Nota redazionale: abbiamo ripubblicato separatamente, a partire da una decina di giorni, i vari capitoli in cui si articolava un vecchio lavoro risalente al 2013. Il titolo iniziale era ‘Piccoli pensieri sulla conoscenza’, successivamente mutato in ‘Dialettica, rivoluzione, conoscenza’, adesso ripresentato con il titolo ‘Cambiamento sociale e apparati di conoscenza’, a nostro avviso più appropriato a dare l’idea della ricerca contenuta nel testo.
Gli argomenti contenuti nel lavoro del 2013 sono stati ulteriormente sviscerati in altre ricerche, ad esempio ‘Conoscenza’, ‘Scienza, tecnologia e apparato militare-industriale’, ‘Complessità e metodo dialettico’, e nella parte conclusiva di IS (stato islamico) e politica del caos.
Premessa
Il lavoro che il lettore si accinge a leggere nasce dal desiderio di approfondire alcuni temi particolari: si tratta di questioni collegate alla comprensione del significato della conoscenza in una società capitalistica, e alla possibilità d’affermazione di forme di conoscenza unitarie della realtà, e quindi di tipo non capitalistico. La prima domanda inizia inevitabilmente con il chiedersi quali siano le caratteristiche dominanti del sapere nelle società divise in classe; nell’opera di Marx ritroviamo l’idea che l’occultamento ideologico della realtà raggiunto nell’epoca borghese non ha precedenti, e quindi, mentre le società schiavistiche e feudali mostravano senza troppi veli la propria natura di dominazione (da parte di una classe sociale su un’altra), l’attuale sistema basato sulla produzione di merci, e sull’apparente libero scambio fra forza-lavoro e salario, contribuisce a formare un mistico velo di nebbie che ostacola e ingarbuglia ogni tentativo di vedere qualcosa di reale nel mondo circostante. Alienazione, mercificazione, reificazione sono i processi socio-mentali che innescano la fuga dalla realtà nell’uomo contemporaneo. Un velo di nebbie nasconde il volto di questa società divisa in classi, imperniata su un meccanismo molto violento: la produzione capitalistica come ‘divoramento’ di forza-lavoro, fino alla distruzione della vita del lavoratore. Il testo cerca di riprendere le tracce di precedenti riflessioni sull’argomento, per fondare una dimostrazione materialistico-dialettica dell’inevitabilità del sorgere di forme diverse di conoscenza, conseguenti al passaggio rivoluzionario a forme diverse d’organizzazione sociale.
Capitolo 1. Idealismo: dalla contemplazione conservativa della realtà sociale, al dominio della parte sull’intero
Iniziamo con una citazione tratta da una raccolta di discorsi di Bordiga, tenuti agli inizi degli anni sessanta in occasione di un ciclo di riunioni di partito dedicate alla teoria della conoscenza: ” Secondo la concezione tradizionale la filosofia è lo svolgimento delle forme più alte di coscienza del mondo e della vita, e in senso più largo, abbraccia i principi di ogni sapere e di ogni volere. Sono oggetto della filosofia i principi di ogni gruppo di forme di esistenza e di conoscenza…La filosofia dunque avrebbe come proprio oggetto anzitutto le forme fondamentali di ogni esistenza e successivamente la dottrina dei principi della natura e quella del mondo umano”.
Questa presentazione del concetto di filosofia sembrerebbe non dare adito, nella fattispecie, a nessuna obiezione significativa, eppure le cose non stanno così. Da dove provengono, infatti, i principi attraverso cui il sapere filosofico comprende l’essere in quanto tale, per poi comprenderlo nella sua duplice dimensione umana e naturale, e anche nelle sfere ancora inaccessibili e sconosciute? Riprendiamo le parole di Bordiga: ”…si tratta sempre di principi, ossia di tesi fondamentali tratte non dal mondo esterno ma dal pensiero…Ad esempio nel sistema di Hegel …la logica…non è soltanto la tecnica dell’impiego del pensiero e del raziocinio, ma è nello stesso tempo dottrina fondamentale dell’essere (ontologia) …A queste concezioni tradizionali va opposto il loro completo capovolgimento. Il pensiero dell’uomo è un processo provocato e condizionato da una serie lunghissima di altri processi naturali. Le sue leggi e i suoi principi non possono essere considerati come punti di partenza della ricerca, ma sono invece i punti di arrivo. Essi sono tratti dal mondo esterno e dal regno dell’uomo, i quali non si reggono secondo i principi: all’opposto in tanto sono giusti in quanto si accordano coi fatti della natura e della storia. La coscienza e il pensiero non sono qualche cosa di dato che preesista e nello stesso tempo si contrapponga all’essere e alla natura…Se noi cerchiamo di trarre lo schema dell’essere, ossia del mondo, non dalla nostra testa ma a mezzo della nostra testa dal mondo reale, allora non abbiamo più bisogno di filosofia ma di conoscenza positiva del mondo e di ciò che in esso avviene, ossia di scienza positiva”.
Le parole appena riportate testimoniano e approfondiscono il rovesciamento marxista della filosofia hegeliana, quest’ultima spingeva a concludere che il mondo reale derivasse interamente dal puro pensiero logico – dialettico, l’idea assoluta, e che di conseguenza, tutto ciò che era reale era anche razionale, in altre parole, per usare la formula di Leibniz: il mondo reale è il migliore dei mondi possibili. In definitiva, la filosofia predominante nel corso della storia, ha racchiuso il suo carattere specifico in una semplice contemplazione conservativa della realtà sociale. Prendendo per ovvia e scontata l’esistenza di principi a priori del pensiero, precedenti il divenire concreto del mondo, la filosofia ha posto se stessa come episteme, parola greca che indica un sapere che sta, fermo e immutabile, saldo nei suoi principi, cui inevitabilmente tutta la realtà deve adeguarsi. Il pensiero e le sue capacità di astrazione e generalizzazione, queste sì esistenti e reali, sono erroneamente innalzati al rango d’idea assoluta, con il potere di preformare il corso reale degli eventi; ovvero di produrre, dal proprio piano metafisico, le concrete determinazioni del mondo dei fenomeni. Nell’introduzione all’opera per la critica dell’economia politica p.189. Marx scrive ”Il concreto è concreto perché è sintesi di molte determinazioni, e unità quindi, nel molteplice. Per questo esso appare nel pensiero come processo di sintesi, come risultato, e non come punto di partenza, benché sia l’effettivo punto di partenza. Per la prima via la rappresentazione piena è volatilizzata ad astratta determinazione; per la seconda, le determinazioni astratte conducono alla riproduzione del concreto nel cammino del pensiero. E’ per questo che Hegel cadde nell’illusione di concepire il reale come il risultato del pensiero automoventesi…mentre il metodo di salire dall’astratto al concreto è solo il modo in cui il pensiero si appropria il concreto, lo riproduce come un che di spiritualmente concreto. Ma mai e poi mai il processo di formazione del concreto stesso”.
Questa sovrapposizione dell’atto del conoscere alla realtà conosciuta, in altre parole questo scambio fra la sintesi operata dal nostro pensiero- sintesi del molteplice- e il concreto stesso, che è unità nel molteplice, è la fonte principale dell’illusione hegeliana di concepire il reale come il risultato del pensiero automoventesi. Questo errore teorico è all’origine dell’idealismo, esso, infatti, partendo dal dato di fatto che la conoscenza è attività produttrice di concetti e ipotesi (sulla realtà), confonde e riduce l’oggetto conosciuto al semplice atto del conoscere, in altri termini, la produzione di schemi rappresentativi della realtà, è confuso con la produzione della stessa realtà. La rappresentazione conoscitiva dell’esistente, in altre parole la sua riproduzione attraverso l’organo del pensiero, diviene – idealisticamente- produzione originaria dell’esistente. Una società divisa in classi produce dualismi e antinomie apparentemente irrisolvibili, nell’idealismo hegeliano ritroviamo quindi la separazione e la preminenza dell’idea (il signore) sulla realtà (il servo), tuttavia i primi pensatori greci si definivano ‘fisici’, non filosofi, e il loro sapere esprimeva ancora – forse – una visione unitaria e organica del mondo in cui essere, pensiero e linguaggio costituivano parti naturali di un intero (ritorneremo in seguito su quest’aspetto). Nell’’Ideologia tedesca Marx ed Engels scrivono ” Esattamente all’opposto di quanto accade nella filosofia tedesca che discende dal cielo sulla terra, qui, si sale dalla terra al cielo. Cioè non si parte da ciò che gli uomini dicono, s’immaginano, si rappresentano, né da ciò che si dice, si pensa, s’immagina, si rappresenta che siano, per arrivare da qui agli uomini vivi; ma si parte dagli uomini realmente operanti e sulla base del processo reale della loro vita si spiega anche lo sviluppo dei riflessi e degli echi ideologici di questo processo di vita. Anche le immagini nebulose che si formano nel cervello dell’uomo sono necessarie sublimazioni del processo materiale della loro vita, empiricamente constatabile e legato a presupposti materiali…non è la coscienza che determina la vita, ma la vita che determina la coscienza”.
Il rovesciamento marxista dell’illusione idealistica hegeliana è compiuto, dal cielo della contemplazione conservativa della realtà, intesa come auto-produzione dell’idea assoluta, si scende alla dimensione concreta dell’essere storico – sociale, sintesi di molte determinazioni, e unità quindi, nel molteplice.
Nel ‘Manifesto del partito comunista’ ritroviamo la seguente affermazione, ” Ci vuole forse una particolare perspicacia per comprendere che, cambiando le condizioni di vita degli uomini, i loro rapporti sociali e la loro esistenza sociale, cambiano anche le loro concezioni, i loro modi di vedere e le loro idee, in una parola anche la loro coscienza?”
Seguendo ulteriormente queste tracce ritroviamo, nell’Ideologia tedesca , un’affermazione decisiva “Si possono distinguere gli uomini dagli animali per la coscienza, per la religione, per tutto ciò che si vuole; ma essi cominciarono a distinguersi dagli animali allorché cominciarono produrre i loro mezzi di sussistenza”. Pagina 8.
Torneremo in seguito su quest’aspetto importante del marxismo, per ora ci limitiamo a rilevare il compiuto passaggio dal mondo nebuloso dell’idealismo hegeliano alla dimensione reale dove vivono gli uomini concreti, che producono i loro mezzi di sussistenza, e in quest’attività entrano reciprocamente in determinati rapporti di produzione. L’attività economica d’impiego delle forze produttive, finalizzata a realizzare i mezzi di sussistenza, e i rapporti di produzione sociali esistenti in cui sono inserite queste forze produttive, contribuiscono a formare le concezioni, i modi di vedere e le idee degli uomini, in una parola la loro coscienza sociale. Certo non bisogna commettere l’errore di considerare l’aspetto economico come un assoluto, così come Hegel aveva fatto per l’idea, In una lettera a J. Bloch del 21 settembre 1890, Engels ricorda “Secondo la concezione materialistica della storia il fattore che in ultima istanza è determinante nella storia è la produzione e la riproduzione della vita reale. Di più non fu mai affermato né da Marx né da me…vi è azione e reazione reciproca di tutti questi fattori (struttura economica e sovrastruttura mentale culturale N.R), ed è attraverso di loro che il movimento economico finisce per affermarsi come elemento necessario in mezzo alla massa infinita di cose accidentali”.
Per fattori accidentali dobbiamo considerare degli elementi presenti nel quadro storico – sociale, il cui ruolo, la cui influenza, tuttavia, è irrilevante o difficilmente quantificabile con gli attuali strumenti scientifici, e quindi può essere trascurato e temporaneamente messo da parte.
Abbiamo detto, in precedenza, che l’idealismo Hegeliano postula l’esistenza di una sfera ideale produttrice dello stesso essere reale, tuttavia, il pensiero alienato che postula l’effettività di principi saldi e immutabili, aprioristici e metafisici, può essere inteso non solo come una semplice contemplazione conservativa del corso inevitabile delle cose, sfociante nell’asserzione che questo è il migliore dei mondi possibile, ma anche come una violenza della parte (il pensiero), sul tutto (l’essere, la natura). Il pensiero metafisico – la parte – in ragione della verità immutabile che esso pensa di possedere, immagina di potere dominare e prevedere il corso della totalità dell’essere, il suo divenire, ergendosi allo status di signore assoluto dell’essere (della natura), da cui peraltro rifiuta ogni condizionamento. Riepiloghiamo, ci troviamo in presenza di un percorso alienato di pensiero, in cui il concetto si separa dal concreto intero di cui è parte, e s’innalza su di esso nel tentativo di dominarne lo svolgimento storico – sociale, con la fissazione dogmatica di principi metafisici aprioristici. In quanto tale, questo percorso alienato non è un semplice sogno illusorio, ma trova la sua ragione pratica nel tentativo di porre le basi filosofiche per produrre una tecnica di conoscenza, previsione e dominio della realtà. Sapere è potere, e quindi si può dominare e avere potere solo su ciò che può essere conosciuto secondo principi inderogabili e aprioristici, metafisici. La metafisica, in quest’accezione, è la pretesa di una parte di essere separata e superiore all’intero da cui proviene, è la vera violenza originaria, lo specchio mentale di una società basata sulla violenza del dualismo e della divisione in classi sociali antagoniste.
Capitolo 2: Conservazione della dialettica
“Senza conoscenza non c’è conoscibile e senza conoscibile non c’è conoscenza. E tu quindi hai detto che conoscibile e conoscenza son privi di natura propria”.Nagarjuna
Il marxismo conserva il metodo dialettico hegeliano, vale a dire il suo nocciolo razionale incluso all’interno del guscio mistico. Inseriamo a questo punto del discorso una serie d’illuminanti considerazioni sul metodo dialettico, contenute nel vasto lavoro “Sul metodo dialettico” (Prometeo, Serie II, n°1,1950). “Dialettica significa collegamento, ossia relazione. Come vi è relazione tra cosa e cosa, tra evento ed evento del mondo reale, così vi è relazione tra i riflessi (più o meno imperfetti) di questo mondo reale nel nostro pensiero, e tra le formulazioni che noi adoperiamo per descriverlo e per immagazzinare e sfruttare praticamente la conoscenza di esso che abbiamo acquisita. Il nostro modo quindi di esporre, di ragionare, di dedurre, di trarre conclusioni, può essere guidato e ordinato con certe regole, corrispondenti alla felice interpretazione della realtà. Tali regole formano la logica in quanto guidano le forme del ragionamento; e in un senso più vasto formano la dialettica in quanto servono di metodo per collegare tra loro le verità scientifiche acquisite. Logica e dialettica ci aiutano a percorrere un cammino non fallace allorché, partendo dal nostro modo di formulare certi risultati della osservazione del mondo reale, vogliamo giungere a enunciare altre proprietà da quelle dedotte. Se tali proprietà si riscontreranno valide nel campo sperimentale, vorrà dire che le nostre formule e il nostro modo di trasformarle erano sufficientemente esatte (nostra sottolineatura). Il metodo dialettico si contrappone a quello metafisico. Questo, tenace eredità del viziato modo di formulare il pensiero, derivato dalle concezioni religiose basate sulla rivelazione dogmatica, presenta i concetti delle cose come immutabili, assoluti, eterni e riducibili ad alcuni primi principi, estranei l’uno all’altro e aventi una specie di vita autonoma. Per il metodo dialettico tutte le cose sono in movimento, non solo, ma nel loro movimento si influenzano reciprocamente, sicché anche i loro concetti, ossia i riflessi delle cose stesse nella nostra niente, sono tra loro connessi e collegati. La metafisica procede per antinomie, ossia per termini assoluti che si contrappongono l’uno all’altro. Questi termini opposti non possono mai mischiarsi ne raggiungersi, né dal loro collegamento può sorgere alcunché di nuovo, che non si riduca alla semplice affermazione della presenza dell’uno ed assenza dell’altro, e viceversa”. Molte considerazioni potrebbero essere svolte partendo dalle proposizioni appena riportate integralmente, ma questa sarebbe un’opera ardua e complessa, il cui tentativo meriterà di sicuro uno sforzo specifico successivo, per ora ci limitiamo solo a una piccola riflessione su un aspetto particolare. Abbiamo sottolineato nella citazione precedente, il passaggio in cui si afferma che logica e dialettica aiutano a percorrere un cammino non fallace. In seguito si rende comprensibile il senso di questo cammino non fallace nel modo specifico di formulare certi risultati dell’osservazione, in altre parole nel modo in cui partendo da dati empiricamente constatabili si giunge a enunciare altre proprietà, logicamente implicate nei dati osservati, queste proprietà andranno poi a costituire una formula teorica, uno schema astratto. Il testo prosegue affermando che se tali proprietà si riscontreranno valide nel campo sperimentale, questo successo sarà la prova che le formule ricavate dall’osservazione saranno state sufficientemente esatte. Vediamo così in azione un processo circolare in cui, partendo dai dati concreti storico – sociali, si passa poi alla loro trasformazione in uno schema astratto, evidenziando delle possibilità, cioè delle successive implicazioni di senso, in essi stessi contenute, per giungere infine, al ritorno al concreto, con la verifica sperimentale dello schema astratto elaborato in precedenza, sulla base dei dati concreti dell’osservazione. In questo senso determinato possiamo anche avere la visione di un processo dialettico nella conoscenza, in cui il concreto e l’astratto, l’oggetto conosciuto e il soggetto conoscente, s’intrecciano in un movimento ininterrotto, e si trasfigurano continuamente l’uno nell’altro, cosicché “tutte le cose sono in movimento, non solo, ma nel loro movimento si influenzano reciprocamente”. Torniamo ora al problema del rapporto fra filosofia e dialettica, possiamo dire che anche fra queste due entità esiste una relazione, essa è, infatti, definita da Engels nei seguenti termini “Tutto ciò che resta, dell’intera filosofia che fino ad oggi si è avuta, è la dottrina del pensiero e delle sue leggi: la logica formale e la dialettica. Tutto il resto passa nella scienza positiva della natura e della storia”. Anche – e soprattutto – in questo caso, ritroviamo all’opera il metodo marxista di non gettare via il bambino con l’acqua sporca, o meglio, di salvare il nocciolo razionale del pensiero filosofico, dato dalla logica formale e dalla dialettica, dal guscio metafisico di un apparato di sapere, volto esclusivamente a dominare l’essere totale, la società, la natura, attraverso la separazione della parte dal tutto, (e la fissazione di principi assoluti funzionali alla conservazione dello status quo). Nella presentazione di Engels, la dialettica del pensiero, si pone come il riflesso cosciente del movimento dialettico del mondo reale. In opposizione alle verità assolute dell’ideologia borghese, e ovviamente di ogni religione, il marxismo dunque ribadisce i dati constatabili dall’osservazione del mondo reale, ad un livello superiore alle teorie materialistiche precedenti. Proponiamo a conferma le parole di Bordiga, pronunciate nel ciclo di riunioni del 1960 “ Torniamo al contrasto tra natura e soggetto, alla nozione dell’impronta che [il soggetto lascerebbe sulla natura]. E torniamo al concetto che [è la natura a dare l’impronta a sé stessa]. Ecco sciolta una millenaria contraddizione: si deve ipotizzare prima la realtà, l’essere, o prima il pensiero? La formula di Marx, nella sua discussione su Hegel, è che pensiero ed essere sono distinti ma nello stesso tempo in unità tra loro. Il vecchio contrasto di pensiero ed essere si riduceva a questo: è esistito un momento in cui il pensiero esisteva prima dell’essere, della sostanza materiale, e poi è nata la realtà, o è esistita la realtà e dopo è nato il pensiero? La risposta di Marx, che dovremo delucidare in quello che andremo a dire adesso, è che ad un certo momento la loro relazione reciproca è talmente stretta che essi sono in unità fra di loro e quindi sono nati contemporaneamente: l’uno è nato perché c’è l’altro, l’altro perché c’è l’uno. E qui però è il dubbio che dobbiamo esaminare nel nostro ulteriore sviluppo. Tutti i tradizionali pensatori dicono: quando stabiliremo questa priorità, questa precedenza [avremo raggiunto la verità]. Essi ragionano sempre secondo gerarchie perché nascono da società gerarchizzate. Non sanno vedere altro che il padrone e il servo; il capo, quello che ha il grado superiore, e quello che ubbidisce; quindi anche nelle categorie della filosofia cercano sempre una priorità, una preminenza, una presupposizione, devono per forza presupporre una cosa per salire sull’altra. O devono presupporre la realtà per salire sul pensiero o presupporre il pensiero per salire sulla realtà. Cosa assurda perché s’è mai visto pensare senza che la realtà ci fosse e non s’è mai visto una realtà che non presupponesse “pensiero”. Comunque così ragionano. La nostra risposta esce dall’eterno enigma… Quindi non vi è più contrasto tra l’essere conoscitivo e la natura conosciuta: questo essere, essendo onnilaterale ed universale, come dice Marx, è esso stesso un pezzo inseparabile della natura. Si tratta della natura che conosce sé stessa e non di qualche viaggiatore in incognito che va a conoscere la natura”.
