Chi mai dietro la svastica/LA FUNZIONE STORICA DELLE CLASSI MEDIE E DELL’INTELLIGENZA
Premessa: riproponiamo due vecchi testi del 1960 e del 1925, due note redazionali dedicate al primo dei due, allo scopo di ribadire una verità elementare: il capitalismo produce impoverimento progressivo in larghi strati sociali proletari e, dettaglio non trascurabile, la proletarizzazione progressiva del ceto medio.
Il ceto medio, nel tentativo di resistere alla caduta del proprio status socio-economico, prova a scaricare sulle spalle dei proletari il quantum di miseria che gli spetterebbe se rimanesse inerte e acquiescente nei confronti della proletarizzazione incombente.
I precedenti storici che confermano le nostre analisi sono presenti nella stessa genealogia dei regimi totalitari del ventesimo secolo.
I movimenti sociali protestatari del ceto medio sono dunque prodotti a getto continuo dalle stesse leggi economiche del capitalismo, quindi non dovrebbe essere oggetto di meraviglia osservarne la incessante proliferazione anche ai nostri giorni, sebbene sotto varie forme e parole d’ordine.
E tuttavia questo non accade, di fronte a fenomeni sociali, in ultima analisi prevedibili sia in termini di genesi che di probabile sviluppo ed epilogo, ci sono sempre coloro che fraintendono il vero significato socio-politico della resistenza (del ceto medio) alla proletarizzazione.
Il fraintendimento molto spesso sorge dal puerile bisogno di registrare una qualche attività di protesta nel corpo sociale, indipendentemente dalla sua natura sociopolitica. Si tratta sempre della solita peste attivistica.
Sulla base di questa peste attivistica alcuni soggetti ”marxisti’ hanno sostenuto senza remore e dubbi la natura progressiva delle lotte nazionali/localistiche, delle lotte religiose, delle lotte praticate dai movimenti del ceto medio. Dimostrando di non avere appreso nulla dalle lezioni del passato, oltretutto contenute nei testi canonici marxisti.
Nel corso del tempo abbiamo criticato un ampio ventaglio di analisi prive di realismo, sia in merito al tema in oggetto, sia in merito ad altre questioni (sempre attraverso il supporto dei testi canonici marxisti, in quanto memoria storica fondata sull’esperienza di vita).
L’articolo del 1960, insieme al testo della conferenza del 1925, sono due testi canonici, molto utili per fare chiarezza nella confusione di voci che sorgono sempre intorno alle apparenti ‘novità’ delle nostre giornate capitalistiche. In modo particolare il testo della conferenza del 1925 è un vero e proprio trattato di sociologia politica, indispensabile per chiarire una volta per sempre i contorni reali della questione delle mezze classi.
Proponiamo tre anticipazioni del percorso di lettura proposto, a nostro avviso politicamente importanti.
1) tempi moderni ‘Trionfa ovunque nelle insidie demagogiche – e non diversa è la cosa nella struttura russa – la middle class che in Inghilterra, campo sperimentale del marxismo, significava due secoli fa proprio borghesia capitalistica, allora rettamente intesa come classe media tra la sconfitta nobiltà feudale e la nascente classe operaia. Ma mentre la middle class del Settecento è dovunque nell’Ottocento divenuta la aperta classe dominante sociale, ossia la classe estrema, i romanzati ceti medi delle società del Novecento sono melma umana senza storia presente e futura’.
2) Capitalismo e struttura di classe ”Due sono le classi potenzialmente bellicose nella guerra sociale: la capitalista e la salariata. Tra di esse non vi sono che strati affollati ma amorfi condannati a servire altrui. Da qui la fangosità delle soluzioni maggioritarie. Pacifisti per loro natura, quei ceti non possono combattere che come mercenari. Il capitale li può comprare, ed espressione di questo mercenarismo è il fascismo, stimmata che caratterizza la fase contemporanea. Il fascismo, espressione della dittatura dell’alto capitale, non sarebbe potuto nascere, colla sua bandita di illusioni su un compito autonomo della classe media (che di ciò si pasce negli squadrismi servili come nel teppismo della delusa gioventù del dopoguerra) senza la preparazione gigantesca del secolare inganno democratico e popolaresco, tendente all’interclassismo di principio e quindi ingannevolmente esaltante i ceti medi come vano cemento tra le due vitali avverse classi storiche. La democrazia parlamentare e popolare fu il terreno di coltura del microbo fascista”.
3) Meglio soli… ” infine, dall’esame dei partiti che ideologicamente emanano da questi gruppi, emana la tesi conclusiva della autonomia della funzione del proletariato, senza lasciarsi fuorviare dalla teoria del bersaglio comune, e dall’invito a partecipare a blocchi con elementi che domani saranno tutti uniti contro il proletariato stesso nella difesa dell’interesse borghese del capitalismo. Noi abbiamo una funzione originale che si esplicherà nel suo massimo il giorno in cui finalmente sarà chiaro che queste classi cuscinetto, queste classi intermedie, non hanno diritto di rappresentare nulla nella storia. Ecco perché noi, dobbiamo affermare che ci sarà un momento in cui il proletariato dovrà fare da sé, un momento in cui sarà solo contro tutti, un momento in cui non avrà alleati, ma si troverà davanti ad un fronte unico di nemici”.
Alcune righe del filosofo Bergson cascano a fagiolo per dipingere il silenzio imbarazzato degli entusiastici ammiratori delle proteste del ceto medio: ‘‘per quanto lontana sembri spingersi la fantasia comica, la realtà a volte si assume il compito di superarla. Un filosofo contemporaneo, argomentatore a oltranza, a cui venne fatto notare che i suoi ragionamenti dedotti in maniera irreprensibile avevano l’esperienza contro di loro, mise fine alla discussione con queste parole: L’esperienza ha torto”.
Il testo ‘Chi mai dietro la svastica?’ ci aiuta a comprendere la funzione storica reazionaria svolta dalle classi medie (in determinati periodi del conflitto di classe). Questo testo è stato già pubblicato sul sito, tuttavia lo ripresentiamo come preludio ad un successivo articolo sul ruolo politico del ceto medio.
