Capitolo 12/13 del libro primo del Capitale: brani scelti
Nota redazionale: cosa distingue una lettura attendibile da una inattendibile? E quale segnale ci fa accorgere che una interpretazione è sbagliata?
Sono domande a cui non è semplice rispondere, domande che oltretutto implicano un allargamento del discorso al problema dell’ideologia, dunque al confronto con il pensiero dominante in un certo tipo di società. Tuttavia la domanda iniziale implica l’idea che esista una verità e una non verità (nell’interpretazione di un testo). Il concetto di verità ci porterebbe sul piano delle ultra-millenarie dispute filosofiche, sicuramente avvincenti, ma fuori dal nostro modestissimo problema contingente.
Sospendiamo per un momento il tema della verità o della non verità, intese come entità assolute, e viceversa tentiamo di comprendere quali criteri ci consentono di non prendere lucciole per lanterne nel corso della vita reale (vita di cui fa parte anche la corretta, verosimile, lettura dei testi).
Dunque limitiamoci a parlare, pragmaticamente, solo di verosimiglianza, e quindi di felice approssimazione conoscitiva ad un dato fenomeno.
Un testo è composto da un insieme di segni, il cui compito è quello di veicolare dei significati. I significati attribuibili a un certo segno, o meglio ancora a un certo segno/significante, possono essere molteplici, e anche dare adito a letture/interpretazioni discordanti o addirittura antitetiche.
Uno dei padri della semiologia, Charles Sanders Peirce, matematico, filosofo, semiologo, logico, scienziato e accademico (Cambridge, 10 settembre 1839 – Milford, 19 aprile 1914) riteneva che un segno può essere interpretato in molti modi, ma non illimitatamente (vedasi i testi di Umberto Eco, ‘Lector in fabula’ e ‘I limiti dell’interpretazione’).
L’interpretazione senza limiti viene definita semiosi illimitata, cioè, in parole povere, attribuzione di significati infiniti allo stesso testo, segno/significante, fenomeno. Ma questa semiosi illimitata, nella storia umana, non si manifesta che come esperienza limitata all’arte o alla follia.
L’interpretazione sensata, la semiosi regolare, invece, incontrano sempre dei limiti nella realtà dell’esperienza della specie, e dei suoi bisogni concreti.
La vita ha bisogno di regolarità, il divenire del mondo va inquadrato in schemi e modelli, le parole, i testi che le contengono, ma ogni tipo di segno/significante esistenti, dunque i fenomeni che formano la manifestazione dell’essere non possono avere significati infiniti, ma solo un certo numero limitato di significati.
Nelle tradizioni religiose più varie, nei miti di fondazione, infatti, è sempre ricorrente l’idea di una forza trascendente che, all’origine, conferisce un nome alle cose, una identità e un significato, rendendo stabile e ordinato il precedente universo caotico.
Allora, tornando al nostro piccolo problema con i capitoli 12 e 13 del capitale, quali sono i fattori, o meglio le colonne di Ercole che è saggio non oltrepassare nell’interpretazione del testo? E’ molto semplice: il primo volume del Capitale, pubblicato nel 1867, va letto seguendo i codici culturali esistenti in quella società, che era allora come oggi una società divisa in classi, dunque con almeno due possibilità di lettura socialmente condizionate. Dunque, secondo il pensiero dominante, e poi di seguito secondo ciò che risultava alieno a quel pensiero, al testo di Marx sono stati attribuiti alcuni significati (diversi e opposti secondo lo schieramento politico-sociale del lettore/interprete). I limiti dell’interpretazione del senso di quei capitoli sono infatti di tipo storico e sociale.
Ogni lettura eccentrica rispetto all’originario contesto di enunciazione storico-sociale, contesto in cui viene attualizzato e limitato il potenziale di senso di un certo segno/testo, è sbagliata. Il testo di Marx, ma tutti i testi, e tutti i segni, non possono essere travisati e deformati oltre un certo limite, perché il limite esiste e ritorna imponendo il suo senso. I testi, alla fin fine, sono interpretati in base ai codici culturali esistenti (nel caso delle società classiste, codici di sistema e di anti-sistema), per questo motivo è la stessa vita reale a distruggere le interpretazioni aberranti rispetto ai codici culturali/contesti di enunciazione storico-sociali esistenti, indispensabili per l’attualizzazione interpretativa regolare del potenziale di senso dei testi. Oltre questa attualizzazione regolare si apre il territorio dell’arte (nichilista) e della fantasia al galoppo.
Il marxismo, essendo l’espressione di una classe sociale (il proletariato) che porta nel suo DNA la missione storica di abolire tutte le classi sociali, per aprire la strada alla comunità umana, non è una ideologia al servizio di una classe di sfruttatori, ma una vera conoscenza/scienza umana al servizio della specie, dunque almeno in relazione a questo aspetto sociale generale, la visione anti-sistema ha maggiore verità della visione di sistema, particolare di una classe (la borghesia) che nel suo DNA porta solo la missione di conservare se stessa, in quanto minoranza sociale.
Tornando alla domanda iniziale, il buon Marx nella sua opera ha svelato e descritto il segreto del lavoro salariato, un triplice segreto: alienazione, mercificazione e reificazione. Nel capitolo 12 e 13 si analizzano queste cose, e dunque è semplicemente impossibile che Marx pensasse, in quei capitoli, o altrove, che i rapporti di lavoro interni alla manifattura prefigurassero la cooperazione libera dalla legge del valore di scambio.
Nel Convivio Dante descrive quattro livelli di interpretazione, definiti anche i quattro sensi: letterale, cioè fermo alla semplice superficie immediata del testo (questa interpretazione calza ai testi storici, scientifici, economici, scritti in prosa), allegorico (questa interpretazione calza ai testi poetici, scritti in rime e versi, ed esplora la verità che si nasconde dietro la creazione poetica), morale (qui il riferimento è alla lezione etica che può essere appresa leggendo un testo), anagogico/spirituale (in questo caso la lettura si trasforma in un passaggio iniziatico, uno strumento per la crescita interiore del lettore).
Nella specifica tendenza ad ignorare il senso letterale del capitolo 12, la lettura eccentrica che viene discussa nel seguito del presente articolo può a buon titolo essere definita allegorica. Se questo è vero, allora si può anche, in fondo, perdonare il lettore/interprete eccentrico che ha scorto nel Capitale, forse per troppa passione e amore, un opera poetica, e dunque, da vero e proprio ‘lector in fabula’, ne ha attualizzato in senso allegorico alcune righe, rifiutando invece la semplice interpretazione letterale, più adatta a un opera scritta in prosa su temi prevalenti di economia politica/sociologia economica, come è in realtà il Capitale di Marx.
Premessa
Ritorniamo ancora sulla vexata quaestio del (presunto) rovesciamento del significato economico-organizzativo dei dati della produzione industriale capitalista. Abbiamo una prima volta volta affrontato l’argomento nel maggio 2105, nel testo ”Aggregazione, conflitto, repressione’, successivamente abbiamo riproposto il testo nel novembre 2016, arricchendolo di ulteriori riflessioni. Infine il testo è stato ripubblicato nel mese di aprile 2018, con una lunga nota introduttiva.
