Marx: i veli dell’illusione e il carattere di feticcio della merce
“…quando i veli dell’illusione sono scomparsi,
allora avviene la comprensione del vero ‘ku’.“
Il libro dei cinque anelli.
Il sapere scientifico-filosofico nella società capitalistica, e la possibilità di conoscenza di qualche cosa di reale all’interno della dimensione del capitale, sono problematici.
Indeterminismo, nichilismo, esaltazione dell’ego come fonte prioritaria di libere decisioni, susseguente azione soggettiva intesa come realizzazione delle libere decisioni dell’ego (e fonte ultima di senso, in una realtà pensata come indeterminata e priva di senso). Mentre nelle forme di pensiero post-socratico (Platone, Aristotele…), lo scopo dell’esistenza è di realizzare l’essenza dell’uomo – metafisicamente intesa – nell’esistenzialismo ritroviamo l’esclusione di questo postulato di principio, poiché se la realtà ultima, l’evidenza delle evidenze, è il divenire (inteso come creazione = uscita dal nulla degli enti, e distruzione = ritorno nel nulla degli enti), allora non vi può essere alcuna essenza dell’uomo che preceda la sua esistenza nel divenire. Infatti, se l’esistenza concreta del singolo fuoriesce dal niente, non è concepibile una conoscenza assoluta che fissi a-priori le qualità, l’essenza, di questo nuovo essere venuto alla luce, poiché ciò che esce dalla dimensione del niente non può essere previsto ( Parmenide aveva già escluso, 2500 anni addietro, una dimensione in cui il niente avesse statuto reale, dimostrando come assurdo e inconcepibile lo stesso proporre l’esistenza del non esistente. In seguito è Karl Popper a definire Einstein il Parmenide della scienza moderna). Nella dimensione del nichilismo, non essendoci dei legami necessari fra l’uomo e il mondo, fra la parte e il tutto, l’esistenza umana oscilla fra l’essere e il nulla come pura contingenza, accadimento inspiegabile di moti esterni e interni al singolo, una folle e larvale esistenza dominata da sequenze imprevedibili e indeterminate di eventi misteriosi. L’angoscia individuale, la possibilità dello scacco e del naufragio personale, sono il corollario di questa visione della vita in cui l’uomo è slegato da ogni rapporto con la realtà storico-naturale dell’essere. Possiamo ben collegare questa visione all’economia capitalistica dei nostri tempi: insensata produzione per la produzione, creazione e distruzione/consumo ossessivi di merci slegate dai bisogni reali della specie umana, in cui l’uomo è dominato da forze prodotte da se stesso, ma ormai sfuggite al suo controllo: “Anche le immagini nebulose che si formano nel cervello dell’uomo sono necessarie sublimazioni del processo materiale della loro vita, empiricamente constatabile e legato a presupposti materiali…non è la coscienza che determina la vita, ma la vita che determina la coscienza”. Citazione dall’Ideologia tedesca.