Sul ceto medio esiste una vasta quantità di studi sociologici recenti e meno recenti, di vario orientamento dottrinario. Lo scopo della nostra analisi non è, ovviamente, di tipo accademico, ma politico, in quanto ci interessa ribadire, con l’ausilio di dati statistici recenti, le stesse concezioni di fondo dell’articolo del 1960: dietro le forme mutevoli del potere politico, nell’epoca contemporanea si cela sempre la classe sociale borghese, e la sua fedele truppa ausiliaria; la ‘middle class’ , il ceto medio, chimerico alleato delle politiche opportuniste dei fronti democratici interclassisti. La classe sociale è definibile come un gruppo che occupa un ruolo o una posizione ben precisa all’interno di determinati rapporti di produzione. Il proletariato, all’interno dei rapporti di produzione capitalistici, vive una condizione di alienazione dai mezzi di produzione e dal prodotto realizzato tramite il loro uso. Alcuni ‘innovatori’ impenitenti della teoria marxista hanno spesso cercato di dimostrare, mal masticando alcune righe dello stesso Marx, che nell’attuale fase capitalistica le classi sociali sono da ritenersi superate. A tal proposito viene spesso utilizzata quella parte del testo ‘Il Capitale’ in cui si definisce l’imprenditore un semplice funzionario del capitale. In questo caso il fraintendimento riguarda la mancata comprensione dell’esistenza di un rapporto determinato fra il capitale aziendale (costante e variabile, cioè morto e vivo), e l’attività di direzione e gestione di esso da parte di un amministratore intercambiabile e sostituibile. I possessori delle cedole (obbligazionisti) o delle azioni di una S.P.A, in quanto interessati agli introiti derivanti dagli interessi sulle cedole e dai dividendi sulle azioni, possono approvare o disapprovare la gestione dell’amministratore di turno, e quindi influire sulla sua permanenza alla guida dell’azienda. Gli azionisti influiscono in modo diretto, attraverso il diritto di voto esercitato in occasione delle assemblee periodiche societarie. Il meccanismo GESTIONALE-AMMINISTRATIVO tipico delle imprese di capitali aventi la forma giuridica di S.P.A, diversamente da quello delle società di persone e delle imprese individuali, ci permette di ipotizzare la scomparsa progressiva del borghese imprenditore e proprietario del capitale costante e variabile che forma l’azienda. Questa scomparsa, tuttavia, riguarda la figura dell’imprenditore-proprietario (che lascia progressivamente spazio alla figura dell’amministratore delegato, operante in nome dell’azionariato), e non implica affatto l’estinzione della borghesia, e soprattutto della sua posizione (di potere) all’interno dei rapporti di produzione capitalistici ( posizione che implica innanzitutto la possibilità di appropriazione di un plus lavoro nel processo produttivo capitalistico). Da un punto di vista economico-legale l’azionista, seppure anonimo, è comunque proprietario di una parte del capitale sociale della S.P.A, dunque costui è un capitalista a tutti gli effetti, il suo profitto ora assume il nome di dividendo. L’entità dei dividendi spettanti agli azionisti è comunque collegata al risultato economico della gestione aziendale annuale (utile o perdita ): dunque ai cicli periodici dell’economia capitalistica e alla bravura imprenditoriale dell’amministratore delegato e del consiglio di amministrazione votati dall’assemblea degli azionisti. Dunque, ben lungi dallo scomparire, la classe borghese metamorfizza solo la forma esteriore del suo parassitismo economico (dividendi azionari ai soci e interessi sulle cedole agli obbligazionisti – ottenuti comunque attraverso la ripartizione di un utile – al posto del tradizionale utile spettante al solo proprietario-imprenditore individuale ). La brama di plusvalore della borghesia si nasconde, sul piano politico sovrastrutturale, sia dietro la svastica che dietro la finzione democratica. La sostanza del dominio di classe non cambia affatto col mutare dell’abito politico di governo. Entrambe le forme politiche si basano sulla sinergia fra consenso e repressione, poiché ogni potere politico deve sapere ricoprire il pugno di ferro con un ingannevole guanto di velluto (Machiavelli) e mettere in pratica bene il motto latino ‘divide et impera’. Il cretinismo democratico finge di ignorare questi sgradevoli aspetti dell’ars politica. Mentre il cretinismo degli ammiratori dei movimenti di protesta del ceto medio, d’altronde, ignora perfino la funzione storica di supporto al fascismo da parte di questi ceti. Una funzione collegata al tentativo di spostare, con i metodi risoluti del fascismo, il costo della miseria crescente capitalistica sulle sole spalle del proletariato e quindi di rallentare i processi di proletarizzazione incombenti sul ceto medio.
Chi mai dietro la svastica?
Il cretinismo democratico
Questa società che infradicia nel più sfatto senilismo e puzza di putrefatto tenta drogare la sua decadenza nella mania di fatti nuovi.
Due oggi giganteggiano, nella bolsa opinione popolare fabbricata in serie. Uno è la distensione ruffiana tra americani e russi, saturnale della imbecillità pacifista, l’altro è un nuovo quanto decrepito fantasma, il fascismo o nazismo, che terrorizza dai muri graffiati di croci uncinate e domani forse di fasci littori. In Germania è accusato il governo di Adenauer, in Italia domani quello di Segni; e si difendono con il dire che i morti non ritornano. Dalla parte opposta, nella stampa dei traditori della rivoluzione proletaria, si è felici che il morto risusciti, e si guazza nella euforia di ridare vita alla ignobile crociata antitedesca. Come rimedio si prospetta quello di sempre, una contro-novità, una nuova maggioranza parlamentare. Il fascismo, se vuole, farà lo stesso buon affare politico di allora. È miglior gioco imbrattare un muro in barba alla polizia, che risponde con mosse legali e costituzionali.
La crociata è quella solita e maledetta; la campagna di odio nazionale che ogni volta ha segnato la rovina del movimento della classe operaia. Nel 1914 l’incanata contro Guglielmone, nel 1940 contro Hitler (con scoppio ritardato di Stalin), è oggi, una volta ancora sullo sfondo dei giri di valzer e di alcova tra russi e americani, contro l’ondata di disegni a carbonella. Lo scopo è sempre quello, castrare le energie rivoluzionarie di classe col falsificare il loro bersaglio storico: il capitalismo borghese e democratico.
La nostra posizione storica (per scarso che il nostro seguito sia) ci permette di non stupire né degli amorazzi distensivi né del morto che risuscita. Fino dalla guerra non abbiamo creduto alla frottola che la democrazia avesse sconfitto il fascismo, né a quella che i suoi pretesi vincitori di Occidente ed Oriente si sarebbero scontrati, su quel tiepido cadavere, in armi.
I fatti reali, ossia l’affermazione del metodo fascista nella società borghese di oggi, e la concordanza nelle omelie pacifiste da tutte le bande, hanno comune origine e spiegazione nel generale corteggiamento delle classi medie, svolto abilmente dai poteri del grande capitalismo, e sudiciamente dai partiti che truffano il nome di comunisti e si richiamano a Mosca.
La guerra è stata perduta dall’antifascismo proprio in quanto da tutte le parti, e soprattutto su ordine dello stato di polizia del Cremlino, la menzogna democratica viene corteggiata nella sua forma più funesta: la sollecitazione dei ceti sociali intermedi, a cui i grandi Stati mostruosi super-industriali si dedicano a gara, emulativa, si intende. Quale altra fu la tentata formula storico-sociale del fascismo?
Dall’America si vuole mascherare la più atroce dittatura del grande capitale colla favola delle azioni distribuite tra milioni di cittadini nella pretesa moderna forma di capitalismo di popolo, per negare la esistenza di una antitesi tra classe ricca e povera. Dalla Russia si incoraggiano i partiti dipendenti a porre molto al di sopra della tutela degli interessi proletari quella dei ceti piccolo borghesi e medio-borghesi. Trionfa ovunque nelle insidie demagogiche – e non diversa è la cosa nella struttura russa – la middle class che in Inghilterra, campo sperimentale del marxismo, significava due secoli fa proprio borghesia capitalistica, allora rettamente intesa come classe media tra la sconfitta nobiltà feudale e la nascente classe operaia.
Ma mentre la middle class del Settecento è dovunque nell’Ottocento divenuta la aperta classe dominante sociale, ossia la classe estrema, i romanzati ceti medi delle società del Novecento sono melma umana senza storia presente e futura.