Il lavoro attuale riprende i passi salienti del testo del maggio 2015, e delle successive note, alla luce dell’analisi di alcune righe del capitolo 12 e 13 del libro primo del Capitale di Marx. Non è nostra intenzione modificare il pensiero di chicchessia, lasciamo volentieri ai molti revisionatori/aggiornatori del marxismo la gioia di credere in quello che vogliono: il nostro scopo è solo l’auspicabile chiarificazione, ai nostri affezionati lettori, di un tema che rientra, indirettamente, nel filone da noi definito fatalista-collassista. Il cosiddetto‘rovesciamento dialettico’ della legge del valore di scambio, nella fabbrica capitalistica (manifattura /grande industria), è già negato in partenza nel capitolo 12 (e poi nel 13), poiché non basta sostenere che comunque nella fabbrica esiste una forma di cooperazione (e la cooperazione, sillogisticamente sarebbe comunismo alienato, ma comunque comunismo), in quanto l’intera logica organizzativa-produttiva vigente dentro il regime capitalistico di fabbrica è divisiva non solo delle mansioni lavorative (precedentemente racchiuse nel lavoro dell’artigiano), ma soprattutto dell’uomo che lavora al servizio del capitale: ”L’operaio manifatturiero, reso incapace per la sua stessa costituzione naturale a fare qualcosa d’indipendente, sviluppa una attività produttiva ormai soltanto come accessorio dell’officina del capitalista”…”Come sulla fronte del popolo eletto stava scritto che esso era proprietà di Geova, così la divisione del lavoro imprime all’operaio manifatturiero un marchio che lo bolla a fuoco come proprietà del capitale”…”Non solo i particolari lavori parziali vengono suddivisi fra diversi individui, ma l’individuo stesso vien diviso, vien trasformato in motore automatico d’un lavoro parziale Dugald Stewart chiama gli operai delle manifatture « automi viventi.., che vengono adoprati per lavori parziali a (Works, ed. da Sir W. Hamilton, Edimburgo, vol. VIII, 1855, Lectures ecc., p. 318)., realizzandosi così l’insulsa favola di Menenio Agrippa che rappresenta un uomo come null’altro che frammento del suo stesso corpo”. (Marx) Libro primo del Capitale, capitolo 12
Dunque, a dispetto di ogni formalismo ed elucubrazione sofistica in merito al presunto passaggio cooperativo di materie e strumenti dentro la fabbrica,interpretato erroneamente come un precursore oggettivo del comunismo, la condizione reale dell’uomo, dentro la fabbrica capitalistica, è, in Marx, ”null’altro che (quella di essere un ) frammento del suo stesso corpo,” …”accessorio dell’officina del capitalista”, ”motore automatico d’un lavoro parziale”.
Nel tredicesimo capitolo del capitale, Marx passa a descrivere la condizione operaia, dopo l’artigianato e la manifattura, nella grande industria. Nella grande industria le cose cambiano ancora radicalmente: si passa dalla cooperazione soggettiva (fra gli operai parziali) vigente nella manifattura, alla cooperazione oggettiva fra macchinari nel sistema di macchine, che costituisce “in sé e per sé un solo grande automa”: “combinazione di macchine operatrici parziali”, in cui l’operaio diventa un appendice della macchina, isolato dai suoi stessi compagni (libro primo (vol. 2) pp. 79-80 e sgg., ed. Editori Riuniti). Marx fa innumerevoli esempi (il primo quello della macchina delle buste da lettera). Ma possiamo trovare esempi contemporanei: nella industria automobilistica italiana, in cui ancora negli anni ’50, si vedevano gruppi di operai “parziali” affaccendarsi attorno ad un’autovettura, in cooperazione fra loro, alle immagini attuali, in cui si vede un unico operaio davanti ad uno schermo che controlla un macchinario – mostro con i tentacoli, come lo chiama Marx, vale a dire un moderno robot.
Non a caso, Marx con una capacità di previsione incredibile, descrive la futura organizzazione del lavoro all’interno della grande industria: vedere, p. 83, in cui parla del“mostro meccanico, che riempie del suo corpo intieri edifici di fabbriche e la cui forza demoniaca … esplode poi nella folle e febbrile danza turbinosa dei suoi innumerevoli organi di lavoro…”
“Nella manifattura l’articolazione del processo lavorativo sociale è puramente soggettiva, è una combinazione di operai parziali; nel sistema delle macchine la grande industria possiede un organismo di produzione del tutto oggettivo, che l’operaio trova davanti a sé, come condizione materiale di produzione già pronta”(p. 88).
Ciò ha tutta una serie di grandi conseguenze. Oltre alla possibilità di introdurre nella fabbrica il lavoro dei minori e delle donne, per cui il capo famiglia diventa “mercante di schiavi” (p. 99), il prolungamento della giornata lavorativa, l’intensificazione del lavoro, e per quello che qui ci interessa modifica “il carattere del corpo lavorativo sociale”; viene cioè “soppressa la base tecnica su cui si fonda la divisione del lavoro nella manifattura” (p.126):“Nella manifattura e nell’artigianato, l’operaio si serve dello strumento, nella fabbrica è l’operaio che serve la macchina. (…) Nella manifattura gli operai costituiscono le articolazioni di un meccanismo vivente. Nella fabbrica esiste un meccanismo morto indipendente da essi, e gli operai gli sono incorporati come appendici umane (..). Il lavoro alla macchina intacca in misura estrema il sistema nervoso, sopprime l’azione molteplice di muscoli e confisca ogni libera attività fisica e mentale” (128-129).
La cooperazione fra operai nella manifattura lascia il passo alla divisione gerarchica fra gli operai in manovali e sorveglianti del lavoro:“in soldati semplici dell’industria e in sottufficiali dell’industria”, (p. 130) all’interno del regime di fabbrica in cui si crea una disciplina da caserma (p. 130 e sg.).
Ripetiamolo, un diverso modo di produzione potrà nascere solo dalla negazione dell’attuale organizzazione del lavoro capitalistica, consentendo così all’essere umano di non essere più reificato ed alienato. Attribuire al lavoro di fabbrica capitalistico la caratteristica di essere un precursore oggettivo del comunismo, significa invece tentare di confutare l’intera lettura marxista del lavoro nell’economia capitalistica, in cui il lavoro è correttamente inteso come risultato della reificazione (trasformazione dell’uomo in cosa/”accessorio dell’officina del capitalista”) e dell‘alienazione (separazione e perdita di se stesso/ un uomo come null’altro che frammento del suo stesso corpo”).
Vorremmo fare una candida domanda ai teorizzatori della negazione del valore di scambio (fin dentro l’organizzazione capitalistica del lavoro); avete costruito, partendo da due righe di Marx, che si limitavano solo a ricordare che la merce prodotta dall’industria capitalistica è il risultato della cooperazione di operai diversi (parziali), un grattacielo di ragionamenti che, guarda caso, il povero Marx non aveva mai lontanamente immaginato, e che di conseguenza non è rintracciabile in nessuna pagina della sua mastodontica produzione. Dunque si tratta di novità, scoperte teoriche, aggiornamenti, non presenti nei testi di Marx e nemmeno nella pubblicistica della corrente degli anni 40, 50. 60, 70 (e neppure in quella dei primi tre decenni del secolo scorso). Allora, ed ecco la domanda, avete forse voi avuto la bravura di completare la teoria marxista, a cui mancava ancora la parte sulla negazione del valore di scambio realizzata attraverso la cooperazione degli operai parziali?
