La danza macabra di finanza e industria

Un recente articolo pubblicato su un sito di informazione finanziaria rivolto in prevalenza agli  investitori di borsa, stima che nel mondo vi siano 247 mila miliardi di dollari di debiti pubblici e privati. In se stessa la cifra non significa nulla, a meno di non confrontarla con un parametro come il PIL mondiale, e allora scoprire che il debito totale ammonta al 318 per cento del PIL. Gli USA detengono più di un quinto di questo debito.

Sembra che nei primi tre mesi del 2018 il debito sia aumentato di 8000 miliardi, a riprova di una tendenza mondiale  all’aumento stabile del fenomeno, tendenza collegata a varie cause di sistema.

Una causa è la concorrenza fra imprese economiche (industriali, commerciali, del terziario avanzato), un aspetto che obbliga il management ad innovare senza sosta i prodotti e i processi industriali. L’innovazione, tuttavia, comporta dei costi, un fattore che molto spesso l’impresa può sostenere solo con l’accensione di un debito. L’acquisto di un nuovo macchinario, facciamo un esempio tipico, rappresenta un costo, in assenza di sufficienti risorse finanziarie interne, esso potrebbe essere finanziato da un mutuo passivo bancario, una forma di finanziamento che comporta il vantaggio di un rimborso rateale del capitale monetario ottenuto, e poi il pagamento di interessi passivi decrescenti sul valore calante del debito residuo. ll leasing è un altra forma di finanziamento rivolta alle imprese desiderose di ottimizzare la produzione, ovviamente migliorando la produttività del lavoro con l’impiego di tecnologia avanzata. Il leasing è assimilabile a un contratto di locazione (in certi casi con la possibilità di riscattare il bene strumentale, alla fine della locazione, previo pagamento di un maxi canone).
Il capitale di debito, tuttavia, può essere restituito, senza intaccare il capitale proprio aziendale (capitale sociale e riserve) e quindi i mezzi impiegati nella attività economica (immobilizzazioni, prodotti finiti, liquidità su c/c e in cassa, quindi il capitale fisso e circolante), solo se la produzione di merci è in grado di trasformarsi in un successivo flusso di entrate monetarie (con cui pagare i debiti). Questo flusso si manifesta nella sfera della circolazione, dove le merci, che contengono  una quota di plusvalore, dovrebbero trovare un compratore disposto a pagare il loro prezzo. Facciamo una digressione: dividendo  il valore delle vendite annuali per il valore degli investimenti aziendali (capitale fisso e circolante), si ottiene il tasso di rotazione degli investimenti, che esprime quante volte si è rinnovato il capitale investito grazie alle vendite. L’obiettivo basico delle imprese economiche capitalistiche è proprio quello di aumentare il tasso di rotazione del capitale impiegato, quindi l’utile d’esercizio annuale (il profitto inteso come differenza fra costi e ricavi), e di conseguenza garantirsi la riproduzione allargata del capitale, ovvero l’incremento di valore del capitale iniziale impiegato nella produzione. In questo modo l’impresa può anche evitare il ricorso al costoso capitale di debito. Riepilogando: per sopravvivere alla lotta per la concorrenza, le imprese capitalistiche sono obbligate ad innovare, introducendo nuove e più avanzate tecnologie, queste tecnologie però oltre a ridurre l’impiego di forza lavoro umana, e quindi la base del parassitismo di pluslavoro/plusvalore, comportano spesso l’aumento dei debiti verso banche e fornitori, con il relativo aumento dei costi per interessi passivi e infine dei rischi aziendali. La lotta per la concorrenza espone in effetti le imprese a rischi crescenti, fra cui quello di insolvenza verso i propri creditori, erodendo inoltre la base umana di forza lavoro da cui deriva in ultima istanza il profitto. In effetti anche l’aumento della produttività del lavoro, causata dall’impiego di nuove tecnologie, e quindi il maggiore pluslavoro estratto dal singolo operaio, sono normalmente vanificati dalla riduzione numerica degli operai impiegati nella produzione. Uno dei rimedi alla caduta del saggio di profitto può essere l’aumento della quantità di merci prodotte, con relativo abbassamento dei prezzi di vendita; tutto questo al fine di contrapporre alla tendenziale diminuzione del plusvalore contenuto nella singola merce, l’aumento compensativo delle vendite. In questo modo l’impresa potrebbe avere un risultato economico/utile d’esercizio invariato, almeno sul piano monetario, ottenuto però con un maggiore volume di produzione annua, a fronte dunque di un saggio di profitto decrescente. La riduzione del prezzo di vendita delle merci è resa possibile dalla riduzione del costo di produzione da un lato, e dall’esigenza di battere le imprese concorrenti dall’altro lato. Tuttavia anche la miseria crescente, e il correlato effetto depressivo sulla domanda globale, spingono le imprese produttrici verso la riduzione dei prezzi di vendita.