L’Uomo e la natura non soltanto non sono separati e contrapposti, ma lo stessa realtà del pensiero non è separata e separabile dalla realtà dell’essere. Il pensiero umano è parte integrante del divenire dell’essere, è un momento determinato del movimento d’autocoscienza della materia, e in questo senso può pure essere definito come il riflesso cosciente del mondo reale. La conoscenza, quindi, è concepibile come quel movimento di approssimazione alla realtà concreta, limitato e condizionato inevitabilmente dal grado di sviluppo e di complessità della relazione esistente fra l’uomo e la natura (in altri termini della relazione della natura con se stessa, o meglio del rapporto fra i vari aspetti del molteplice in cui consiste il divenire dell’intero – intendendo per intero la totalità ontologica dell’essere). Consideriamo che anche la preminenza di un aspetto della relazione sull’altro, del pensiero sull’essere o viceversa, è il classico errore dei pensatori tradizionali, i quali non sanno prescindere dai condizionamenti della società in cui vivono – una società divisa in gerarchie di servi e padroni, inferiori e superiori – e trasformano questa circostanza storica transitoria, in una legge universale di separazione assoluta del pensiero dall’oggetto pensato. In secondo luogo la materia pensa se stessa, non solo nel senso che l’essere umano – soggetto pensante – è parte della materia; ma anche perché la materia, come conseguenza logica del primo postulato, deve essere allora soggetto della conoscenza, indipendentemente dalla presenza di un soggetto pensante umano. Riprendiamo le parole di Bordiga, ” …soggetto della conoscenza non è solo l’uomo. La natura, di cui l’uomo fa parte, è soggetto della conoscenza [molto prima della comparsa delle specie viventi]. La natura ha conosciuto e conosce perché, anche senza vita, anche al solo livello del mondo inorganico, quello minerale, essa lascia impronte che corrispondono alla conoscenza di sé stessa. Il processo della conoscenza, attraverso cui il pensiero conosce il mondo, non ha nulla di originale, di miracolistico, di escatologico. È un processo senza finalismi idealistici che lo facciano distinguere da tutti gli altri rapporti tra un settore della natura e un altro. Per miliardi di anni non c’è stato il “settore Uomo” nella natura; c’erano gli altri settori che influivano tra di loro. Gli effetti astronomici e interstellari – intesi nel senso fisico/chimico e non nel senso delle migrazioni di umanità viventi … influivano sul decorso della rivoluzione dei singoli pianeti. Questi fenomeni hanno scritto la loro storia. Che cos’è la conoscenza ridotta infine alla sua quintessenza? È memoria e relazione. Per la natura si tratta di avere registrato eventi e sequenze della propria dinamica evolutiva. E proprio per come e quanto ha già fatto, un miliardo o un milione di anni fa, noi possiamo conoscerla e interpretarla oggi…La natura ha una propria memoria e ha offerto a noi i risultati in essa contenuti. Noi non lavoriamo solo sulla memoria dell’uomo. Quest’ultima non è che una parte del patrimonio mnemonico trasmessoci dalla natura. Gran parte della dotazione su cui poggia l’umanità presente e, soprattutto, poggerà quella nuova attraverso il cervello sociale del nuovo partito, è di origine non umana. Persino gran parte del patrimonio del vivente si trova fossilizzato nella memoria della natura. Come si vede, il problema di una conoscenza senza spirito (ché non ci si venga a parlare di spirito in un mondo completamente minerale) è proponibile ed ha una soluzione in tre passaggi: 1) azione fisica; 2) registrazione-memoria; 3) interpretazione. Noi possiamo interpretare solo perché c’è il determinismo di un’azione che produce effetti registrabili. Noi non facciamo altro che seguire un antico itinerario di eventi predisposti. Lo facciamo con attrezzature complesse e differenziate, determinate nel tempo con lo sviluppo scientifico e tecnologico, ma la materia che ci racconta sé stessa c’è già. Perciò non abbiamo bisogno, ribadisco, di risolvere l’enigma se debba prevalere la specie pensante o la materia passiva: sono tutte e due attive, tutte e due collaboranti, sono parte integrante di un unico sistema. L’antico enigma è stato sciolto in una concezione nuova e superiore”.
Nel senso determinato da queste precedenti osservazioni, possiamo pure sostenere che nello sviluppo delle scienze naturali ritroviamo un movimento di avvicinamento alla realtà materiale, inteso come rapporto di due parti entrambe attive e collaboranti, tuttavia anche il sapere scientifico deve essere inserito nella dimensione storica in cui si manifesta, e quindi nelle fasi di decadenza di una civiltà può assumere in prevalenza i tratti conservatori e regressivi del dogmatismo e del fideismo religioso. Il contrario accade per le forme di conoscenza che annunciano e accompagnano i momenti storici di grandi cambiamenti sociali, i momenti di svolta in cui avviene la rottura catastrofica con un certo ordine sociale e di pensiero. Certo anche i cambiamenti non sorgono dal nulla, ma realisticamente si pongono come il superamento dialettico di un dato esistente, la negazione della negazione, usiamo una suggestione Engelsiana per meglio chiarire «Prendiamo un chicco d’orzo. Miliardi di tali chicchi di orzo vengono macinati, bolliti e usati per fare la birra, e quindi consumati. Ma se un tale chicco di orzo trova le condizioni per esso normali, se cade su un terreno favorevole, sotto l’influsso del calore e dell’umidità subisce un’alterazione specifica, cioè germina, il chicco come tale muore, viene negato, e al suo posto spunta la pianta che esso ha generata, la negazione del chicco. Ma qual è il corso normale della vita di questa pianta? Essa cresce, fiorisce, viene fecondata e infine a sua volta produce dei chicchi di orzo e non appena questi sono maturati, lo stelo muore, viene a sua volta negato. Come risultato di questa negazione della negazione abbiamo di nuovo l’originario chicco di orzo, non però semplice, ma moltiplicato per dieci, per venti, per trenta”. Engels, Anti-Duehring, in Opere complete Marx-Engels, ed. Riuniti.
Abbiamo concluso, in precedenza, che la metafisica potesse anche essere concepita come la pretesa di una parte di porsi come separata e superiore all’intero di cui era un semplice momento dialettico, ma in questa pretesa di separazione emergevano, invece, il suo essere lo specchio mentale di una società basata sulla dissociazione in classi sociali antagoniste. Su un altro piano di riflessione, possiamo ricordare che la ricerca scientifica e sperimentale positiva non avrebbero senso alcuno, se i suoi risultati non fossero trasmessi e comunicati; in altre parole la scienza, diversamente dalla speculazione solitaria di un filosofo, è un’attività inevitabilmente collettiva.
In realtà, la ricerca scientifica e sperimentale, non pretendendo formalmente di conoscere l’assoluto, si pone come parte organica, non separata, di un processo continuo di comprensione della realtà dell’essere, della natura, di cui l’uomo e la storia sono solo un momento integrante (un altro conto è discutere del ruolo della scienza nella società capitalistica), riprendiamo ora, a supporto della tesi della scienza come un processo continuo di comprensione della realtà, una riflessione di Bordiga formulata agli inizi degli anni sessanta, in occasione del ciclo di riunioni di partito dedicate alla teoria della conoscenza:” Nel fatto ogni tentativo di sistematizzare le conoscenze è provvisorio e transitorio…una esatta immagine mentale del sistema del mondo, resta per noi e per tutti i tempi una impossibilità. Un tale risultato (cioè l’esatta immagine mentale del mondo N.C.) comporterebbe la conseguenza che qualunque avvenimento successivo, e lo stesso complicarsi e differenziarsi delle funzioni cerebrali…non potrebbe più nulla modificare nel sistema delle conoscenze”. Successivamente, in opposizione all’idea che postula nella logica una dimensione a priori della conoscenza del reale, è nettamente sostenuto; “Noi non neghiamo l’esistenza della logica come scienza e tecnica strumentale delle forme del pensiero; è anzi ben noto che nella concezione marxista al suo impiego si accompagna quello della dialettica, o scienza delle relazioni…Ma ciò che deve essere chiarito è che la logica è costruita e giustificata dalla sua applicazione e corrispondenza alla realtà e non codificata a priori nella nostra testa, e solo dopo applicata alle cose. Non è più la scienza dei principi del pensiero, che diventa scienza dei principi dell’essere, ma è soltanto la scienza delle forme del pensiero, non assolute e fisse, ma sempre pronte ad essere modificate dai risultati e dai dati del mondo esterno”.
Il pensiero e le sue forme di svolgimento logico non racchiudono la totalità dell’essere, non ne sono il sovrano assoluto, ma è il mondo dell’essere reale, invece, che costituisce il presupposto necessario, ontologico, di ogni successiva approssimazione conoscitiva: d’altronde, è nella stessa parola onto-logia, che trapela il senso della precedenza dell’essere (ontos on, ciò che è), rispetto al logos (discorso e luce su ciò che è). Ora le due parti della parola non sono antitetiche, non rappresentano una contraddizione assoluta, esse sono i due momenti dell’intero in cui consiste la dimensione in cui viviamo, la realtà. Da questa dimensione chiamata realtà, in cui essere, pensiero e linguaggio sono in accordo, è esclusa invece l’esistenza del non esistente, il non ente, il niente. Marx, nelle opere filosofiche giovanili, a pagina 234, scrive;“quando tu ti interroghi sulla creazione della natura e dell’uomo, tu fai astrazione dunque dall’uomo e dalla natura. Tu li poni come non esistenti e tuttavia esigi che io te li dimostri esistenti. Io ora ti dico: rinuncia alla tua astrazione e rinuncia così alla tua domanda…giacché appena tu pensi e chiedi il tuo astrarre dall’esistenza della natura e dell’uomo non ha più senso”.
In definitiva, ogni postulato sulla possibilità del non – essere del reale è formulato all’interno del pensiero di un essere reale, e quindi è, inevitabilmente, un controsenso, poiché per porre il non essere, ho comunque bisogno dell’essere, e quindi la stessa proposizione che nega la realtà dell’essere, in quanto proposizione, è l’affermazione di un qualcosa, di un essere (anche se il contenuto di quest’affermazione è la negazione dell’essere). In ultima analisi la negazione dell’essere, essendo essa stessa un ente, cioè un qualche cosa, si trasforma in un’auto-negazione. Il piano della realtà dell’essere esclude la possibilità ontologica del niente, ed esclude anche che la parte – il pensiero – sia separato e predominante rispetto al tutto di cui è un momento. In questo senso si può affermare che anche il dualismo artificioso fra materia e pensiero, oggetto conosciuto e soggetto conoscente, è posto e superato nella proposizione che dichiara il pensiero umano come un aspetto della materia, attraverso cui la materia conosce se stessa; in un processo di di-svelamento ininterrotto dei piani molteplici dell’essere reale in cui essa si articola e si manifesta, nella sua duplice dimensione umana e naturale, e anche nelle sfere ancora inaccessibili e sconosciute.
L’essere è dunque la totalità degli enti (le cose) accomunati dal comune, non essere un niente; quest’aspetto ontologico accomunante non deve occultare, tuttavia, la molteplicità e la ricchezza delle relazioni dialettiche in cui si manifestano gli aspetti del reale, gli enti e le loro concrete differenze. Riprendiamo la citazione di Bordiga “…il verbo ‘essere’, che rappresenta l’astrazione delle astrazioni ed è la colonna su cui i fautori dell’a priori vogliono poggiare le leggi assolute del pensiero, risale ad una radice indoeuropea che significa respirare, ossia una maniera di essere molto concreta e propria soltanto degli organismi viventi…A proposito dell’essere è opportuno ritenere che la speculazione anche di cervelli potentissimi non potrà mai scoprire nulla. Piuttosto si potrà regolare meglio anche nel meccanismo della lingua e della logica sintattica la portata della generalizzazione di tutte le forme di essere, comuni ai corpi minerali, agli organismi, all’uomo ecc. quando si avranno dati più completi tra i fenomeni di passaggio tra i regni minerale, organico, umano ecc.”.
Riprendiamo l’escursione del testo sul metodo dialettico, nel paragrafo iniziale ritroviamo un efficace esempio di come superare le contraddizioni assolute, i dualismi irrisolvibili, che stanno alla base dell’apparato di pensiero metafisico: “ Il metodo metafisico con le sue identità e contraddizioni assolute ingenera grossolani errori, essendo tradizionalmente radicato nel nostro modo di pensare, anche se non ne siamo coscienti…Così è un errore metafisico risolvere in due soli modi problemi umani, come quelli ad esempio della violenza e dello stato: ossia dichiarandosi per lo stato o per la violenza; contro lo stato o contro la violenza. Dialetticamente invece si collocano quei problemi nel loro momento storico e si risolvono simultaneamente con formule opposte, come sostenendo l’uso della violenza per l’abolizione della violenza, l’impiego dello stato per l’abolizione dello stato. L’errore degli autoritari o dei libertari per principio è egualmente metafisico”. La dialettica marxista è la manifestazione del modo di essere degli enti reali sul piano storico/sociale e naturale, essa non consiste nell’astratta pietrificazione del reale in categorie assolute e inconciliabili, caratteristica del pensiero metafisico. L’idealismo e la metafisica, sono l’espressione alienata di una società fondata sulla divisione degli uomini in classi sociali antagoniste; la dialettica marxista, invece, riprende il filo della continuità di pensiero con le forme sociali che hanno storicamente preceduto le società divise in classi. Citiamo ancora i discorsi di Bordiga “ Oggi l’umanità possiede forse gli organi (conoscitivi) peggiori che abbia mai posseduto perché, per quanto fossero ‘primitivi’ gli organi di cui disponeva, prima del capitalismo, essi erano pur sempre in armonia con il mondo circostante… (le conoscenze) realizzate dalle popolazioni primitive, benché fondate su iniziazioni conoscitive assolutamente ingenue (sciamanesimo, divinazione, astrologia, ecc.) hanno comunque un loro certo apparato di penetrazione della realtà in grado di dare risposte sufficienti a un dato grado di sviluppo…la società capitalistica, specie allo stato ultra-maturo di oggi, presenta l’apparato più fetente che la conoscenza umana abbia mai posseduto…”. Conoscenza, anzi, apparato conoscitivo e società capitalistica contemporanea, ci si trova davanti ad una relazione tra due termini di un insieme, in cui, la concretezza del rapporto, è data dal fatto che una società alienata produce una conoscenza alienata, l’apparato più fetente che la conoscenza umana abbia mai posseduto. Sarebbe un lavoro ingrato, forse, riproporre a questo punto del discorso, alcuni tratti fondamentali del regno del capitale; eppure, si possono ignorare le basi economico-sociali, su cui poggia l’apparato più fetente che la conoscenza umana abbia mai posseduto?
Capitolo 3: Marx, valore d’uso e valore di scambio, il lavoro come sostanza valorificante della merce
“La verità è paradossale”. Lao -tzu
Il capitale è dominato dalla fame da lupi per il plus-lavoro, poiché solo il plus-lavoro può realmente valorizzarlo, e quindi consentirgli di accrescersi e di sopravvivere; ma nel tempo, a causa dello sviluppo scientifico-tecnologico, il capitale costante (lavoro morto cristallizzato nei mezzi tecnici) prevale sul capitale variabile (lavoro vivo salariato), causando la caduta tendenziale del saggio di profitto, le crisi economiche ricorrenti, e l’impoverimento della popolazione. Questo di-svelamento dell’interna struttura del capitale è il grande merito del pensiero marxista. Conosci il tuo nemico, scrive Sun Tzu, nel trattato sull’Arte della guerra, nel quinto secolo a.c, poiché conoscere il proprio avversario, significa avere la possibilità di colpirlo nei suoi punti deboli (il celebre tallone d’Achille). Il capitale è un colosso dai piedi di argilla, la sua fame inesauribile di sfruttamento e di profitto, scontrandosi con la legge della caduta tendenziale del saggio di profitto, lo espone a crisi sempre più distruttive e pericolose per la sua stessa esistenza. Chi osserva questi processi deve concludere che il capitale si scava la fossa da solo; conosci il tuo nemico, l’antico precetto contenuto nell’Arte della guerra, ci porta quindi alla paradossale scoperta che il capitale è il principale nemico di stesso. In un altro senso, il capitale è nemico di se stesso anche perché, per sopravvivere e riprodursi, deve in ogni caso riprodurre una classe di schiavi salariati, potenzialmente interessati alla sua distruzione. Conosci il tuo nemico, allora, apre la strada alla scoperta che il capitale non solo si scava la fossa da solo, ma produce anche il becchino che potrebbe seppellirlo in essa. Eppure i nostri tempi non mostrano ancora questo spettacolo; la lunga cerimonia funebre non è ancora conclusa. La società contemporanea è schiacciata dal peso di questo cadavere, i miasmi che da esso emanano ottundono i sensi dell’apparato conoscitivo, che per tale motivo è l’apparato più fetente che la conoscenza umana abbia mai posseduto. Tuttavia, una considerazione dialettica dei processi sociali incombenti, non si ferma all’apparenza dei fenomeni, ma coglie le loro relazioni reciproche e la loro incessante trasmutazione in modi di essere differenti da quelli di partenza. Cos’altro significa, d’altronde, il frammento in cui Parmenide(l’iniziatore del pensiero logico-matematico occidentale), sostiene che nella dimensione della vita,“tutte le cose sono piene unitamente di luce e di notte oscura”? Non significa forse, che anche l’attuale notte oscura, che segna lo stato di putrefazione e di corruzione della società capitalistica, non è nient’altro, da una visuale complementare e opposta, che il concime da cui germoglierà la luce di una nuova società? La società capitalistica non può seguire il precetto socratico di conoscere se stessa; non lo può fare perché essa è morta, l’apparenza di vita che da essa ancora proviene è data solo dai processi di decomposizione in atto nel suo corpo morto. Il pensiero scientifico-filosofico che domina il regno larvale del capitale è dunque vago e indeterminato; effimero come un fuoco fatuo intravisto sopra un sepolcro, impalpabile e illusorio come un fantasma convinto di appartenere ancora al regno dei vivi. In questo mondo nebbioso, dai contorni indefiniti, la merce rappresenta l’elemento che sta alla base dell’occultamento della realtà sociale, del suo mascheramento illusorio. Proprio per questo motivo Marx la studia con grande attenzione, svelando con la sua ricerca gli aspetti ‘misteriosi’ che la contraddistinguono. Nel Capitale ritroviamo molte analisi particolareggiate sulla natura della merce, ma alla fine riemerge, dall’insieme di queste analisi, l’idea, contenuta già nei primi scritti del periodo giovanile, l’idea che la caratteristica fondamentale della società capitalistica è l’alienazione “Come nella religione l’uomo è dominato dall’opera della sua testa, così nella produzione capitalistica è dominato dall’opera della sua mano”. Il capitalismo, dominato dalla fame da lupi per il plus-lavoro, tendenzialmente spinto a una crescita senza limiti e misura; condannato per questo alla produzione per la produzione, e alla saturazione del mercato con le merci prodotte, è anche il diffusore di molte mistificazioni ingannevoli sulla realtà sociale. “La ricchezza delle società nelle quali predomina il modo di produzione capitalistico si presenta come una “immane raccolta di merci” e la merce singola si presenta come sua forma elementare. Perciò la nostra indagine comincia con l’analisi della merce. La merce è in primo luogo un oggetto esterno, una cosa che mediante le sue qualità soddisfa bisogni umani di un qualsiasi tipo. La natura di questi bisogni, per esempio il fatto che essi provengano dallo stomaco o che provengano dalla fantasia, non cambia nulla. Qui non si tratta neppure del come la cosa soddisfi il bisogno umano; se immediatamente, come mezzo di sussistenza, cioè come oggetto di godimento o per via indiretta, come mezzo di produzione… L’utilità di una cosa ne fa un valore d’uso. Ma questa utilità non aleggia nell’aria. E’ un portato delle qualità del corpo della merce e non esiste senza di esso. Il corpo della merce stesso, come il ferro, il grano, un diamante, ecc., è quindi un valore d’uso, ossia un bene. Questo suo carattere non dipende dal fatto che l’appropriazione delle sue qualità utili costi all’uomo molto o poco lavoro. Quando si considerano i valori d’uso, si presuppone che siano determinati quantitativamente, come una dozzina di orologi, un metro di tela di lino, una tonnellata di ferro, ecc. I valori d’uso delle merci forniscono il materiale di una loro particolare disciplina d’insegnamento, la merceologia. Il valore d’uso si realizza soltanto nell’uso, ossia nel consumo. I valori d’uso costituiscono il contenuto materiale della ricchezza, qualunque sia la forma sociale di questa. Nella forma di società che noi dobbiamo considerare i valori d’uso, costituiscono insieme i depositari materiali del valore di scambio”. Il Capitale, libro I, sezione I, merce e denaro, capitolo 1, la merce.