Se sostenessimo che proprio dentro l’inferno del luogo di lavoro l’uomo, materialmente, smetta di essere una merce, uno strumento al servizio del capitale morto, e diventi invece un produttore associato, cooperativo, libero dalla sua condizione di schiavo salariato, potremmo come minimo essere oggetto di sguardi perplessi da parte dai lavoratori salariati (mentre di sicuro saremmo guardati con stupito compiacimento dagli apologeti del sistema). Un filosofo greco, oltre duemila anni fa, per dimostrare che la verità non esiste, sosteneva con abili sofismi una proposizione e poi anche il suo contrario. Il sofisma viene definito dall’enciclopedia:‘Ragionamento capzioso, in apparenza logico ma sostanzialmente fallace, caratteristico della scuola sofistica presocratica’. ‘Ogni ragionamento che si sostenga su una ingegnosa o cavillosa coerenza formale”.
I sofismi possono essere il fragile supporto di argomentazioni fallaci, miranti a sostenere l’assurdo, l’impossibile, l’irreale. Perché qualcuno sente il bisogno, allora, di argomentare il nulla? Facciamo un ipotesi: in una situazione sociale devastata dalla controrivoluzione borghese, immersa nei miasmi del pensiero dominante, la condizione di chi si oppone al sistema è difficile, ricca di amarezza e solitudine, e dunque facilmente preda di tentazioni consolatorie e di miraggi.
Il comunismo, il sogno di una società armonica e libera dalla schiavitù del lavoro salariato, appare lontano dall’orizzonte delle cose realizzabili nel breve termine, mentre tutt’intorno regna il caos e il film horror del capitalismo trionfante. Dunque è prevedibile, è statisticamente probabile, che una parte delle fasce sociali che si oppongono al sistema cerchino delle vie di fuga, anche se impossibili e immaginarie, da una realtà tanto dura e crudele. In fondo solo un rimedio alla sofferenza causata dal fetido spettacolo del capitalismo trionfante.
Prima parte: sofismi e fumisterie
Le deformazioni fataliste-collassiste nella lettura del divenire storico sono associabili, almeno sul piano psicologico, a quanto abbiamo appena scritto.
L’idea che la logica del valore di scambio dentro i luoghi di lavoro, venga negata,‘de facto’, dalla collaborazione dei lavoratori nello svolgimento delle mansioni assegnate, e che questa collaborazione non avvenga sotto l’egida della legge del valore di scambio (e soprattutto del comando del capitale) , è sbagliata, è una deformazione della teoria marxista perché, Marx docet‘’Il processo di produzione ha inizio con l’acquisto della forza- lavoro per un tempo determinato: e questo inizio si rinnova costantemente, appena viene a scadere il termine di vendita del lavoro, e con esso è trascorso un determinato periodo della produzione, settimana, mese, ecc.’….Poiché il processo di produzione è insieme processo di consumo della forza-lavoro da parte del capitalista, il prodotto del lavoratore non solo si converte continuamente in merce ma anche in capitale: valore che succhia la forza creatrice di valore, mezzi di sussistenza che acquistano persone, mezzi di produzione che adoperano il produttore. Quindi l’operaio stesso produce costantemente la ricchezza oggettiva in forma di capitale, potenza a lui estranea, che lo domina e lo sfrutta, e il capitalista produce con altrettanta costanza la forza-lavoro in forma di fonte soggettiva di ricchezza, separata dai suoi mezzi di oggettivazione e di realizzazione, astratta, che esiste nella pura e semplice corporeità dell’operaio, in breve, egli produce l’operaio come operaio salariato. Questa costante riproduzione ossia perpetuazione dell’operaio è ‘il sine qua non’ della produzione capitalistica…Il processo di produzione capitalistico, considerato nel suo nesso complessivo, cioè considerato come processo di riproduzione, non produce dunque solo merce, non produce dunque solo plusvalore, ma produce e riproduce il rapporto capitalistico stesso: da una parte il capitalista, dall’altra l’operaio salariato”.Marx, il Capitale.
Dunque l’idea che l’operaio, nel lavoro di fabbrica, nella cooperazione con gli altri operai – cooperazione necessaria all’esecuzione dei compiti affidatigli coercitivamente dall’impresa economico-aziendale – durante il tempo di lavoro subordinato, possa essere libero dai legami della legge del valore di scambio, e quindi non sia totalmente mercificato e alienato, è una idea non contenuta in nessun testo di Marx. Già questo piccolo dettaglio potrebbe bastare per chiudere la questione (almeno all’interno di un gruppo che si professa marxista).
Seconda parte: il significato di tre righe nel contesto del capitolo 12
Proviamo lo stesso ad analizzare un passo del capitolo 12 del Libro primo del Capitale, da cui sono state dedotte delle erronee argomentazioni.
Ecco il passo testuale fatale:
”Ma che cos’è che produce il nesso fra i lavori indipendenti dell’allevatore di bestiame, del conciatore, del calzolaio? L’esistenza dei loro rispettivi prodotti come merci. E invece che cos’è che caratterizza la divisione del lavoro di tipo manifatturiero? Che l’operaio parziale non produce nessuna merce «Ma non c’è più nessuna cosa che si possa designare come retribuzione naturale del lavoro d’un singolo. Ogni operaio produce solo una parte di un tutto, e poiché ogni parte per se stessa non ha valore od utilità, non c’è nulla che l’operaio possa prendere dicendo: questo è il mio prodotto, e voglio conservarlo per me » (Labour defended against the claims of Capital, Londra, 1825, p. 25).Autore di questo eccellente scritto è il già citato TH. HODGSKIN.” Libro primo del Capitale, capitolo 12, Marx
Nota: le prime righe vanno collegate alla citazione successiva fatta da Marx (di TH. Hodgskin). Dunque, l’operaio parziale, non producendo come l’artigiano una merce, ma solo una porzione di merce, non può dire il mio prodotto finito vale 10, e nemmeno può dire conservo per me il mio prodotto. Come si vede il senso delle righe iniziali si può chiarire solo leggendo le righe successive. Egli (l’operaio parziale) non produce una merce, ma non perché non vengano, nei processi di lavoro interni alla fabbrica, in quel certo momento, prodotte merci, e quindi non valga il valore di scambio. Ecco la risposta di Marx nella riga successiva.
”È solo il prodotto comune degli operai parziali che si trasforma in merce. La divisione del lavoro all’interno della società è mediata dalla compra e vendita dei prodotti di differenti branche di lavoro; la connessione fra i lavori parziali nella manifattura è mediata dalla vendita di differenti forze-lavoro allo stesso capitalista, il quale le impiega come forza-lavoro combinata” (MARX). Libro primo del Capitale, capitolo 12
Nota: anche queste righe di Marx sono esplicite, Il prodotto comune si trasforma in merce e i lavori parziali che sono interconnessi fra di loro,hanno come elemento di base di essere la ”vendita di differenti forze-lavoro allo stesso capitalista, il quale le impiega come forza-lavoro combinata” (MARX).
Dunque il capitale usa la merce lavoro ‘come forza-lavoro combinata (Marx)’, pienamente soggetta al valore di scambio, anche se”l’operaio parziale non produce nessuna merce (Marx)”, perché al suo posto la produce il gruppo di lavoro”È solo il prodotto comune degli operai parziali che si trasforma in merce (Marx)”.