Torniamo al tema principale.
Il debito pubblico globale dovrebbe ormai aggirarsi intorno ai 70.000 miliardi di dollari, una cifra enorme, su cui si imperniano le politiche di austerità dei governi, con il complesso derivato di tagli al welfare, aumenti fiscali, riduzioni salariali e crescita del precariato, innalzamento dell’età pensionabile, perdita del potere di acquisto dei proletari, erosione del salario diretto e indiretto. Debito pubblico e fiscalità sono strettamente collegati, in quanto il pagamento degli interessi sui titoli del debito statale è reso possibile dalle entrate fiscali, queste ultime sono derivate dalle imposte dirette sui redditi da lavoro dipendente, IRPEF, che operano alla fonte, ma anche dall’imposta sui consumi (IVA), definita indiretta, perché colpisce il reddito non alla fonte, direttamente, ma solo quando viene impiegato in atti di acquisto di merci e servizi, cioè indirettamente. Anche le tasse sui servizi sanitari e scolastici, o le tasse automobilistiche, e anche l’imu e la tasi, sono tributi, e quindi entrate tributarie. Si consideri che solo in Italia quasi la metà dei tributi annui (160 miliardi di euro), sono destinati a pagare gli interessi sul debito pubblico. Il carico di questo debito (interessi e rimborso di quote Capitale) è ripartito innanzitutto sulle spalle dei lavoratori salariati, i quali sono sottoposti a una doppia sottrazione di energia vitale: sul luogo di lavoro, in forma di pluslavoro, e fuori dal luogo di lavoro, in forma di imposte sul salario lordo (IRPEF), e ulteriori tributi di vario tipo (pagati con il salario al netto dell’IRPEF). Il debito globale di 247.000 miliardi di dollari comprende anche i debiti delle famiglie, spesso sorti per l’acquisto di beni e servizi primari (casa, cure mediche), ma in molti altri casi, almeno nelle aree economiche più forti, per il puro consumo di merci e servizi superflui.
In seguito alla crisi del 2008 molti governi hanno perseguito, accanto alle solite ricette dell’austerità, anche una politica pseudo espansiva di riduzione dei tassi di interesse sui finanziamenti bancari, allo scopo di invogliare le famiglie a consumare di più, e le imprese a investire di più, ovviamente facendo ricorso ai debiti. Tale circostanza ha evidentemente favorito la crescita del debito mondiale, ma non la ripresa reale dell’economia capitalistica, condannata dalla legge della caduta tendenziale del saggio medio di profitto a contorcersi in crisi finanziarie e industriali sempre più acute e distruttive. La crisi del capitale non va intesa, infatti, come un momento sporadico di malattia, all’interno della vita di un organismo fondamentalmente sano, ma come la acutizzazione della malattia cronica che affligge il capitale. Una malattia che si articola sul piano sociale come intensificazione del conflitto fra le classi, e sul piano economico come crisi da sovrapproduzione. La natura antagonistica e irrazionale della società borghese si palesa nella doppia dimensione di oppressione e parassitismo di una classe sociale ai danni di un altra classe sociale, e nella lotta per il potere e per il controllo di risorse energetiche, vie commerciali e masse di lavoratori,  fra borghesie nazionali,  o blocchi imperiali concorrenti. L’aumento del debito attuale, al di fuori della improbabile vulgata keynesiana di rilancio dei consumi e degli investimenti, è servito invece come valvola di sfogo (e di impiego) per la pletora di capitali in cerca di valorizzazione nella sfera finanziaria dove prevale la logica duale credito/debito, e l’ interesse è il nome assunto dalla presunta capacità del denaro di creare una maggiore quantità di denaro (d=d’). In realtà è il lavoro che crea valore, e quindi è sempre il pluslavoro proletario che viene ripartito tra le varie branche del capitale complessivo borghese ( profitto, rendita, interesse).
Sembra che ora le sovrastrutture statali borghesi vogliano limitare la propensione all’indebitamento, precedentemente favorita in vista di improbabili riprese economiche. In Europa, ad esempio, con la sospensione del quantitative easing, o ancora meglio con la classica manovra sul tasso di sconto cambiario. Le banche centrali nel 2017 hanno immesso nel circuito valutario quasi 2600 miliardi di dollari, mentre nel 2018 la somma è scesa a 580 miliardi. Seguendo la legge della domanda e dell’offerta il costo del denaro dovrebbe dunque aumentare, e quindi dovrebbero aumentare anche gli interessi sui nuovi prestiti (ma anche su quelli vecchi a tasso variabile). Questa sequenza di eventi potrebbe risultare fatale per qualche azienda. In fondo ci sono sempre imprese che non sopravvivono, in questo caso potrebbero essere le imprese capitalistiche maggiormente indebitate, soprattutto le Spa che si sono finanziate emettendo e vendendo obbligazioni a tasso variabile. La lotta per la concorrenza e l’anarchia della produzione, d’altronde, producono sempre effetti di questo tipo. Come diceva qualcuno: è l’economia (capitalistica) bellezza.
Può essere interessante ricordare che negli USA le imprese sono indebitate per 20.000 miliardi di dollari, una parte di questo debito è remunerato con tassi d’interesse variabili, quindi si presenta a potenziale rischio di rialzo in una fase di turbolenze come quella attuale.
Inoltre non bisogna dimenticare che molti paesi sono indebitati in valuta estera, questi paesi potrebbero incontrare delle difficoltà a rinnovare i propri debiti sovrani, si tratta infatti di importi di varie centinaia di miliardi scadenti entro il 2019. Come si può ben vedere la lotta interna alla classe borghese, attraverso la triade credito/debito/interesse, sposta sul piano finanziario gli effetti della lotta per la concorrenza che si svolge in realtà sul piano economico-aziendale industriale. La danza macabra fra finanza e produzione alla fine conterà i suoi caduti, aziende fallite e dipendenti senza occupazione, famiglie sul lastrico, variamente immolati a un tipo di organizzazione socio-economica assurda, antistorica, funzionale solo al parassitismo della minoranza sociale borghese.

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