L’ulteriore analisi della forma base dell’economia capitalistica – la merce – ci aiuterà a definire meglio la relazione fra la visione dominante della vita in questa società, e i condizionamenti della produzione di merci su questa stessa visione. Nel paragrafo del primo libro del capitale dal titolo ‘IL CARATTERE DI FETICCIO DELLA MERCE E IL SUO ARCAN0’ ritroviamo le seguenti riflessioni: “A prima vista, una merce sembra una cosa triviale, ovvia. Dalla sua analisi, risulta che è una cosa imbrogliatissima, piena di sottigliezza metafisica e di capricci teologici. Finché è valore d’uso, non c’è nulla di misterioso in essa, sia che la si consideri dal punto di vista che soddisfa, con le sue qualità, bisogni umani, sia che riceva tali qualità soltanto come prodotto di lavoro umano. E’ chiaro come la luce del sole che l’uomo con la sua attività cambia in maniera utile a se stesso le forme dei materiali naturali. Per esempio quando se ne fa un tavolo, la forma del legno viene trasformata. Ciò non di meno, il tavolo rimane legno, cosa sensibile e ordinaria. Ma appena si presenta come merce, il tavolo si trasforma in una cosa sensibilmente sovrasensibile. Non solo sta coi piedi per terra, ma, di fronte a tutte le altre merci, si mette a testa in giù, e sgomitola dalla sua testa di legno dei grilli molto più mirabili che se cominciasse spontaneamente a ballare”. La merce, questa cosa apparentemente triviale, nasconde una verità paradossale, imbrogliatissima, piena di sottigliezza metafisica e di capricci teologici. Il suo cuore segreto contiene una sostanza valorificante, la forza-lavoro, che è come un prezioso cristallo, avidamente desiderato dall’impresa capitalista – proprietaria dei mezzi di produzione (tecnici e umani), con cui è stata realizzata la merce. Ora, i mezzi di produzione tecnici, il capitale costante, non sono nient’altro che lavoro umano morto, cristallizzato in macchinari, attrezzature, impianti e così via: di conseguenza, si rivela la verità paradossale che il capitale, lavoro morto cristallizzato, desidera la sostanza valorificante cristallizzata nella merce, ottenuta dalla forza-lavoro viva del proletario. In altre parole, il simile attira il simile, e infatti, come due amanti inseparabili, il lavoro morto, cristallizzato nel capitale costante dell’azienda capitalistica, e il lavoro vivo cristallizzato nella merce prodotta per l’azienda, sono preda di una passione senza freni e limitazioni, e vivono l’uno per l’altro, poiché senza la produzione della merce non può valorizzarsi il capitale, ma senza la valorizzazione del capitale la merce non avrebbe ragione di essere prodotta, ”Il lavoro, col suo semplice contatto, risveglia dal regno dei morti i mezzi di produzione, li anima a fattori del processo lavorativo e si combina con essi in nuovi prodotti, ma soltanto in quella sua qualità di attività produttiva idonea a un fine: filare, tessere, battere il ferro… Dunque l’operaio aggiunge valore al materiale mediante il suo lavoro e non in quanto si tratti di lavoro di filatura o lavoro di falegnameria, ma in quanto si tratta di lavoro astratto, sociale in genere; e aggiunge una determinata grandezza di valore non perché il suo lavoro abbia un particolare contenuto utile, ma perché dura un tempo determinato”. IL CAPITALE LIBRO I, SEZIONE III, PLUSVALORE ASSOLUTO CAPITOLO 6.
Il lavoro è dunque la preziosa sostanza valorificante incorporata nella merce, ma anche, da un punto di vista diverso e complementare, il tocco magico che risveglia dal regno dei morti i mezzi di produzione, e li anima a fattori del processo lavorativo. L’esistenza del capitale, in definitiva, è condizionata dal tocco magico del lavoro vivo che lo risveglia dal regno dei morti, e quindi dalla sostanza valorificante (ugualmente lavoro vivo) incorporata successivamente nella merce.