Nota: Cosa significa nella manifattura questo essere un gruppo di lavoro, è forse una forma organizzativa che anticipa il comunismo? Riportiamo le righe successive di Marx:”Originariamente l’operaio vende la sua forza-lavoro al Capitalista perché gli mancano i mezzi materiali per la produzione d’una merce: ma ora la sua stessa forza-lavoro individuale vien meno al suo compito quando non venga venduta al capitale; essa funziona ormai soltanto in un nesso che esiste soltanto dopo la sua vendita, nell’officina del capitalista. L’operaio manifatturiero, reso incapace per la sua stessa costituzione naturale a fare qualcosa d’indipendente, sviluppa una attività produttiva ormai soltanto come accessorio dell’officina del capitalista”…”Come sulla fronte del popolo eletto stava scritto che esso era proprietà di Geova, così la divisione del lavoro imprime all’operaio manifatturiero un marchio che lo bolla a fuoco come proprietà del capitale”…”Non solo i particolari lavori parziali vengono suddivisi fra diversi individui, ma l’individuo stesso vien diviso, vien trasformato in motore automatico d’un lavoro parziale Dugald Stewart chiama gli operai delle manifatture « automi viventi.., che vengono adoprati per lavori parziali a (Works, ed. da Sir W. Hamilton, Edimburgo, vol. VIII, 1855, Lectures ecc., p. 318)., realizzandosi così l’insulsa favola di Menenio Agrippa che rappresenta un uomo come null’altro che frammento del suo stesso corpo”. (Marx) Libro primo del Capitale, capitolo 12
Dunque il fraintendimento e la distorsione di alcune righe del capitolo 12, hanno costituito il pretesto per la costruzione di successive argomentazioni prive di qualsiasi riscontro teorico e soprattutto economico-aziendale. Forzare e travisare il significato di un testo, per trarre da questa operazione delle conclusioni contrarie ed antitetiche al significato autentico di quel testo,è purtroppo una pratica discretamente diffusa in molti ambiti dell’esistenza.
Parte terza: Brani scelti dal capitolo 12 del libro primo del Capitale di Marx
Nota: Riportiamo un ampia selezione di pagine tratte dal capitolo 12, ad uso dei lettori che ancora avessero dei dubbi sul come orientarsi in questa polemica fra opposte letture di alcune righe del capitolo 12. Sono le stesse pagine del capitolo 12 a parlare e a smentire le indebite deduzioni, i sofismi, di cui abbiamo ampiamente discettato. Il capitolo 12 va letto nella sua integralità, evitando di astrarre e separare alcune righe dalle righe e dalle pagine immediatamente precedenti e dalle righe e dalle pagine immediatamente successive. Questa lettura integrale va fatta per togliere ogni pretesto alle posizioni che parlano erroneamente di ‘rovesciamento’ del significato dell’organizzazione capitalistica del lavoro, attraverso la cooperazione lavorativa operaia che avviene dentro la ‘fabbrica’ (significato descritto senza ombra di dubbio non solo nel capitolo 12, ma in tutta l’opera di Marx).
ANCHE NEI LAGER E NEI GULAG ESISTEVA LA COOPERAZIONE lavorativa dei deportati, vogliamo allora sostenere il rovesciamento della legge del valore di scambio anche in quei luoghi, oltre che nelle ‘galere aziendali, contemporanee?
La saldezza di una argomentazione si misura anche in base alle conseguenze da essa implicate, in questo caso si può ben valutare il di-scostamento sia dell’argomentazione principale, sia delle sue conseguenze, dalla teoria invariante marxista. Questo di-scostamento è la caratteristica di base di tutti i tentativi di innovazione creativa su cui la nostra corrente ha sempre messo in guardia.
Citazioni:
Anche la manifattura dei panni e tutta una serie di altre manifatture sono sorte dalla combinazione di differenti mestieri sotto il comando di uno stesso capitale
Ma intanto circostanze esteriori inducono ben presto ad utilizzare altrimenti il concentramento degli operai nello stesso ambiente e la contemporaneità dei loro lavori.
Dunque la manifattura ha origine, cioè si elabora dal lavoro artigianale, in duplice maniera. Da un lato, parte dalla combinazione di mestieri di tipo differenti, autonomi, i quali vengono ridotti a dipendenza e unilateralità fino al punto da costituire ormai soltanto operazioni parziali del processo di produzione d’una sola e medesima merce che si integrano reciprocamente. D’altro lato la manifattura parte dalla cooperazione di artigiani dello stesso tipo, disgrega uno stesso mestiere individuale nelle sue differenti operazioni particolari, e le isola e le rende indipendenti fino al punto che ciascuna di esse diviene funzione esclusiva d’un operaio particolare. Quindi la manifattura, da una parte introduce o sviluppa ulteriormente la divisione del lavoro in un processo di produzione; dall’altra parte combina mestieri prima separati. Ma qualunque ne sia il punto particolare di partenza, la sua figura conclusiva è sempre la stessa: un meccanismo di produzione i cui organi sono uomini.
Per intendere esattamente la divisione del lavoro nella manifattura è d’importanza essenziale tener fermo ai punti seguenti: in primo luogo, qui l’analisi del processo di produzione nelle sue fasi particolari coincide completamente con la disgregazione d’una attività artigianale nelle sue differenti operazioni parziali. Composta o semplice l’operazione rimane artigianale, e quindi dipendente dalla forza, dalla abilità, dalla sveltezza e dalla sicurezza dell’operaio singolo nel maneggio del suo strumento. Il mestiere rimane la base. Questa base tecnica ristretta esclude una analisi realmente scientifica del processo di produzione, poiché ogni processo parziale percorso dal prodotto dev’essere eseguibile come lavoro parziale artigianale. E proprio perché a questo modo l’abilità artigianale rimane fondamento del processo di produzione, ogni operaio viene appropriato esclusivamente ad una funzione parziale, e la sua forza-lavoro viene trasformata nell’organo di tale funzione parziale, vita natural durante. Infine questa divisione del lavoro è una specie particolare della cooperazione, e molti dei suoi vantaggi scaturiscono dalla natura generale della cooperazione, e non da questa sua forma particolare.
La manifattura produce infatti il virtuosismo dell’operaio parziale riproducendo all’interno dell’officina la separazione originale e naturale dei mestieri che ha trovato nella società, e spingendola sistematicamente all’estremo. D’altra parte la sua trasformazione del lavoro parziale nella professione a vita d’un uomo corrisponde all’istinto di società più antiche di rendere ereditari i mestieri, di fossilizzarli in caste o di ossificarli in corporazioni, quando determinate condizioni storiche generino una variabilità dell’individuo incompatibile con il sistema delle caste. Le caste e le corporazioni derivano dalla stessa legge di natura che regola la divisione delle piante e degli animali in specie e sottospecie, solo che ad un certo grado di sviluppo l’ereditarietà delle caste o l’esclusività delle corporazioni viene decretata come legge della società
D’altra parte, la continuità d’un lavoro uniforme distrugge la forza di tensione e di slancio degli spiriti vitali, che trovano ristoro e stimolo nel variare dell’attività stessa.
Quella simultaneità deriva, certo, dalla forma cooperativa generale del complessivo, però la manifattura non solo trova presenti le condizioni della cooperazione, ma le crea in parte per la prima volta, scomponendo l’attività di tipo artigianale. D’altra parte essa raggiunge questa organizzazione sociale del processo lavorativo solo saldando uno stesso operaio ad uno stesso particolare.
