L’apparato capitalistico USA di fronte al rompicapo delle crisi locali

Introduzione

L’attuale ricerca sarà articolata in tre capitoli. Il capitolo uno descriverà le principali aree di frattura degli interessi delle grandi potenze capitalistiche. Cosa che abbiamo già fatto in passato, e che quindi nel capitolo uno sarà proposta sotto forma di aggiornamento.

Il capitolo due cercherà invece di approfondire la tematica già evocata nel titolo dell’articolo. Dunque in quale modo concreto gli interessi capitalistici USA si trovano ad affrontare un rompicapo, quando tentano di costringere i propri vassalli europei a schierarsi contro la federazione Russa ?

Ma ancora di più, in quale modo concreto i proclami e le minacce USA verso la federazione Russa si scontrano con un rompicapo ‘esistenziale’ di altro tipo rispetto al primo?

Le domande sottintendono l’esistenza di condizioni di fatto che formano i due rompicapo con cui si confronta oggigiorno la potenza USA. Quali sono allora queste condizioni di fatto? Innanzitutto i rapporti di forza esistenti. Quelli reali, non quelli dedotti dai semplici parametri economici parziali come il PIL annuo, a cui invece prestano fede alcuni pseudo-marxisti, che forse da piccoli hanno guardato troppi film di cowboy.

Al di fuori dello scenario hollywoodiano, esistono delle realtà ostacolanti al totale dispiegamento della volontà di potenza dei due super-apparati capitalistici presenti sullo scacchiere internazionale. Tali realtà ostacolanti le abbiamo analizzate una prima volta nell’agosto 2015, nell’articolo dal titolo ‘Dinamiche di confronto e scontro fra blocchi capitalistici rivali’. Successivamente abbiamo verificato le nostre analisi nella realtà del conflitto siriano, dove russi e americani hanno sempre evitato un confronto diretto. La categoria di raccolta dei testi, denominata ‘imperialismo’, presente sul sito, contiene molti articoli di utile lettura per comprendere gli aspetti essenziali delle attuali contese fra i fratelli coltelli borghesi.

Il capitolo tre tenterà di prevedere le linee di sviluppo del confronto imperiale, riprendendo le analisi dei nostri testi, ad esempio Chaos Imperium, Capitalismo, The duellists, Dalla guerra come difesa e offesa…, Ruina Imperii, e via dicendo. Ovviamente l’aumento o il decremento della conflittualità fra i fratelli coltelli borghesi è strettamente correlato alla situazione economico-sociale, dunque sarà nostra premura fornire dei dati significativi su questo ultimo aspetto.

I nostri lettori più assidui conoscono il significato del termine ‘apparato capitalistico’. Lo ripetiamo a beneficio di coloro che lo ignorano. L’apparato è la simbiosi organico-funzionale di una struttura economica con una sovrastruttura politico-statale. I materialisti rozzi si limitano a ripetere che l’essenziale è la struttura, perché, d’altronde, lo stesso termine sovrastruttura indica un fenomeno derivato dalla struttura.

Tale profondità di pensiero, si fa per dire, ignora il fatto che il capitalismo è un organismo unitario, in cui gli organi struttura/sovrastruttura sono inestricabilmente congiunti in una simbiosi funzionale. Senza l’attrezzatura statale la classe dominante nazionale non ha l’arma per difendere e ampliare la propria struttura economica, e quindi per controllare la classe dominata, o per scontrarsi con le borghesie concorrenti. D’altronde solo una struttura economica industriale avanzata, può mettere in campo le risorse necessarie al rafforzamento della sovrastruttura statale e militare, a sua volta necessaria far navigare in acque sicure la struttura.