Valore d’uso e valore di scambio della merce, e predominanza del secondo sul primo nella società capitalistica: ritroviamo, già all’inizio del capitolo 1, i termini fondamentali della questione. Ora cosa significa il valore di scambio nella sua accezione più elementare? “Il valore di scambio si presenta in un primo momento come il rapporto quantitativo, la proporzione nella quale valori d’uso d’un tipo sono scambiati con valori d’uso di altro tipo; tale rapporto cambia continuamente coi tempi e coi luoghi… Come valori d’uso le merci sono soprattutto di qualità differente, come valori di scambio possono essere soltanto di quantità differente, cioè non contengono nemmeno un atomo di valore d’uso… Ma, se si prescinde dal valore d’uso dei corpi delle merci, rimane loro soltanto una qualità, quella di essere prodotti del lavoro…”.Ibidem.
Finalmente incontriamo la qualità che accomuna i corpi delle merci; esse, infatti, pur diverse nel loro valore di utilizzo, sono in ogni modo prodotte dal lavoro degli uomini. La merce intesa come valore di scambio è una realtà astratta, staccata dalla sua peculiarità e concretezza si presenta come “spettrale oggettività … semplice concrezione di lavoro umano indistinto, cioè di dispendio di forza lavorativa umana senza riguardo alla forma del suo dispendio. Queste cose rappresentano ormai soltanto il fatto che nella loro produzione è stata spesa forza lavorativa umana, è accumulato lavoro umano. Come cristalli di questa sostanza sociale ad esse comune, esse sono valori, valori di merci… Dunque, un valore d’uso o bene ha valore soltanto perché in esso viene oggettivato, o materializzato, lavoro astrattamente umano. E come misurare ora la grandezza del suo valore? Mediante la quantità della “sostanza valorificante”, cioè del lavoro, in esso contenuta. La quantità del lavoro a sua volta si misura con la sua durata temporale, e il tempo di lavoro ha a sua volta la sua misura in parti determinate di tempo, come l’ora, il giorno, ecc. ” Ibidem.
Un lavoro astrattamente umano è oggettivato e materializzato nel bene economico, che è tale solo perché in esso è oggettivato, o materializzato, lavoro astrattamente umano. Il lavoro, la sostanza valorificante delle merci, le quali sono come i cristalli di questa sostanza sociale a esse comune, ma anche l’elisir di lunga vita del capitale, che sulla produzione illimitata delle merci fonda il suo folle progetto di dominio del reale. Siamo già vicini al centro della ricerca, dove si svelerà in pieno l’arcano mistero della merce e dei rapporti sociali reali che essa sottende. In apparenza la merce si presenta come un semplice oggetto, ceduto dal venditore al compratore in cambio di denaro, attraverso un normale rapporto di compravendita che si svolge sul libero mercato. Scambio di cose contro cose, merce contro denaro, forza-lavoro in cambio di salario: rapporti normali, liberi, civilmente svolti sul mercato, dove tutto inizia e ha fine, anche se, alla fine, è la propria libertà che viene barattata dal proletario, in cambio della schiavitù del lavoro salariato. “Potrebbe sembrare che, se il valore di una merce è determinato dalla quantità di lavoro, spesa durante la produzione di essa, quanto più pigro o quanto meno abile fosse un uomo, tanto più di valore dovrebbe essere la sua merce, poiché egli avrebbe bisogno di tanto più tempo per finirla. Però il lavoro che forma la sostanza dei valori è lavoro umano eguale, dispendio della medesima forza lavorativa umana. La forza lavorativa complessiva della società che si presenta nei valori del mondo delle merci, vale qui come unica e identica forza-lavoro umana, benché consista d’innumerevoli forze-lavoro individuali. Ognuna di queste forze-lavoro individuali è una forza-lavoro umana identica alle altre, in quanto possiede il carattere di una forza-lavoro sociale media e in quanto opera come tale forza-lavoro sociale media, e dunque abbisogna, nella produzione di una merce, soltanto del tempo di lavoro necessario in media, ossia socialmente necessario. Tempo di lavoro socialmente necessario è il tempo di lavoro richiesto per rappresentare un qualsiasi valore d’uso nelle esistenti condizioni di produzione socialmente normali, e col grado sociale medio di abilità e intensità di lavoro. Per esempio, dopo l’introduzione del telaio a vapore in Inghilterra, è bastata forse la metà del tempo prima necessario per trasformare in tessuto una data quantità di filato. Il tessitore inglese al telaio a mano aveva di fatto bisogno dello stesso tempo di lavoro, prima e dopo, per questa trasformazione; ma il prodotto della sua ora lavorativa individuale rappresentava ormai, dopo l’introduzione del telaio meccanico, soltanto una mezza ora lavorativa sociale, e quindi scese alla metà del suo valore precedente”. Ibidem.
Adesso parliamo di tempo di lavoro socialmente necessario, mediamente caratteristico di una certa fase delle condizioni di produzione esistenti(1). Questo tempo di lavoro socialmente necessario si modifica in rapporto ai cambiamenti della base produttiva tecnico-scientifica – come ben evidenziato nell’esempio sugli effetti dell’introduzione del telaio a vapore in Inghilterra. Tuttavia, ci si può chiedere, perché il valore delle merci non resta costante nel tempo, quali fattori decisivi determinano le variazioni dei valori degli oggetti prodotti e destinati allo scambio; esiste forse una correlazione fra l’incostanza del valore delle merci, e il tempo di lavoro socialmente necessario per la loro produzione? “La grandezza di valore di una merce rimarrebbe quindi costante se il tempo di lavoro richiesto per la sua produzione fosse costante. Ma esso cambia con ogni cambiamento della forza produttiva del lavoro. La forza produttiva del lavoro è determinata da molteplici circostanze, e, fra le altre, dal grado medio di abilità dell’operaio, dal grado di sviluppo e di applicabilità tecnologica della scienza, dalla combinazione sociale del processo di produzione, dall’entità e dalla capacità operativa dei mezzi di produzione, e da situazioni naturali…quanto maggiore la forza produttiva del lavoro, tanto minore il tempo di lavoro richiesto per la produzione di un articolo, tanto minore la massa di lavoro in esso cristallizzata, e tanto minore il suo valore. Viceversa, tanto minore la forza produttiva del lavoro, tanto maggiore il tempo di lavoro necessario per la produzione di un articolo, e tanto maggiore il suo valore.”. Ibidem.
Dualismi di doppio tipo: “Come valori d’uso le merci sono soprattutto di qualità differente, come valori di scambio possono essere soltanto di quantità differente, cioè non contengono nemmeno un atomo di valore d’uso”; valorizzazione di un bene attraverso qualcosa, un’attività, non visibile al momento del suo consumo “Dunque, un valore d’uso o bene ha valore soltanto perché in esso viene oggettivato, o materializzato, lavoro astrattamente umano”; astrazione e unificazione di attività lavorative diversissime sotto un unico fattore comune“ La forza lavorativa complessiva della società che si presenta nei valori del mondo delle merci, vale qui come unica e identica forza-lavoro umana, benché consista di innumerevoli forze-lavoro individuali”. Infine la circostanza, il rapporto inversamente proporzionale, fra il livello di sviluppo delle forze produttive sociali e il valore delle merci prodotte “quanto maggiore la forza produttiva del lavoro, tanto minore il tempo di lavoro richiesto per la produzione di un articolo, tanto minore la massa di lavoro in esso cristallizzata, e tanto minore il suo valore”. Ecco rivelata, nella stessa forma di vita elementare dell’oggetto merce, la presenza della relazione inversamente proporzionale, fra la forza produttiva del lavoro e il valore delle merci prodotte, che condanna il Moloch capitalista all’insensata e ossessiva ricerca di quella “sostanza valorificante”, cioè il lavoro (il plus-lavoro) contenuto nella merce, e progressivamente presente in minore quantità nella stessa merce, a causa dell’incremento della forza produttiva del lavoro.
(1). «Con lo sviluppo della sottomissione reale del lavoro al capitale e del modo di produzione specificamente capitalistico – scrive Marx –, non è il singolo operaio che diventa il reale funzionario dell’intero processo lavorativo ma una capacità lavorativa socialmente combinata, e le diverse capacità lavorative cooperanti che formano l’intera macchina produttiva partecipano in modo sempre più diverso al processo immediato di formazione delle merci singole e del prodotto, l’uno lavorando maggiormente di mano, l’altro di testa, l’uno come manager, ingegnere, tecnico etc., l’altro come sorvegliante, il terzo come manovale o semplice aiuto, un numero sempre maggiore di funzioni della capacità lavorativa viene inquadrata sotto il concetto immediato di lavoratori produttivi, sfruttati direttamente dal capitale e sottoposti, soprattutto, al suo processo di valorizzazione e produzione». Marx, Il capitale, libro primo, capitolo VI inedito, p. 74.
«Se il capitalista fa lavorare soltanto per creare plusvalore – ossia un valore futuro –, non appena egli smette di far lavorare, si svaluta anche il suo capitale presente. Questi sono altrettanti casi in cui si vede materialmente che il lavoro vivo non solo aggiunge nuovo valore, ma attraverso il vero e proprio atto di aggiunzione di nuovo valore, conserva e eternizza quello vecchio». Lineamenti di critica…
Capitolo 4: Marx, i veli dell’illusione e il carattere di feticcio della merce
“…quando i veli dell’illusione sono scomparsi,
allora avviene la comprensione del vero ‘ku’.“
Il libro dei cinque anelli.
Il sapere scientifico-filosofico nella società capitalistica, e la possibilità di conoscenza di qualche cosa di reale all’interno della dimensione del capitale, sono problematici.
Indeterminismo, nichilismo, esaltazione dell’ego come fonte prioritaria di libere decisioni, susseguente azione soggettiva intesa come realizzazione delle libere decisioni dell’ego (e fonte ultima di senso, in una realtà pensata come indeterminata e priva di senso). Mentre nelle forme di pensiero post-socratico (Platone, Aristotele…), lo scopo dell’esistenza è di realizzare l’essenza dell’uomo – metafisicamente intesa – nell’esistenzialismo ritroviamo l’esclusione di questo postulato di principio, poiché se la realtà ultima, l’evidenza delle evidenze, è il divenire (inteso come creazione = uscita dal nulla degli enti, e distruzione = ritorno nel nulla degli enti), allora non vi può essere alcuna essenza dell’uomo che preceda la sua esistenza nel divenire. Infatti, se l’esistenza concreta del singolo fuoriesce dal niente, non è concepibile una conoscenza assoluta che fissi a-priori le qualità, l’essenza, di questo nuovo essere venuto alla luce, poiché ciò che esce dalla dimensione del niente non può essere previsto ( Parmenide aveva già escluso, 2500 anni addietro, una dimensione in cui il niente avesse statuto reale, dimostrando come assurdo e inconcepibile lo stesso proporre l’esistenza del non esistente. In seguito è Karl Popper a definire Einstein il Parmenide della scienza moderna). Nella dimensione del nichilismo, non essendoci dei legami necessari fra l’uomo e il mondo, fra la parte e il tutto, l’esistenza umana oscilla fra l’essere e il nulla come pura contingenza, accadimento inspiegabile di moti esterni e interni al singolo, una folle e larvale esistenza dominata da sequenze imprevedibili e indeterminate di eventi misteriosi. L’angoscia individuale, la possibilità dello scacco e del naufragio personale, sono il corollario di questa visione della vita in cui l’uomo è slegato da ogni rapporto con la realtà storico-naturale dell’essere. Possiamo ben collegare questa visione all’economia capitalistica dei nostri tempi: insensata produzione per la produzione, creazione e distruzione/consumo ossessivi di merci slegate dai bisogni reali della specie umana, in cui l’uomo è dominato da forze prodotte da se stesso, ma ormai sfuggite al suo controllo: “Anche le immagini nebulose che si formano nel cervello dell’uomo sono necessarie sublimazioni del processo materiale della loro vita, empiricamente constatabile e legato a presupposti materiali…non è la coscienza che determina la vita, ma la vita che determina la coscienza”. Da l’Ideologia tedesca.
L’ulteriore analisi della forma base dell’economia capitalistica – la merce – ci aiuterà a definire meglio la relazione fra la visione dominante della vita in questa società, e i condizionamenti della produzione di merci su questa stessa visione. Nel paragrafo del primo libro del capitale dal titolo ‘IL CARATTERE DI FETICCIO DELLA MERCE E IL SUO ARCAN0’ ritroviamo le seguenti riflessioni: “A prima vista, una merce sembra una cosa triviale, ovvia. Dalla sua analisi, risulta che è una cosa imbrogliatissima, piena di sottigliezza metafisica e di capricci teologici. Finché è valore d’uso, non c’è nulla di misterioso in essa, sia che la si consideri dal punto di vista che soddisfa, con le sue qualità, bisogni umani, sia che riceva tali qualità soltanto come prodotto di lavoro umano. E’ chiaro come la luce del sole che l’uomo con la sua attività cambia in maniera utile a se stesso le forme dei materiali naturali. Per esempio quando se ne fa un tavolo, la forma del legno viene trasformata. Ciò non di meno, il tavolo rimane legno, cosa sensibile e ordinaria. Ma appena si presenta come merce, il tavolo si trasforma in una cosa sensibilmente sovrasensibile. Non solo sta coi piedi per terra, ma, di fronte a tutte le altre merci, si mette a testa in giù, e sgomitola dalla sua testa di legno dei grilli molto più mirabili che se cominciasse spontaneamente a ballare”. La merce, questa cosa apparentemente triviale, nasconde una verità paradossale, imbrogliatissima, piena di sottigliezza metafisica e di capricci teologici. Il suo cuore segreto contiene una sostanza valorificante, la forza-lavoro, che è come un prezioso cristallo, avidamente desiderato dall’impresa capitalista – proprietaria dei mezzi di produzione (tecnici e umani), con cui è stata realizzata la merce. Ora, i mezzi di produzione tecnici, il capitale costante, non sono nient’altro che lavoro umano morto, cristallizzato in macchinari, attrezzature, impianti e così via: di conseguenza, si rivela la verità paradossale che il capitale, lavoro morto cristallizzato, desidera la sostanza valorificante cristallizzata nella merce, ottenuta dalla forza-lavoro viva del proletario. In altre parole, il simile attira il simile, e infatti, come due amanti inseparabili, il lavoro morto, cristallizzato nel capitale costante dell’azienda capitalistica, e il lavoro vivo cristallizzato nella merce prodotta per l’azienda, sono preda di una passione senza freni e limitazioni, e vivono l’uno per l’altro, poiché senza la produzione della merce non può valorizzarsi il capitale, ma senza la valorizzazione del capitale la merce non avrebbe ragione di essere prodotta, ”Il lavoro, col suo semplice contatto, risveglia dal regno dei morti i mezzi di produzione, li anima a fattori del processo lavorativo e si combina con essi in nuovi prodotti, ma soltanto in quella sua qualità di attività produttiva idonea a un fine: filare, tessere, battere il ferro… Dunque l’operaio aggiunge valore al materiale mediante il suo lavoro e non in quanto si tratti di lavoro di filatura o lavoro di falegnameria, ma in quanto si tratta di lavoro astratto, sociale in genere; e aggiunge una determinata grandezza di valore non perché il suo lavoro abbia un particolare contenuto utile, ma perché dura un tempo determinato”. IL CAPITALE LIBRO I, SEZIONE III, PLUSVALORE ASSOLUTO CAPITOLO 6.
Il lavoro è dunque la preziosa sostanza valorificante incorporata nella merce, ma anche, da un punto di vista diverso e complementare, il tocco magico che risveglia dal regno dei morti i mezzi di produzione, e li anima a fattori del processo lavorativo. L’esistenza del capitale, in definitiva, è condizionata dal tocco magico del lavoro vivo che lo risveglia dal regno dei morti, e quindi dalla sostanza valorificante (ugualmente lavoro vivo) incorporata successivamente nella merce.