Poiché il prodotto parziale di ogni operaio parziale è insieme nulla più d’un grado particolare di sviluppo dello stesso manufatto, quel che un operaio consegna all’altro, oppure un gruppo di operai consegna all’altro gruppo, è la materia prima di quest’ultimo operaio o gruppo. Il risultato del lavoro dell’uno costituisce il punto di partenza del lavoro dell’altro. Quindi un operaio occupa qui l’altro direttamente. Il tempo di lavoro necessario per raggiungere l’effetto utile prefisso in ogni processo parziale viene accertato in base all’esperienza, e il meccanismo complessivo della manifattura poggia sul presupposto che in un tempo di lavoro dato si raggiunga un risultato dato. Solo con questo presupposto i differenti processi di lavoro che si integrano reciprocamente possono continuare ininterrottamente, uno accanto all’altro nel tempo e nello spazio. È evidente che questa diretta dipendenza reciproca dei lavori e quindi dei lavoratori, costringe ogni singolo individuo ad adoperare per la sua funzione solo il tempo necessario, e che così si genera una continuità, uniformità, regolarità, un ordine « Quanto maggiore la varietà degli artefici in ogni manifattura.., tanto maggiore l’ordine e la regolarità di ogni lavoro. Questo dev’essere compiuto necessariamente in meno tempo, la fatica dev’essere minore » (The Advantages of the East India Trade, p. 68) e in ispecie anche una intensità di lavoro molto differenti da quelle del mestiere indipendente o anche della cooperazione semplice. Nella produzione delle merci, il fatto che si adoperi per una merce soltanto il tempo di lavoro socialmente necessario per la sua produzione, si presenta in genere come costrizione esterna della concorrenza, perché, per esprimerci superficialmente, ogni singolo produttore deve vendere la merce al suo prezzo di mercato. Invece nella manifattura la fornitura di una data quantità di prodotti entro un tempo di lavoro dato diventa legge tecnica dello stesso processo di produzione
Macchinario specifico del periodo della manifattura rimane l’operaio complessivo stesso, combinato di molti operai parziali. Le differenti operazioni che il produttore d’una merce compie alternandole e che s’intrecciano nell’insieme del suo processo di lavoro, lo impegnano in varie maniere. In una operazione egli deve sviluppare più forza, in un’altra più destrezza, nella terza più attenzione mentale, ecc., e lo stesso individuo non possiede allo stesso grado tutte queste qualità. Dopo che le diverse operazioni sono state separate, rese indipendenti ed isolate, gli operai vengono suddivisi, classificati e raggruppati a seconda delle loro qualità prevalenti. Le loro particolarità naturali costituiscono il tronco sul quale s’innesta la divisione del lavoro, ma poi la manifattura sviluppa, una volta che sia stata introdotta, forze-lavoro che per natura sono adatte soltanto a una funzione particolare unilaterale. Allora il lavoratore complessivo possiede tutte le qualità produttive a uno stesso grado di virtuosismo e le spende allo stesso tempo nella maniera più economica, in quanto tutti i suoi organi, individualizzati in particolari operai o gruppi di operai, li adopera esclusivamente per le loro funzioni specifiche « Il padrone della manifattura può procurarsi, dividendo il manufatto in parecchie operazioni diverse, ognuna delle quali richiede gradi differenti di destrezze di forza, quella precisa quantità di forza e di destrezza che corrisponde ad ogni operazione. Se invece un solo operaio avesse da eseguire tutto il manufatto, lo stesso individuo dovrebbe possedere abilità sufficiente per le operazioni più delicate e forza sufficiente per le operazioni più faticose » (CH. BABBAGE, On the Economy ecc., cap. XIX)..L’unilateralità e perfino l’imperfezione dell’operaio parziale diventano perfezione di lui come uno delle membra dell’operaio complessivo Per esempio, sviluppo unilaterale di certi muscoli, deformazione delle ossa, ecc.. L’abitudine di compiere una funzione unilaterale lo trasforma nel l’organo di tale funzione, che opera sicuramente e naturalmente, mentre il nesso del meccanismo complessivo lo costringe ad operare con la regolarità della parte d’una macchina Il signor Wm. Marshall, general manager d’una manifattura di vetrerie, risponde molto giustamente alla domanda d’un commissario inquirente sul come si mantenesse viva la laboriosità fra i ragazzi ch’egli impiegava: « Non possono trascurare il loro lavoro: appena abbiano incominciato a lavorare non possono non continuare a lavorare; sono proprio come parti di una macchina » (Child. Empl. Comm., Fourth Report, 1865, p. 247)..
Poiché le diverse funzioni dell’operaio complessivo sono più o meno semplici o composte, basse o elevate, i suoi organi, cioè le forze-lavoro individuali, richiedono diversissimi gradi di preparazione ed hanno quindi diversissimi valori. Perciò la manifattura sviluppa una gerarchia delle forze-lavoro alla quale corrisponde una scala dei salari. Se da una parte l’operaio individuale viene appropriato e annesso per la vita ad una funzione unilaterale, anche le diverse operazioni del lavoro vengono adattate a quella gerarchia di abilità naturali ed acquisite Il dott. Ure, nella sua apoteosi della grande industria, percepisce i caratteri peculiari della manifattura più nettamente degli economisti precedenti che non avevano il suo interesse polemico e perfino dei suoi contemporanei, per esempio il Babbage, che certo gli è superiore come matematico e meccanico, ma tuttavia concepisce la grande industria veramente solo dal punto di vista della manifattura. L’Ure osserva: «L’appropriamento degli operai a ciascuna operazione particolare costituisce la sostanza della distribuzione dei lavori». D’altra parte designa tale distribuzione come «adattamento dei lavori alle differenti capacità individuali » e definisce infine tutto il sistema manifatturiero come «un sistema di graduazioni secondo il grado dell’abilità », «una divisione del lavoro secondo i diversi gradi di abilità ecc. » (URE, Philosophy of Manufactures, pp. 19-22, passim). . Però ogni processo produttivo esige certe manipolazioni semplici, delle quali è capace ogni uomo, così com’è per natura. Anche queste vengono ora sciolte dalla loro fluida connessione coi momenti più sostanziosi dell’attività e vengono ossificate in funzioni esclusive.
Quindi la manifattura genera in ogni mestiere che afferra una classe di cosiddetti operai senza abilità, la quale era rigorosamente esclusa nella conduzione a tipo artigianale. Certo, la manifattura sviluppa fino al virtuosismo, a spese della capacità lavorativa complessiva, la specializzazione resa del tutto unilaterale; ma comincia anche a fare una specializzazione della mancanza di ogni evoluzione. Accanto alla graduazione gerarchica, ecco la separazione semplice degli operai in abili e non abili. Per questi ultimi, le spese di tirocinio scompaiono del tutto; per i primi esse diminuiscono, in confronto dell’artigiano, in conseguenza della semplificazione della funzione. In entrambi i casi diminuisce il valore della forza-lavoro «Ogni artigiano che.., veniva messo in istato di perfezionarsi con la pratica in una operazione singola.., diventava un operaio più a buon mercato » (URE, Philosophy cit., p. 19). . Si hanno eccezioni in quanto la scomposizione del processo di lavoro genera nuove funzioni comprensive che nella conduzione artigianale non si avevano o non si avevano nello stesso volume. La svalorizzazione relativa della forza-lavoro, che deriva dalla scomparsa o dalla diminuzione delle spese di tirocinio, implica immediatamente una più alta valorizzazione del capitale, poiché tutto ciò che abbrevia il tempo necessario alla riproduzione della forza-lavoro, prolunga il dominio del plus-lavoro.
4. DIVISIONE DEL LAVORO NELLA MANIFATTURA E DIVISIONE DEL LAVORO NELLA SOCIETÀ.
Abbiamo considerato prima l’origine della manifattura; poi i suoi elementi semplici, cioè l’operaio parziale e il suo strumento; infine il suo meccanismo complessivo. Ora toccheremo in breve il rapporto fra la divisione manifatturiera del lavoro e la divisione sociale del lavoro, la quale costituisce la base generale di ogni produzione di merci.