Quale gran delusione, poi, quando la merce, che per valorizzare il capitale deve essere in ogni modo venduta sul mercato, resta invece nei magazzini dell’azienda, tristemente invenduta (a causa delle periodiche crisi economiche da sovrapproduzione). Allora, al pari di un amante deluso, il capitale impazzisce di rabbia, e tenta di recuperare l’amore perduto – il plus-lavoro cristallizzato nella merce – distruggendo le quantità eccedenti di merci e di forze produttive esistenti (magari con una guerra), per far ripartire il processo di valorizzazione su nuove basi relazionali. Un mondo contrassegnato da una relazione in cui il lavoro morto (capitale costante), domina il lavoro vivo (capitale variabile); un mondo capovolto, caratterizzato dall’assurdo e dalla follia di una produzione economica in cui l’uomo è dominato dall’opera della sua mano. In questo tipo di mondo, la relazione fra capitale e lavoro salariato, che è un rapporto sociale concreto in cui si manifesta la violenza del potere di una classe sociale su un’altra classe sociale – e una classe sociale rappresenta un gruppo di esseri viventi – diventa una relazione fra cose, oggetti morti in cui è stato cristallizzato un certo tempo di lavoro vivo. La stessa percezione del reale che possono avere gli uomini in questa società, è quindi inevitabilmente compromessa dal folle rovesciamento in cui consiste la produzione delle merci; che è una produzione per lo scambio, destinato a valorizzare il capitale (lavoro morto cristallizzato), e non per l’uso, destinato invece a soddisfare i bisogni viventi della specie umana. Riprendiamo le parole di Marx: ” Dunque, il carattere mistico della merce non sorge dal suo valore d’uso. E nemmeno sorge dal contenuto delle determinazioni di valore. Poiché: in primo luogo, per quanto differenti possano essere i lavori utili o le operosità produttive, è verità fisiologica che essi sono funzioni dell’organismo umano, e che tutte tali funzioni, quale si sia il loro contenuto e la loro forma, sono essenzialmente dispendio di cervello, nervi, muscoli, organi sensoriali, ecc. umani… Di dove sorge dunque il carattere enigmatico del prodotto di lavoro appena assume forma di merce? Evidentemente, proprio da tale forma. L’eguaglianza dei lavori umani riceve la forma reale d’eguale oggettività di valore dei prodotti del lavoro, la misura del dispendio di forza-lavoro umana mediante la sua durata temporale riceve la forma di grandezza di valore dei prodotti del lavoro, ed infine i rapporti fra i produttori, nei quali si attuano quelle determinazioni sociali dei loro lavori, ricevono la forma di un rapporto sociale dei prodotti del lavoro. L’arcano della forma di merce consiste dunque semplicemente nel fatto che tale forma rimanda agli uomini come uno specchio i caratteri sociali del loro proprio lavoro trasformati in caratteri oggettivi dei prodotti di quel lavoro, in proprietà sociali naturali di quelle cose, e quindi rispecchia anche il rapporto sociale fra produttori e lavoro complessivo come un rapporto sociale di oggetti, avente esistenza al di fuori dei prodotti stessi. Mediante questo quid pro quo i prodotti del lavoro diventano merci, cose sensibilmente soprasensibili cioè cose sociali. Proprio come l’impressione luminosa di una cosa sul nervo ottico non si presenta come stimolo soggettivo del nervo ottico stesso, ma quale forma oggettiva di una cosa al di fuori dell’occhio. Ma nel fenomeno della vista si ha realmente la proiezione di luce da una cosa, l’oggetto esterno, su un’altra cosa, l’occhio: è un rapporto fisico fra cose fisiche. Invece la forma di merce e il rapporto di valore dei prodotti di lavoro nel quale essa si presenta non ha assolutamente nulla a che fare con la loro natura fisica e con le relazioni fra cosa e cosa che ne derivano. Quel che qui assume per gli uomini la forma fantasmagorica di un rapporto fra cose è soltanto il rapporto sociale determinato fra gli uomini stessi. Quindi, per trovare un’analogia, dobbiamo involarci nella regione nebulosa del mondo religioso. Quivi, i prodotti del cervello umano paiono figure indipendenti, dotate di vita propria, che stanno in rapporto fra di loro e in rapporto con gli uomini. Così, nel mondo delle merci, fanno i prodotti della mano umana. Questo io chiamo il feticismo che s’appiccica ai prodotti del lavoro appena vengono prodotti come merci, e che quindi è inseparabile dalla produzione delle merci”. Il capitale ‘ IL CARATTERE DI FETICCIO DELLA MERCE E IL SUO ARCAN0’.