Due sono le classi potenzialmente bellicose nella guerra sociale: la capitalista e la salariata. Tra di esse non vi sono che strati affollati ma amorfi condannati a servire altrui. Da qui la fangosità delle soluzioni maggioritarie. Pacifisti per loro natura, quei ceti non possono combattere che come mercenari. Il capitale li può comprare, ed espressione di questo mercenarismo è il fascismo, stimmata che caratterizza la fase contemporanea. Il fascismo, espressione della dittatura dell’alto capitale, non sarebbe potuto nascere, colla sua bandita di illusioni su un compito autonomo della classe media (che di ciò si pasce negli squadrismi servili come nel teppismo della delusa gioventù del dopoguerra) senza la preparazione gigantesca del secolare inganno democratico e popolaresco, tendente all’interclassismo di principio e quindi ingannevolmente esaltante i ceti medi come vano cemento tra le due vitali avverse classi storiche. La democrazia parlamentare e popolare fu il terreno di coltura del microbo fascista. Nel 1919 già in Italia al presentarsi del moderno fenomeno lo dicemmo, concludendo che per uccidere la infezione fascista sola strada era quella di svergognare e pestare la democrazia, i partiti e i ceti su cui si appoggia, di cui sono parte squisita quelli dell’opportunismo socialdemocratico di allora, comundemocratico di oggi.
Vinse il fascismo quando invano proponevamo di rispondere incursionando con squadre di puri proletari le sedi degli stati maggiori dei magnati borghesi, banche ed anonime, logge e vescovadi, invece di fare blocco pacifistico con i lacrimatori sulla defunta libertà spacciata dai borghesi, come Mosca ordinò dopo non aver capito che ogni concessione alla forma parlamentare (come quelle del 1919 e 1920) ci deviava dalla sola possibilità, extralegale, di battere il fascismo. Oggi ricompare la svastica e le carogne non sanno che riproporre la convergenza tra proletariato e ceti medi sul piano elettorale. Alti sono i loro clamori contro il neo-nazismo, quanto chiara la loro funzione di suoi propiziatori, se qualcosa insegna la storia.
Una dittatura non si uccide che con una fase storica di contro-dittatura. Non si trattava di appendere per i piedi la persona del dittatore, che solo in quella posizione non ebbe funzione di pagliaccio. Bisognava davvero colpire la classe che era dietro di lui. Ma ancora una volta come l’aveva salvata il terrore squadrista la salvò il suo necessario complemento, la truffa parlamentare. La stupida giostra deve dunque ricominciare? Alle urne dunque, per Togliatti, convergendo in esse con gli squadristi nati di ieri e di domani.
Possono i seniori cretinizzati del partitone capire che la storia si fa con le dittature e non con la scomunica delle dittature? Essi, lenoni della pratica e della dottrina, hanno battezzato la falsa vittoria sul fascismo come secondo risorgimento italiano. Ma nemmeno quello, nel suo posto della storia delle classi, sono all’altezza di capire. In quella vicenda ebbero luce le dittature e fecero schifo supremo le convergenze.
Il 18 aprile 1861 si riuniva a Torino il parlamento del Regno d’Italia. Cavour stava disarmando nel Mezzogiorno le formazioni rivoluzionarie garibaldine che miravano a Roma. Garibaldi aveva in un primo tempo rifiutata la candidatura, poi si decise e accettò l’elezione al primo collegio di Napoli, per tentare di opporsi al legale smantellamento della rivoluzione, sola forza in cui credeva. Questo ministero, egli disse provocando l’ira di Cavour e la sospensione della seduta, ha steso sul Mezzogiorno la sua malefica mano. Alla ripresa continuò: « ll vostro decreto vibrò il colpo decisivo all’esercito meridionale. La dittatura fu un governo legittimo; è essa l’autrice del plebiscito che vi ha dato due regni; avete oggi rifiutato l’esercito che ve li donava». La occhiuta borghesia piemontese sfruttava e odiava gli eserciti irregolari, rivoluzionari; li liquidò a tradimento nel 1859, nel 1861, nel 1866. Perché non lo avrebbe fatto, se non vi avessero provveduto altri traditori, nel 1945?
Togliatti e i suoi usano il testone ingenuo di Garibaldi, che dopo quella invettiva si ritirò dal seggio parlamentare nel suo esilio, a fini elettorali; ma teorizzano la politica eleggendo a loro modello il puttanesco conte di Cavour, o il suo degno epigono Giovanni Giolitti.
La critica teorica che Marx faceva di Garibaldi a Londra, quando tolto dal suo clima di insorto si univa alla vuota filantropia pacifista delle leghe per la libertà democratica, ben era valida in dottrina allora ed oggi. Garibaldi, rivoluzionario nel metodo di azione, biascicava allora le stesse vane ideologie sulla fraternità dei popoli che oggi i pretesi aggiornatori di Carlo Marx, leggi per tutti lo stesso Krusciov, enunciano nello stesso stile ipocrita che adopera dal suo lato Eisenhower.
Secondo il capoccia e il suo caudatario italiota sarebbe posizione moderna, rispetto alla invocazione leniniana di quaranta anni or sono, della alternativa dittatura di una delle due classi estreme sul mondo, rimettersi al giudizio di maggioranze dei parlamenti nazionali, o delle competizioni inermi internazionali!
Questa modernissima gente, sempre preoccupata di porre in scena una ultima conversione e contorsione, non è lontanamente all’altezza storica in dottrina di Lenin nel 1919 e di Marx nel 1866. Ma nella vile pratica rinnegata che segue, non raggiunge nemmeno l’altezza storica che aveva nel 1861 un Garibaldi, generale della borghesia sì, ma fedele fino alla morte ai mezzi dell’azione armata e della dittatura.
Non sono quarant’anni avanti, ma un secolo indietro.
«Il Programma Comunista», n. 2 del 1960
LA FUNZIONE STORICA DELLE CLASSI MEDIE E DELL’INTELLIGENZA
Conferenza del 23 marzo 1925
Un problema che non poteva non interessare in sommo grado coloro che seguono la dottrina e la pratica della lotta di classe è il problema della attitudine e della funzione storica delle classi intermedie. Un’obbiezione corrente contro l’idea socialista, di cui noi siamo seguaci, è quella che noi riduciamo tutto il gioco della storia all’urto di due sole classi, nelle quali pretendiamo che sia possibile classificare fin l’ultimo individuo che compone l’insieme sociale.
Ora: la nostra concezione non è così semplicistica; non è affatto una obbiezione all’insieme della nostra dottrina e delle nostre direttive il mostrarci che possono esistere, al di là dei gruppi fondamentali che noi vediamo: “borghesia capitalista” e “proletario salariato”, altri gruppi sociali.
Il problema è ben altro: si tratta di vedere qual è il duello che definisce il passaggio storico che si prepara davanti a noi; si tratta di vedere se all’attuale epoca deve succedere l’epoca del dominio della classe proletaria, oppure se da questo risultato non ci separi l’avvento alla direzione della cosa sociale di altri strati intermedi che si possono schierare oggi nella situazione.
Noi non neghiamo quindi l’esistenza d’altri aggruppamenti: noi vogliamo soltanto discutere della loro natura e della loro funzione. Le classi intermedie possono rappresentare in certo qual modo l’ultimo elemento di un’epoca che ci separa da quella propria del proletariato.
Qual è la funzione di queste classi intermedie? Io non ho bisogno di far qui citazioni dei nostri testi fondamentali per dimostrare come la dottrina e l’analisi marxista siano pessimiste riguardo alle attitudini di queste classi sociali e le considerino più come possibili alleate della reazione e della conservazione borghese anziché della avanzata proletaria. Insegnamento che ci viene fin dalle origini, dal “Manifesto dei comunisti” in avanti.