Se si tiene presente soltanto il lavoro per sé preso, si può designare la separazione della produzione sociale nei suoi grandi generi, come agricoltura, industria, ecc., come divisione del lavoro in generale; la ripartizione di questi generi di produzione in specie e sottospecie, come divisione del lavoro in particolare; e infine la divisione del lavoro entro una officina come divisione del lavoro in dettaglio La divisione del lavoro parte dalla separazione delle professioni meno somiglianti giungendo progressivamente fino a quella divisione nella quale più operai si dividono la confezione d’un solo identico prodotto, come nella manifattura (STORCH, Cours d’Économie Politique, ed. di Parigi vol. I, p. 173). « Presso i popoli giunti a un certo grado di civiltà incontriamo tre generi di divisione del lavoro: la prima, che chiamiamo generale, introduce la divisione dei produttori in agricoltori, manifatturieri e commercianti, e corrisponde alle tre branche principali del lavoro nazionale; la seconda, che si potrebbe chiamare particolare, è la divisione di ogni branca di lavoro in specie…; finalmente la terza divisione del lavoro, che si potrebbe chiamare divisione dell’operazione del lavoro ossia divisione del lavoro in senso proprio, è quella che si determina nei singoli mestieri e nelle singole professioni… e si afferma nella maggior parte delle manifatture e delle officine (SKARBEK, Théorie des Richesses Sociales, Parigi, 1829, t. I, pp. 84-85).
Ma che cos’è che produce il nesso fra i lavori indipendenti dell’allevatore di bestiame, del conciatore, del calzolaio? L’esistenza dei loro rispettivi prodotti come merci. E invece che cos’è che caratterizza la divisione del lavoro di tipo manifatturiero? Che l’operaio parziale non produce nessuna merce «Ma non c’è più nessuna cosa che si possa designare come retribuzione naturale del lavoro d’un singolo. Ogni operaio produce solo una parte di un tutto, e poiché ogni parte per se stessa non ha valore od utilità, non c’è nulla che l’operaio possa prendere dicendo: questo è il mio prodotto, e voglio conservarlo per me » (Labour defended against the claims of Capital, Londra, 1825, p. 25). Autore di questo eccellente scritto è il già citato TH. HODGSKIN.
È solo il prodotto comune degli operai parziali che si trasforma in merce. La divisione del lavoro all’interno della società è mediata dalla compra e vendita dei prodotti di differenti branche di lavoro; la connessione fra i lavori parziali nella manifattura è mediata dalla vendita di differenti forze-lavoro allo stesso capitalista, il quale le impiega come forza-lavoro combinata. La divisione del lavoro di tipo manifatturiero presuppone la concentrazione dei mezzi di produzione in mano ad un solo capitalista, la divisione sociale del lavoro presuppone la dispersione dei mezzi di produzione fra molti produttori di merci indipendenti l’uno dall’altro.
Quindi quella stessa coscienza borghese che celebra la divisione del lavoro a tipo manifatturiero, l’annessione a vita dell’operaio ad una operazione di dettaglio e la subordinazione incondizionata dell’operaio parziale al capitale, esaltandole come una organizzazione del lavoro che ne aumenta la forza produttiva, denuncia con altrettanto clamore ogni consapevole controllo e regolamento sociale del processo sociale di produzione, chiamandolo intromissione negli inviolabili diritti della proprietà, nella libertà e nell’autodeterminantesi « genialità » del capitalista individuale. È assai caratteristico che gli entusiasti apologeti del sistema delle fabbriche, polemizzando contro ogni organizzazione generale del lavoro sociale, non sappiano dire niente di peggio, fuorché: tale organizzazione trasformerebbe in una fabbrica tutta la società.
L’anarchia della divisione sociale del lavoro e il dispotismo della divisione del lavoro a tipo manifatturiero sono portato l’una dell’altro nella società del modo capitalistico di produzione; invece forme di società precedenti ad essa, nelle quali la separazione dei mestieri prima si è sviluppata spontaneamente, poi s’è cristallizzata e infine è stata consolidata legislativamente, offrono da una parte il quadro d’una organizzazione del lavoro sociale secondo un piano, e autoritaria, ma d’altra parte escludono completamente la divisione del lavoro entro l’officina, oppure la sviluppano solo su scala infima o solo sporadicamente e casualmente» « Si può… stabilire, come principio generale, che, quanto meno l’autorità presiede alla divisione del lavoro nell’interno della società, tanto più la divisione del lavoro si sviluppa nell’interno della fabbrica, e vi è sottoposta all’autorità di uno solo. Così l’autorità nella fabbrica e quella nella società, in rapporto alla divisione del lavoro, sono in ragione inversa l’una dell’altra » (KARL MARX, Misère de la Philosophie ecc., pp. 130-131 ).
Per esempio, quelle piccole comunità indiane antichissime, che in parte continuano ancora ad esistere, poggiano sul possesso in comune del suolo, sul collegamento diretto fra agricoltura e mestiere artigiano e su una divisione fissa del lavoro, che serve come piano e modello dato quando si formano nuove comunità. Esse costituiscono complessi produttivi autosufficienti il cui territorio produttivo varia da cento acri a qualche migliaio. La massa principale dei prodotti viene prodotta per il fabbisogno immediato della comunità stessa, non come merce; quindi la produzione stessa è indipendente dalla divisione del lavoro mediata dallo scambio delle merci nel complesso generale della società indiana. Solo l’eccedenza dei prodotti si trasforma in merce e in parte anche questo avviene, a sua volta, soltanto nelle mani dello Stato, al quale da tempi immemorabili affluisce una quantità determinata, come censo in natura. Le differenti parti dell’India hanno differenti forme di comunità. Nella forma più semplice, la comunità coltiva la terra in comune e ne di vide i prodotti fra i membri della comunità stessa; e ogni famiglia cura la filatura e la tessitura ecc. come mestiere domestico secondario. Accanto a questa massa occupata omogeneamente troviamo « l’abitante principale », che è giudice, poliziotto ed esattore in una sola persona; il contabile, che tiene i conti del lavoro agricolo e segna nel catasto e registra tutto quel che riguarda tale attività; un terzo funzionario che persegue i delinquenti e protegge i viaggiatori forestieri e li accompagna da un villaggio all’altro; l’uomo del confine, che fa la guardia ai confini della comunità contro le comunità vicine; l’ispettore delle acque, che distribuisce l’acqua dai serbatoi comuni per fini agricoli; il bramino, che compie le funzioni del culto religioso; il maestro, che insegna ai bambini della comunità a leggere e a scrivere, sulla sabbia; il bramino del calendario, un astrologo che indica i tempi della semina e del raccolto e le ore fauste e infauste per ogni parti colare lavoro agricolo; il fabbro e il falegname, che fanno e riparano tutti gli strumenti agricoli; il vasaio, che fa tutto il vasellame per il villaggio; il barbiere, il lavandaio per la pulitura delle vesti; l’argentiere e qua e là il poeta, che in alcune comunità sostituisce l’argentiere e in altre il maestro. Questa dozzina di persone vien mantenuta a spese di tutta la comunità. Se la popolazione cresce, viene impiantata in terreno vergine una nuova comunità che segue il modello dell’antica. Il meccanismo della comunità ci mostra che c’è una divisione del lavoro secondo un piano; ma vi sarebbe impossibile una divisione del lavoro di tipo manifatturiero, perché il mercato del fabbro, del falegname, ecc., rimane inalterato, e tutt’al più, a seconda delle differenze di grandezza dei villaggi, ci sono due o tre fabbri, vasai, ecc. invece di uno Lieut. Col. MARK WILKS, Historical Sketches of the South of India, Londra, l810_17, vol. I, pp. 118—20. In GEORGE CAMPBELL, Modern India, Londra, 1852, Si trova una buona rassegna delle differenti forme delle comunità indiane.. «Qui la legge che regola la divisione del lavoro della comunità opera con l’inviolabile autorità d’una legge naturale, e ogni particolare artigiano, come il fabbro, ecc., compie tutte le operazioni pertinenti alla sua arte secondo i modi tramandati, ma indipendentemente e senza riconoscere nessuna qualsiasi autorità entro la sua officina. L’organismo produttivo semplice di queste comunità autosufficienti che si riproducono costantemente nella stessa forma e, quando per caso sono distrutte, si ricostruiscono nello stesso luogo e con lo stesso nome « In questa semplice forma ..sono vissuti da tempi immemorabili gli abitanti del paese. I confini dei villaggi sono stati alterati solo raramente; e benchè i villaggi stessi abbiano talvolta sofferto gravi danni o siano stati addirittura devastati da guerre, carestie, epidemie, hanno conservato lo stesso nome, gli stessi confini, gli stessi interessi e perfino le stesse famiglie attraverso i secoli. Gli abitanti non si preoccuppano per la caduta o la divisione dei regni; finchè il villaggio rimane intero, non si preoccupano di sapere quale potenza sarà padrona, o a quale sovrano sarà devoluto: la sua economia interna rimane immutata » (Th. STAMFORD RAFFLES, late Lieut. Gov. of Java, The History of Java, Londra, 1817, vol. I, p. 285)., ci dà la chiave per capire il segreto dell’immutabilità delle società asiatiche, che fa un contrasto così forte con la costante dissoluzione e il costante riformarsi degli Stati asiatici e con l’incessante cambiare delle dinastie. La struttura degli elementi fondamentali economici della società non viene toccata dalle tempeste della regione delle nubi della politica.