Quale gran delusione, poi, quando la merce, che per valorizzare il capitale deve essere in ogni modo venduta sul mercato, resta invece nei magazzini dell’azienda, tristemente invenduta (a causa delle periodiche crisi economiche da sovrapproduzione). Allora, al pari di un amante deluso, il capitale impazzisce di rabbia, e tenta di recuperare l’amore perduto – il plus-lavoro cristallizzato nella merce – distruggendo le quantità eccedenti di merci e di forze produttive esistenti (magari con una guerra), per far ripartire il processo di valorizzazione su nuove basi relazionali. Un mondo contrassegnato da una relazione in cui il lavoro morto (capitale costante), domina il lavoro vivo (capitale variabile); un mondo capovolto, caratterizzato dall’assurdo e dalla follia di una produzione economica in cui l’uomo è dominato dall’opera della sua mano. In questo tipo di mondo, la relazione fra capitale e lavoro salariato, che è un rapporto sociale concreto in cui si manifesta la violenza del potere di una classe sociale su un’altra classe sociale – e una classe sociale rappresenta un gruppo di esseri viventi – diventa una relazione fra cose, oggetti morti in cui è stato cristallizzato un certo tempo di lavoro vivo. La stessa percezione del reale che possono avere gli uomini in questa società, è quindi inevitabilmente compromessa dal folle rovesciamento in cui consiste la produzione delle merci; che è una produzione per lo scambio, destinato a valorizzare il capitale (lavoro morto cristallizzato), e non per l’uso, destinato invece a soddisfare i bisogni viventi della specie umana. Riprendiamo le parole di Marx: ” Dunque, il carattere mistico della merce non sorge dal suo valore d’uso. E nemmeno sorge dal contenuto delle determinazioni di valore. Poiché: in primo luogo, per quanto differenti possano essere i lavori utili o le operosità produttive, è verità fisiologica che essi sono funzioni dell’organismo umano, e che tutte tali funzioni, quale si sia il loro contenuto e la loro forma, sono essenzialmente dispendio di cervello, nervi, muscoli, organi sensoriali, ecc. umani… Di dove sorge dunque il carattere enigmatico del prodotto di lavoro appena assume forma di merce? Evidentemente, proprio da tale forma. L’eguaglianza dei lavori umani riceve la forma reale d’eguale oggettività di valore dei prodotti del lavoro, la misura del dispendio di forza-lavoro umana mediante la sua durata temporale riceve la forma di grandezza di valore dei prodotti del lavoro, ed infine i rapporti fra i produttori, nei quali si attuano quelle determinazioni sociali dei loro lavori, ricevono la forma di un rapporto sociale dei prodotti del lavoro. L’arcano della forma di merce consiste dunque semplicemente nel fatto che tale forma rimanda agli uomini come uno specchio i caratteri sociali del loro proprio lavoro trasformati in caratteri oggettivi dei prodotti di quel lavoro, in proprietà sociali naturali di quelle cose, e quindi rispecchia anche il rapporto sociale fra produttori e lavoro complessivo come un rapporto sociale di oggetti, avente esistenza al di fuori dei prodotti stessi. Mediante questo quid pro quo i prodotti del lavoro diventano merci, cose sensibilmente soprasensibili cioè cose sociali. Proprio come l’impressione luminosa di una cosa sul nervo ottico non si presenta come stimolo soggettivo del nervo ottico stesso, ma quale forma oggettiva di una cosa al di fuori dell’occhio. Ma nel fenomeno della vista si ha realmente la proiezione di luce da una cosa, l’oggetto esterno, su un’altra cosa, l’occhio: è un rapporto fisico fra cose fisiche. Invece la forma di merce e il rapporto di valore dei prodotti di lavoro nel quale essa si presenta non ha assolutamente nulla a che fare con la loro natura fisica e con le relazioni fra cosa e cosa che ne derivano. Quel che qui assume per gli uomini la forma fantasmagorica di un rapporto fra cose è soltanto il rapporto sociale determinato fra gli uomini stessi. Quindi, per trovare un’analogia, dobbiamo involarci nella regione nebulosa del mondo religioso. Quivi, i prodotti del cervello umano paiono figure indipendenti, dotate di vita propria, che stanno in rapporto fra di loro e in rapporto con gli uomini. Così, nel mondo delle merci, fanno i prodotti della mano umana. Questo io chiamo il feticismo che s’appiccica ai prodotti del lavoro appena vengono prodotti come merci, e che quindi è inseparabile dalla produzione delle merci”. Il capitale ‘ IL CARATTERE DI FETICCIO DELLA MERCE E IL SUO ARCAN0’.
Il feticismo delle merci, in altre parole i prodotti della mano e dell’intelligenza dell’uomo che si ergono come cose indipendenti, dotate di vita propria, che stanno in rapporto fra di loro e in rapporto con gli uomini. Un feticismo inseparabile dalla produzione delle merci, rispecchiato variamente nelle forme malate della conoscenza che sorgono nella società capitalistica. Il mondo dominato dal feticismo delle merci, assume, nella mente degli uomini, la forma fantasmagorica di un rapporto fra cose, mentre, invece, è soltanto un rapporto sociale determinato fra gli uomini stessi; questo feticismo, tuttavia, produce successive forme fantasmagoriche di conoscenza della realtà, variamente prigioniere di quest’illusione, in cui, un rapporto sociale determinato fra gli uomini, diviene un rapporto fra cose. Questo dominio si dispiega in una doppia dimensione: in primo luogo avviene l’asservimento del lavoro vivo dell’uomo al capitale ( = lavoro morto cristallizzato nei mezzi di produzione), e in secondo luogo si verifica la sostituzione della realtà con l’illusione, attraverso la reificazione: ovvero il processo di rovesciamento del reale, in cui, al rapporto concreto fra uomini, si sostituisce un rapporto tra entità mercificate e cosificate. Capitale e lavoro salariato; non più un rapporto sociale determinato fondato sul dominio e sulla violenza, ma un ordinario rapporto di scambio fra un venditore e un compratore, in cui la merce forza-lavoro è ceduta, per un certo tempo, dal suo proprietario lavoratore, al compratore capitalista, in cambio di un prezzo chiamato salario ( con cui il lavoratore-merce potrà comprare, a sua volta, le merci indispensabili per riprodurre la sua forza lavoro, e quindi consentirgli di vendersi di nuovo al capitale). Alla realtà del dominio di una classe sociale (composta da esseri viventi umani), su un’altra classe sociale (ugualmente formata da esseri viventi umani), si è in definitiva sovrapposto – nel capitalismo – un rapporto illusorio fra oggetti (merci); formalmente libere di contrarre normali accordi di compra-vendita sul mercato, accordi reciprocamente utili e soddisfacenti sia per il lavoratore (proprietario della merce forza-lavoro), sia per il capitalista (proprietario della merce forza-lavoro cristallizzata nel capitale). Già nella ’’Ideologia tedesca” il giovane Marx aveva sostenuto che ”sotto il dominio della borghesia gli individui sono più liberi di prima, nella fantasia, perché per loro le proprie condizioni di vita sono casuali “, in quanto formalmente liberi di vendere o meno la propria forza-lavoro, si presentano come apparentemente diverse da quelle che le hanno precedute nel corso della storia: la schiavitù, la servitù della gleba. Gli individui, invece, “ nella realtà sono naturalmente meno liberi perché più subordinati a una forza oggettiva “. Ibidem. Questa forza oggettiva è il meccanismo anonimo e impersonale del capitale, lavoro morto cristallizzato nei mezzi tecnici di produzione delle merci, prodotto in origine dal lavoro vivo dell’uomo, e poi in seguito separatosi da esso fino al punto di dominarlo come una forza oggettiva indipendente. Nell’attuale modo di produzione, questo processo di separazione, in cui il lavoratore è alienato; ovvero ha perso ogni legame di possesso con i prodotti del proprio lavoro ( le merci prodotte per l’azienda ), con i mezzi tecnici con cui li ha prodotti (il capitale), e con una parte del tempo di lavoro consumato ( il plus-lavoro rubato dal capitale), è all’origine delle successive forme di separazione del pensiero dalla realtà ( e anche dell’illusione in cui pensiero e realtà sono posti come due enti antitetici indipendenti, l’illusione che il puro atto di pensiero possa produrre l’essere concreto nella sua dimensione storico-sociale e naturale ). La società capitalistica è quindi contrassegnata da processi economico-sociali separativi, alienanti, di cui troviamo i riflessi distorti nelle rappresentazioni illusorie della realtà di una parte dei suoi componenti. In questa società i rapporti fra cose sostituiscono i rapporti fra esseri viventi, ma la stessa vita diventa teatro, rappresentazione di una recita fra attori sociali, semplici maschere di carattere, spinte a recitare la propria parte sotto la regia di quella forza oggettiva, quel meccanismo impersonale, di cui scrive Marx nel Capitale,libro III: ” Il modo di produzione capitalistico si contraddistingue a priori per due tratti caratteristici. Primo. Esso produce i suoi prodotti come merci. Il produrre merci non lo distingue dagli altri modi di produzione; lo distingue invece il fatto che il carattere prevalente e determinante del suo prodotto è quello di essere merce. Ciò implica, in primo luogo, che l’operaio stesso si presenta unicamente nella veste di venditore di merci, quindi di libero lavoratore salariato, così che il lavoro in generale si presenta come lavoro salariato. Dopo quanto abbiamo esposto nella nostra analisi, non è necessario dimostrare di nuovo che il rapporto fra capitale e lavoro salariato determina tutto il carattere del modo di produzione. I principali agenti di questo modo di produzione stesso, il capitalista e il lavoratore salariato, sono in quanto tali, semplicemente incarnazioni, personificazioni del capitale e del lavoro salariato; sono caratteri sociali determinati, che il processo di produzione sociale imprime agli individui; sono prodotti di questi determinati rapporti sociali di produzione”.
I principali agenti di questo modo di produzione sono entrambi attori forzati di una recita, basata su un copione di cui non sono gli autori, ma solo le maschere di carattere (Charaktermasken) in cui si articolano i rapporti di produzione dominanti. Lo stesso capitalista, perennemente convinto di essere il sale della terra; persuaso, cioè, di determinare il corso degli eventi economici e la redditività della sua impresa (con la scelta di strategie adeguate di produzione e di vendita delle merci), è in definitiva solo un misero ingranaggio della macchina del capitale – infatti, come scrive Marx, “egli non è altro che una ruota dell’ingranaggio”. Il Capitale libro I. Egli crede di essere padrone della parte che recita, mentre, invece, è solo una pedina, un burattino, magari soddisfatto della propria vita, ma spesso inconsapevole che questa vita è manovrata dalla logica inflessibile del capitalismo. Secondo Marx, infatti, il capitale non è un rapporto di potere personale ( come nei modi di produzione antico e feudale ), esso è un rapporto di potere sociale, di certo caratterizzato dal dominio di una classe sociale su un altra classe sociale, ma in cui, tuttavia, “ non sono gli individui, ma è il capitale che è posto in condizioni di libertà”. Marx ,Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica. Molto illuminante, in questo senso, è la descrizione marxista delle forme mentali assunte dai rapporti sociali, all’interno del modo di produzione feudale, ” Qui, invece dell’uomo indipendente, troviamo che tutti sono dipendenti: servi della gleba e padroni, vassalli e signori feudali, laici e preti. La dipendenza personale caratterizza tanto i rapporti sociali della produzione materiale, quanto le sfere di vita su di essa edificate. Ma proprio perché rapporti personali di dipendenza costituiscono il fondamento sociale dato, lavori e prodotti non hanno bisogno di assumere una figura fantastica differente dalla loro realtà: si risolvono nell’ingranaggio della società come servizi in natura e prestazioni in natura. La forma naturale del lavoro, la sua particolarità, è qui la sua forma sociale immediata, e non la sua generalità, come avviene sulla base della produzione di merci. La corvée si misura col tempo, proprio come il lavoro produttore di merci, ma ogni servo della gleba sa che quel che egli aliena al servizio del suo padrone è una quantità determinata della sua forza-lavoro personale. La decima che si deve fornire al prete è più evidente della benedizione del prete. Quindi, qualunque sia il giudizio che si voglia dare delle maschere nelle quali gli uomini si presentano l’uno all’altro in quel teatro, i rapporti sociali delle persone appaiono in ogni modo come loro rapporti personali, e non sono travestiti da rapporti sociali delle cose, dei prodotti del lavoro”.Marx: Il capitale: il carattere di feticcio della merce e il suo arcano.
Il modo di produzione feudale, dunque, proprio essendo una forma di dominio personale dell’uomo sull’uomo, non cela, e non può celare, i rapporti sociali reali fra le persone, mistificandoli sotto la parvenza illusoria di rapporti sociali delle cose, come avviene nel modo di produzione attuale. Ogni servo della gleba sa quel che egli aliena al servizio del suo padrone, scrive Marx, diversamente da quello che accade al moderno schiavo salariato, nel teatro sociale contemporaneo. Merce contro merce, lavoro contro salario: questa è la recita che trova scena sul palco del libero mercato, ma una volta tolta la maschera e il trucco, la recita si svela per quello che è: Un modo di produzione fondato sull’alienazione capitalistica del lavoro; e quindi sulla produzione di merci in cui è incorporata la preziosa sostanza valorificante, il lavoro, e quella parte ancora più preziosa: il plus-lavoro/plus-valore, ossessivamente agognata dal capitale, così come un amante desidera incessantemente l’oggetto del suo amore.
Riprendiamo le parole di Marx, “Il secondo tratto caratteristico, che contraddistingue specificamente il modo di produzione capitalistico, è la produzione del plusvalore come scopo diretto e motivo determinante della produzione. Il capitale produce essenzialmente capitale e fa ciò solamente nella misura in cui produce plusvalore… L’autorità assunta dal capitalista in quanto personificazione del capitale nel diretto processo di produzione, la funzione sociale che egli riveste nella sua qualità di dirigente e di dominatore della produzione, è sostanzialmente diversa dall’autorità avente come base la produzione con schiavi, servi della gleba, ecc. Mentre, sulla base della produzione capitalistica, alla massa dei produttori diretti si contrappone il carattere sociale della loro produzione, nella forma di una autorità rigorosamente normativa e di un meccanismo sociale del processo lavorativo articolato in una gerarchia completa, — autorità però che spetta ai suoi depositari in quanto personificazioni delle condizioni di lavoro rispetto al lavoro, non, come nelle precedenti forme di produzione, in quanto dominatori politici o teocratici — fra i depositari di questa autorità, fra i capitalisti stessi, che si contrappongono l’uno all’altro soltanto come possessori di merci, regna una anarchia completa, nel quadro della quale la struttura sociale della produzione si afferma solo come una soverchiante legge naturale nei confronti dell’arbitrio individuale… prendiamo ora il profitto. Questa forma determinata del plusvalore è il presupposto necessario perché la nuova creazione dei mezzi di produzione si svolga nella forma della produzione capitalistica; quindi un rapporto che domina la riproduzione, quantunque il singolo capitalista abbia l’impressione di potere in fondo consumare il suo intero profitto come rendita. Ma egli trova dei limiti, che si ergono dinanzi a lui già nella forma di fondo di assicurazione e di riserva, di legge della concorrenza ecc.,”. Il Capitale,libro III.
Un mondo alienato, in cui alla massa dei produttori diretti, si contrappone il carattere sociale della loro produzione, il lavoro vivo contro il lavoro morto, il produttore sussunto all’interno del suo prodotto, e poi, infine, la forma specifica delle relazioni nate sulla base di tali rapporti alienati: il dispotismo di fabbrica, come paradigma del dominio del capitale sul lavoro, che Marx definisce,“forma di una autorità rigorosamente normativa e di un meccanismo sociale del processo lavorativo articolato in una gerarchia completa “. L’azienda capitalistica, ossia lo spazio-tempo sociale in cui si svolgono i processi produttivi delle merci, in cui il lavoratore subisce l’estrazione di plus-lavoro più o meno inconsapevolmente, è anche il luogo governato da un autorità rigorosamente normativa, quasi asettica, dall’apparenza neutra, e tuttavia articolata in una gerarchia completa di comando. L’autorità del capitalista non è paragonabile a quella dei dominatori politici o teocratici dello schiavismo antico o del feudalesimo, il capitalista è invece la personificazione del capitale nel diretto processo di produzione, egli è una maschera che svolge una funzione sociale che riveste nella sua qualità di dirigente e di dominatore della produzione. In definitiva è il meccanismo sociale del processo lavorativo alienato, articolato in una gerarchia completa, che pone in essere la (Charaktermasken) del capitalista; mera funzione sociale svolta come funzionario personale del capitale, dirigente e dominatore della produzione di merci.
Moloch, il divoratore di uomini; alle radici della violenza, (la produzione capitalistica come divoramento di forza-lavoro fino alla distruzione della vita del lavoratore).