Capitolo uno: aree di crisi

Abbiamo di recente provato a fornire qualche notizia sugli attuali epicentri di crisi nei rapporti fra potenze capitalistiche. Ci limitiamo dunque ad aggiornare il quadro della situazione. In primo luogo scriveremo dell’Ucraina, dove con l’elezione di un nuovo presidente si profilano dei cambiamenti di pura cosmesi esterna, ormai appurata la funzionalità della dirigenza politica ucraina alle strategie USA/UE. Tuttavia non essendo proprio collimanti le strategie USA e quelle UE, sarà nostra premura cercare di capirne le differenze. Mentre gli USA sembrano privilegiare il tassello ucraino innanzitutto come spina nel fianco della federazione Russa, alimentando (insieme ai soliti inglesi) le forniture militari e l’addestramento dell’esercito, alcuni importanti paesi europei (Germania, Francia, Italia) sembrano invece spingere verso una soluzione diversa da quella militare, spinti da interessi e valutazioni differenti da quelle del centro imperiale USA. Un segnale di questo secondo approccio alla questione, è stato il recente suggerimento all’Ucraina di modificare il proprio impianto costituzionale. In parole povere l’Europa che conta, ha chiesto all’attuale potere politico ucraino di trasferire una parte dei poteri del presidente della repubblica al parlamento, in modo da consentire anche a quella parte di popolazione ucraina russofona, oggi scarsamente rappresentata, di avere maggiore voce in capitolo attraverso i suoi esponenti nel parlamento.

Mettendo ovviamente in parentesi la fattibilità di tale proposito, da perseguire attraverso una semplice proposta di nuove alchimie istituzionali, resta il dato di fatto del segnale inviato all’Ucraina da alcuni attori statali europei, ormai decisi a prendere le distanze dai fallimentari piani USA. Per quanto la dirigenza politica nazionale ucraina possa essere inadeguata e condizionata dagli interessi geopolitici USA, è difficile immaginare che possa fare orecchie da mercante ai suggerimenti dei propri finanziatori europei.

Infatti, se si considera che la situazione economico-sociale ucraina è quanto meno preoccupante, e che il calo delle attività economiche e dell’occupazione sono l’aspetto principale degli ultimi cinque anni post-maidan, non si fa fatica a comprendere perché la classe politica ucraina sarà costretta a prestare attenzione ai suggerimenti europei. D’altronde le vicende belliche nel Donbass hanno dimostrato la impercorribilità dello scontro frontale con i ribelli (e con i loro sostenitori più o meno occulti). Ripercorrere quella strada sarebbe estremamente sciocco e controproducente (quanto meno per il consenso interno), dunque nonostante le tentazioni e i condizionamenti provenienti dal centro imperiale USA, è prevedibile che al di là delle dichiarazioni poco incoraggianti del nuovo presidente, si assisterà nel prossimi mesi a un moderato cambio di passo nei rapporti fra Ucraina e Russia. Attualmente una parte delle forniture di metano russo all’Europa passano attraverso l’Ucraina, North stream due dovrebbe sostituire il percorso ucraino, anche perché lo stato fisico delle condutture ucraine è molto deteriorato. Tuttavia Gazprom potrebbe anche rinnovare il contratto di passaggio in scadenza entro il 2019, concedendo all’Ucraina una boccata di ossigeno per l’economia. Ovviamente la Russia potrebbe addirittura fornire gas e petrolio all’Ucraina a prezzi scontati. In cambio di quale contropartita politica? Come si può notare sull’Ucraina convergono due tipi di condizionamenti (EU e Russia), sostanzialmente quasi omogenei nell’obiettivo di sottrarre questo paese al ruolo attribuitogli dal centro imperiale USA.

Il rompicapo russo-europeo per gli USA è difficile da risolvere, perché pur volendo impedire i giochi convergenti appena descritti, si trova di fronte due strade difficili da percorrere: 1) sostituire i vantaggi economici forniti da UE e Russia con propri aiuti economici, 2) convincere l’Ucraina a far precipitare il confronto militare nel Donbass, al fine di trascinare la Russia in un conflitto aperto.

La prima strada è quasi impossibile, poiché semplicemente un paese (gli usa) con un debito totale di oltre 60.000 miliardi di dollari non può permetterselo.

La seconda strada è ancora più impervia e carica di pericoli, essendo l’avversario contro cui una parte del Deep state USA vorrebbe scagliare l’esercito ucraino, una superpotenza nucleare, attualmente in grado di fare pagare un prezzo inaccettabile ad ogni ipotetico aggressore.

