Il vecchio vizio del frontismo (Il Programma Comunista – 17 luglio 1962 – N. 14)

Nota redazionale: il vecchio vizio frontista, spesso giustificato con la presunta esigenza di un programma intermedio dai suoi propugnatori, si ripresenta in modo periodico in occasione delle proteste del ceto medio ( proteste contro la proletarizzazione/impoverimento riservata a questa mezza classe dal capitale).

Un vecchio vizio, da cui i soliti invasati attivistoidi, incantati dalla sirena delle proteste piccolo borghesi, non riescono proprio a guarire. Il fascino discreto delle mezze classi agisce come una droga sui nostri impenitenti immediatisti, nonostante le verifiche storiche negative, nonostante gli avvertimenti contenuti nei vecchi testi come quello che stiamo ripubblicando, nonostante le lezioni della vita da cui nascono quegli avvertimenti. Potremmo anche ipotizzare che questo fascino agisca come una vera e propria dipendenza, ad esempio il fumo, l’alcol, il cibo spazzatura, il gioco d’azzardo. Dunque l’attivista dipendente potrebbe essere indirizzato verso un percorso di recupero e farsi aiutare da un gruppo di ascolto, seguendo adeguate terapie di de-condizionamento.

Ma allo stato delle cose il pessimismo è obbligatorio: per uno che rinsavisce, ne compaiono subito altri dieci, pronti a intonare le lodi delle alleanze interclassiste e i peana alle lotte del ceto medio. Anno dopo anno, con ossessiva monotonia, i nostri ceto-medisti descrivono e incensano le proteste del ceto medio, vedendo in esse i segni dei movimenti futuri di protesta generale, e quindi gli auspicati fronti uniti fra classi sociali differenti. Ragionare con loro è inutile, oppure spiegargli che le lotte del ceto medio, o anche quelle nazionali e religiose, c’entrano con l’anticapitalismo come i cavoli a merenda. 

Fronti popolari, fronti democratici antifascisti, in definitiva alleanze interclassiste destinate a trasformarsi in un ”affare a perdere’ per i proletari, perché lo scopo delle mezze classi è sempre lo stesso: evitare la proletarizzazione, spostando il salasso richiesto dal capitale, sui proletari o su frazioni specifiche delle stesse mezze classi. Per questo motivo il vecchio vizio del frontismo è in fondo un vizio anti-proletario.

Ma è difficile farlo comprendere ai soliti attivistoidi, persi nella ossessiva adorazione del movimento per il movimento, indipendentemente dai suoi obiettivi sociopolitici, a prescindere dagli interessi socio-economici inconciliabili fra proletari e piccolo borghesi. Uno spettacolo desolante, eppure già messo in scena tante volte. Nulla di nuovo sotto il sole, possiamo solo concludere che Eduard Bernstein rivive in questi moderni e avventati adoratori del movimento fine a se stesso. In fondo una fuga dalla realtà, da parte di chi non vuole o non è in grado di comprendere le lezioni della vita, e quindi della storia. Solo in relazione ai cetomedisti che continuano a rivendicare una continuità con la nostra corrente, potremmo adattare la vecchia massima del marchese di Larochefocauld, ovvero ‘l’ipocrisia è il prezzo che il vizio paga alla virtù’, nel seguente modo: l’ipocrisia di un rispetto a parole del marxismo, è il prezzo che il vizio revisionista paga alla virtù rivoluzionaria.

 

Il vecchio vizio del frontismo

 

Si sarebbe potuto sperare che l’ondata di scioperi a largo raggio e a tempo indefinito, della quale i lavoratori spagnoli hanno dato in Europa l’unico e mirabile esempio soprattutto nelle Asturie, inducesse i gruppi di origine tendenzialmente rivoluzionaria a guarire dall’antica mallatìa frontista: era lì sotto i loro occhi un «caso» limpido e inequivocabile di pura azione di classe, di iniziativa unicamente proletaria, che bisognava se mai difendere, rivendicare e potenziare di fronte al tentativo dell’Arcobaleno democratico-riformista-borghese e perfino clericale di specularvi sopra per fini che con la natura sociale del movimento non avevano nulla a che vedere. Ma è più facile cambiare pelo che perdere vizio, e il POUM non ha nemmeno perduto pelo malgrado le terribili esperienze della guerra civile, quando esso pagò tragicamente l’illusione di prendere la guida di un fronte socialmente e ideologicamente eterogeneo e non solo ne andò al rimorchio, ma ne fu, come sempre accade in esperienze simili, macellato.