Il mio cuore chiede pace. /I giorni volano via, uno dopo l’altro, / e ogni giorno porta via con sé / un piccolo pezzo di vita…
Aleksandr Puskin
Il dispotismo di fabbrica, ma anche il dispotismo presente negli uffici e negli altri luoghi di lavoro: cosa significa tutto questo, possibile che le società democratiche contemporanee, così libere e attente ai diritti delle persone, consentano poi alla sua negazione, il dispotismo, di potersi manifestare impunemente al suo interno? Nell’ideologia aziendalista non è così, le apparenze vanno salvate, quello che noi marxisti definiamo dispotismo, viene chiamato organizzazione scientifica del lavoro; una realtà innervata di modelli operativi basati sui moderni studi socio-psicologici di supporto alla funzione manageriale. Eppure, chi bazzica le teorie organizzativo-manageriali, sa bene che gli obiettivi di fondo di questi studi ‘scientifici’, sono l’incremento dell’efficienza e dell’efficacia dei processi decisionali e operativi aziendali. In altre parole, ottimizzare l’impiego delle risorse consumate nei processi produttivi, eliminare i tempi morti nell’esecuzione dei compiti assegnati ai dipendenti, e infine riuscire a produrre di più riducendo nel contempo i costi sostenuti, al fine di consolidare e allargare la propria fetta di mercato e battere la concorrenza. I moderni testi scolastici di economia aziendale sono infarciti di esposizioni di questo tipo, testi in cui la ricerca spasmodica di plus-valore al centro dell’economia capitalista, viene mistificata e dissimulata, in modo probabilmente inconsapevole, attraverso l’uso di parole asettiche, tranquillizzanti. I testi scolastici servono a propagandare una ideologia sociale, e devono quindi raccontare in modo distorto la realtà economico-sociale, tuttavia, quando si fa l’esperienza concreta del lavoro subordinato, e si tocca con mano la distanza reale fra le favole dei testi scolastici e il dispotismo di fabbrica, le cose ritornano presto al loro posto. Un dispotismo che significa rapporti gerarchici e autoritarismo, regolamenti interni, divieti e sanzioni disciplinari, servilismo e pratiche di delazione da parte di elementi opportunisti, interiorizzazione del valore del lavoro fatto bene e della professionalità (in una parola, il dispiegamento operativo del comando del capitale sulla merce lavoro, precedentemente acquistata in un libero scambio sul mercato). Uno scambio dove il proletario, vendendo per un tempo determinato la propria forza-lavoro, si procaccia il salario per comprare i mezzi di sussistenza per riprodurre la propria esistenza, ma riproduce e fa continuare a sussistere, nel contempo, anche le condizioni del proprio asservimento al dispotismo del capitale: “Di fatto, il venditore della forza-lavoro realizza il suo valore di scambio e aliena il suo valore d’uso, come il venditore di qualsiasi altra merce. Non può ottenere l’uno senza cedere l’altro. Il valore d’uso della forza-lavoro, il lavoro stesso, non appartiene affatto al venditore di essa, come al negoziante d’olio non appartiene il valore d’uso dell’olio da lui venduto. Il possessore del denaro ha pagato il valore giornaliero della forza-lavoro; quindi a lui appartiene l’uso di essa durante la giornata, il lavoro di tutt’un giorno. La circostanza che il mantenimento giornaliero della forza-lavoro costa soltanto una mezza giornata lavorativa, benché la forza-lavoro possa operare, cioè lavorare, per tutta una giornata, e che quindi il valore creato durante una giornata dall’uso di essa superi del doppio il suo proprio valore giornaliero, è una fortuna particolare per il compratore, ma non è affatto un’ingiustizia verso il venditore. II nostro capitalista ha previsto questo caso, che lo mette in allegria. Quindi il lavoratore trova nell’officina non solo i mezzi di produzione necessari per un processo lavorativo di 6 ore, ma quelli per 12 ore”. Il Capitale, libro primo, sezione III, capitolo 5. Il lavoratore trova nell’officina una situazione particolare: i mezzi di produzione in dotazione sono programmati per un tempo superiore a quello necessario per ripagare il salario ricevuto, questa scelta dello scaltro capitalista, è indispensabile per consentire l’incremento della produttività del lavoro, della redditività dell’impresa, ovvero il furto di tempo di lavoro, necessario per la crescita economica del capitale. In una economia in cui si allarga costantemente il divario fra il tempo di lavoro giornaliero, e la frazione di orario quotidiano necessario per il mantenimento della forza-lavoro, gran parte dei proletari, come soldatini disciplinati e ubbidienti, subiscono le decisioni dell’autorità rigorosamente normativa con cui si manifesta l’apparenza del meccanismo sociale capitalistico, articolato in una gerarchia completa di comando e di subordinazione, in cui i capitalisti sono semplici “personificazioni delle condizioni di lavoro rispetto al lavoro, e non, come nelle precedenti forme di produzione, dominatori politici o teocratici”. L’azienda, le sue priorità economiche, la redditività, la competizione con le altre aziende, la vendita di beni e servizi sul mercato; tutte queste cose diventano le ragioni impersonali della disciplina capitalistica sui luoghi di lavoro, i posti dove si svolgono i processi produttivi, e il lavoratore viene costretto a lavorare per un tempo di lavoro superiore a quello necessario per ripagare ciò che ha ricevuto sotto forma di salario,”…tutto il sistema di produzione capitalistico si aggira intorno al problema di prolungare questo lavoro gratuito prolungando la giornata di lavoro o sviluppando la produttività, cioè con una maggiore tensione della forza-lavoro… dunque il sistema del lavoro salariato è un sistema di schiavitù”. Marx, Critica del programma di Gotha. Il padrone schiavista e il signore feudale non occultavano la loro azione di dominio, essa era forse spacciata come adeguata alla natura delle cose, e tuttavia non poteva essere troppo mascherata: il regno del capitale, invece, presentando un rapporto reale di dominazione e di subordinazione fra uomini sotto l’apparenza di un rapporto fra cose, ha fatto dell’occultamento e della mistificazione la sua caratteristica predominante; in tale contesto anche la sottomissione del lavoratore, nel quadro del dispotismo di fabbrica, è percepito solo come il risultato di rapporti impersonali fra cose, e non, invece, come la conseguenza di un rapporto sociale di dominio, in cui consiste, al di là della superficie apparente, il meccanismo sociale capitalistico di cui parla Marx. Ma possiamo davvero sostenere che il meccanismo sociale capitalistico, la società in cui viviamo, democratica e liberale, possiede le brutture che andiamo raccontando? Riportiamo allora una vivace descrizione del capitalismo inglese ottocentesco, più che mai attuale e calzante con i nostri tempi” L’impulso al prolungamento della giornata lavorativa, la fame di plus-lavoro da lupi mannari, è stata finora studiata in un settore nel quale mostruosi eccessi, non sorpassati — così dice un economista borghese inglese neppure dalle crudeltà degli spagnoli contro i pellirosse d’America, hanno finito col far mettere il capitale alla catena della regolamentazione legale. Ma diamo uno sguardo ad alcune branche di produzione, dove lo sfruttamento della forza- lavoro è ancor oggi libero da vincoli, o era tale fino a ieri. «Il signor Broughton, magistrato di contea, dichiarò, come presidente di una riunione tenuta nel palazzo comunale di Nottingham il 14 gennaio 1860, che fra la parte della popolazione della città occupata nella fabbricazione di merletti dominava un livello di sofferenze e privazioni sconosciuto al resto del mondo civile… Alle due, alle tre, alle quattro del mattino, fanciulli di nove o dieci anni vengono strappati ai loro sporchi letti e costretti a lavorare fino alle dieci, undici, dodici di notte, per un guadagno di pura sussistenza; le loro membra si consumano, la loro figura si rattrappisce, i tratti del volto si ottundono e la loro umanità s’irrigidisce completamente in un torpore di pietra, orrido solo a vedersi…un sistema di schiavitù illimitata, schiavitù socialmente, fisicamente, moralmente, intellettualmente parlando… La manifattura dei fiammiferi data dal 1833, dalla scoperta del modo di fissare il fosforo sull’accenditoio. Si è sviluppata in Inghilterra dal 1845 in poi, rapidamente, e si è estesa, partendo specialmente dalle parti di Londra a densa popolazione, anche a Manchester, Birmingham, Liverpool, Bristol, Norwich, Newcastle, Glasgow; con essa s’è diffuso il trisma, che un medico di Vienna scoperse già nel 1845 esser la malattia peculiare dei lavoranti in fiammiferi. Metà degli operai di questa manifattura sono bambini sotto i tredici anni e adolescenti di meno di diciotto anni…Dei testimoni esaminati dal commissario White (1863), duecentosettanta erano sotto i diciotto anni, quaranta sotto i dieci anni, dieci avevano solo otto, cinque avevano solo sei anni. Giornata lavorativa che andava dalle dodici alle quattordici, alle quindici ore; lavoro notturno; pasti irregolari, per lo più presi negli stessi locali di lavoro, che sono appestati dal fosforo. Dante avrebbe trovato che questa manifattura supera le sue più crudeli fantasie infernali” . Il Capitale, libro primo, sezione III, capitolo 8.
Forse si dirà che l’esempio è lontano nel tempo, e ai nostri giorni certe cose non possono più accadere , allora riportiamo dei fatti più vicini al nostro tempo, prendiamo ad esempio il caso di Juaréz, una città messicana con un milione e mezzo di abitanti, vicina alla ricca città statunitense di El Paso: in essa ritroviamo i soliti trafficanti di droga, prostitute appena adolescenti, e poi le maquiladoras, le grosse fabbriche di articoli elettrici, destinati a rifornire i mercati di Europa e Stati Uniti. Inutile dire che i prodotti realizzati da queste aziende sono venduti a prezzi concorrenziali, e questo è dovuto ai bassi salari pagati alla manodopera locale: solo pochi dollari giornalieri. Forse è superfluo ricordare che in queste maquiladoras non esistono rappresentanze sindacali, e chi non rispetta le regole rischia come minimo di essere licenziato. Questa manodopera locale, difficilmente grata alla sorte di vivere nell’odierno paradiso capitalista, alloggia in povere baracche, colonias populares, completamente prive di acqua corrente, luce elettrica, strade asfaltate e fognature. Se non basta ancora potremmo ricordare la moltitudine di diseredati sparsi per tutti gli angoli del mondo, nelle periferie, nelle favelas, nelle baraccopoli , e nei molti altri giardini di delizie che colorano di orrore la società in cui viviamo, prevalentemente democratica e liberale, ma nondimeno violenta e spietata con i deboli e gli indifesi, e con tutte le creature viventi (uomini o animali) che non hanno la forza di difendersi. Guidato dal sordo impulso a sopravvivere e ad accrescersi, il capitale non ammette, tendenzialmente, tempi morti nel processo produttivo delle merci, “Il capitale costante, i mezzi di produzione, considerati dal punto di vista del processo di valorizzazione, esistono solo allo scopo di assorbir lavoro e, con ogni goccia di lavoro, una quantità proporzionale di plus-lavoro. In tanto che essi non fanno questo, la loro semplice esistenza costituisce per il capitalista una perdita negativa; poiché, durante il tempo nel quale rimangono inoperosi, essi rappresentano un’inutile anticipazione di capitale; e questa perdita diventa positiva appena l’interruzione nel loro impiego rende necessarie spese supplementari per il ricominciare il lavoro. Il prolungamento della giornata, al di là dei limiti della giornata naturale, fino entro la notte, opera soltanto come palliativo, calma solo approssimativamente la sete da vampiro che il capitale ha del vivo sangue del lavoro. Quindi, l’istinto immanente della produzione capitalistica è di appropriarsi lavoro durante tutte le ventiquattro ore del giorno. Ma poiché questo è impossibile fisicamente, quando vengano assorbite continuamente, giorno e notte, le medesime forze-lavoro, allora, per superare l’ostacolo fisico, c’è bisogno di avvicendare le forze-lavoro divorate durante il giorno e la notte”.Il Capitale, libro primo, sezione III, capitolo 8. Ogni mezzo può andare bene per placare la sete di plus-lavoro del capitale, solo una certa serie di limitazioni fisiologiche occludono la possibilità di impiegare 24 ore su 24 lo stesso proletario nel ciclo della produzione, e allora è buona cosa ricorrere ai turni di lavoro diurni e notturni (l’avvicendamento), cosicché il capitale possa divorare forza-lavoro diversa durante il giorno e la notte, e calmare finalmente la sete da vampiro del vivo sangue del lavoro. Tuttavia, questo bisogno di divorare la forza-lavoro umana, trasforma il lavoratore in una semplice appendice dei macchinari utilizzati per la produzione, e il capitale costante ingloba dentro di sé il lavoro vivente come capitale variabile – essendo variabile, infatti, a causa dei progressi tecnologici, la quantità di tempo di lavoro socialmente necessario per produrre le merci. Tuttavia, anche diminuendo il tempo di lavoro socialmente necessario, la giornata lavorativa si mantiene stabilmente intorno alle 8/10 ore giornaliere, inoltre sono molto diffuse, tuttora, le condizioni descritte da Marx nel capitale, a proposito dell’Inghilterra del 1860. Infine, quali effetti ha sulla fisiologia umana, e sulla durata di vita del lavoratore, un meccanismo simile? Riprendiamo la lettura del Capitale:“Ma il capitale, nel suo smisurato e cieco impulso, nella sua voracità da lupo mannaro di plus-lavoro, scavalca non soltanto i limiti massimi morali della giornata lavorativa, ma anche quelli puramente fisici. Usurpa il tempo necessario per la crescita, lo sviluppo e la sana conservazione del corpo. Ruba il tempo che è indispensabile per consumare aria libera e luce solare. Lesina sul tempo dei pasti e lo incorpora, dove è possibile, nel processo produttivo stesso, cosicché al lavoratore viene dato il cibo come a un puro e semplice mezzo di produzione, come si dà carbone alla caldaia a vapore, come si dà sego e olio alle macchine. Riduce il sonno sano che serve a raccogliere, rinnovare, rinfrescare le energie vitali, a tante ore di torpore quante ne rende indispensabili il ravvivamento di un organismo assolutamente esaurito. Qui non è la normale conservazione della forza-lavoro a determinare il limite della giornata lavorativa, ma, viceversa, è il massimo possibile dispendio giornaliero di forza-lavoro, per quanto morbosamente coatto e penoso, a determinare il limite del tempo di riposo dell’operaio. Il capitale non si preoccupa della durata della vita della forza- lavoro. Quel che gli interessa è unicamente e soltanto il massimo di forza-lavoro che può essere resa liquida in una giornata lavorativa. Esso ottiene questo scopo abbreviando la durata della forza-lavoro, come un agricoltore avido ottiene aumentati proventi dal suolo rapinandone la fertilità. Con il prolungamento della giornata lavorativa, la produzione capitalistica, che è essenzialmente produzione di plusvalore, assorbimento di plus-lavoro, non produce dunque soltanto il deperimento della forza-lavoro umana, che viene derubata delle sue condizioni normali di sviluppo e di attuazione, morali e fisiche; ma produce anche l’esaurimento e la estinzione precoce della forza-lavoro stessa “. In queste citazioni emerge l’idea del capitale come una potenza mortifera, guidata da uno smisurato e cieco impulso, che nella sua voracità da lupo mannaro di plus-lavoro, supera gli stessi limiti fisici biologici della giornata lavorativa, consumando fino all’esaurimento e all’estinzione precoce la forza-lavoro di cui può fare uso, dopo averla formalmente acquistata in modo libero sul mercato del lavoro. La discussione contemporanea sugli incidenti del lavoro, è probabilmente fuorviante, perché essa presuppone che esistano gli incidenti sul lavoro; quando è il lavoro stesso, ad essere un incidente e un pericolo per la vita del proletario nell’attuale modo di produzione capitalistico (1). Abbiamo tentato, fino a questo punto, di analizzare gli aspetti occultanti e ingannatori del meccanismo sociale capitalistico, cercando di scoprire l’influenza di questi aspetti sull’apparato di conoscenza dominante. Le progressive falsificazioni della realtà, abbiamo constatato, convergono verso l’occultamento del carattere violento e distruttivo del meccanismo sociale capitalistico. Mercificazione, alienazione, e reificazione sono alcuni aspetti con cui si manifesta il meccanismo sociale del capitale; quando i veli dell’illusione sono scomparsi, tuttavia, è possibile percepire il volto omicida di questo meccanismo. Marx lo raffigura con chiarezza “Il capitale non si preoccupa della durata della vita della forza- lavoro. Quel che gli interessa è unicamente e soltanto il massimo di forza-lavoro che può essere resa liquida in una giornata lavorativa”. Le preoccupazioni relative alle condizioni e alla durata di vita del lavoratore sono dei sentimentalismi superflui, che i capitalisti non possono concedersi. Il meccanismo sociale di cui sono una semplice funzione, li contrappone l’uno all’altro unicamente come possessori di merci, in feroce concorrenza sul mercato dove regna una anarchia completa; essi operano come semplici attori nel quadro di una struttura sociale della produzione finalizzata alla valorizzazione illimitata del capitale. Questa valorizzazione illimitata del capitale, si afferma come una soverchiante legge naturale nei confronti dell’arbitrio individuale del singolo capitalista, il quale si ritrova costretto a svolgere, esso stesso, il compito di funzionario del capitale; dirigente e dominatore della produzione. Al termine della rappresentazione dei ruoli previsti dal meccanismo sociale, quando lo spettacolo ripetitivo della valorizzazione illimitata del capitale si conclude con il divoramento di forza-lavoro, fino alla distruzione della vita del lavoratore, nessuno è responsabile di alcunché, perché tutti hanno solo eseguito gli ordini del Moloch sociale capitalista; il demone divoratore di uomini ricordato nella bibbia. Nessuno poteva rifiutarsi, nessuno poteva ribellarsi, non ci sono carnefici e non ci sono neppure vittime nel meccanismo sociale capitalistico, ma solo dei ruoli e delle funzioni che qualcuno deve svolgere, come un semplice attore sulla scena di un teatro, al di là del bene e del male. E’ interessante rilevare come la psicologia sociale moderna, in certe sue recenti ricerche tenti di spiegare il comportamento individuale o di gruppo, inserendolo in una cornice di riferimento socio-culturale condizionante, rispetto alla quale il libero arbitrio è tendenzialmente ininfluente. La cornice sociale di riferimento, impiegata negli studi di psicologia sociale per comprendere anche la violenza estrema, quella che viene compiuta, ad esempio, durante la guerra, da parte di soldati che nella vita civile sono dei cittadini pacifici, conferma l’importanza della scoperta di Marx, il quale rileva, nel 1867, che “la struttura sociale della produzione si afferma come una soverchiante legge naturale nei confronti dell’arbitrio individuale (del capitalista) ”. Il soldato, durante la guerra, tendenzialmente, può compiere azioni d’estrema violenza e crudeltà, sospendendo i dettami morali vigenti nella cornice di riferimento della vita civile, poiché si è spostato nella cornice di riferimento della guerra (incentrata sul dovere, il cameratismo, e l’obbedienza agli ordini dei superiori). Anche il capitalista, nell’adempimento del suo lavoro di dirigente e dominatore della produzione, può compiere azioni distruttive per la vita del lavoratore, in piena armonia con la cornice di riferimento operativa nella produzione. Nella cornice di riferimento dell’economia aziendale capitalistica, infatti, i dettami sociali dominanti sono la vittoria nella lotta con la concorrenza, e quindi la ricerca del profitto e l’incremento della redditività dei fattori produttivi. Essendo il lavoro umano un fattore produttivo, al pari di un macchinario o di un fabbricato industriale, l’incremento della sua produttività è un’esigenza normale e ordinaria (per il suo proprietario capitalista); certo, quest’incremento di produttività può usurpare il tempo necessario per la crescita, lo sviluppo e la sana conservazione del corpo del lavoratore, può rubare il tempo che è indispensabile per consumare aria libera e luce solare, producendo anche l’esaurimento e la estinzione precoce della forza-lavoro stessa, ma non importa; lo scambio forza-lavoro/salario è avvenuto in modo libero, e il Mefistofele capitalista esige solo di consumare la vita che gli è stata volontariamente ceduta, “il nostro capitalista ha comprato sul mercato del lavoro forza-lavoro di bontà normale. Questa forza deve essere spesa con la misura media abituale di sforzo, nel grado d’intensità usuale in quella data società. Il capitalista veglia a ciò con lo stesso scrupolo che mette in atto perché non si sprechi tempo senza lavorare. Ha comprato la forza-lavoro per un periodo determinato, e ci tiene ad avere il suo. Non vuole essere derubato”.Il Capitale, libro primo, sezione III, capitolo 5. La tendenza al prolungamento della giornata lavorativa ha trovato, soprattutto nelle aree più sviluppate del capitalismo, dei freni, risultato della lotta plurisecolare fra capitale e lavoro, e tuttavia, il limite massimo, fisico e sociale, di questa giornata è spesso vago ed elastico: “Ora, benché la giornata lavorativa non sia una grandezza fissa, ma anzi fluida, tuttavia essa può variare soltanto entro certi limiti. Però il suo limite minimo è indeterminabile. Certo, se poniamo la linea di prolungamento (b – c), ossia il plus-lavoro, come eguale a zero, otteniamo un limite minimo, cioè la parte del giorno che l’operaio deve necessariamente lavorare per la propria conservazione. Ma, sul piano del modo di produzione capitalistico, il lavoro necessario può costituire sempre soltanto una sola parte della giornata lavorativa dell’operaio; quindi la giornata lavorativa non può mai esser ridotta a questo minimo. Invece la giornata lavorativa ha un limite massimo, che non è prolungabile al di là di un certo termine. Questo limite massimo è determinato da due cose. In primo luogo è determinato dal limite fisico della forza-lavoro. Durante il giorno naturale di 24 ore, un uomo può spendere soltanto una quantità determinata di forza vitale; così un cavallo può lavorare solo 8 ore giorno per giorno. Durante una parte del giorno la forza lavorativa deve riposare, dormire, durante un’altra parte l’uomo ha da soddisfare altri bisogni fisici, nutrirsi, pulirsi, vestirsi ecc. Oltre questo limite puramente fisico, il prolungamento della giornata lavorativa urta contro limiti morali. L’operaio ha bisogno di tempo per la soddisfazione di bisogni intellettuali e sociali, la cui estensione e il cui numero sono determinati dallo stato generale della civiltà. La variazione della giornata lavorativa si muove dunque entro limiti fisici e sociali. Ma tanto gli uni che gli altri sono di natura assai elastica e permettono un larghissimo margine di azione. Così troviamo giornate lavorative di otto, dieci, dodici, quattordici, sedici e diciotto ore, quindi di diversissima lunghezza”. Il Capitale, libro primo, sezione III, capitolo 8. Tutto è possibile quando si tratta di valorizzare il capitale investito nella produzione, di conseguenza i limiti fisici e sociali possono essere piegati alle sacrosante ragioni del profitto, della crescita del PIL, e dell’economia nazionale, senza per questo creare scandalo: “Come capitalista, egli è soltanto capitale personificato. La sua anima è l’anima del capitale. Ma il capitale ha un unico istinto vitale, l’istinto cioè di valorizzarsi, di creare plusvalore, di assorbire con la sua parte costante, che sono i mezzi di produzione, la massa di plus-lavoro più grande possibile…Quindi il capitale non ha riguardi per la salute e la durata della vita dell’operaio, quando non sia costretto a tali riguardi dalla società. Al lamento per il deperimento fisico e mentale, per la morte prematura, per la tortura del sopra-lavoro, il capitale risponde: dovrebbe tale tormento tormentar noi, dal momento che aumenta il nostro piacere (il profitto)? Ma, considerando il fenomeno nel suo complesso, tutto ciò non dipende neppure dalla buona o cattiva volontà del capitalista singolo. La libera concorrenza fa valere le leggi immanenti della produzione capitalistica come legge coercitiva esterna nei confronti del capitalista singolo”. Il Capitale, libro primo, sezione III, capitolo 8. La libera concorrenza impone, dunque, le leggi immanenti dell’economia capitalistica, come leggi coercitive inesorabili nei confronti del singolo capitalista, indipendentemente dai suoi sentimenti personali, dalla buona o dalla cattiva volontà, dalle sue idee politiche. Il suo agire, le sue scelte imprenditoriali, le considerazioni per la salute e la durata della vita dell’operaio, sono subordinate alla cornice di riferimento dell’economia aziendale capitalistica, in cui egli è inglobato come funzionario anonimo del capitale. Egli smette di essere un uomo indipendente, poiché come capitalista, egli è soltanto capitale personificato, una maschera di carattere, una funzione del meccanismo sociale dominante che prevede solo due attori principali, gli sfruttati e gli sfruttatori. La sua alienazione, in questa società, è perfino superiore a quella del proletario, poiché mentre il capitalista, “è radicato in un processo di alienazione nel quale trova il suo appagamento assoluto…l’operaio, in quanto ne è la vittima, è a priori con esso in rapporto di ribellione, lo sente come processo di riduzione in schiavitù”. Il Capitale, libro primo, capitolo VI, inedito. Il capitalista, trovando appagamento e vantaggio nel processo d’alienazione, è ancora meno libero del proletario di cui divora ossessivamente la vita e il plus-lavoro, egli è appagato nel suo essere strumento del Moloch capitalista; e la sua stessa anima, è oramai diventata l’anima del capitale. Come la teologia postula un’anima eterna, anche l’anima del capitale è eternamente ricorrente nel ciclo della produzione dove, “… in primo luogo egli vuol produrre un valore d’uso che abbia un valore di scambio, un articolo destinato alla vendita, una merce; e in secondo luogo vuol produrre una merce il cui valore sia più alto della somma dei valori delle merci necessarie alla sua produzione, i mezzi di produzione e la forza-lavoro, per le quali ha anticipato sul mercato il suo buon denaro. Non vuole produrre soltanto un valore d’uso, ma una merce, non soltanto valore d’uso, ma valore, e non soltanto valore, ma anche plusvalore…Noi sappiamo che il valore di ogni merce è determinato dalla quantità del lavoro materializzato nel suo valore d’uso, dal tempo di lavoro socialmente necessario per la produzione di essa. Questo vale anche per il prodotto che il nostro capitalista ha ottenuto come risultato del processo lavorativo… Il capitalista, trasformando denaro in merci che servono per costituire il materiale di un nuovo prodotto ossia servono come fattori del processo lavorativo, incorporando forza-lavoro vivente alla loro morta oggettività, trasforma valore, lavoro trapassato, oggettivato, morto, in capitale, in valore auto-valorizzantesi; mostro animato che comincia a «lavorare» come se avesse amore in corpo. Ma confrontiamo il processo di creazione di valore e il processo di valorizzazione: quest’ultimo non è altro che un processo di creazione di valore prolungato al di là di un certo punto. Se il processo di creazione di valore dura soltanto fino al punto nel quale il valore della forza-lavoro pagato dal capitale è sostituito da un nuovo equivalente, è processo semplice di creazione di valore; se il processo di creazione di valore dura al di là di quel punto, esso diventa processo di valorizzazione”. Il Capitale, libro primo, sezione III, capitolo 5. Il capitalista, trasformando denaro in merci, impiegate come fattori del processo produttivo, incorpora forza-lavoro vivente nella morta oggettività del lavoro trapassato (nel capitale costante); eppure, la forza-lavoro incorporata, col suo semplice contatto, risveglia dal regno dei morti i fattori del processo produttivo – il capitale costante – che al pari di un mostro animato comincia a «lavorare» come se avesse amore in corpo. L’appagamento di cui è prigioniero il capitalista, il cui modo di agire e di pensare è condizionato dalla cornice di riferimento aziendale – produttivistica, e quindi l’amore per il plus-valore che rianima il corpo morto del capitale, tuttavia, considerati nei riverberi che proiettano sulle vite dei lavoratori, si rivelano solo come una violenza estrema, la violenza del divoramento della forza-lavoro, fino alla distruzione della vita stessa del lavoratore (2). Alla fine, è l’esistenza di un uomo reale che è trasformata in una merce di scambio, è la vita di un essere senziente che è mercificata e consumata come se si trattasse di un oggetto privo di auto-coscienza (fino alla conclusione fatale, rappresentata dalla sua estinzione precoce, quando viene meno la sua residua utilità strumentale per la produzione capitalista).