Dunque si torna all’inizio del rompicapo e della sua difficilissima soluzione.

Le recenti iniziative USA, cioè i contatti telefonici voluti da Trump verso Putin, e i colloqui fra Lavrov e Pompeo, dimostrano, al di là della retorica ufficiale, che il Deep state USA sta iniziando a rassegnarsi a una strategia di negoziazione con l’avversario.

La situazione venezuelana è ferma per ora alle seguenti novità, rispetto al precedente aggiornamento, 1) l’aborto di un maldestro tentativo di colpo di stato, verificatosi alla fine di aprile, 2) le nuove minacce di azione militare diretta da parte di alcuni sognatori USA. Nel prossimo capitolo tenteremo di presentare alcuni fattori materiali che potrebbero spiegare l’attuale impasse delle strategie USA in Venezuela.

Dopo il caso Venezuela si ripropone a nostro avviso un terzo e ultimo epicentro di crisi interimperialistica, l’Iran. Rispetto al precedente aggiornamento c’è la novità dell’invio di una portaerei USA e di un incrociatore lanciamissili di scorta nel golfo Persico, con la missione, a detta delle fonti USA, di impedire eventuali azioni dell’Iran contro gli interessi degli USA e dei loro alleati.

Un dato ulteriore relativo al golfo Persico è l’attuale presenza nelle sue acque di vascelli da guerra russi, di cui davamo notizia già alla fine di marzo in un articolo. Un altro dato è il recente annuncio di esercitazioni navali comuni, nel breve periodo fra unità della marina iraniana e russa. Analizzeremo nel secondo capitolo le implicazioni nascoste in questi dati oggettivi.

Non ci sono aggiornamenti di rilievo per l’epicentro siriano, dove ormai sconfitta l’ipotesi USA di regime change, o addirittura l’ipotesi di instaurazione di un principato salafita a cavallo di Siria e Iraq, restano sul campo poche pedine per l’apparato USA. Una di queste si chiama milizia curda. È prevedibile che la dirigenza curda, o almeno una sua parte, nei prossimi tempi sia indotta a rivedere i termini dell’attuale collaborazione con gli USA. Ovviamente anche in base alle mosse turche, alle offerte russo-siriane e all’evolversi del confronto nel golfo Persico.

Le cosiddette milizie ribelli nella sacca di Idlib, sostanzialmente divise fra protettori sauditi e e protettori turchi, sono ormai con l’acqua alla gola. Il momento in cui le forze russe e siriane decideranno di sferrare un colpo ad Idlib è probabilmente vicino. A quel punto non è da escludere che si ripresenti la stessa pantomima sull’uso di armi chimiche da parte dell’esercito siriano, ancora una volta messa in scena per giustificare un lancio di missili (fallimentare) da parte di USA e vassalli verso il territorio siriano ( come già accaduto nell’aprile 2017 e 2018).

Secondo capitolo: cause vicine e lontane del rompicapo

Iran, Ucraina e Venezuela, per ora sono i maggiori epicentri di crisi nel permanente confronto e scontro fra i maggiori apparati capitalistici. Ovviamente, quando parliamo di cause lontane ci riferiamo alla situazione emersa alla fine della seconda guerra mondiale, specificamente nel 1949, quando l’unione sovietica dimostra di avere anch’essa l’arma nucleare. Equilibrio del terrore, dissuasione nucleare, guerra fredda, sono in fondo il risultato dei rapporti di forza militari esistenti per lunghi decenni e reciprocamente riconosciuti dai principali attori del gioco geopolitico. Alla fine dell’impero sovietico alcuni analisti avevano incautamente parlato di fine della storia, presupponendo un tranquillo dominio unico imperiale degli USA, ma non è andata così.

Dopo oltre un decennio di politica internazionale improntata al criterio del basso profilo, in seguito al crollo del precedente apparato imperiale sovietico, l’apparato capitalistico superstite russo, pur in presenza della sottrazione di alcuni stati e territori vassalli (Polonia, Ungheria, DDR, Cecoslovacchia, stati baltici, Bulgaria e Romania), è riuscito a riprendersi dal colpo subito, perseguendo, a partire dagli inizi del nuovo secolo, una rinnovata politica internazionale di potenza e difesa stringente dei propri interessi (degli interessi della borghesia nazionale russa).