Le leggi delle corporazioni, come abbiamo osservato già prima, impedivano sistematicamente, limitando all’estremo il numero dei garzoni che potevano essere impiegati da un singolo maestro artigiano, che questi si trasformasse in capitalista. Così pure, il maestro artigiano poteva impiegare garzoni soltanto ed esclusivamente nell’arte nella quale egli stesso era maestro. La corporazione respingeva gelosamente ogni usurpazione da parte del capitale mercantile, l’unica forma libera di capitale che le si contrapponesse. Il mercante poteva comprare tutte le merci; ma non poteva comprare il lavoro come merce. Era tollerato soltanto come Verleger dei prodotti (Colui che acquista i prodotti dagli artigiani, commissionandoli loro, e li rivende sul mercato; non c’è equivalente italiano o francese). Se circostanze esterne provocavano una divisione progressiva del lavoro, le corpo razioni esistenti si scindevano in sottospecie oppure nuove corporazioni venivano a porsi accanto alle antiche, ma tuttavia senza che diversi mestieri venissero raccolti in una sola officina. Dunque l’organizzazione corporativa, per quanto la separazione, l’isolamento e il perfezionamento dei mestieri che le sono propri siano fra le condizioni materiali d’esistenza del periodo manifatturiero, escludeva la divisione del lavoro di tipo manifatturiero. Nel complesso e in genere, l’operaio e i suoi mezzi di produzione rimanevano legati fra di loro come la chiocciola è unita al suo guscio; così veniva a mancare il primo fondamento della manifattura, cioè la indipendenza acquisita dai mezzi di produzione, come capitale, nei confronti dell’operaio.
Mentre la divisione del lavoro nel complesso di una società, mediata o meno dallo scambio delle merci, appartiene alle formazioni economiche della società più differenti fra loro, la divisione manifatturiera del lavoro è creazione del tutto specifica del modo di produzione capitalistico.
5. IL CARATTERE CAPITALISTICO DELLA MANIFATTURA
La presenza d’un certo numero di operai sotto il comando dello stesso capitale costituisce il punto di partenza naturale tanto della cooperazione in generale, quanto della manifattura. Viceversa, la divisione manifatturiera del lavoro fa diventare necessità tecnica l’aumento del numero di operai che viene adoprato. Ora è la divisione del lavoro esistente a prescrivere il minimo di operai che il singolo capitalista deve adoprare. D’altra parte, i vantaggi d’una divisione ulteriore hanno una condizione: l’ulteriore aumento del numero degli operai, che ormai può avvenire solo per multipli. Ma con la parte costitutiva variabile del capitale deve aumentare anche quella costante; oltre il volume delle condizioni comuni di produzione, come edifici, fornaci, ecc. deve crescere in ispecie, e molto più rapidamente del numero degli operai, la materia prima. La massa di questa materia prima che vien consumata in un tempo dato da una quantità data di lavoro aumenta nella stessa proporzione dell’aumento della forza produttiva del lavoro in conseguenza della sua divisione. Dunque: aumento del volume minimo di capitale nelle mani del singolo capitalista, ossia aumento della trasformazione in capitale dei mezzi di sussistenza e dei mezzi di produzione sociali, è una legge che scaturisce dal carattere tecnico della manifattura « Non basta che il capitale necessario alla suddivisione dei mestieri » (bisognerebbe dire: i mezzi di sussistenza e di produzione a ciò necessari) « esista già nella società è necessario inoltre che sia accumulato nelle mani degli imprenditori in proporzioni sufficientemente considerevoli per render loro possibile il lavoro su grande scala… A misura che la divisione aumenta, l’occupazione costante d’uno stesso numero di operai esige un capitale sempre più considerevole in strumenti, materie prime, ecc. » (STORCH, Cours d’Èconomie Politique, ed. di Parigi, [1823] Vol. I, pp. 250-251). « La concentrazione degli strumenti di produzione e la divisione del lavoro sono inseparabili l’una dall’altra quanto lo sono, nel regime politico, la concentrazione dei poteri pubblici e la divisione degli interessi privati » (KARL MARX , Misère de la Philosophie, p. 134 )..