(1).”Il tempo è lo spazio dello sviluppo umano. Un uomo che non dispone di nessun tempo libero, che per tutta la sua vita, all’infuori delle pause puramente fisiche per dormire e per mangiare e così via, è preso dal suo lavoro per il capitalista, è meno di una bestia da soma. Egli non è che una macchina per la produzione di ricchezza per altri, è fisicamente spezzato e spiritualmente abbrutito. Eppure, tutta la storia dell’industria moderna mostra che il capitale, se non gli vengono posti dei freni, lavora senza scrupoli e senza misericordia per precipitare tutta la classe operaia a questo livello della più profonda degradazione”. Karl Marx, Salario, prezzo e profitto, 1865.
(2). “La guerra industriale, per essere condotta con successo, richiede numerosi eserciti, che essa può ammassare nello stesso punto e largamente decimare. Non per disciplina né per dovere i soldati di questo esercito sopportano le fatiche che sono loro imposte, ma soltanto per la dura necessità di fuggire la fame. Non hanno né attaccamento né riconoscenza per i loro capi; i quali non hanno per i loro sottoposti nessun sentimento di benevolenza; non li conoscono come uomini, ma solo come strumenti della produzione, che devono rendere il più possibile e costare il meno possibile. Queste masse di operai, sempre più premuti dalla necessità non hanno neppure la tranquillità di trovar sempre un’occupazione; l’industria che li ha riuniti, li fa vivere soltanto se ne ha bisogno, e non appena può sbarazzarsene, li abbandona senza darsi il minimo pensiero; e gli operai sono costretti ad offrire la loro persona e la loro forza al prezzo che gli si vuol accordare. E tanto meno sono pagati quanto più il lavoro che gli si offre è lungo, penoso, disgustoso; si vedono taluni che con un lavoro di sedici ore al giorno, in stato di fatica continuata, si acquistano a mala pena il diritto di non morire”. Karl Marx. Manoscritti economico-filosofici.
Capitolo 6: Come riflessi di morte in uno specchio: l’orrore dietro il velo della civiltà borghese.
“L’angelo nero fissò Brightwell. No, si disse, tu volevi la bambina non soltanto per questo.
Il tuo bisogno di infliggere sofferenze è sempre stato la tua rovina”.
John Connolly, L’angelo delle ossa.
Il processo di produzione capitalistico delle merci è produzione di valore d’uso, come accade, d’altronde, per ogni produzione di beni destinati all’uso, indipendentemente dal modo sociale di produzione in cui avviene tale creazione di valore; tuttavia, il processo di produzione capitalistico non si limita alla creazione di un valore d’uso, esso è, al contempo, creazione di un valore di scambio, produzione di merce destinata alla vendita sul mercato. Il valore di scambio di questa merce racchiude una sostanza valorizzante, il tempo di lavoro socialmente necessario per la sua produzione, e poi, al di sotto di questo tempo necessario, è racchiuso, al pari di un cristallo prezioso, un tempo di lavoro eccedente il tempo necessario, un plus-lavoro, avidamente desiderato dal mostro animato divoratore di vite, l’orrore nascosto dietro la bella apparenza della civiltà borghese. L’uomo contemporaneo pensa di vivere in un mondo dai contorni sicuri, caratterizzato da relazioni sociali basate sulla razionalità degli scambi economici e delle leggi racchiuse nei codici; un mondo civilizzato e democratico, in cui la violenza e la prevaricazione sono sostituite dall’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge; in cui l’apparato statale tutela i cittadini dalla culla alla tomba, e i mostri, in ultima analisi, sono sempre gli altri (i terroristi islamici, i serial killer, gli stati canaglia…). Quello che stiamo cercando di dimostrare, invece, è la sconcertante vicinanza e banalità del mostruoso e dell’orrido, fin dentro le mura della nostra vita quotidiana, nascosto sotto il tappeto delle ipocrisie e dei luoghi comuni che infarciscono l’esistenza di tutti i giorni (come un sepolcro imbiancato al cui interno cova la morte e la corruzione). Ma torniamo alle origini del velo che nasconde la realtà dei rapporti sociali storicamente esistenti, il velo che vanifica e perverte la conoscenza borghese del mondo da essa stessa creato; abbiamo precedentemente ripreso l’analisi marxista del carattere di feticcio della merce, evidenziando il bizzarro modo di manifestazione di questo oggetto nella mente degli attori del meccanismo sociale capitalistico, infatti, secondo Marx “Gli uomini equiparano l’un con l’altro i loro differenti lavori come lavoro umano, equiparando l’uno con l’altro, come valori, nello scambio, i loro prodotti eterogenei. Non sanno di far ciò, ma lo fanno”. Il capitale, libro I, IL CARATTERE DI FETICCIO DELLA MERCE E IL SUO ARCANO’. Dunque, gli uomini equiparano il loro differenti lavori, aventi caratteri eterogenei, come lavoro ugualmente umano; inoltre, nello scambio di prodotti eterogenei, realizzati da forme diverse di lavoro, equiparano, sulla base del comune denominatore del valore, questi stessi prodotti eterogenei scambiati sul mercato. Non sanno di far ciò, ma lo fanno; ricorda Marx, poiché la società borghese adora il feticcio della merce e non riesce a penetrare il suo arcano; non riesce a comprendere il reale significato di quel comune denominatore di prodotti eterogenei, che è il valore, “il valore non porta scritto in fronte quel che è. Anzi, il valore trasforma ogni prodotto di lavoro in un geroglifico sociale. In seguito, gli uomini cercano di decifrare il senso del geroglifico, cercano di penetrare l’arcano del loro proprio prodotto sociale, poiché la determinazione degli oggetti d’uso come valori è loro prodotto sociale quanto il linguaggio”. Ibidem. Come abbiamo appena letto, il valore ha trasformato ogni prodotto di lavoro in un geroglifico sociale, successivamente gli uomini cercano di decifrare il senso del geroglifico, cercano di penetrare l’arcano del loro proprio prodotto sociale, eppure i loro tentativi sono spesso destinati all’insuccesso. La loro creazione sociale si erge ormai incomprensibile davanti alle loro menti; i creatori non hanno più memoria della genealogia degli oggetti da cui vengono sovrastati – inesplicabili, arcani – poiché un processo di separazione ha scisso il prodotto dal produttore, il produttore dai mezzi di produzione, e una parte del lavoro (plus-lavoro), dal lavoratore. Tuttavia, l’origine della difficoltà nell’arrivare a conoscere l’arcano del loro proprio prodotto sociale, è sepolta anche nella forma fenomenica oggettiva che assume tale prodotto” La tarda scoperta scientifica che i prodotti di lavoro, in quanto sono valori, sono soltanto espressioni materiali del lavoro umano speso nella loro produzione, fa epoca nella storia dello sviluppo dell’umanità, ma non disperde affatto la parvenza oggettiva del carattere sociale del lavoro”. Ibidem. La parvenza oggettiva del prodotto del lavoro, la parvenza di cose indipendenti dal lavoro che le ha prodotte, che si scambiano sul mercato con altre cose indipendenti, tramonta con lentezza nella percezione del moderno uomo borghese. “Le grandezze di valore variano continuamente, indipendentemente dalla volontà, della prescienza, e dall’azione dei permutanti, pei quali il loro proprio movimento sociale assume la forma d’un movimento di cose, sotto il cui controllo essi si trovano, invece che averle sotto il proprio controllo”. Ibidem. Inoltre, a coloro che rimangono impigliati nei rapporti della produzione di merci, questo tipo particolare di produzione, appare come una realtà eterna e definitiva, quasi un principio a priori non eludibile da nessuna dimensione dell’essere sociale, presente, passato e futuro: “Quel che è valido soltanto per questa particolare forma di produzione, la produzione delle merci, cioè che il carattere specificamente sociale dei lavori privati indipendenti l’uno dall’altro consiste nella loro eguaglianza come lavoro umano e assume la forma del carattere di valore dei prodotti di lavoro, appare cosa definitiva, tanto prima che dopo di quella scoperta, a coloro che rimangono impigliati nei rapporti della produzione di merci”. Ibidem. Impigliati in una illusione malsana, gli uomini che vivono dentro i rapporti di produzione capitalistici credono che tutto sia merce, che la merce stessa abbia una sua parvenza oggettiva, indipendente dal lavoro umano che l’ha prodotta (essa si manifesta come una cosa, un dato di partenza naturale, e non come il risultato di processi sociali determinati e transitori). Nel pensiero dei suoi attori sociali, ma principalmente nel pensiero della (Charaktermasken) interpretata dai capitalisti, questa particolare forma di produzione, appare non solo sottratta ai cambiamenti che si manifestano nel divenire storico, in questo simile a una dimensione metafisica trascendente il piano della fisicità, ma, al pari dell’idea hegeliana, questa particolare forma di produzione, viene concepita come l’origine stessa del mondo dell’essere storico/sociale. L’apparire e scomparire delle forme di vita sociale particolari nel mare della storia, diventa, come nella fenomenologia dello spirito di Hegel, l’emanazione di un principio metafisico assoluto “In genere, la riflessione sulle forme della vita umana, e quindi anche l’analisi scientifica di esse, prende una strada opposta allo svolgimento reale. Comincia post festume quindi parte dai risultati belli e pronti del processo di svolgimento. Le forme che danno ai prodotti del lavoro l’impronta di merci e quindi sono il presupposto della circolazione delle merci, hanno già la solidità di forme naturali della vita sociale, prima che gli uomini cerchino di rendersi conto, non già del carattere storico di queste forme, che per essi anzi sono ormai immutabili, ma del loro contenuto”. Ibidem. Questa particolare forma di vita umana, caratterizzata dalla produzione di plusvalore come scopo diretto e motivo caratteristico della produzione di merci, animata dalla fame di plus-lavoro da lupi mannari del capitale; è astrattamente separata dalla sua storicità e particolarità, per essere infine proiettata nel mondo delle sfere immutabili, in un vero e proprio movimento assurdo di dominio della parte sull’intero. Questo accade anche perché la riflessione sulle forme della vita umana, e quindi anche l’analisi scientifica di esse, comincia post festum, e quindi, trovandosi di fronte i risultati belli e pronti del processo di svolgimento, non riesce a scorgere la loro derivazione da questo processo reale (astraendo, in definitiva, l’effetto dalla causa che lo ha determinato). Questo movimento di separazione della parte dall’intero, della forma storica determinata dal processo storico determinante – che è separazione, in definitiva, dell’effetto determinato dalla sua causa determinante – è lo stesso movimento che sta alle origini del successo delle moderne correnti indeterministiche, presenti nel campo della conoscenza filosofico/scientifica. Non esistono cause determinanti, esse annunciano con certezza; i fenomeni si rimpiazzano – nel divenire storico/sociale – come dei fatti inspiegabili; vengono alla luce e poi rientrano nell’ombra in modo casuale, prigionieri di un’insostenibile leggerezza dell’essere, immersi in una dimensione liquida e leggera (come affermano lietamente alcune recenti teorie sociologiche). Una dimensione indeterminata, in cui l’orrore dietro il velo della civiltà borghese – la produzione capitalistica come divoramento di forza-lavoro fino alla distruzione della vita del lavoratore – resta conseguentemente invisibile e indecifrabile, come se fosse sconsigliabile, per la stessa integrità mentale dell’uomo, scorgere i riflessi di morte che provengono dal mostro animato, nascosto dietro il velo delle apparenze borghesi. Le merci e il loro mistero, apparenza oggettiva e realtà sociale dietro il velo illusorio:
“La determinazione della grandezza di valore mediante il tempo di lavoro è quindi un arcano, celato sotto i movimenti appariscenti dei valori relativi delle merci. La sua scoperta elimina la parvenza della determinazione puramente casuale delle grandezze di valore dei prodotti del lavoro, ma non elimina affatto la sua forma oggettiva…Tali forme costituiscono appunto le categorie dell’economia borghese. Sono forme di pensiero socialmente valide, quindi oggettive, per i rapporti di produzione di questo modo di produzione sociale storicamente determinato, per i rapporti di produzione della produzione di merci. Quindi, appena ci rifugiamo in altre forme di produzione, scompare subito tutto il misticismo del mondo delle merci, tutto l’incantesimo e la stregoneria che circondano di nebbia i prodotti del lavoro sulla base della produzione di merci”. Il capitale, libro I, IL CARATTERE DI FETICCIO DELLA MERCE E IL SUO ARCANO . Il mistero della merce può essere penetrato scientificamente, il rapporto valore-lavoro può essere dimostrato con valide argomentazioni, dissolvendo, così, la parvenza della determinazione puramente casuale delle grandezze di valore dei prodotti del lavoro, eppure, in questo tipo di società, queste forme di pensiero che costituiscono le categorie dell’economia borghese, sono socialmente valide. Restando dentro la gabbia dei rapporti di produzione capitalistici di merci, tali forme di pensiero sono conseguentemente adeguate al sistema di rapporti di produzione che le hanno prodotte; solo se ci rifugiamo in altre forme di produzione, tutto l’incantesimo e la stregoneria che circondano di nebbia i prodotti del lavoro sulla base della produzione di merci, possono scomparire non solo teoricamente (cioè nella consapevolezza dei rivelatori dell’arcano), ma anche oggettivamente, praticamente e socialmente, nell’esperienza concreta dei processi reali della vita. In altre parole solo un mutamento delle condizioni reali d’esistenza, può determinare la base di un cambiamento delle forme di pensiero dominante, e il tramonto del misticismo del mondo delle merci . Abbiamo scritto, non a caso, cambiamento delle forme di pensiero dominante, poiché non escludiamo la possibilità che il cambiamento si manifesti dapprima in gruppi ristretti d’uomini, avanguardie rivoluzionarie coscienti, allargandosi di seguito, sotto lo stimolo delle circostanze, alla maggioranza dell’umanità. D’altronde, le grandi trasformazioni sociali sono spesso anticipate da impercettibili segnali, veicolati da piccoli gruppi umani, cui è riservato l’onore di essere gli alfieri del nuovo giorno. Marx, ad un certo punto del capitolo dedicato alla merce e al suo arcano, prefigura un modello ipotetico di produzione, incanalata su percorsi diversi da quelli borghesi: “Immaginiamoci in fine, per cambiare, un’associazione di uomini liberi che lavorino con mezzi di produzione comuni e spendano coscientemente le loro molte forze-lavoro individuali come una sola forza-lavoro sociale. Qui si ripetono tutte le determinazioni del lavoro di Robinson, però socialmente invece che individualmente. Tutti i prodotti di Robinson erano sua produzione esclusivamente personale, e quindi oggetti d’uso, immediatamente per lui. La produzione complessiva dell’associazione è una produzione sociale. Una parte, serve a sua volta da mezzo di produzione, Rimane sociale. Ma un’altra parte viene consumata come mezzo di sussistenza dai membri dell’associazione. Quindi deve essere distribuita fra di essi. Il genere di tale distribuzione varierà col variare del genere particolare dello stesso organismo sociale di produzione e del corrispondente livello storico di sviluppo dei produttori. Solo per mantenere il parallelo con la produzione delle merci presupponiamo che la partecipazione di ogni produttore ai mezzi di sussistenza sia determinata dal suo tempo di lavoro. Quindi il tempo di lavoro rappresenterebbe una doppia parte. La sua distribuzione. compiuta socialmente secondo un piano, regola l’esatta proporzione delle differenti funzioni lavorative con i differenti bisogni. D’altra parte, il tempo di lavoro serve allo stesso tempo come misura della partecipazione individuale del produttore al lavoro in comune, e quindi anche alla parte della produzione comune consumabile individualmente. Le relazioni sociali degli uomini coi loro lavori e con i prodotti del loro lavoro rimangono qui semplici e trasparenti tanto nella produzione quanto nella distribuzione “.Il capitale, libro I, IL CARATTERE DI FETICCIO DELLA MERCE E IL SUO ARCANO. Le parole impiegate da Marx possono apparire incredibili, certamente estranee al pensiero dominante nella nostra epoca, e il loro senso può produrre scetticismo e derisione da parte dei moderni apologeti dell’esistente, pronti a tacciarle come utopie irrealizzabili. Tuttavia, se analizziamo il testo non troviamo suggestioni utopistiche, ma un procedimento scientifico-deduttivo, che partendo dal modo di produzione borghese, sviluppa un modello di produzione antitetico, in cui s’ipotizza “un’associazione di uomini liberi che lavorino con mezzi di produzione comuni e spendano coscientemente le loro molte forze-lavoro individuali come una sola forza-lavoro sociale “. Quello che viene immaginato è un modello astratto, ma d’altronde, come ricordato in un paragrafo precedente “Logica e dialettica ci aiutano a percorrere un cammino non fallace allorché, partendo dal nostro modo di formulare certi risultati della osservazione del mondo reale, vogliamo giungere a enunciare altre proprietà da quelle dedotte. Se tali proprietà si riscontreranno valide nel campo sperimentale, vorrà dire che le nostre formule e il nostro modo di trasformarle erano sufficientemente esatte”. In un percorso dialettico, l’associazione di uomini liberi che lavorano con mezzi di produzione comuni, è la conseguenza logicamente implicata e nascosta nel ventre stesso della società capitalistica; non è un utopia, ma una delle due possibilità che si aprono al bivio della storia del capitalismo: socialismo o barbarie, salto evolutivo dell’umanità o rischio di estinzione e mineralizzazione. Il modo di produzione capitalistico nel suo movimento concentra e unifica le forze produttive, poche corporazioni monopolistiche transnazionali controllano e dirigono interi settori economici; di fronte a questa centralizzazione della produzione ritroviamo l’anarchia concorrenziale fra aziende e conglomerati Geo/economici, i quali possono essere intesi come configurazioni transitorie di potenza economica e di forza politico/militare. La produzione capitalistica, concentrando interi settori economici in poche mani, anticipa paradossalmente un modello di direzione comune dell’economia, ma questo avviene in modo paradossale e assurdo, poiché