Soltanto degli stolti e degli ingenui potevano immaginare che una classe dominante come quella russa, espressione di una continuità storica millenaria, o meglio espressione di una selezione naturale avvenuta attraverso svariati scontri militari con avversari mortali, poteva essere priva delle conoscenze e delle risorse necessarie alla sua resurrezione.

Sta di fatto che al di là di queste considerazioni, la stessa natura concorrenziale della borghesia capitalistica, come ben descritto nel Manifesto, doveva mettere a tacere le improvvide affermazioni sul super-imperialismo USA. Qualche pollastro che sostiene di saperla lunga, poche settimane addietro ha monotonamente ripetuto che la Russia è una potenza locale. Abbiamo spesso criticato queste sciocchezze, in quanto segnale imperterrito di rozzo economicismo. Se dovessimo ritenere che la potenza o la debolezza di una borghesia si valuti con il solo parametro del PIL, allora dovremmo concludere che l’Italia è più potente della Russia. Invece nel mondo reale le cose non stanno così, ma i Pollastri/dilettanti allo sbaraglio perseverano a dispetto di tutto nella picaresca commedia degli errori. Orgogliosi di non recedere di un millimetro dalle loro saccenti incompetenze.

In realtà un complesso di fattori interagenti fanno la forza o la debolezza di un apparato capitalistico, in una certa situazione storica.

Elenchiamoli: potenza economica, cioè possesso di risorse energetiche, materie prime, capacità produttiva industriale, masse di proletari da sfruttare, possesso o controllo delle vie commerciali, PIL, limitata presenza di debito pubblico e privato, conoscenza scientifica, uso di tecnologia avanzata, e soprattutto la capacità delle élite dominanti di impiegare in modo efficiente ed efficace le risorse economiche e il complesso militare-industriale del proprio paese. In qualche riga precedente abbiamo ricordato che le classi dominanti nazionali apprendono una conoscenza vitale dalle lezioni della storia, tuttavia, potendo attingere a un bagaglio di esperienze storiche maggiore o minore, non posseggono in uguale grado questa conoscenza. Sembra che la classe dominante USA non riesca a fare tesoro dell’esperienza pregressa in campo di aggressioni militari fallite. Come potrebbe spiegarsi altrimenti l’attuale guerra mediatica verso Iran e Venezuela, e dietro di essi Cina e Russia? Davvero le teste fini del Deep state USA ritengono di potere attaccare Iran e Venezuela senza il rischio di un allargamento del conflitto a Russia e Cina?

In realtà è probabile, e sottolineiamo probabile, che l’industria militare USA abbia bisogno di uno stato permanente di agitazione, fatto di intenti e minacce bellicose verso dittatori e stati canaglia, per giustificare le richieste di finanziamenti sempre maggiori. Anche l’enfatizzazione dei progressi tecnologici degli avversari, servono a giustificare i finanziamenti statali al complesso militare-industriale, affinché possa colmare il divario tecnologico.

Il caso del caccia USA di quinta generazione, F35, è esemplare di come il consumo di enormi risorse produca alle volte solo dei risultati controversi. Si consideri poi che fra l’industria militare russa e USA è in atto una forte concorrenza, volta alla conquista del mercato globale delle armi. Esponenti dell’amministrazione USA hanno anche di recente protestato e minacciato ritorsioni commerciali verso la Turchia, se questo alleato NATO dovesse davvero acquistare il sistema difensivo russo denominato S400.

Il problema è che anche altri paesi, più o meno alleati degli USA, sembrano orientati verso l’acquisto di questo sistema (Arabia Saudita, Egitto, India).