Questa tesi non è però pacifica attraverso tutte le vicende successive delle scuole politiche che si sono avvicendate, cosicché oggi tutti i problemi si ricollegano alla considerazione: che bisogna fare di queste classi intermedie che si pongono tra noi e quelle dichiaratamente avversarie.
L’esame della posizione delle classi intermedie sostituisce perciò allo schema semplicistico di due sole classi in opposizione d’interessi fra loro: “borghesia” e “proletariato”, uno schema che è un poco più corrispondente a quella che è la situazione sociale effettiva dei più importanti paesi che ci interessano.
Quanto alla classe dominante noi non la ravvisiamo soltanto nella grande borghesia industriale e bancaria o commerciale: ma abbiamo ancora da considerare insieme con questa, alleata con questa, ma sua antica avversaria e nemica, un’altra classe importantissima che si schiera nettamente intorno al campo economico: la classe dei grandi proprietari fondiari. Classe che rappresenta il residuo della classe dominante che ha preceduto la borghesia capitalistica, che da questa ultima è stata abbattuta senza che possa esserle rimasta alcuna speranza di riconquistare le posizioni perdute, ma che pur sopravvive in questi residui che, avendo quasi definitivamente abbandonato l’illusione di restaurare le forme di dominio che le erano proprie, si considerano oggi alleati della borghesia capitalistica nella comune difesa delle istituzioni presenti.
LE CLASSI INTERMEDIE
Tra queste due classi, e la nostra classe – la classe del proletariato nullatenente e salariato – vengono a schierarsi appunto le classi intermedie che possiamo suddividere subito in due categorie, che permettono una sufficiente chiarezza; e cioè: in classi medie urbane e classi medie agrarie.
Nelle classi medie urbane noi troviamo i residui dell’artigianato, i piccoli artigiani, i piccoli produttori di quegli stessi prodotti che vengono manipolati su vasta scala dalla grande industria, i piccoli commercianti, i piccoli esercenti; ed abbiamo infine nelle città un altro strato sociale che possiamo considerare tra quelli che appunto stiamo esaminando, cioè lo strato che è chiamato la “intelligenza” ossia lo strato di tutti coloro che posseggono una certa cultura e che hanno una parte indubbiamente importantissima nel mondo della produzione.
Passando alle classi medie agrarie noi ci troviamo di fronte ad un problema più complesso; ma possiamo ritenere sostanzialmente che nella campagna, a fianco della grande classe dei proprietari latifondisti, a fianco di un’altra vera e propria borghesia capitalistico-agraria, che nei centri agricoli raffigura la classe dominante dei primi strati urbani, abbiamo il medio proprietario, il piccolo proprietario di terra, abbiamo il piccolo affittuario, fino a che giungiamo a quella categoria di lavoratori agricoli che si rende perfettamente, o quasi, identica al proletariato urbano: cioè quella dei braccianti e salariati.
Ora, tracciato questo schema delle classi, esaminiamo un poco più d’appresso qual è, dal punto di vista della nostra teoria sociale, il destino che è riservato a queste classi nel proseguire dell’evoluzione. Non posso qui abbandonare il tema speciale che ci siamo posti per andare alla ricerca di quei fatti che confermano le nostre vedute generali sul divenire del capitalismo, sulla sua concentrazione, sul maggior approfondimento del contrasto delle classi, sulla necessità che questi contrasti abbiano una soluzione rivoluzionaria. La tendenza alla concentrazione della grande produzione diventò negli ultimi tempi sempre più evidente nell’allargarsi stesso della crisi intima della produzione moderna. Ora, in questo divenire, quale posto prendono i ceti intermedi?
Essi non prendono tutti gli stessi posti ma situazioni diversissime. Per quanto riguarda il piccolo artigiano e il piccolo esercente della città, noi possiamo dichiarare senz’altro che dal punto di vista marxista queste categorie sono destinate a sparire. Noi abbiamo già ben delineata la grande e precisa tendenza alla grande intrapresa produttiva industriale, destinata a sconfiggere decisamente i residui della piccola azienda industriale; ed abbiamo pure, meno rapida, meno avanzata, ma ugualmente evidente la tendenza delle grandi organizzazioni commerciali ad assorbire il frazionamento degli scambi e la circolazione dei prodotti.
Per conseguenza dobbiamo affermare che la società capitalistica d’oggi ci ha già offerto un quadro di sufficiente sviluppo per cui, davanti all’avvento al potere del proletariato, deve dichiararsi che questi ceti intermedi sono destinati a scomparire, a non avere nessuna parte in una società di domani, sia che si tratti di una società capitalistica ulteriormente sviluppata, sia che si tratti della immediata eredità del proletariato della amministrazione economica dell’umanità.
Vedremo poi quali conclusioni nei rapporti tra proletariato e questi ceti debbano trarsi da queste previsioni: che cioè queste classi medie siano destinate ad essere eliminate, assorbite dal regime capitalistico e quindi sospinte verso il proletariato.
GLI INTELLETTUALI
Passando a parlare degli intellettuali, non possiamo evidentemente venire ad uguali conclusioni. E qui un’altra obbiezione, a proposito della concezione socialista, deve essere respinta: cioè l’antitesi tra la attività manuale e l’attività intellettuale che si incrociano, si completano nella produzione; la valorizzazione della prima in contrapposto al disprezzo della seconda; la esaltazione del lavoro materiale e meccanico in contrapposto all’altro.
Nel respingere quest’affermazione noi non possiamo però venire senz’altro ad un’identificazione della situazione dei lavoratori intellettuali con quella dei lavoratori della grande industria e delle grandi officine. Per una parte è funzione necessaria, utilissima, che dovrà essere sopravalutata da un’ulteriore organizzazione potenziatrice delle forze produttive. Per questa parte di classe indubbiamente, gli intellettuali si verranno ad identificare col proletariato in un’organizzazione diversa e socialistica della produzione in cui verrà ad essere parificata l’importanza del lavoro manuale all’importanza del lavoro intellettuale che si fonderà sempre meglio nella grande armonia della attività umana.
Ma ciò non toglie che la classe della intelligenza, specialmente in certi strati, venga ad avere gradatamente degli interessi che si identificano con quelli della classe dominante. Salendo gradualmente, noi troviamo ancora degli intellettuali che sono ancora dei puri lavoratori sia pure retribuiti meglio; proseguendo, cominciamo a trovarli cointeressati nel profitto del capitale; la loro funzione non è più cioè soltanto di apporto, di sforzo produttivo, ma assume la figura di funzione di guardia del capitalismo, di sorveglianza del proletariato perché nella sua evoluzione non infranga i vincoli del sistema capitalistico borghese. Questa seconda funzione deve essere respinta e combattuta dal proletariato che, ravvisando in questi intellettuali la posizione fondamentale di difensori della classe capitalistica, li dovrà trattare senz’altro come alleati degli avversari.
La classe degli intellettuali, nella sua parte di funzione strettamente tecnica, non è destinata a sparire, bensì a fondersi con la grande schiera del proletariato finalmente emancipato e che, in una nuova organizzazione della vita economica ed intellettuale, vedrà sempre meglio armonizzarsi lo sforzo della produzione.
