Punto n.18: le aristocrazie operaie

Nota redazionale: aristocrazia operaia e classe operaia; cosa distingue i due aggregati sociali? Il punto 18 è esplicito: ”secondo Engels i lavoratori inglesi in generale (o una gran parte di essi) sono ideologicamente asserviti alla borghesia nel senso che la pensano come i borghesi, ma solo i loro capi, una ristretta élite del proletariato, rappresenta le fetta dei corrotti. Ma lasciamolo dire meglio dalla Sinistra: “Qui sono svelati chiaramente cause ed effetti. Cause: 1) sfruttamento di tutto il mondo per opera del paese in questione; 2) sua posizione di monopolio sul mercato mondiale; 3) suo monopolio coloniale. Effetti: 1) imborghesimento di una parte del proletariato metropolitano; 2) una parte del proletariato si fa guidare da capi che sono comprati o almeno pagati dalla borghesia”. E ancora: ”L’operaio corrotto è l’operaio che campa, come la piccola borghesia, pappandosi una quota del plusvalore estorto al resto della classe operaia dentro e fuori dalle metropoli imperialiste. Corruzione significa, in altri termini, essere pagati non occasionalmente al di sopra del valore della propria forza-lavoro, significa percepire di più di quanto serve per ricostituire quella forza-lavoro, e talora, ma non necessariamente, anche di più del valore di quanto si produce”.

Ancora più esplicito: ”Ben diversa è la condizione dell’aristocrazia operaia, cui viene corrisposto un salario corrispondente, poniamo, a 6 ore-lavoro mentre per ricostituire la sua forza-lavoro basterebbe un salario corrispondente a 2 ore-lavoro (stereo, auto e lavatrice inclusi): il capitalismo ci rimette 4 ore-lavoro nette, che letteralmente regala all’aristocrazia per comprare i suoi servigi sociali e politici, prelevandole alla massa del plusvalore estorto all’insieme della classe operaia. E’ in quel “di più” stabilmente e consistentemente percepito rispetto al valore reale della forza-lavoro ceduta che risiede la base economica della corruzione. Quel “di più” rappresenta infatti il prezzo del tradimento proprio perché è plusvalore estorto al resto della classe operaia, contro la quale l’aristocrazia operaia, proprio come la piccola e media borghesia, si erge ora come un’entità estranea e nemica. Il capitalismo infatti in tanto è parassitario in quanto pone “parte di frutti” derivati dallo sviluppo delle forze produttive “a disposizione di uno strato di ceti intermedi, di piccola e media borghesia e di aristocrazia operaia ai fini della sua conservazione”.

Dunque l’aristocrazia operaia proprio come la media e piccola borghesia, pappandosi una quota del plusvalore estorto al resto della classe operaia, dentro e fuori le metropoli imperialiste, si erge ora nei confronti del resto della classe come una entità nemica ed estranea: ”Quel “di più” (quella quota di plusvalore) rappresenta infatti il prezzo del tradimento proprio perché è plusvalore estorto al resto della classe operaia, contro la quale l’aristocrazia operaia, proprio come la piccola e media borghesia, si erge ora come un’entità estranea e nemica”.

La maggioranza della classe, invece, pur essendo esposta alla metamorfosi dei pensieri e delle azioni, cioè pur pensando in un modo condizionato dall’ideologia borghese non può essere considerata alla stregua dell’aristocrazia operaia. Il punto 18 è netto: ”Quindi, rimettendo le cose al loro posto: una minoranza della classe operaia metropolitana (=aristocrazia operaia) è corrotta e imborghesita socialmente e ideologicamente; la maggioranza di essa non è né corrotta né degenerata (=socialmente imborghesita), ma è imborghesita solo dal punto di vista ideologico, nel senso che, pur non avendovi un tornaconto, è succube dell’ideologia borghese, ad essa veicolata da un opportunismo che recluta i suoi quadri sia tra la piccola borghesia sia tra l’aristocrazia operaia. Ecco allora la “base materiale” dell’opportunismo: l’aristocrazia operaia, che, assieme alla piccola borghesia fornisce ad esso materiale umano ed idee. Il resto della classe operaia, la maggioranza, si lascia intossicare da quelle idee non perché condivida gli stessi interessi materiali degli strati operai corrotti e del ceto medio, ma perché agisce e pensa contro i propri interessi materiali, perché agisce e pensa come una cosa della società borghese, come un attrezzo della produzione capitalista. La cosa non dovrebbe stupire quanti hanno appreso l’ABC del marxismo, e cioè che “le idee dominanti sono le idee della classe dominante” (Marx), il che significa che il proletariato, la maggioranza del proletariato professa ideologie contrarie ai suoi interessi storici ed immediati”.