Torniamo al rompicapo ‘esistenziale’ degli USA in Iran. Abbiamo di recente analizzato, nell’articolo ‘Sanzioni e strategia del caos’, alcuni sviluppi della situazione. Sembra che negli ultimi giorni le cose stiano ulteriormente evolvendo. L’arrivo imminente della portaerei Lincoln, insieme a una squadra navale di supporto nel golfo Persico, sembrerebbe preludere a una escalation militare. Eppure questa prospettiva, che non può essere esclusa a priori, nella realtà trova dei limiti di tipo sia economico che militare.

Da un punto di vista economico, impedire le vendite iraniane di petrolio, significherebbe aumentare il prezzo a barile, con i relativi danni all’economia europea. Mentre dal punto di vista militare i rischi di ricevere una dura lezione da Iran e alleati sono sullo sfondo e rendono poco praticabili le minacce USA. Le minori forniture di greggio iraniano potrebbero essere sostituite da maggiori forniture saudite, ma questo comunque non basterebbe a soddisfare le richieste dell’economia europea. È soprattutto non eviterebbe l’aumento del prezzo.

Va notato che come per North stream due, anche nel caso delle sanzioni all’Iran si prefigura una stessa logica commerciale di impedimento delle forniture energetiche a prezzo normale all’Europa, e la contemporanea offerta di sostitutivi a prezzi superiori (se non è questo un mezzo per creare problemi alla concorrenza, diteci allora che cos’è).

Sul piano del rompicapo militare è possibile approfondire ulteriormente, elencando altri due aspetti, 1) nelle acque del Golfo Persico, e soprattutto nelle vicinanze dei confini iraniani del nord, sono dislocate ingenti forze aereo navali e missilistiche russe, si suppone che nel caso di aggressione Usa all’Iran queste forze potrebbero essere coinvolte negli scontri. Nel precedente articolo ( Sanzioni e strategia del caos) ipotizzavamo tre scenari di sviluppo della crisi. Nel primo scenario, in presenza di un aggressione USA, Russia e Cina, si limitavano a semplici proteste diplomatiche, nel secondo scenario, dopo aspre discussioni fra politici e militari, il Cremlino accettava la sfida degli USA, e di seguito consentiva alle sue forze missilistiche e aeronavali di distruggere le piattaforme ( navi, aerei, basi terrestri) da cui era partito l’attacco USA. La distruzione subita dagli USA dimostrava con i fatti il superiore livello tecnologico raggiunto dall’armamento russo. Dunque si poneva per gli USA l’alternativa di continuare lo scontro con le armi convenzionali, continuando a subire perdite.umane e distruzione di mezzi, oppure tentare l’avventura nucleare. Ipotesi totalmente nefasta. La terza ipotesi, a nostro avviso quella con maggiore probabilità di realizzazione, era la seguente. Gli USA non aggrediscono l’Iran, quest’ultimo continua a fornire il greggio ai suoi clienti, magari in quantità inferiore al passato, l’America canta vittoria, e tutto finisce in questo modo. In realtà il terzo scenario, sarebbe il peggiore dal punto di vista geopolitico USA, in quanto comporterebbe una successiva perdita di influenza americana sui vassalli europei, e una contemporanea crescita del prestigio della Russia. In questo caso la Russia avrebbe conseguito una vittoria senza neppure una battaglia. Come teorizzato da Sun Tzu 5000 anni fa, la guerra migliore è quella che non viene combattuta.

Dunque questi sono i tasselli che formano il rompicapo iraniano, vedremo nei prossimi giorni se gli USA posseggono delle geniali intuizioni in grado di fargli risolvere questo rompicapo mortale in cui si sono ficcati, sia per favorire gli interessi di Israele e Arabia Saudita, sia per creare problemi all’economia europea e disturbi a Russia e Cina (l’Iran è un fornitore di greggio sia per la Cina che per l’India, e inoltre rappresenta uno snodo importante nel progetto di nuova via della seta).