la proprietà dei mezzi di produzione resta nelle mani di una realtà impersonale, il capitale, il cui scopo è la produzione di altro capitale. Beneficiario temporaneo di questo meccanismo sociale demente è la classe borghese, anche se alla fine, procedendo nella folle corsa verso il nulla, in cui si può riassumere la produzione capitalistica, il beneficiario resterà la categoria degli insetti che sopravvivranno, forse, alla mineralizzazione del pianeta. Sospendiamo per un attimo questo percorso di analisi, perché le parole di Marx aprono anche altri scenari, anch’essi sviluppati e dedotti dall’osservazione di dati esistenti, come loro necessario capovolgimento,” Le relazioni sociali degli uomini coi loro lavori e con i prodotti del loro lavoro rimangono qui semplici e trasparenti tanto nella produzione quanto nella distribuzione”. In un modo di produzione formato da associazioni di uomini liberi, uomini che lavorano con mezzi di produzione comuni e spendono coscientemente le loro molte forze-lavoro individuali, come una sola forza-lavoro sociale, le forme della conoscenza del lavoro umano e dei suoi prodotti, non sono più mistificate dal carattere di feticcio della merce e dall’alienazione capitalistica del lavoro. L’uomo padroneggia i mezzi e i prodotti del proprio lavoro, e non è da essi padroneggiato, come accade nel regno del capitale. Le relazioni sociali si svolgono fra esseri umani, e non più fra cose, merci e denaro. Il superamento dell’alienazione capitalistica apre la possibilità di accesso a nuove dimensioni della conoscenza, in cui uomini liberi che lavorano con mezzi di produzione comuni, sono messi in condizione di pensare in modo libero dai condizionamenti mistificanti di una società divisa in classi. Spiriti liberi in una società priva di schiavi e di padroni,” Il riflesso religioso del mondo reale può scomparire, in genere, soltanto quando i rapporti della vita pratica quotidiana presentano agli uomini giorno per giorno relazioni chiaramente razionali fra di loro e fra loro e la natura. La figura del processo vitale sociale, cioè del processo materiale di produzione, si toglie il suo mistico velo di nebbie soltanto quando sta, come prodotto di uomini liberamente uniti in società, sotto il loro controllo cosciente e condotto secondo un piano. Tuttavia, affinché ciò avvenga si richiede un fondamento materiale della società, ossia una serie di condizioni materiali di esistenza che a loro volta sono il prodotto naturale originario della storia di uno svolgimento lungo e tormentoso”. Ibidem. Il mistico velo di nebbie che ostacola la conoscenza dialettica della realtà, tramonta quando i processi sociali connessi alla produzione economica, alla dimensione pratica e materiale dell’esistenza umana, cambiano e diventano il prodotto di uomini liberi, liberamente associati in attività poste sotto il loro controllo cosciente e condotto secondo un piano di specie. Scrivevamo inizialmente che la critica rivoluzionaria non risiede nella confutazione, su basi puramente filosofiche, del mondo esistente e delle sue auto-rappresentazioni, ma nell’individuazione di che cosa determinerà il trapasso e come si svolgerà il processo di trapasso(1). Questi sono gli aspetti cruciali della ricerca, il pensiero rivoluzionario non esprime, quindi, condanne morali, e neppure indica un dover essere cui dovrebbero adeguarsi le condotte individuali, ma individua, invece, il percorso tendenziale che seguono i processi sociali reali, in presenza di determinate condizioni reali, scientificamente rilevate. La macchina del capitale ha davanti a se solo due possibili percorsi di sviluppo: il primo risiede nel rovesciamento nel suo contrario, il comunismo, per mezzo della classe proletaria da essa stessa allevata; il secondo risiede nella semplice estinzione della specie umana e delle altre forme di vita presenti sul pianeta. Questa seconda possibilità, ormai pericolosamente incombente e minacciosa, diventerà attuale e irreversibile, qualora la classe proletaria dovesse continuare a subire i condizionamenti ideologici del sistema, rifiutandosi di porre fine all’interminabile agonia del capitale, il morto che cammina, la cara salma che appesta l’aria con l’odore di putrefazione che avvolge il suo corpo morto.
(1) Seconda tesi di Marx su Feuerbach: “La questione se al pensiero umano spetti una verità oggettiva non è una questione teoretica, ma pratica. Nella prassi l’uomo deve provare la verità, cioè la realtà e il potere, il carattere immanente del suo pensiero. La disputa sulla realtà o non-realtà del pensiero – isolato dalla prassi – è una questione meramente scolastica”.
Capitolo 7: la conoscenza umana avanza per rivoluzioni sociali
“La natura ha conosciuto e conosce perché, anche senza vita, anche al solo livello del mondo inorganico, quello minerale, essa lascia impronte che corrispondono alla conoscenza di sé”.
Amadeo Bordiga.
La connessione fra la possibilità di nuove forme di pensiero e il tramonto della forma sociale che ne impedisce lo sviluppo è esplicitamente postulata da Marx; ” Quindi, appena ci rifugiamo in altre forme di produzione, scompare subito tutto il misticismo del mondo delle merci, tutto l’incantesimo e la stregoneria che circondano di nebbia i prodotti del lavoro sulla base della produzione di merci”. Il capitale, libro I, IL CARATTERE DI FETICCIO DELLA MERCE E IL SUO ARCANO.
Il pensiero alienato tramonta appena ci rifugiamo in altre forme di produzione, appena ci ritroviamo a vivere, per fare omaggio alla psicologia sociale, in una nuova cornice di riferimento socio/culturale. Tuttavia, la società comunista che dovrebbe essere la base reale per il salto conoscitivo verso una nuove forme di pensiero, e la fine del “…misticismo del mondo delle merci, tutto l’incantesimo e la stregoneria che circondano di nebbia i prodotti del lavoro sulla base della produzione di merci”, secondo Bordiga è già anticipata nel partito storico , citiamo le sue parole ”…il comunismo è il risolto enigma della storia e si considera come tale soluzione. Ciò è estremamente importante. Perché, se il comunismo è il risolto enigma della storia, l’umanità, per avere dinanzi ai suoi occhi questi enigmi già risolti, dovrebbe aspettare di essere nel comunismo, nella società comunista. Ma la società comunista per noi esiste fin da ora, essa è anticipata nel partito storico che ne possiede al dottrina. Non la possiede in quel modo completo, in quel modo elaborato [ che sarà caratteristico della società futura ], la possiede in modo approssimato. Il partito comunista è il solo ente che può possederla e il solo che può definirsi soggetto della rivoluzione. Non può essere che la possieda la classe e tanto meno il sindacato. Non resta che il partito,quindi, [ a rappresentare il cammino cosciente della specie ]”.
Riassumiamo, il partito storico va inteso come anticipazione della società comunista, in quanto possessore della sua dottrina ( anche se in modo approssimato, a causa del suo vivere ancora all’interno della società borghese ). Il partito comunista non entra in relazione accidentale con la conoscenza non alienata, in cui gli enigmi della storia sono risolti, ma viceversa è il solo ente che può possederla e il solo che può definirsi soggetto della rivoluzione, rappresentando il cammino cosciente della specie umana. Il partito comunista è il solo ente che può gettare lo sguardo oltre i veli illusori della società borghese, poiché, utilizzando ancora le parole di Bordiga “ la società comunista per noi esiste fin da ora, essa è anticipata nel partito storico che ne possiede al dottrina”(1). Il concetto di dottrina viene chiarito poche righe dopo, e questo approfondimento ne evidenzia i tratti concreti in una luce estremamente semplice e realistica: “La scuola della preminenza dello spirito, della coscienza soggettiva, dell’interpretazione teologica del cammino umano, ha elaborato concezioni che si sono poi stratificate nella storia, hanno costituito gli strati di quella tale geologia della conoscenza che riteniamo corrispondente alla geologia della materia fisica sulla quale appoggia tutto il mondo d’oggi. Rappresenta una delle tante arcate del ponte [che unisce l’umanità primitiva a quella sviluppata e libera dal bisogno]. Da questo ponte già iniziato noi prendiamo il via. Non ci possiamo ancora camminare prima di aver lanciato l’ultima arcata – perché tutti noi siamo in fondo i lanciatori di quest’ultima arcata – ma sappiamo che lo potremo fare, sappiamo che essa chiuderà gli enigmi delle società precedenti. La nostra cognizione del mondo non può dunque avere un valore di opera perfetta e conclusa, come nelle pretese di carattere scolastico, accademico, scientifico, pretese che sono sempre state caratteristiche delle ideologie conservatrici e controrivoluzionarie. Essa ha carattere essenzialmente aperto, dinamico; e soggetto di questa posizione che liquida le antiche contese ideologiche è il partito. È il partito che sovrappone ad esse una nuova teoria, una pre-coscienza della società futura; che rappresenta la coscienza soggettiva; che fa del “nostro” soggetto un’essenza non più individuale. Non abbiamo completamente abolito il soggetto riportando tutto a oggetto, abbiamo insomma ancora bisogno di un soggetto. Ma esso non è più una persona, un individuo: è un ente, il partito, il quale serve da ponte di trapasso. O meglio: serve da possente lanciatore del ponte di trapasso alla società futura”.
Sottolineiamo le affermazioni che partono dal punto in cui si dice che la nostra cognizione del mondo non può avere valore di opera perfetta e conclusa, essendo al contrario di carattere essenzialmente aperto e dinamico, perché riteniamo che tale posizione sia fondamentale per evitare gli errori ricorrenti del dogmatismo, in quanto presunta visione del mondo perfetta e conclusa, “come nelle pretese di carattere scolastico, accademico, scientifico, pretese che sono sempre state caratteristiche delle ideologie conservatrici e controrivoluzionarie”. Il dogmatismo, al di là della forma e del colore politico/filosofico che può assumere in un certo momento (stalinismo, dogma teologico, spirito assoluto hegeliano…), è sempre un aspetto ricorrente delle ideologie conservatrici e controrivoluzionarie, oseremmo dire che esso, oltre a essere conservatore, è intrinsecamente inadatto alla conoscenza della realtà, anzi è una fuga dalla realtà, perché immagina un essere pienamente riflesso nei principi immutabili del nostro pensiero (dominio della parte sul tutto ), separando e assolutizzando una forma transitoria di conoscenza in un dogma indiscutibile. Dimenticando, ovviamente, che l’adorato e rassicurante dogma ha validità solo in quanto parte, cioè semplice frazione di un movimento di conoscenza della materia da parte di se stessa ( la natura conosce se stessa). Bordiga ricorda che”la scuola della preminenza dello spirito, della coscienza soggettiva, dell’interpretazione teologica del cammino umano, ha elaborato concezioni che si sono poi stratificate nella storia, hanno costituito gli strati di quella tale geologia della conoscenza” su cui inevitabilmente si basa anche il nostro processo del conoscere, costituendo quindi una stratificazione, una geologia della conoscenza che va riconosciuta come tale; tuttavia al soggetto individuale, al singolo filosofo chiuso nella sua stanzetta, all’intellettuale organico, è stato sostituito un soggetto comune impersonale, una vera sinergia di azione/pensiero rivoluzionaria“ Non abbiamo completamente abolito il soggetto riportando tutto a oggetto, abbiamo insomma ancora bisogno di un soggetto. Ma esso non è più una persona, un individuo: è un ente, il partito, il quale serve da ponte di trapasso”(2). Un ponte di trapasso alla futura società comunista, che chiuderà gli enigmi delle società precedenti, i dualismi di pensiero socialmente condizionati dalla divisione delle società umane in classi antagoniste di padroni e schiavi, feudatari e servi della gleba, capitalisti e lavoratori salariati. Citavamo, all’inizio del presente paragrafo, un passo dell’introduzione ai cinque testi inediti di Bordiga: “la sequenza degli eventi della rivoluzione attuale verso il comunismo pone la rottura del sistema borghese prima dell’ulteriore conoscenza”. Riconosciuto il presupposto realistico contenuto nella sequenza temporale rivoluzione, società comunista, ulteriore conoscenza, soffermiamoci ora sul significato del termine rivoluzione: sappiamo bene che nell’astronomia il termine rivoluzione indica il percorso compiuto da un astro per tornare al suo punto di partenza. Anche la rivoluzione comunista, nel suo essere il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente, manifestandosi di conseguenza come “il risolto enigma della storia”; non è null’altro che il movimento di reintegrazione della parte con il tutto; il recupero, a un livello differente e complesso dei rapporti organici e unitari tra uomo e uomo, fra la specie umana e l’essere naturale (l’intero ontologico di cui la specie è parte), ipotizzabili come predominanti nelle originarie società senza classi (3). I cambiamenti rivoluzionari sono presentiti a livello istintivo, sono più un fatto di intuito che di raziocinio, questo è il tema contenuto in certi passi dei discorsi di Bordiga. Si tratta di affermazioni in apparenza discutibili, eppure coerenti con l’esperienza sociale pregressa, e con il postulato dell’unitarietà della conoscenza nel suo aspetto intuitivo e nel suo aspetto razionale. Tale unitarietà, risultante da una relazione dialettica fra le due parti di un intero, può essere posta come caratteristica prevalente della conoscenza nelle originarie società umane, non ancora divise in classi antagoniste. Tuttavia, se la rivoluzione è il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente, e recupera a livelli differenti i rapporti organici tra uomo e uomo, e uomo e natura, allora questo implica anche il ritorno – a un livello diverso – della originaria conoscenza intuitivo/razionale nella futura società senza classi. In questo senso può essere ribadito il significato del ponte di trapasso conoscitivo, inteso non solo come mezzo per andare oltre il pensiero dominante, ma anche come collegamento fra due sponde lontane del sapere umano, una con le radici nel passato e l’altra nel futuro, ma ugualmente espressione di società senza classi. Riprendiamo alcune riflessioni inserite come nota a parte nel primo paragrafo del presente lavoro “Abbiamo visto che “filosofia” significa “amore per il sapere”, ma sembra che prima di Platone nemmeno esistesse il termine. Non c’era ancora una categoria di uomini che si specializzasse nell’amore per il sapere, esisteva il sapere e basta. Esso era distribuito nella forma del mito religione e ad esso attingeva tutta la popolazione, attraverso “luoghi di culto” come i santuari degli oracoli. L’enigma nel quale si celava il responso a piccoli e grandi quesiti era una chiave per mettere in moto una conoscenza poco strutturata, di tipo diffuso, nel senso che non era fatta di nozioni separate ma di intuito, sensazioni e pulsioni naturali, senso della vita. L’oracolo era una specie di meccanismo catalitico che rendeva possibile una reazione emotiva dalla quale l’individuo traeva indicazioni di comportamento (non differenti altri tipi di divinazione, come per esempio quella sciamanica o quella messa in atto con l’I-Ching, il Libro dei mutamenti). Questa era scienza umana, primordiale ma umana”. Amadeo Bordiga, relazioni sulla conoscenza.
Il testo citato conferma l’importanza dell’intuito, delle sensazioni e dell’istinto nell’apparato conoscitivo posseduto da altri tipi di società. Queste società non avevano una categoria di uomini specializzati nell’amore per il sapere, poiché il sapere era distribuito in modo diffuso nella forma del mito/religione, e a questa forma di sapere primordiale attingeva l’intera popolazione per mezzo dei luoghi di culto come i santuari degli oracoli. Possiamo liquidare questo sapere diffuso come semplice superstizione, oppure dire che esso corrispondeva ad uno stadio ancora ingenuo e infantile della conoscenza umana, superato dalle mirabolanti conquiste della scienza moderna. In questa visione lineare della storia, il cammino dell’umanità verrebbe concepito come una semplice linea risalente dal basso verso l’alto, dalla superstizione alla scienza: questa visione può essere racchiusa nel concetto di progresso storico (Noi uomini contemporanei, proprio in quanto contemporanei, cioè al termine della linea di progresso che sale dal basso verso l’alto, dobbiamo essere, a rigore di logica, in possesso di un sapere superiore a quello posseduto dagli antichi, i quali erano nella parte bassa della linea). Ma possiamo davvero ritenere che le cose stiano in questo modo? E’ realistico e dialetticamente fondato un pensiero di questo tipo? Non è forse, anche questo, un modo di pensare condizionato dall’attuale società divisa in classi, una società divisa in superiori e inferiori, alto e basso, in cui una parte ( il capitale, il lavoro morto ) immagina di dominare senza limiti l’intero di cui è un semplice momento? Se riteniamo fondata, dal punto di vista logico/dialettico, tale obiezione, allora dobbiamo riconoscere che l’attuale scienza borghese, dovendo servire il dominio di classe del capitale, produce anche un sapere parziale. Un sapere relativo a rapporti di produzione storicamente superati: invece l’apparato conoscitivo degli antichi, in quanto caratteristico di una società senza classi, era scienza umana, primordiale ma umana, come ben ricorda il passo citato in precedenza. Non scopriamo nulla di nuovo sostenendo queste idee, un filo rosso congiunge gli sforzi di elaborazione che si sono manifestati intorno a questi argomenti nel corso del tempo. Nei 31 punti per la difesa della tradizione rivoluzionaria della sinistra ritroviamo la seguente proposizione “Che l’Alchimia sia una magnifica anticipazione del materialismo dialettico la Sinistra lo dice infatti tra le righe, ma in maniera inequivocabile:“ben aveva detto l’alchimista di mille anni fa corpora non agunt nisi soluta, i corpi sono attivi solo in soluzione, e la scienza è sempre alla fine vecchia e nuova”. Il che significa: a) che l’alchimia è scienza (almeno in quanto precursore in fieri della dialettica materialistica); b) che la nuova scienza (materialismo dialettico) è anche vecchia in quanto incorpora gli elementi essenziali di quella antica (alchimia), la quale, a sua volta, in tanto era anche nuova in quanto aveva saputo anticipare l’avvenire”.
