguali dividendi sulle azioni possedute (il capitale finanziario investito in titoli azionari è di fatto capitale di rischio, cioè parte del capitale sociale, suddiviso in azioni di eguale valore nominale, tipico delle S.P.A).
Parte seconda: Centralizzazione dei capitali e decrescita del lavoro autonomo (alias proletarizzazione del ceto medio).
Le discussioni e i dibattiti sul feticcio dell’aumento reale o fittizio dell’occupazione, nascondono una questione importante: come mai buona parte dell’umanità deve rincorrere una qualsivoglia occupazione, spesso precaria e sottopagata, quando l’attuale capacità produttiva dell’economia globale consentirebbe a tutti di lavorare poche ore settimanali, e di vedere appagati i bisogni fondamentali (casa, cibo, cure mediche, istruzione, viaggi). Una risposta a tale questione è data dalla seguente proposizione condizionale: l’appagamento dei bisogni umani potrebbe avvenire solo a condizione che le forze produttive, date dalla combinazione del lavoro associato e del capitale costante, fossero al servizio della intera società e non di una sua minoranza parassitaria.
Tornando agli argomenti di stretta pertinenza statistica, possiamo inferire dai dati contenuti in alcune recenti analisi, una conferma di alcune leggi storiche del capitalismo.
In primo luogo la centralizzazione dei capitali. Prendiamo il dato sulla diminuzione degli occupati nel settore del lavoro autonomo, esso ci dice che nel 2017 si è verificata una contrazione di oltre 150.000 unità. In parte si è trattato solo di false partite iva, infatti il jobs act ha abolito i co.co.pro, stimolando il passaggio ai contratti a tutele crescenti. In parte questa analisi è vera, poiché nell’ultimo decennio erano cresciuti quei lavoratori che erano di fatto dei dipendenti (quindi soggetti ad un orario di lavoro preciso e a un obbligo preciso di presenza), che tuttavia, per un puro calcolo aziendale di riduzione dei costi fiscali e contributivi, venivano pagati come collaboratori esterni, quindi titolari di una partita IVA. Tuttavia, accanto a questa categoria di lavoratori autonomi fittizi, si è verificata anche una moria di piccole imprese reali (negozianti e artigiani) messi fuori gioco dalla concorrenza di supermercati e ipermercati. Un dato reale, che conferma la legge storica, quindi tipica di questo modo di produzione, della centralizzazione dei capitali, determinata dalla concorrenza fra imprese singole, sempre più diffusa e spietata a causa della caduta tendenziale del saggio medio di profitto. La variazione della composizione tecnica e organica del capitale aziendale, determinata dalla anarchia della produzione e dalla lotta concorrenziale fra le imprese, determina a sua volta la caduta del saggio di profitto, la quale agisce come rinforzo e spinta ulteriore della tendenza del capitale costante a soppiantare il capitale ‘vivo’ variabile. L’aumento della popolazione inattiva, disoccupata, priva di un reddito adeguato alla soddisfazione dei bisogni umani primari, è collegata principalmente alla progressiva sostituzione del capitale variabile da parte del capitale costante. In questo senso la miseria crescente è una legge storica.
Nel novero dei soggetti socio-economici esposti ai rigori della miseria crescente, troviamo anche le varie decine di migliaia di piccole imprese e partite iva reali, che hanno chiuso i battenti nel 2017, sotto la spinta della centralizzazione economica. Il risvolto sociale della centralizzazione è spesso la proletarizzazione di una parte del ceto medio, alias piccola borghesia bottegaia e artigiana.
Non dimentichiamoci delle parole contenute nel testo degli anni 60, ‘Chi mai dietro la svastica’, sul ruolo svolto da questa componente sociale (ceto medio) nella genealogia dei regimi dichiaratamente (cineticamente) repressivi e violenti della borghesia (da intendersi, questi regimi politici, come uno svelamento della, peraltro, permanente dittatura di classe della borghesia capitalistica, diversa nella forma di governo, ma non nel contenuto di oppressione economico-sociale).
All’interno di una accentuata logica di repressione sociale e politica, tipica delle dittature nazi-fasciste, ha potuto pienamente dispiegarsi, infatti, il maggiore dispotismo aziendale richiesto dall’aumento dello sfruttamento proletario (quest’ultimo, inteso come controtendenza, collegata alla tendenza principale della caduta del saggio di profitto).
Alla fin fine il ceto medio, in dirittura di arrivo nel girone della proletarizzazione e della miseria crescente, ottiene, attraverso il sostegno ai regimi apertamente dittatoriali, una dilazione di pagamento sulla scadenza della cambiale che gli toccherà prima o poi regolare al creditore capitalista.