La «Declaracion Politica del Comite Ejecutivo del POUM», in data 25 maggio, ricalca purtroppo i temi che servirono di giustificazione a quella sanguinosa esperienza: all’istintiva autonomia di lotta del proletariato, quello che dovrebbe e potrebbe essere la sua guida, risponde con una completa eteronomia di programma; il vecchio chiodo «trotskista» del «programma transitorio» diventa il punto di avvio all’ennesima offerta di collaborazione interclassista per conto di un proletariato che si batte solo contro l’insieme della società borghese nazionale; un’offerta di collaborazione che fa della cosiddetta sinistra rivoluzionaria l’appendice del radicalismo democratico e dello stalinismo, dal quale essa si distingue non già per un capovolgimento dei metodi di lotta e dei postulati programmatici, ma solo per una accentuazione dei punti fondamentali della stessa tattica e dello stesso programma.

Esso constata che «il proletariato è oggi la forza più omogenea, più sana e più combattiva della Spagna» [e già avrebbe dovuto dire «la sola»], ma ne conclude: «Dietro la classe operaia in lotta e le sue organizzazioni rappresentative [quali? i sindacati? i partiti politici, anche se ultra-riformisti, con etichetta operaia?] può costituirsi un ampio fronte di liberazione che mobiliti le masse contadine e la piccola borghesia democratica, gli studenti e gli intellettuali, tutti gli strati della popolazione schiacciati dai monopoli capitalistici e rovinati dal franchismo. Questo fronte cercherà di utilizzare con intelligenza e audacia tutte le contraddizioni e tutte le fratture che si sono prodotte e si produrranno nelle prossime settimane nel conglomerato franchista per affrontare il problema dell’azione comune, per obiettivi limitati e concreti, con tutti i settori che manifestino con atti e volontà di lottare per l’abbattimento del franchismo e per la restaurazione delle libertà democratiche».

Non si parte dunque dall’azione di origine rivendicativa ma di impostazione apertamente e istintivamente classista degli scioperi spagnoli per spingerli fino alle conseguenze estreme e denunziare con chiarezza le manovre di rivalutazione della miriade di gruppi, organismi e partiti democratico-borghese; al contrario, si offre il ramoscello d’olivo proprio a quelle formazioni piccolo-borghesi che sono sempre state il pilastro della controrivoluzione e che perciò meritano di essere schiacciate, come sono, dai monopoli capitalistici; si fa proprio, presentandolo come l’espressione del movimento operaio, il programma, tipico del riformismo radicale-democratico, che sentiamo ripetere ogni giorno dai piccisti – «un programma che combini le rivendicazioni democratiche elementari con le riforme di struttura di tipo socialista», come se «riforme di struttura di tipo socialista» –
nel senso economico della parola – fossero mai possibili senza la rivendicazione massima, della presa violenta del potere e dell’esercizio della dittatura proletaria; un programma chi si può riassumere in una serie di parole d’ordine di contenuto schiettamente rivendicativo-sindacale combinate con punti moderatamente democratici (libertà di parola, associazione e manifestazione), con una «riforma agraria a partire dalla espropriazione senza indennità dei grandi latifondi» (altro postulato irrealizzabile da un blocco interclassista), con la nazionalizzazione delle banche e della grande industria, col solito «controllo operaio sulla produzione», con la separazione fra Stato e chiesa, col riconoscimento del diritto all’autodeterminazione per le nazionalità spagnole», e con la «convocazione di libere elezioni ad una assemblea costituente».

E’ chiaro, che formalmente, queste rivendicazioni ricalcano il programma bolscevico prima dell’Ottobre 1917, ma con due grosse e fondamentali differenze; quello era il programma di un Paese che doveva compiere una doppia rivoluzione (ciò che non ha senso nella Spagna ormai pienamente capitalistica), ed era la piattaforma di un partito che rifuggiva da qualunque blocco o fronte a carattere democratico e si preparava ad assumere integralmente e violentemente il potere per realizzarlo da solo, in piena autonomia programmatica ed organizzativa, mentre qui si tratta di una piattaforma proposta ad una coalizione di partiti che dovrebbero giungere al potere insieme e per via democratica. In altri termini, quello che dovrebbe essere il partito marxista spagnolo non è già quello che prende su di sé il compito di dirigere e trascinare dietro dì sé le masse contadine e piccolo-borghesi, ma quello che si fa promotore di un’ibrida alleanza (sul tipo di un qualsiasi governo provvisorio alla Kerensky) fra partiti delle diverse stratificazioni sociali «popolari». Esso è soltanto un po’ più a sinistra del partito di stretta affiliazione cremlinesca, mette un po’ più di vino nell’acqua dell’antifascismo democratico a base riformista.

Non è su questa strada che il proletariato spagnolo celebrerà la sua vittoria: su questa strada, il POUM e, quel che è peggio, l’intera classe operaia oggi in movimento rischiano una nuova, sanguinosa sconfitta. I minatori delle Asturie hanno additato la via indipendente dell’azione di classe: sarebbe una tragedia che il monito non fosse raccolto, e all’autonomia di questa azione non dovesse corrispondere, prima o poi, la piena e completa indipendenza ideologica ed organizzativa del partito marxista – comunque esso si chiami.

«Il Programma Comunista» – 17 luglio 1962 – N. 14

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