Abbiamo in passato parlato di declino americano, premettendo che questo declino è più che altro il risultato del rafforzamento degli apparati capitalistici concorrenti. Cosa significa? Significa che gli USA, pur possedendo enormi risorse naturali e masse di forza lavoro da sfruttare, non ne posseggono in misura pari a quelle possedute dalla concorrenza. Specifichiamo ancora meglio: la popolazione americana è di poco superiore ai 300 milioni, mentre quella cinese si aggira sui 1500 milioni. Dunque la borghesia cinese può estrarre plus-lavoro da varie centinaia di milioni di proletari in più rispetto alla borghesia USA. La Russia invece possiede risorse naturali in quantità superiore a quelle presenti nel sottosuolo USA, anche se la sua popolazione non supera i 200 milioni. Se Cina e Russia fossero nazioni disarmate, oppure armate in modo tecnologicamente obsoleto, gli USA potrebbero impadronirsi facilmente delle ricchezze di questi paesi (masse di forza lavoro e di risorse naturali), tuttavia i due suddetti paesi sono in grado di proteggere le proprie ricchezze, insidiando un po’ dovunque le posizioni americane. In un futuro lontano, sconfitta la rivale borghesia americana, si svilupperanno nuove rivalità fra gli alleati di oggi, ma questa è una storia ancora da scrivere.

Il Venezuela rappresenta forse un rompicapo meno ostico per i cervelli del Deep state. In effetti esso si trova nel cortile di casa degli USA, e anche geograficamente un aggressione militare sarebbe meno esposta alle ritorsioni di apparati capitalistici concorrenti. Eppure, eppure…

I tasselli del rompicapo in questo caso sono gli investimenti di capitali cinesi e russi, e la presenza di truppe e mezzi di questi due apparati sul territorio venezuelano. Soprattutto i russi hanno delle forze dislocate in Venezuela. Volendo essere realistici, basterebbe l’attacco di un sommergibile o di un mig 31, armato con missili antinave Kinzhal per arrecare distruzioni inaccettabili ai vascelli da guerra USA.

Un tassello aggiuntivo del rompicapo venezuelano è lo schieramento dell’esercito nazionale a favore del governo chavista di Maduro. Davvero gli USA possono spendere somme ingenti, come in Iraq e Afghanistan, per tentare di provocare con un aggressione militare un cambio di regime?

E in caso di risposta affermativa chi garantirebbe agli USA di non piombare in un nuovo Vietnam sudamericano, proprio mentre sono aperti altri epicentri di crisi in Ucraina e nel golfo Persico?

Nessuno potrebbe fornire garanzie di successo ad un eventuale azione militare USA in Venezuela, il Deep state dovrà quindi pensare fino in fondo i rischi implicati in un avventura venezuelana.

Capitolo terzo: epicentri di crisi e prospettive di sviluppo principali e secondarie (riepilogo)

Il terzo capitolo cercherà di riprendere le argomentazioni contenute nell’introduzione e nei capitoli primo e secondo, proponendo ulteriori riflessioni riepilogative.

In modo particolare si tenterà di delineare uno scenario principale e uno secondario nello sviluppo delle maggiori crisi oggi in corso. L’ulteriore svolgersi degli eventi dimostrerà la fondatezza o l’infondatezza delle nostre previsioni.

Dunque tornando al Venezuela, quale interesse può avere l’America in questo paese? La risposta immediata è l’interesse a controllare le sue risorse petrolifere, attraverso contratti di favore per le imprese USA. Questa potrebbe essere solo una parte della verità. Tuttavia accettiamola pure come causa parziale, magari secondaria. A questo punto si potrebbe ipotizzare una causa, o insieme di cause principali. Il petrolio lo posseggono in abbondanza pure gli USA, dunque perché avventurarsi in una guerra con il Venezuela? Forse per gli stessi motivi per cui un impero in declino minaccia l’Iran, mantiene una certa pressione in Ucraina, continua a usare la carta curda per condizionare la situazione in Siria, cerca di bloccare il progetto North stream due, cerca di condizionare i rapporti fra Turchia e Russia o fra alcuni paesi europei e la Russia.

La risposta è banale: il motivo è la sete.

La sete di potere che accomuna tutti gli apparati capitalistici esistenti. Che sta dietro i loro conflitti infiniti, per accaparrarsi il bottino di plus-lavoro e di risorse naturali e industriali nei più svariati angoli del globo.