E non solo quello che separa da noi il largo strato della classe intellettuale è questa sua seconda funzione di guardia bianca che le è affidata, ma è anche la influenza ideologica fondamentale che esercita su di essa la società borghese. Questa classe s’illude di essere un’avanguardia, di possedere la chiave per cui deve svolgersi il nostro cammino verso l’avvenire.
Ma non è così. Appunto in quanto marxisti, in quanto abbiamo svolto una critica fondamentale della concezione democratica evoluzionista progressista, noi neghiamo che il processo dell’umanità si presenti prima come fatto intellettuale, e quindi come fatto economico. È tutto precisamente il contrario. La cultura di un’epoca, le sue concezioni ideologiche, non sono che il riflesso delle condizioni materiali e delle condizioni in cui si attua e si sviluppa la lotta di classe. La teoria più avanzata c’è fornita non da chi ha potuto attingere dalla grande cultura delle classi dominanti, ma precisamente dalla classe sacrificata, dalla classe oppressa. E qui giungiamo a quel paradosso storico che mi piace ripetere: che cioè la teoria e la cultura di domani stanno negli ignoranti e non nei sapienti.
Per conseguenza noi dobbiamo lottare contro questa classe d’intellettuali e di semintellettuali essendo quella che meglio è stata lavorata da tutta l’organizzazione culturale della società presente, che è organizzazione di conservazione, che è organizzazione di controrivoluzione. Anche, non dobbiamo cadere nell’errore di credere che la classe intellettuale degli esperti, dei tecnici, sia portata da questa sua stessa superiorità intellettuale a venire spontaneamente verso di noi, verso il proletariato.
Dobbiamo però considerare che la rivoluzione proletaria, dovendo tenere ben presente la indispensabile sua collaborazione con gli esperti, con i tecnici della produzione e della scienza, dovrà rendersi conto, esaminare questa difficoltà che diviene sempre più tragica in quanto questi gruppi sociali credono di essere un’avanguardia, di svolgere una funzione autonoma, mentre nella realtà invece hanno in questa nostra società borghese una palla di piombo legata ai piedi.
LE CLASSI MEDIE DELLA CAMPAGNA
Ed ora veniamo a dire qualcosa delle classi medie della campagna. E qui dovremo giungere a conclusioni alquanto diverse a quelle a cui siamo giunti nei riguardi dei piccoli artigiani, ecc. Allo stato attuale della storia sociale non possiamo dare della piccola azienda agricola la stessa condanna nel senso storico che abbiamo pronunziata in confronto della piccola azienda industriale e commerciale.
In senso tecnico generale noi siamo dell’opinione che lo sviluppo debba svolgersi nell’agricoltura nello stesso senso di quello industriale: e cioè concentrazione dell’attività produttiva, divisione e specializzazione del lavoro: prevalenza della grande attività produttiva rispetto alla azienda individuale.
È innegabile che il processo di concentrazione della produzione, della specializzazione nelle funzioni produttive, è nell’industria molto più avanzato che non nell’agricoltura. Questo è un fatto evidente. I rivoluzionari non debbono rifiutarsi di riconoscere i dati della realtà; anzi noi riconosciamo questo fatto in tutta la sua estensione appunto per tenerci lontani dalla concezione controrivoluzionaria a cui potrebbe portarci la conclusione riformista che farebbe dipendere da una industrializzazione preventiva della agricoltura, la rivoluzione.
Questo processo non è ancora avvenuto. Consentiamo al capitalismo, borghese industriale che esso non abbia saputo potenziare nel suo spirito di superiore organizzazione concentrata anche tutta quanta la produzione agricola, perché allora soltanto, secondo la errata concezione riformista, sarebbe possibile il Socialismo.
La storia rivoluzionaria contemporanea ha dato una risposta ben diversa al problema. Verissimo che noi non possiamo pensare, nelle condizioni attuali in cui viviamo, di affidare ad un gestione collettiva del proletariato tutto quanto il meccanismo industriale e tutto quanto il meccanismo dell’agricoltura; ma noi concludiamo ugualmente che il proletariato possiede già nella situazione attuale le premesse per la presa del potere e per iniziare la organizzazione di un nuovo tipo di società economica.
In agricoltura ciò si verifica soltanto in qualche azienda speciale, qualcuna è già matura per una gestione socializzata; ma in tutte le altre, siano pure grandi, vaste dal punto di vista territoriale e giuridico, in realtà non si sono verificate queste condizioni che permettono la gestione collettiva e lo sfruttamento intensivo come avviene già su vasta scala nel campo industriale. Il latifondo non è la grande azienda agricola; nel senso economico il latifondo è ancora un insieme di piccole aziende personali e famigliari perfettamente autonome e completamente immature per una gestione collettiva.
LA CLASSE DEI PICCOLI CONTADINI PERSISTERÀ ANCORA
E allora, se poniamo in questi termini, chiariti dal genio di Lenin e della Internazionale Comunista, il problema delle classi medie rurali, dobbiamo riconoscere che in molti paesi, importanti dal punto di vista dello sviluppo storico e sociale, la classe dei piccoli contadini ha ancora davanti a sé un avvenire; dovrà cioè sopravvivere per qualche tempo alla rivoluzione prima di fondersi compiutamente col proletariato della città. Perché di fronte al latifondo feudale ancora sopravvissuto, e alle forme di sfruttamento a cui esso sottopone i contadini, sarà un progresso, per i primi tempi, l’affidare ad ogni singola famiglia l’intero prodotto che coltiva, senza aver attuato nella realtà un frazionamento oltre che nei registri del catasto, poiché nell’economia questo frazionamento realmente esiste già.
In sostanza noi veniamo a dire che nel campo delle classi medie rurali non abbiamo ancora le premesse per passare domani ad un’immediata socializzazione senza un intervallo di trasformazione. Dovremo iniziare una nuova fase nel sistema industriale agricolo qual è l’attuale. È necessaria per questo una lotta perché è necessario liberare il contadino che lavora la propria terra dalla concezione antiquata, bisogna incoraggiarlo alla lotta per liberarsi dalle condizioni di servitù in cui lo tiene la stessa classe capitalistica borghese nelle mille sue forme.
Abbiamo quindi un elemento di lotta di classe che non è affatto parallela in senso storico a quello del proletariato urbano, ma abbiamo una situazione di classe la quale può essere utilizzata agli effetti dello sviluppo della rivoluzione proletaria. Per conseguenza dobbiamo affermare che la classe dei piccoli produttori, dei piccoli proprietari, dei piccoli affittuari agricoli non è destinata a sparire nella stessa epoca storica e con la stessa rapidità con cui è destinato a sparire il piccolo artigiano, il piccolo commerciante.
Né, anche volendo per un momento accettare l’ipotesi d’una ulteriore fase di dominio della borghesia industriale capitalistica, possiamo noi pensare – dato che essa superi la crisi presente – a questo rapido potenziamento dell’agricoltura, a questo riversarsi dei grandi capitali nella terra. Noi non possiamo pensare che il problema della modernizzazione della agricoltura potrebbe fare dei rapidi progressi in un’ulteriore fase di dominio capitalistico; e per una ragione assai semplice: per potenziare, per modernizzare l’agricoltura occorrono degli investimenti enormi di capitali che potrebbero dare un profitto soltanto a distanza di lunghissimi anni, a distanza di intere generazioni. Soltanto un interesse superiore e sociale potrà condurre a far riversare nel campo della terra gli enormi capitali occorrenti per portare l’agricoltura al punto di sviluppo a cui invece è già pervenuta l’industria.