Il feticismo delle merci, in altre parole i prodotti della mano e dell’intelligenza dell’uomo che si ergono come cose indipendenti, dotate di vita propria, che stanno in rapporto fra di loro e in rapporto con gli uomini. Un feticismo inseparabile dalla produzione delle merci, rispecchiato variamente nelle forme malate della conoscenza che sorgono nella società capitalistica. Il mondo dominato dal feticismo delle merci, assume, nella mente degli uomini, la forma fantasmagorica di un rapporto fra cose, mentre, invece, è soltanto un rapporto sociale determinato fra gli uomini stessi; questo feticismo, tuttavia, produce successive forme fantasmagoriche di conoscenza della realtà, variamente prigioniere di quest’illusione, in cui, un rapporto sociale determinato fra gli uomini, diviene un rapporto fra cose. Questo dominio si dispiega in una doppia dimensione: in primo luogo avviene l’asservimento del lavoro vivo dell’uomo al capitale ( = lavoro morto cristallizzato nei mezzi di produzione), e in secondo luogo si verifica la sostituzione della realtà con l’illusione, attraverso la reificazione: ovvero il processo di rovesciamento del reale, in cui, al rapporto concreto fra uomini, si sostituisce un rapporto tra entità mercificate e cosificate. Capitale e lavoro salariato; non più un rapporto sociale determinato fondato sul dominio e sulla violenza, ma un ordinario rapporto di scambio fra un venditore e un compratore, in cui la merce forza-lavoro è ceduta, per un certo tempo, dal suo proprietario lavoratore, al compratore capitalista, in cambio di un prezzo chiamato salario ( con cui il lavoratore-merce potrà comprare, a sua volta, le merci indispensabili per riprodurre la sua forza lavoro, e quindi consentirgli di vendersi di nuovo al capitale). Alla realtà del dominio di una classe sociale (composta da esseri viventi umani), su un’altra classe sociale (ugualmente formata da esseri viventi umani), si è in definitiva sovrapposto – nel capitalismo – un rapporto illusorio fra oggetti (merci); formalmente libere di contrarre normali accordi di compra-vendita sul mercato, accordi reciprocamente utili e soddisfacenti sia per il lavoratore (proprietario della merce forza-lavoro), sia per il capitalista (proprietario della merce forza-lavoro cristallizzata nel capitale). Già nella ’’Ideologia tedesca” il giovane Marx aveva sostenuto che ”sotto il dominio della borghesia gli individui sono più liberi di prima, nella fantasia, perché per loro le proprie condizioni di vita sono casuali “, in quanto formalmente liberi di vendere o meno la propria forza-lavoro, si presentano come apparentemente diverse da quelle che le hanno precedute nel corso della storia: la schiavitù, la servitù della gleba. Gli individui, invece, “ nella realtà sono naturalmente meno liberi perché più subordinati a una forza oggettiva “. Ibidem. Questa forza oggettiva è il meccanismo anonimo e impersonale del capitale, lavoro morto cristallizzato nei mezzi tecnici di produzione delle merci, prodotto in origine dal lavoro vivo dell’uomo, e poi in seguito separatosi da esso fino al punto di dominarlo come una forza oggettiva indipendente. Nell’attuale modo di produzione, questo processo di separazione, in cui il lavoratore è alienato; ovvero ha perso ogni legame di possesso con i prodotti del proprio lavoro ( le merci prodotte per l’azienda ), con i mezzi tecnici con cui li ha prodotti (il capitale), e con una parte del tempo di lavoro consumato ( il plus-lavoro rubato dal capitale), è all’origine delle successive forme di separazione del pensiero dalla realtà ( e anche dell’illusione in cui pensiero e realtà sono posti come due enti antitetici indipendenti, l’illusione che il puro atto di pensiero possa produrre l’essere concreto nella sua dimensione storico-sociale e naturale ). La società capitalistica è quindi contrassegnata da processi economico-sociali separativi, alienanti, di cui troviamo i riflessi distorti nelle rappresentazioni illusorie della realtà di una parte dei suoi componenti. In questa società i rapporti fra cose sostituiscono i rapporti fra esseri viventi, ma la stessa vita diventa teatro, rappresentazione di una recita fra attori sociali, semplici maschere di carattere, spinte a recitare la propria parte sotto la regia di quella forza oggettiva, quel meccanismo impersonale, di cui scrive Marx nel Capitale,libro III: ” Il modo di produzione capitalistico si contraddistingue a priori per due tratti caratteristici. Primo. Esso produce i suoi prodotti come merci. Il produrre merci non lo distingue dagli altri modi di produzione; lo distingue invece il fatto che il carattere prevalente e determinante del suo prodotto è quello di essere merce. Ciò implica, in primo luogo, che l’operaio stesso si presenta unicamente nella veste di venditore di merci, quindi di libero lavoratore salariato, così che il lavoro in generale si presenta come lavoro salariato. Dopo quanto abbiamo esposto nella nostra analisi, non è necessario dimostrare di nuovo che il rapporto fra capitale e lavoro salariato determina tutto il carattere del modo di produzione. I principali agenti di questo modo di produzione stesso, il capitalista e il lavoratore salariato, sono in quanto tali, semplicemente incarnazioni, personificazioni del capitale e del lavoro salariato; sono caratteri sociali determinati, che il processo di produzione sociale imprime agli individui; sono prodotti di questi determinati rapporti sociali di produzione”.