La sete di potere che costringe un impero in declino a tentare una serie di sfide impossibili da vincere con gli apparati concorrenti, come un vecchio lupo che cerca di lottare con i giovani lupi pronti a sostituirlo. L’impero USA ringhia e mostra i denti mentre i suoi rivali attendono di azzannarlo alla gola, man mano che i suoi alleati e vassalli diventano consapevoli della sua debolezza. Ruina Imperii. Il duello andato avanti per molti decenni sta per giungere all’epilogo, il gigante USA ricorda il re Macbeth assediato dai nemici nel suo castello, ossessionato dalla profezia che gli era stata fatta dalle tre fatidiche signore: solo un uomo non partorito da grembo di donna potrà ucciderti.

Gli avversari fiutano la paura che si nasconde dietro le arroganti dichiarazioni del personale politico e militare USA, sanno bene che ogni minaccia non mantenuta toglie ulteriore credibilità al gigante indebolito. Ogni passo falso avvicina la fine della farsa. Come potrebbe il gigante indebolito sostenere i costi di una nuova avventura militare venezuelana, dopo i miliardi di dollari buttati in Iraq e Afghanistan, dopo gli investimenti a perdere in Siria, a sostegno dei ‘ribelli’ al governo di Assad, oltretutto con una pletora di cinquecento basi militari dislocate ai quattro angoli del mondo. Costi troppo alti per un paese con 60.000 mila miliardi di dollari di debito, in presenza di varie decine di milioni di poveri, vagabondi, barboni costretti a sopravvivere in modo incerto, sempre esposti a morte precoce per freddo, fame e malattia.
Un sistema socio-economico infame, che invece di pensare ai gravi problemi della povertà interna, si alambicca in progetti di impossibili vittorie militari, in avventure già in partenza abortite, i cui costi vanno inevitabilmente a ricadere sulle spalle del contribuente proletario e piccolo borghese.
I costi delle avventure militari USA, ma in generale i costi del complesso militare-industriale, funzionano in fondo come fattore di rafforzamento degli effetti della legge della miseria crescente, la cui causa principale è la disoccupazione determinata dall’incremento dell’uso di capitale costante, macchinario, nei processi produttivi. Dunque quale scenario è maggiormente prevedibile per il Venezuela? Con i dati in nostro possesso, dati informativi di pubblico dominio ovviamente, è verosimile dedurre che non ci sarà un attacco militare diretto USA, mentre è plausibile che tra qualche tempo riprenderà il copione delle proteste ‘popolari’ eterodirette contro il cattivone Maduro, e i connessi tentativi di colpo di stato. Tuttavia, avendo già percorso questa strada e avendo registrato un fallimento, è anche difficile concepire il tipo di tornaconto politico esistente nella sua ripetizione. Lo scenario di un invasione del Venezuela non è da escludere, anche se i rischi implicati in un azione del genere sono troppo alti anche per consentire il passaggio dalle parole ai fatti. Abbiamo già analizzato la crisi ucraina, mentre merita qualche approfondimento la crisi iraniana. Il tintinnare di sciabole è continuo, tuttavia è un rumore che proviene solo da una parte, da parte del personale politico-militare USA, mentre gli altri (Iran e Russia) tacciono. È un silenzio che gli USA farebbero bene a non sottovalutare.

Un silenzio che può significare l’essere pronti all’attacco americano e questa volta, se le forze russe non avranno le mani legate dalla propria direzione politica, la possibilità di una rappresaglia missilistica devastante per le unità aeronavali e le basi USA.

Questo scenario è a nostro avviso secondario, mentre è più verosimile, dati i rapporti di forza esistenti, che gli USA vengano informati dalla controparte della immediata rappresaglia in caso di aggressione, e quindi recedano da eventuali intenti bellicosi. In entrambi gli scenari gli USA perderebbero ulteriori posizioni geopolitiche. Tuttavia il primo scenario sarebbe di fatto una sfida aperta fra due imperi, gravida di conseguenze apocalittiche, proprio per questo accuratamente evitata dal dopoguerra ad oggi.

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