Come nella cooperazione semplice, anche nella manifattura il corpo lavorativo in funzione è una forma d’esistenza del capitale. Il meccanismo sociale di produzione composto di molti operai parziali individuali appartiene al capitalista. La forza produttiva che deriva dalla combinazione dei lavori appare quindi come forza produttiva del capitale. La manifattura in senso proprio non solo assoggetta l’operaio, prima indipendente, al comando e alla disciplina del capitale, ma crea inoltre una graduazione gerarchica fra gli operai stessi. Mentre la cooperazione semplice lascia inalterato nel complesso il modo di lavorare del singolo, la manifattura rivoluziona questo modo di lavorare da cima a fondo, e prende alla radice la forza-lavoro individuale. Storpia l’operaio e ne fa una mostruosità favorendone, come in una serra, la abilità di dettaglio, mediante la soppressione d’un mondo intero d’impulsi e di disposizioni produttive, allo stesso modo che negli Stati del La Plata si macella una bestia intera per la pelle o per il grasso. Non solo i particolari lavori parziali vengono suddivisi fra diversi individui, ma l’individuo stesso vien diviso, vien trasformato in motore automatico d’un lavoro parziale Dugald Stewart chiama gli operai delle manifatture « automi viventi.., che vengono adoprati per lavori parziali a (Works, ed. da Sir W. Hamilton, Edimburgo, vol. VIII, 1855, Lectures ecc., p. 318)., realizzandosi così l’insulsa favola di Menenio Agrippa che rappresenta un uomo come null’altro che frammento del suo stesso corpo Di fatto, fra i coralli, ogni individuo costituisce lo stomaco di tutto il gruppo. Ma gli apporta materia nutritiva, invece di togliergliene come faceva il patrizio romano.. Originariamente l’operaio vende la sua forza-lavoro al Capitalista perchè gli mancano i mezzi materiali per la produzione d’una merce: ma ora la sua stessa forza-lavoro individuale vien meno al suo compito quando non venga venduta al capitale; essa funziona ormai soltanto in un nesso che esiste soltanto dopo la sua vendita, nell’officina del capitalista. L’operaio manifatturiero, reso incapace per la sua stessa costituzione naturale a fare qualcosa d’indipendente, sviluppa una attività produttiva ormai soltanto come accessorio dell’officina del capitalista «L’operaio che porta nel suo braccio un mestiere intero può andare dappertutto ad esercitare la sua industria e trovare dei mezzi di sussistenza; l’altro (quello della manifattura) è soltanto un accessorio che, separato dai suoi confratelli, non ha più nè capacità nè indipendenza, e che si trova costretto ad accettare la legge che si ritiene conveniente imporgli » (STORCH, Cours d’Économie Politique, ed. di Pietroburgo, 1815, vol. I, p. 204).. Come sulla fronte del popolo eletto stava scritto ch’esso era proprietà di Geova, così la divisione del lavoro imprime all’operaio manifatturiero un marchio che lo bolla a fuoco come proprietà del capitale.
Mentre la divisione del lavoro nel complesso di una società, mediata o meno dallo scambio delle merci, appartiene alle formazioni economiche della società più differenti fra loro, la divisione manifatturiera del lavoro è creazione del tutto specifica del modo di produzione capitalistico.
Le cognizioni, l’intelligenza e la volontà che il contadino o il mastro artigiano indipendente sviluppano, anche se su piccola scala, allo stesso modo che il selvaggio esercita come astuzia personale tutta l’arte della guerra, ormai sono richieste soltanto per il complesso dell’officina. Le potenze intellettuali della produzione allargano la loro scala da una parte perchè scompaiono da molte parti. Quel che gli operai parziali perdono si concentra nel capitale, di contro a loro A. FERGUSON, History of Clvil Society, p. 281: «Il primo può aver guadagnato quello che l’altro ha perduto».,
Questa contrapposizione delle potenze intellettuali del processo di produzione agli operai, come proprietà non loro e come potere che li domina, è un prodotto della divisione del lavoro di tipo manifatturiero. Questo processo di scissione comincia nella cooperazione semplice, dove il capitalista rappresenta l’unità e la volontà del corpo lavorativo sociale di fronte ai singoli operai; si sviluppa nella manifattura, che mutua l’operaio facendone un operaio parziale; si completa nella grande industria che separa la scienza, facendone una potenza produttiva indipendente, dal lavoro e la costringe a entrare al servizio del capitale «L’uomo di scienza e l’operaio produttivo sono separati da ampio tratto, e la scienza, invece di aumentare, in mano all’operaio, la sua forza produttiva a suo favore, gli si è quasi dappertutto contrapposta… La conoscenza diviene uno strumento che può esser separato dal lavoro e contrapposto ad esso » (W. THOMPSON. A Inquiry into the Principles of the Distribution of Wealth, Londra, 1824, p. 274)..
Nella manifattura l’arricchimento di forza produttiva sociale da parte dell’operaio complessivo e quindi del capitale, è la conseguenza dell’impoverimento delle forze produttive dell’operaio. «L’ignoranza è madre tanto dell’industria quanto della superstizione. La riflessione e la fantasia sono soggette ad errare; ma un’abitudine di muovere la mano o il piede in certo modo è indipendente dall’una e dall’altra. Quindi le manifatture prosperano di più dove meno si consulta la mente, di modo che la officina può esser considerata come una macchina le cui parti sono uomini» A. FERGUSON, History of Civil Society, p. 280.. Di fatto, attorno alla metà del secolo XVIII, alcune manifatture adopravano di preferenza per certe operazioni semplici, che però costituivano segreti di fabbrica, proprio dei semiidioti J. D. TUCKETT, A History of the Past and Present State of the Lab Population, Londra, 1846, vol. I, p. 148. .
«Le capacità mentali della grande maggioranza degli uomini », scrive A. Smith, «sono formati necessariamente dalle loro operazioni quotidiane. L’uomo che spende tutta la vita eseguendo poche operazioni semplici.., non ha nessuna occasione di esercitare le sue capacità mentali… Generalmente, diventa stupido e ignorante quanto è possibile a creatura umana». E dopo aver descritto la ottusità dell’operaio parziale lo Smith continua: «L’uniformità della sua vita stazionaria corrompe naturalmente anche il coraggio della sua mente… Corrompe perfino l’energia del suo corpo e lo rende incapace di applicare la sua forza con slancio e con perseveranza al di fuori del l’occupazione particolare per la quale è stato allevato. Così la destrezza dell’operaio nel suo particolare lavoro sembra acquistata a spese delle sue virtù intellettuali, sociali e militari; ma questo è lo stato al quale devono necessariamente ridursi i poveri che lavorano (the labiouring poor), cioè la gran massa del popolo, in ogni società industriale e incivilita» A. SMITH, Wealth of Nations, libro V, cap. I, art. 11.
La cooperazione fondata sulla divisione del lavoro, ossia la manifattura, è alla sua origine una formazione spontanea e naturale. Appena ha raggiunta una certa consistenza e una certa ampiezza di esistenza, diventa la forma consapevole, deliberata secondo un piano e sistematica, del modo di produzione capitalistico. La storia della manifattura vera e propria mostra come la divisione del lavoro che le è peculiare, in un primo momento raggiunga sperimentalmente le forme confacenti al suo scopo, quasi alle spalle delle persone che agiscono, ma poi tenda a tener fermo tradizionalmente alla forma ormai trovata, come vi tendeva il mestiere delle corporazioni; e in alcuni casi, vi tiene fermo per secoli interi.
Mediante l’analisi della attività artigiana, la specializzazione degli strumenti di lavoro, la formazione degli operai parziali, il loro raggruppamento e la loro combinazione in un meccanismo complessivo, la divisione manifatturiera del lavoro crea la articolazione qualitativa e la proporzionalità quantitativa dei processi sociali di produzione, crea quindi una determinata organizzazione del lavoro sociale, sviluppando così una nuova forza produttiva sociale del lavoro. Come forma specificamente capitalistica del processo di produzione sociale, — e sulle basi date non poteva svilupparsi altro che nella forma capitalistica, — la divisione manifatturiera del lavoro è soltanto un metodo particolare per generare plusvalore relativo, ossia per aumentare a spese degli operai l’autovalorizzazione del capitale, quel che si suoi chiamare ricchezza sociale, «Wealth of Nations», ecc. Essa non solo sviluppa la forza produttiva sociale del lavoro a favore del capitalista invece che a favore dell’operaio ma la sviluppa mediante lo storpiamento dell’operaio individuale. Produce nuove condizioni di dominio del capitale sul lavoro. Se dunque da una parte essa si presenta come progresso storico e momento necessario di sviluppo nel processo della formazione economica della società, dall’altra parte si presenta come un mezzo di sfruttamento incivilito e raffinato.