Per la società attuale questo sistema d’investimento di capitali sarebbe troppo lento, troppo lontano si presenterebbe il profitto, onde i borghesi preferiscono investire i propri capitali nell’industria che offre un rendimento più grande e soprattutto immediato, perché il capitalismo moderno è caratterizzato da una corsa sempre più violenta al profitto sempre più rapido ed immediato, largamente preferito alla lenta intrapresa riorganizzatrice della produzione.
Se anche noi vogliamo per dannata ipotesi concedere alla borghesia ancora una lunga sopravvivenza, non possiamo certamente sperare che essa riesca a superare questo punto morto: solamente un regime proletario avrà la possibilità di realizzare questo problema, soltanto un regime d’amministrazione in nome di un interesse collettivo che tragga l’energia produttiva dal mutuo consenso per dedicarla al potenziamento della grande produzione agricola, della produzione tecnica. Ed è quindi soltanto il regime proletario che porrà questo problema.
Ma neppure esso potrà porselo né in un giorno né in una settimana, e forse nemmeno in una generazione perché non possiamo sperare, anche nella migliore delle ipotesi, di ereditare dalla borghesia capitalistica un meccanismo di produzione industriale così perfetto e potenziato che ci consenta anche la possibilità di investirne immediatamente il superfluo d’energia in agricoltura. No. Perché la borghesia ha creato un vuoto enorme nelle ricchezze; perché, anche nell’ipotesi migliore, sarà necessaria una lotta per strapparle il potere, lotta che non potrà non paralizzare l’apparato economico esistente. E sarà quindi allora già un problema il superamento della crisi e della stasi.
Dobbiamo porre, dobbiamo prospettarci un’epoca, all’indomani della conquista, della presa di possesso della grande economia industriale e commerciale, in cui vivrà ancora in larga parte, su larga estensione, la piccola azienda e la piccola proprietà agraria liberata dalla rivoluzione dallo sfruttamento del latifondista feudale, con la quale si realizzerà un regime di convivenza rispetto al proletariato rivoluzionario divenuto padrone del regime industriale e del regime finanziario; regime nuovo che non sarà di uguale importanza, di parallelismo completo; che non significherà elevare il contadino alla stessa altezza del proletario industriale il quale avrà realizzato lo sforzo supremo di avanguardia rivoluzionaria.
Ciò significa vedere coraggiosamente una formula di soluzione del problema sociale, che si deve porre alla rivoluzione come un problema d’oggi, di domani, non come un problema di là da venire. Noi dobbiamo considerare seriamente la classe la cui vita storica non è finita: quella del piccolo proprietario agricolo che sopravviverà ancora anche all’indomani della rivoluzione proletaria, che rappresenterà ancora nel quadro della produzione un fattore da cui non è possibile prescindere.
SI NEGA OGNI AUTONOMIA D’AZIONE ALLE CLASSI MEDIE
Considerato così quello che può essere l’avvenire riservato alle diverse classi medie, veniamo a considerare quali riflessi si verificano nel campo della lotta per le ideologie sociali o politiche sulla base fornita dalla condizione economica di questi ceti.
Il problema s’innesta a tutti i problemi di attività e di tattica del partito del proletariato. Anticipando le conclusioni a cui verremo in seguito, diciamo subito che noi dobbiamo essere molto pessimisti riguardo alla consistenza ed al valore dei programmi e delle ideologie di queste classi.
La caratteristica fondamentale di questi atteggiamenti, di questi programmi, di queste soluzioni, è la più grande indeterminatezza, è la più grande facilità di passare da una tesi ad un’altra tesi opposta. È quindi con estrema diffidenza che il partito degli operai deve considerare queste manifestazioni.
È innegabile che la guerra mondiale ha in certo qual modo buttato sulla scena politica questi elementi medi. La guerra mondiale è stata accolta da un largo strato di essi come il fallimento della teoria diretta e precisa della lotta di classe. Già nel periodo precedente alla guerra mondiale si tendeva ad addormentare questa teoria nella illusione della collaborazione, nella illusione di un ponte gettato fra le due classi opposte: borghesia e proletariato. La guerra avrebbe poi segnato, da questo punto di vista banale, la sconfitta della lotta di classe, in quanto vi è stata una solidarietà nazionale.
Pronube ed arbitro di quest’unione sacra sarebbero state le classi intermedie che sarebbero riuscite a trasfondere nel proletariato le loro ideologie patriottiche.
E quindi all’indomani della guerra, in una forma o nell’altra, questi ceti vorrebbero affacciarsi nel terribile ginepraio come capaci di portare delle soluzioni, di avere dei programmi che possono sistemare il caos sociale presente. Sono questi problemi che meritano tutta l’attenzione del proletariato perché dall’esatta considerazione che esso saprà farne, potranno nascerne per lui grandi vantaggi e grandi pericoli.
Le classi medie, affacciatesi alla vita politica con grande baldanza, hanno affermato di possedere un’autonomia e di poter offrire una sedicente soluzione del problema sociale. Ma da un esame rapidissimo di questi rapporti, noi arriveremo alla conclusione che dobbiamo negare ogni potenza d’autonomia, ogni capacità originale, ogni possibilità di azione e di lotta indipendente a questi strati medi. Siamo affatto negativi sulle soluzioni che dobbiamo trarre da questi programmi. Nell’immediato dopoguerra, i ritornati dalle trincee sembravano esser ritornati con tutto un bagaglio ideologico nuovo in nome del quale affermavano di poter prendere la direzione dell’amministrazione comune delle cose.
Quali tremende delusioni si siano succedute, quali aperte confessioni si siano avute è troppo facile di mostrare.
In realtà il nostro concetto, di fronte a tutti questi programmi che pullulano in tutti i paesi del mondo, e le nostre conclusioni sono queste: non si tratta di movimenti originali, non si tratta di trovate feconde, non si tratta di ingegnose ricette per nuovi orizzonti: quasi sempre si tratta di una pura e semplice mobilitazione di questi strati medi compiuta da un’altra classe, dalla classe borghese capitalistica dominante, dall’alta banca, dall’alta industria, dall’alta agraria che riescono, attraverso la loro confusa ideologia, a realizzare le proprie manovre e le proprie conversioni conservatrici-reazionarie.
Ci si potrebbe domandare perché c’interessi il programma delle classi medie quando affermiamo che esse mancano completamente di ogni funzione autonoma.
Potrebbe a tutta prima sembrare che le classi medie possono domani portare alla situazione sociale delle soluzioni di destra, soluzioni cioè retrograde, che ci riporterebbero indietro. In un giudizio affrettato si potrebbe concludere che il posto del proletario e del suo Partito fosse alla difesa ed alla solidarietà con le forme più moderne ed avanzate della organizzazione borghese.
O qualora si volesse riconoscere in queste classi intermedie la possibilità di accettare un programma di sinistra, un programma di progresso, di avanzamento in riguardo a quelle che sono le pure forme del capitale, si potrebbe anche pensare che queste classi medie ci offrano un ponte, gettato tra le due classi avversarie, borghesia e proletariato; che noi abbiamo tutto l’interesse ad incoraggiare questo primo trapasso in quanto che dietro la nuova forma di regime realizzata dalle classi medie noi troveremo condizioni migliori per compiere poi, in una nuova epoca storica, a nostra volta, la nostra avanzata e la nostra rivoluzione.