I principali agenti di questo modo di produzione sono entrambi attori forzati di una recita, basata su un copione di cui non sono gli autori, ma solo le maschere di carattere (Charaktermasken) in cui si articolano i rapporti di produzione dominanti. Lo stesso capitalista, perennemente convinto di essere il sale della terra; persuaso, cioè, di determinare il corso degli eventi economici e la redditività della sua impresa (con la scelta di strategie adeguate di produzione e di vendita delle merci), è in definitiva solo un misero ingranaggio della macchina del capitale – infatti, come scrive Marx, “egli non è altro che una ruota dell’ingranaggio”. Il Capitale libro I. Egli crede di essere padrone della parte che recita, mentre, invece, è solo una pedina, un burattino, magari soddisfatto della propria vita, ma spesso inconsapevole che questa vita è manovrata dalla logica inflessibile del capitalismo. Secondo Marx, infatti, il capitale non è un rapporto di potere personale ( come nei modi di produzione antico e feudale ), esso è un rapporto di potere sociale, di certo caratterizzato dal dominio di una classe sociale su un altra classe sociale, ma in cui, tuttavia, “ non sono gli individui, ma è il capitale che è posto in condizioni di libertà”. Marx ,Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica. Molto illuminante, in questo senso, è la descrizione marxista delle forme mentali assunte dai rapporti sociali, all’interno del modo di produzione feudale, ” Qui, invece dell’uomo indipendente, troviamo che tutti sono dipendenti: servi della gleba e padroni, vassalli e signori feudali, laici e preti. La dipendenza personale caratterizza tanto i rapporti sociali della produzione materiale, quanto le sfere di vita su di essa edificate. Ma proprio perché rapporti personali di dipendenza costituiscono il fondamento sociale dato, lavori e prodotti non hanno bisogno di assumere una figura fantastica differente dalla loro realtà: si risolvono nell’ingranaggio della società come servizi in natura e prestazioni in natura. La forma naturale del lavoro, la sua particolarità, è qui la sua forma sociale immediata, e non la sua generalità, come avviene sulla base della produzione di merci. La corvée si misura col tempo, proprio come il lavoro produttore di merci, ma ogni servo della gleba sa che quel che egli aliena al servizio del suo padrone è una quantità determinata della sua forza-lavoro personale. La decima che si deve fornire al prete è più evidente della benedizione del prete. Quindi, qualunque sia il giudizio che si voglia dare delle maschere nelle quali gli uomini si presentano l’uno all’altro in quel teatro, i rapporti sociali delle persone appaiono in ogni modo come loro rapporti personali, e non sono travestiti da rapporti sociali delle cose, dei prodotti del lavoro”. Marx: Il capitale: il carattere di feticcio della merce e il suo arcano.