Il passo citato può essere letto, a nostro avviso, anche in questo senso: il nuovo sapere non nasce dal nulla ( il nulla è infatti ontologicamente inconcepibile, al pari di un regno illusorio e assurdo, senza luogo e realtà): la nuova scienza percorre un ponte conoscitivo concretamente radicato nell’accumulazione di sapere di tutta la storia umana. La nuova scienza (materialismo dialettico) è anche vecchia in quanto incorpora gli elementi essenziali di quella antica, come in un processo di accumulazione di saperi che hanno rappresentato, in un certo stadio storico, la soluzione di problemi sociali, ovvero enigmi, di un certo tipo, “La scienza-conoscenza non è un contenitore asettico posto all’esterno dell’umanità, al quale ogni cervello singolo possa attingere come elemento cosciente e in quanto tale depositarvi ulteriori elaborati; non è neppure una relazione biunivoca fra l’individuo e la biblioteca del sapere (forma pseudo-illuministica dello Spirito), ma un insieme di saperi, di capacità, di possibilità di apprendimento ed elaborazione che migliaia di generazioni ci hanno tramandato, e che tramanderemo in una dinamica continua, non spezzettata e distribuita in grani di coscienza individuale”. Amadeo Bordiga, relazioni sulla conoscenza.
Abbiamo sottolineato, nel brano appena citato, il termine dinamica continua, un termine composto, che esprime bene l’idea di un processo unitario della conoscenza, un ponte non spezzettato in singoli grani di coscienza individuale, ma viceversa organico e comunitario, un sapere di specie che migliaia di generazioni ci hanno tramandato, e che tramanderemo. Questo sapere non è concepibile come un ente separato dall’intero di cui è parte, non è una realtà metafisica immutabile sottratta al minaccioso e imprevedibile divenire del mondo, non è un sovrano (l’essere impalpabile) che regna su un servo (il mondo materiale dei fenomeni); al contrario esso è la stretta unità ontologica di pensiero e divenire dialettico dell’essere storico/naturale. Sono i cambiamenti reali, i mutamenti concreti delle circostanze della vita, che in ultima analisi favoriscono il sorgere di nuove forme di conoscenza del mondo, “una sola pratica umana è immediatamente teoria: la rivoluzione. La conoscenza umana avanza per rivoluzione. La conoscenza umana avanza per rivoluzioni sociali. Il resto è silenzio”(4).
(1). Tra i compiti del Partito Comunista prima della rivoluzione, vediamo quindi che, ancora una volta, la Sinistra annovera: 1) l’elaborazione e la diffusione della teoria scientifica marxista, unico strumento per analizzare la dinamica della società esistente e per poter dire ai proletari le “cose giuste”; 2) l’assicurazione della continuità del movimento rivoluzionario proletario, che proprio stringendosi saldamente attorno alla riaffermazione di quelle “cose giuste”, “vecchie parole” e i “vecchi chiodi” della tradizione rivoluzionaria, sopravvive, si afferma e si tempra; 3) la preparazione dell’offensiva finale, che avviene sfruttando ogni spiraglio per proclamare e spiegare le “cose giuste” a quei proletari –necessariamente pochi- che sono interessati all’insieme delle nostre posizioni (propaganda), per proporle come obiettivo immediato a strati più ampi di proletari in lotta (agitazione) e infine, quando la temperatura sociale lo consente, per improntare ad esse l’azione della classe. L’offensiva finale non si prepara quindi affatto trasformando le “cose giuste” in una “vivente strategia”, ma semplicemente proclamandole, agitandole e infine trasformandole in azione. 31 punti per la difesa della tradizione della difesa della tradizione rivoluzionaria della sinistra.
(2) … Le nostre tesi, in realtà, non stabiliscono affatto che il Partito è un organo della classe proletaria, ma che è l’organo della classe proletaria. Il Partito non può quindi essere identificato nel cervello di un organismo antropomorfo. Esso è infatti la parte che contiene il tutto, che contiene il senso del divenire della totalità della classe unitariamente intesa nello spazio-tempo. Il cervello, al contrario, non può assolutamente essere considerato come la parte che contiene il tutto, se non si vuole ricadere nel più piatto razionalismo ed ignorare il fatto, per noi basilare, che, parafrasando Pascal, “il cuore ha delle ragioni che la ragione non conosce”. …Il Partito rappresenta infatti l’organo della classe operaia in quanto ne costituisce l’anima. Se apriamo i testi di Partito, infatti leggiamo: “Il proletariato non esiste se non quando è rivoluzionario, quando ha la sua anima, il suo programma, e oppone il suo Stato, cioè l’Essere umano, alla società borghese. Altrimenti si avvilisce e la sua anima è borghese, una cosa della società borghese; allora non ha più vita, perché la sua vita è la rivoluzione. […] La classe non agisce e quindi non esiste se non quando si costituisce in partito, che a sua volta si caratterizza mediante il programma (e questo ne è l’anima)” … E ancora, a maggior scorno dei “cerebrali”: “Allo scopo di assicurare nel movimento storico l’azione d’insieme della classe, occorre un organismo che la animi, la cementi, la preceda, la inquadri” ed in tale preciso senso noi possiamo dire “che il partito è in realtà il nucleo vitale, senza di cui tutta la rimanente massa non avrebbe più alcun motivo di essere considerata come un affasciamento di forze” …. In effetti, se prendiamo il dizionario, troviamo che “anima” significa esattamente “principio vitale degli esseri viventi” … o “in generale, il principio della vita”…. Il rapporto Partito-Classe non sopporta dunque di essere ridotto ad un biologismo individualistico. Proprio perché non è uno dei tanti organi della classe ma è l’organo della classe, proprio perché non ne è il cervello ma ne è l’anima, ossia lo spirito rivoluzionario … che informa il corpo fisico della classe operaia, il Partito può continuare a vivere anche fuori dal rapporto costante con le masse proletarie. Anzi, in determinate circostanze, in cui la classe operaia gravemente ripiega ed i suoi movimenti sono inquadrati dalla borghesia ed ispirati alle sue direttive politiche, il Partito deve, in una certa misura, isolarsi dalle masse intrappolate in quei moti per restare se stesso, ossia deve proclamare e difendere la propria estraneità ed opposizione a tali mobilitazioni, evitando di commettere l’errore rovinoso di mantenersi ad ogni costo in contatto con le masse … ed ammettendo come unica forma di contatto possibile e sensata dal punto di vista della rivoluzione quella volta a spingere con la parola e con l’esempio gli operai a disertare quelle mobilitazioni, come accade tutte le volte che gli operai agiscono non sul proprio terreno, per quanto in modo timido, esitante ed anche minimalista, ma sul terreno borghese (dalla lotta partigiana agli scioperi contro il terrorismo e per la difesa della democrazia). Altrove la Sinistra dice addirittura che il Partito, nelle situazioni di grave controrivoluzione, può sopravvivere anche in una pagina dimenticata. L’esempio che ci serve non va cercato quindi nella struttura biologica dell’individuo, ma in una in/formazione biologica (leggi: ciò che dà forma) che supera e trascende l’individuo, in un DNA in cui è codificato il programma di vita della Specie (leggi: il senso del cammino storico della classe) e che può sopravvivere per un certo periodo anche fuori dal corpo (leggi: fuori dal contatto con le masse operaie), anche in una provetta dimenticata (leggi: in una biblioteca). Come il DNA è il programma di vita della Specie, così il Partito Storico è il programma del Comunismo. Più in generale, se si vuole passare dalla metafisica, che parla di “anima”, alla fisica quantistica, che studia i “domini di coerenza” della materia … il Partito è l’in/formazione che la classe dovrà necessariamente e nuovamente incorporare per incominciare ad esistere, cioè per essere, per l’appunto, un insieme coerente e non un informe aggregato statistico di individui. E poiché dire informazione significa dire “memoria storica”, dato che la memoria altro non è che un insieme organico di informazioni tra loro collegate, ne deriva che il Partito Storico è quell’in/formazione, mentre il Partito Formale ne costituisce il vettore materiale, fisico, è il supporto ad essa adeguato, su cui quell’informazione deve necessariamente viaggiare per raggiungere il suo naturale destinatario. Il Partito Storico, insomma, si identifica con i testi in cui è codificata la nostra dottrina, il Partito Formale è invece l’organizzazione esistente qui ed ora e che raggruppa un certo numero di esseri umani, necessariamente ristretto, che in quella dottrina si riconoscono e nel cui solco intendono operare… Il Partito Storico esiste e risplende come corpo di gloria indipendentemente da noi, fortunatamente. Vive nei testi in cui è condensata la dottrina, non lotta né si muove per tradursi in Partito Formale. Noi non potremo mai essere al contempo Partito Storico e Partito Formale, possiamo essere solo ed esclusivamente il Partito Formale, e lo siamo all’unica condizione di resistere sulle linee dorsali del Partito Storico. 31 punti per la difesa della tradizione della difesa della tradizione rivoluzionaria della sinistra.
(3). “Il comunismo come soppressione positiva della proprietà privata intesa come auto-estraniazione dell’uomo, e quindi come reale appropriazione dell’essenza dell’uomo mediante l’uomo e per l’uomo; perciò come ritorno dell’uomo per sé, dell’uomo come essere sociale, cioè umano, ritorno completo, fatto cosciente, maturato entro tutta la ricchezza dello svolgimento storico sino ad oggi. Questo comunismo s’identifica, in quanto naturalismo giunto al proprio compimento, con l’umanismo, in quanto umanismo giunto al proprio compimento, col naturalismo; è la vera risoluzione dell’antagonismo tra la natura e l’uomo, tra l’uomo e l’uomo, la vera risoluzione della contesa tra l’esistenza e l’essenza, tra l’oggettivazione e l’autoaffermazione, tra la libertà e la necessità, tra l’individuo e la specie. E’ la soluzione dell’enigma della storia, ed è consapevole di essere questa soluzione“.Karl Marx, Manoscritti economico-filosofici.
(4).”Se noi riteniamo che la conoscenza, l’ideologia in tutte le sue manifestazioni, la letteratura, la religione, la filosofia, siano le sovrastrutture sovrapposte alla struttura fondamentale delle forme di produzione, come abbiamo detto, facendo uno schema storico delle forme e dei modi di produzione, così dobbiamo essere in grado di fare uno schema storico delle sovrastrutture. Come il nostro schema contiene già, nelle sue grandi linee, una storia della tecnologia, così esso può contenere anche uno schema della storia della scienza e di quella della filosofia che viene ritenuta argomento separato; quindi uno schema della conoscenza umana. Come si sono evolute l’attività e la tradizione umane, così questo suo derivato, che è la conoscenza, si è sviluppato nel correre dei millenni, nell’alternarsi delle epoche storiche e nel concatenarsi di tutte le grandi arcate del ponte di cui abbiamo più volte parlato. La chiave della nostra posizione, contraria a quella di tutti gli altri, è questa: che c’è prima l’azione, dopo nasce il pensiero speculativo. Non è nato prima il sapere e poi l’agire. La conoscenza è venuta dopo: dopo si è organizzato il sistema di idee scritte, di idee diffuse, di idee propagandate. Tutto ciò si è avuto dopo che si erano determinate certe concomitanze nei sistemi di eventi e di atti umani” Amadeo Bordiga, relazioni sulla conoscenza.
“Si vede come il soggettivismo e l’oggettivismo, lo spiritualismo e il materialismo, l’agire ed il patire, per la prima volta nello stato sociale (il comunismo: programma della società comunista) perdano la loro opposizione, e quindi perdano la loro esistenza fatta solo di tale contrapposizione. Si vede come lo scioglimento delle opposizioni teoretiche sia possibile soltanto in una maniera pratica, solo a mezzo della energia pratica degli uomini (solo con la rivoluzione), e come questa soluzione non sia per nulla un compito della conoscenza sola, ma sia anche un compito effettivo della vita, che la filosofia non poté sciogliere, proprio perché essa intendeva questo compito soltanto come compito teoretico”. Karl Marx. La tesi si può scrivere così: una sola pratica umana è immediatamente teoria: la rivoluzione. La conoscenza umana avanza per rivoluzione. La conoscenza umana avanza per rivoluzioni sociali. Il resto è silenzio”. da COMUNISMO E CONOSCENZA UMANA.
Capitolo 8. Prime conclusioni
“L’elemento ideale non è altro che l’elemento
materiale trasferito e tradotto nel cervello degli uomini”
Karl Marx, il capitale.
Parlare di conclusioni, relativamente alle tematiche affrontate (data la loro ampiezza e difficoltà), può sembrare risibile (o immodesto). Nel nostro caso si giunge ad una prima conclusione, perché è stato analizzato quello che era possibile analizzare con le risorse disponibili (intese come tempo e capacità di studio e di rielaborazione). In futuro sarà forse ipotizzabile una seconda ricerca, per meglio approfondire gli argomenti proposti e alcune implicazioni sottese. Nel suo dispiegamento questo lavoro ha attinto principalmente alle opere di Marx e di Bordiga, tentando di offrirne una lettura aderente al senso inteso dagli autori (nei limiti della nostra interpretazione), per poi analizzare alcune implicazioni e aspetti contenuti in queste opere (considerati indicativi per la comprensione del piano sovrastrutturale contemporaneo). La ricerca può avere mostrato dei momenti non perfettamente sequenziali e sincronici, trattando alcuni argomenti con relativo disordine: chiediamo venia adducendo a giustificazione la vastità e difficoltà dell’impresa tentata ( in rapporto alle nostre attuali capacità di analisi e proiezione conoscitiva). Probabilmente, alcune citazioni potevano essere lette in modo più ampio e coerente, magari altre avevano invece poca attinenza con il contesto d’inserimento, diamo per scontate queste circostanze, accogliendo con favore le osservazioni e i rilievi critici che i compagni/lettori vorranno gentilmente rivolgerci. Partendo dal tipo di separazioni presenti nella società capitalistica, è stato tentato un primo collegamento fra la divisione in classi sociali antagoniste, e la separazione filosofico/metafisica fra la parte e l’intero (l’idea assoluta immutabile e il mondo fenomenico diveniente e transitorio; il padrone e il servo). Questo dualismo antitetico trova la sua soluzione nella dialettica marxista, che pone nella realtà dell’unione dei contrari, nel conflitto e coincidenza degli opposti (Eraclito), una chiave di lettura adeguata al divenire del mondo e allo scontro sociale di classe presente nel sistema capitalistico. Successivamente è stata percorsa una strada particolare, basata sul tentativo di riprendere l’analisi marxista della merce e il suo carattere di feticcio, per riproporre la scoperta del potere occultante (mistificatorio) della merce sul modo di percepire la stessa realtà in cui siamo immersi. En passant, tale tentativo ci ha condotto a vedere nel velo occultante della merce, il paradigma di tante mistificazioni di cui il sistema del capitale si serve, per manovrare gli esseri umani, capitalisti o proletari che siano, come semplici maschere di carattere (Charaktermasken), attori costretti a recitare la parte assegnatagli dal meccanismo sociale dominante. Il cuore segreto di tale meccanismo tuttavia ha un volto mostruoso, un impulso a divorare la vita degli esseri viventi ridotti a merce umana, forza lavoro consumata fino all’estinzione precoce della vita del lavoratore. Seguendo la traccia marxista, è stata poi proposta la plausibilità della tesi di un pieno passaggio a forme di conoscenza non alienate, solo dopo la rottura rivoluzionaria con l’attuale ordine sociale capitalistico. La conoscenza non alienata, d’altronde (a rigore di logica dialettica), dovrebbe essere anche trasmutazione (ad un livello coerente con il grado di sviluppo storico raggiunto dall’umanità), “di un insieme di saperi, di capacità, di possibilità di apprendimento ed elaborazione che migliaia di generazioni ci hanno tramandato, e che tramanderemo in una dinamica continua, non spezzettata e distribuita in grani di coscienza individuale”. Sperando che l’attuale ricerca sia servita da contributo per il chiarimento e la semplificazione delle questioni trattate, e non da ulteriore fattore di confusione, riprenderemo ancora una volta le parole di Bordiga, ponendole a epilogo di questo lavoro: “Riteniamo che la conoscenza umana sarà veramente tale quando l’umanità avrà portata e applicata la chiarezza in se stessa, nel suo modo sociale di vivere. Riteniamo che solamente allora la verità si comincerà a ricostruire, ripartendo dal complesso e articolato, ormai compreso attraverso assiomi inconfutabili, e percorrendo la strada inversa, per capire finalmente la “molteplicità del reale”, della natura. Si ricostruirà tutto: psicologia, sociologia, fisiologia, biologia, chimica, fisica e matematica. L’umanità raggiungerà [il suo scopo]: non farà la rivoluzione perché avrà raggiunto il vero, ma raggiungerà il vero quando sarà capace di portare a compimento la rivoluzione”.
Postilla (parte finale di ‘Conoscenza’, agosto 2107)
La teoria marxista è l’espressione di una conoscenza derivata dalla lotta del proletariato contro un certo sistema sociale. Nel corso della lotta il proletariato (la sua avanguardia) ha appreso certe cose sulla natura del suo nemico di classe. Queste cose potevano essere svelate solo costringendo l’avversario a rendersi visibile nel corso di uno scontro pratico, così come avvenuto nella metà del 1800. Azione e conoscenza sono in effetti interdipendenti. L’azione pone le basi per una esperienza conoscitiva, che a sua volta funge da insegnamento per successive azioni legate a circostanze similari. Dunque il marxismo si collega ad una classe di uomini che non possiede nulla, alienata dai mezzi di produzione e dal prodotto del proprio lavoro. Questo aspetto presenta somiglianze e dissonanze con la condizione degli uomini del comunismo primitivo, che ugualmente non possedevano individualmente i mezzi di produzione e i prodotti del lavoro. Tuttavia, a differenza del proletario alienato, essi li usavano e ne godevano in quanto gruppo sociale comunitario. Questa caratteristica materiale di assonanza /dissonanza fra il proletariato e l’umanità comunista delle origini consente al marxismo di collegarsi (ponte di conoscenza) alle forme di pensiero delle società aclassiste. Il proletariato dunque è la base sociale della teoria invariante, che tuttavia non è solo una sociologia economica del capitalismo (con le sue leggi scientifiche) , ma anche una concezione della totalità dell’essere come intero dialettico (direttamente derivata dalla filosofia tedesca, sociologia francese, ed economia politica inglese, è vero, ma anche e soprattutto dal ponte di conoscenza lanciato dal conflitto di classe rivoluzionario, nella ‘mezzeria’ del 1800, con la concezione della realtà delle società comuniste delle origini). Sono le epoche e i periodi rivoluzionari, infatti, come ben ricordato nel ciclo di relazioni sulla conoscenza degli anni 60, che permettono alla conoscenza di progredire, e di lanciare ponti con il passato. La borghesia, invece, non può che produrre una scienza drogata, ideologicamente legata ai propri interessi di classe sociale proprietaria dei mezzi di produzione (in termini recenti soprattutto dal controllo di questi mezzi). Il percorso conoscitivo del partito comunista si fonda sull’azione e sul pensiero di una classe che non possiede nulla, e quindi può, almeno potenzialmente, vedere la realtà senza la lente distorsiva dell’attaccamento morboso alla roba, cioè ad una condizione di privilegio e di arroccamento, e quindi di separazione dal resto della società umana.