I PROGRAMMI DEI CETI MEDII
Per venire a queste conclusioni noi dobbiamo esaminare i programmi con i quali i ceti medi pretendono di presentarsi nella vita politica come forza autonoma, nel conflitto d’irriconciliabilità di classe fra borghesia e proletariato, con nuove formule e soluzioni che quotidianamente gli avvenimenti vengono a smentire, in cui da un nuovo esame risulta in modo chiarissimo che gli antagonisti fondamentali sono sempre quelli: da una parte il grande capitalismo borghese, dall’altra la classe proletaria, che attraverso errori, dolori, percosse, sacrifici, martiri, ritrova pur sempre la sua strada in questo grande canale rivoluzionario che la dottrina marxista le ha tracciato.
E diciamo qualcosa del tipo di destra, del tipo nazionalista, del tipo fascista, della dottrina che venne elaborata nel dopoguerra e che del resto aveva già le sue premesse elaborate da prima, nelle classi intermedie. In vari paesi, ed anche nel nostro, all’indomani della guerra si sono formati degli aggruppamenti politici che poggiavano su di una sopravvalutazione dello spirito nazionale, su di una sopravvalutazione della ideologia patriottica, su di uno spirito di lotta contro tutto ciò che sapeva di socialismo più o meno rivoluzionario; aggruppamenti che hanno preteso di farla finita con una politica di concessioni e di arrendevolezza; che hanno preteso di creare il Governo forte; che hanno preteso di creare una rivoluzione, di dare un nuovo indirizzo alla storia.
E le classi medie si sono cacciate in questi movimenti a testa bassa, con entusiasmo. Noi in Italia abbiamo assistito ad un periodo d’ideologie di questo genere. Fino a quel momento le classi medie avevano assistito inerti agli oscillamenti, ai tentennamenti, agli urti tra il grande capitalismo e la classe proletaria. Parve loro che dopo la guerra esse avessero acquistato un peso maggiore; parve loro essere giunto il momento di poter dettar legge, di poter costituire un partito aspirante alla conquista del Governo per amministrare la economia nel senso del proprio interesse.
Ma, in realtà, per i tre quarti di quegli elementi che hanno creduto per un momento a questa possibilità, la delusione è già venuta.
Non si trattava, no, di un movimento originale: si trattava puramente e semplicemente di una loro mobilitazione al servizio dell’eterno padrone, dell’eterno dominatore. Era una mobilitazione ideologica, mobilitazione in cui la borghesia era divenuta espertissima dopo le mobilitazione materiali o militari dei ceti a lei sottoposti. E quella mobilitazione che ha saputo così bene condurre nella guerra, la condusse dopo nel campo ideologico in mezzo a tutti quegli strati in cui essa ha trovato elementi ancora ingenui, capaci, diciamolo pure, di spirito di sacrificio, che si sono posti alla sbaraglio credendo di aprire una via al loro ceto sociale.
Oggi questa tesi che forse, affacciato da noi alcuni anni fa, all’affermarsi primo del fenomeno fascista, poteva parere una tesi troppo semplicistica, dettata esclusivamente dalla nostra affezione ai vecchi schemi, oggi si dimostra all’evidenza: questi elementi hanno dimostrato di essere soltanto elementi di difesa della borghesia capitalistica.
Che cosa essi hanno portato di nuovo? Nulla. Hanno rubato delle riforme ai programmi tradizionali dei partiti democratici, hanno creduto di prendere a prestito una parte del socialismo, prendendone in realtà quella che n’è in un certo qual senso la vuota caricatura, cioè il puro sindacalismo cooperativo.
Ma tutto questo ciarpame è stato rapidamente buttato via e la vera essenza del movimento è venuta alla luce.
IL PROLETARIATO E I CETI MEDII
La funzione della classe proletaria si pone di fronte alla funzione di questi ceti intermedi come forza originale, si pone al di là di essi come forza animatrice della storia, e la soluzione che noi dobbiamo dare al conflitto è una soluzione nettamente di classe, è una soluzione che deve contare sulle sole forze proletarie secondo il vecchio insegnamento di Carlo Marx.
Ma allorché noi diciamo la soluzione deve essere classista, proletaria, in modo autonomo, originale, noi non intendiamo ridurci alla formula semplice, banale, del puro operaismo. Un altro errore di carattere squisitamente piccolo-borghese è il laburismo: e similmente la tesi che un partito di classe deve essere lotta puramente affidata a corporazioni economiche d’operai salariati, che è l’errore sindacalista. Perché non dobbiamo dimenticare che quando parliamo di questi agglomerati sociali fondamentali di cui abbiamo passato in rassegna le funzioni, noi non dobbiamo perdere di vista la possibilità di uno scambio, di un trapasso d’elemento umano, e talvolta d’elementi direttivi. Lo stesso “Manifesto dei Comunisti” avverte che la vittoria del capitalismo e della democrazia sull’aristocrazia fu possibile perché molti elementi dell’aristocrazia passarono alle nuove idee.
Il proletariato deve creare i propri organi di lotta. L’organo di lotta del proletariato deve essere un partito politico che assomma l’esperienza e la volontà rivoluzionaria delle masse, che raccoglie le sue adesioni fondamentalmente nel proletariato, ma anche in quegli altri elementi che ideologicamente si pongono sulla piattaforma del proletariato. È un pericolo, ma è anche una necessità. C’è pericolo in quanto dobbiamo prepararci a vedere queste persone venute a noi dall’altro campo, che spesso vengono portate per le loro qualità a posti dirigenti, descrivere al meno nel 90%, una parabola che lentamente conduce di nuovo al campo di partenza; ma, ciononostante, esse compiono una funzione indispensabile perché, per realizzare la vera unità della classe e la sintesi dello sforzo di liberazione del proletariato di tutto il mondo, è necessario creare un organismo di cui il carattere fondamentale, la sua unità è nel superamento dei singoli interessi e nelle singole spinte, per un interesse, per una spinta collettiva che nello stesso tempo è tutto il pensiero, tutta la teoria, tutta l’azione, tutta la lotta politica che la classe operaia, come tale, deve condurre.
E quindi quando noi diciamo che la soluzione dell’attuale caos sociale in cui si avvolge l’umanità deve essere una soluzione proletaria nel senso di autonomia, di originalità, non dobbiamo cadere nell’equivoco operaista, laburista, perché nel concetto assoluto della corporazione professionale fa capolino una nuova forma di individualismo economico-sociale che non porterebbe certamente alla organizzazione unitaria dello sforzo produttivo.
Che cosa significa la necessità della nostra azione autonoma e originale di classe di fronte alla borghesia agraria e industriale e poi di fronte alle manovre e alle complesse funzioni ideologiche di cui tanto generose sono le classi intermedie?
Significa che di fronte agli elementi dei ceti intermedie, noi non possiamo avere altra attitudine che dire ad esse: «Voi siete i proletari di domani e quindi dovete solidarizzare con l’ascensione del proletariato», senza peraltro sperare che una simile propaganda possa avere un largo successo perché nei ceti medi predomina lo spirito individualistico, e nella grandissima maggioranza tutta questa gente aspira a poter ascendere un giorno all’Olimpo dei padroni borghesi; noi possiamo dir loro soltanto: «Ricordatevi che voi cadrete nel proletariato, che dalla stessa tendenza monopolizzatrice del capitale siete sospinti verso il proletariato, e che quindi più il proletariato sarà avanzato, più sarà in grado di conquistare la propria indipendenza economica, e meglio sarà anche per voi».