Il modo di produzione feudale, dunque, proprio essendo una forma di dominio personale dell’uomo sull’uomo, non cela, e non può celare, i rapporti sociali reali fra le persone, mistificandoli sotto la parvenza illusoria di rapporti sociali delle cose, come avviene nel modo di produzione attuale. Ogni servo della gleba sa quel che egli aliena al servizio del suo padrone, scrive Marx, diversamente da quello che accade al moderno schiavo salariato, nel teatro sociale contemporaneo. Merce contro merce, lavoro contro salario: questa è la recita che trova scena sul palco del libero mercato, ma una volta tolta la maschera e il trucco, la recita si svela per quello che è: Un modo di produzione fondato sull’alienazione capitalistica del lavoro; e quindi sulla produzione di merci in cui è incorporata la preziosa sostanza valorificante, il lavoro, e quella parte ancora più preziosa: il plus-lavoro/plus-valore, ossessivamente agognata dal capitale, così come un amante desidera incessantemente l’oggetto del suo amore.
Riprendiamo le parole di Marx, “Il secondo tratto caratteristico, che contraddistingue specificamente il modo di produzione capitalistico, è la produzione del plusvalore come scopo diretto e motivo determinante della produzione. Il capitale produce essenzialmente capitale e fa ciò solamente nella misura in cui produce plusvalore… L’autorità assunta dal capitalista in quanto personificazione del capitale nel diretto processo di produzione, la funzione sociale che egli riveste nella sua qualità di dirigente e di dominatore della produzione, è sostanzialmente diversa dall’autorità avente come base la produzione con schiavi, servi della gleba, ecc. Mentre, sulla base della produzione capitalistica, alla massa dei produttori diretti si contrappone il carattere sociale della loro produzione, nella forma di una autorità rigorosamente normativa e di un meccanismo sociale del processo lavorativo articolato in una gerarchia completa, — autorità però che spetta ai suoi depositari in quanto personificazioni delle condizioni di lavoro rispetto al lavoro, non, come nelle precedenti forme di produzione, in quanto dominatori politici o teocratici — fra i depositari di questa autorità, fra i capitalisti stessi, che si contrappongono l’uno all’altro soltanto come possessori di merci, regna una anarchia completa, nel quadro della quale la struttura sociale della produzione si afferma solo come una soverchiante legge naturale nei confronti dell’arbitrio individuale… prendiamo ora il profitto. Questa forma determinata del plusvalore è il presupposto necessario perché la nuova creazione dei mezzi di produzione si svolga nella forma della produzione capitalistica; quindi un rapporto che domina la riproduzione, quantunque il singolo capitalista abbia l’impressione di potere in fondo consumare il suo intero profitto come rendita. Ma egli trova dei limiti, che si ergono dinanzi a lui già nella forma di fondo di assicurazione e di riserva, di legge della concorrenza ecc.,”. Il Capitale,libro III.
Un mondo alienato, in cui alla massa dei produttori diretti, si contrappone il carattere sociale della loro produzione, il lavoro vivo contro il lavoro morto, il produttore sussunto all’interno del suo prodotto, e poi, infine, la forma specifica delle relazioni nate sulla base di tali rapporti alienati: il dispotismo di fabbrica, come paradigma del dominio del capitale sul lavoro, che Marx definisce, “forma di una autorità rigorosamente normativa e di un meccanismo sociale del processo lavorativo articolato in una gerarchia completa “. L’azienda capitalistica, ossia lo spazio-tempo sociale in cui si svolgono i processi produttivi delle merci, in cui il lavoratore subisce l’estrazione di plus-lavoro più o meno inconsapevolmente, è anche il luogo governato da un autorità rigorosamente normativa, quasi asettica, dall’apparenza neutra, e tuttavia articolata in una gerarchia completa di comando. L’autorità del capitalista non è paragonabile a quella dei dominatori politici o teocratici dello schiavismo antico o del feudalesimo, il capitalista è invece la personificazione del capitale nel diretto processo di produzione, egli è una maschera che svolge una funzione sociale che riveste nella sua qualità di dirigente e di dominatore della produzione. In definitiva è il meccanismo sociale del processo lavorativo alienato, articolato in una gerarchia completa, che pone in essere la (Charaktermasken) del capitalista; mera funzione sociale svolta come funzionario personale del capitale, dirigente e dominatore della produzione di merci.