Di fronte alla “intelligenza”, diversamente si precisa l’atteggiamento del proletariato. Il proletariato rivoluzionario non si dissimula affatto la necessità di avere i tecnici e gli intellettuali con sé i quali dovranno essere i suoi alleati indispensabili, i quali riceveranno parallelamente tutti i vantaggi che il proletariato si conquisterà.
Il proletariato deve insistere nel far presente che l’organizzazione delle forze produttive in senso comunista non reprime con la violenza le funzioni tecniche, culturali, intellettuali che nella società presente sono calcolate pura mercanzia che i ceti intellettuali vendono nell’interesse del profitto capitalistico. Essi si convinceranno dell’errore secondo cui i ceti intellettuali possono essere potenziatori e formatori di sistemi. Quindi anche in questo senso ideale gli elementi della “intelligenza” dovrebbero avvicinarsi al proletariato, persuadendosi che la cultura è essa stessa un prodotto delle formazioni economiche nuove.
Ma il proletariato non dimenticherà il predominio delle influenze ideologiche borghesi che su questi elementi si esercita potentemente, e quindi si preparerà a combatterli quando nel momento culminante del conflitto essi avranno preso una posizione definita; cioè li utilizzerà nella misura che essi si renderanno compartecipi alla produzione e lavoreranno a fianco del proletariato per il consolidamento di un ordine nuovo economico.
Più ardua è la soluzione della questione dei ceti agrari. Ma essa è stata data in modo chiaro e definitivo da Lenin. Ogni qualvolta Lenin scrive della questione agraria, sottolinea che la cosa più importante è salvare il proletariato industriale ed il partito da ogni contagio di psicosi piccolo-borghese. Ripeto questa che è una tesi di Lenin; ma nello stesso tempo il proletariato deve comprendere che la situazione sociale e la situazione storica gli dà la possibilità di utilizzare per la lotta decisiva contro il capitalismo la emancipazione del piccolo produttore agricolo dalla schiavitù nella quale lo tengono il latifondista, il capitalismo e lo Stato borghese.
La nostra propaganda quindi verso i contadini deve essere quella di offrire loro una diretta, completa alleanza con il proletariato industriale non facendo loro dimenticare che dietro il proletariato industriale essi possono vincere, a condizione che essi riconoscano nel proletariato industriale la loro guida.
Infine, dall’esame dei partiti che ideologicamente emanano da questi gruppi, emana la tesi conclusiva della autonomia della funzione del proletariato, senza lasciarsi fuorviare dalla teoria del bersaglio comune, e dall’invito a partecipare a blocchi con elementi che domani saranno tutti uniti contro il proletariato stesso nella difesa dell’interesse borghese del capitalismo.
Noi abbiamo una funzione originale che si esplicherà nel suo massimo il giorno in cui finalmente sarà chiaro che queste classi cuscinetto, queste classi intermedie, non hanno diritto di rappresentare nulla nella storia. Ecco perché noi, dobbiamo affermare che ci sarà un momento in cui il proletariato dovrà fare da sé, un momento in cui sarà solo contro tutti, un momento in cui non avrà alleati, ma si troverà davanti ad un fronte unico di nemici.
(In Università Proletaria Milanese 1924/25)
Postilla: (sul ritorno del pericolo fascista)
La vicina scadenza elettorale (la nota è stata scritta nel febbraio 2018) scatena le peggiori fantasie dei partiti, in gara per qualche sedia parlamentare in più. Abbiamo pochi giorni fa pubblicato un articolo sulla comunicazione e la propaganda elettorale, analizzando brevemente due delle principali tematiche al centro della comunicazione dei partiti: pensioni e debito pubblico.
Insieme a queste tematiche è stata sollevata, nelle ultime
tre settimane, la tematica del pericolo neofascista. A nostro avviso tale argomento presenta degli aspetti paradossali, almeno se si considera il costante utilizzo della violenza latente e cinetica da parte dei regimi politici borghesi contemporanei (di cui i vari partiti che lanciano allarmi sul pericolo neofascista sono spesso un elemento costitutivo) . L’attuale fase capitalistica, al di là delle mascherature politiche indossabili di volta in volta dal dominio di classe borghese, conduce inevitabilmente il potere politico-statale ad utilizzare in modo prevalente i metodi del bastone al posto di quelli della carota.
Questa circostanza fattuale è collegabile innanzitutto alla crescita di fasce di popolazione disoccupata o sottoccupata, alla diffusione della miseria, all’incremento dello sfruttamento (plus-lavoro assoluto e relativo) tipica del capitalismo. Il malessere e la sofferenza determinati nella società da queste tipicità capitalistiche possono produrre una minaccia alla saldezza del comando capitalistico, di conseguenza questo comando, pur di restare tale, reagisce con un rafforzamento dell’apparato statale e dei mezzi atti a reprimere lo scontento sociale diffuso. Dopo le elezioni del 4 marzo, assisteremo probabilmente alla promozione di nuovi temi di dibattito politico, e quindi si verificherà, verosimilmente, l’accantonamento degli attuali ansiogeni argomenti, non più necessari alle nuove necessità di amministrazione post-elettorale della società borghese (e del suo conflitto di classe immanente). Sarebbe interessante, ove davvero dovesse avverarsi la nostra previsione, avere la possibilità di chiedere, agli attuali sostenitori del pericolo neofascista, la ragione del cambio di registro comunicativo. Nulla di nuovo sotto il sole, proprio come il grande numero di allocchi sempre disposto ad ascoltare la voce del padrone. Non vogliamo liquidare, con queste righe, il dato empirico relativo all’esistenza di fatto di gruppi politici di estrema destra, variamente in continuità con regimi politici scomparsi dopo la fine della seconda guerra mondiale. La nostra analisi tende a dimostrare, invece, che a partire dal dopoguerra, in linea con le esigenze di maggiore controllo sociale poste in essere dal conflitto di classe e dalla legge storica della miseria crescente, gli strumenti statali di dominio della classe borghese, hanno dovuto rafforzarsi e dotarsi di un efficace set di strumenti legali e polizieschi, e questo processo rende quasi del tutto superflue le declinazioni fasciste, naziste e staliniste del dominio borghese. Non possiamo escludere in assoluto una loro riesumazione, soprattutto come catalizzatore dello scontento piccolo borghese verso i processi di proletarizzazione del ceto medio, tuttavia gli attuali stati borghesi assolvono egregiamente il loro ruolo di controllo sociale. Questo ruolo è stato in precedenza definito da noi demo fascista, in quanto utilizza contemporaneamente come mezzo di controllo sia l’illusione della democrazia parlamentare, sia una normativa e un apparato poliziesco che in caso di subbuglio sociale possono essere adeguatamente tarati per rispondere alle situazioni di emergenza (in linea con un pensiero e un ars politica, quella della ragione di stato, che troviamo già descritta nelle opere di Machiavelli e Botero, oltre cinque secoli addietro). Il testo ‘Chi mai dietro la svastica’ risale al 1960, anche allora si parlava di presunte emergenze estremiste di destra, e infatti le argomentazioni contenute in quel testo sono valide anche oggi, anno 2018.
Ragione di stato, segreto, strategie di dominio: consigliamo vivamente alle moderne schiere (stormi) di allocchi di rileggere almeno Machiavelli (e naturalmente ‘chi mai dietro la svastica’), per comprendere le forme ricorsive, cicliche, del potere politico in una società divisa in classi.