Questa estrema chiarificazione offre spunto per una ulteriore argomentazione: ”La legge marxista secondo cui via via che il capitalismo si impone e grandeggia la miseria si accumula ad un polo della società simmetricamente al crescere della ricchezza al polo opposto non implica necessariamente che i due “poli” debbano coincidere, come vorrebbero i politologi terzomondisti, con una precisa disposizione geografica e in particolare con una localizzazione al Nord del polo della ricchezza e al Sud di quello della miseria. Che le metropoli imperialiste drenino sovrapprofitti dai paesi della “periferia” è un dato di fatto incontestabile. Che le briciole di tali sovrapprofitti vadano ad alimentare le aristocrazie operaie, vera “cinghia di trasmissione” degli interessi borghesi in seno alla classe operaia, anche. Che a questo modo il capitalismo si assicuri la pace sociale nelle metropoli è una ulteriore fatto che abbiamo registrato. Ma da tutti questi elementi di fatto non è possibile trarre la falsa conseguenza che la lotta di classe nelle metropoli sia ormai storicamente e definitivamente tramontata in forza di profonde e radicali modificazioni che sarebbero intervenute nel tessuto sociale dei paesi capitalisti più avanzati. Le aristocrazie operaie sono sempre state e restano una minoranza più o meno esile della classe operaia metropolitana, il che significa che la massa della miseria seguita a crescere non solo nelle bidonvilles dei paesi della periferia capitalistica, ma nel cuore mostruoso dei principali centri imperiali. Che alla stragrande maggioranza degli operai delle metropoli è negata non solo la facoltà di accumulare, requisito indispensabile per assurgere dai gironi infernali del lavoro salariato all’empireo delle mezze classi, ma anche una quota crescente della ricchezza prodotta, alla faccia del migliorato “tenore di vita”, che è e resta uno specchietto per le allodole. “Eppure, malgrado tutto il «progresso economico», rimane una grande verità di fatto, una verità sempre più viva e palpitante, che la massa della miseria della classe lavoratrice non è per nulla diminuita e che la sua schiavitù salariale è così terribilmente aumentata da superare ogni limite prima raggiunto. Centinaia di milioni di lavoratori, di proletari, di semi-proletari, di salariati di tutti i paesi, sono sottoposti ad uno sfruttamento spietato, a una schiavitù costante ed avvilente; mentre una gran parte di essi vive addirittura nella più nera e squallida miseria, soffrendo letteralmente la fame. Lavoratori dell’India e in genere dell’Asia, dell’Africa, dell’America meridionale e centrale, della «ricca» Europa e della «ricchissima» America del Nord, salariati di tutte le razze e di tutti i continenti, sono permanentemente soggetti all’assillo spietato del bisogno economico e della ricerca del pane, alla minaccia costante della disoccupazione, alla paura della guerra; in balia di un meccanismo inesorabile di sfruttamento. Tutta una massa enorme dell’umanità, la stragrande maggioranza di essa, patisce sofferenze incalcolabili a causa del cieco e spietato dominio del capitale, di questo vampiro sociale che si ingigantisce nutrendosi del sangue succhiato al vivente lavoro”. La verità dunque, secondo la Sinistra, è che la miseria cresce anche nelle metropoli, e che la stragrande maggioranza delle masse salariate di tutte le razze e di tutti i continenti, operai bianchi e metropolitani inclusi, lungi dall’essere corrotta e imborghesita, come osano affermare alcuni sedicenti continuatori della Sinistra corrotti e imborghesiti, patisce, col grandeggiare del dominio capitalista, sofferenze incalcolabili. Secca crescita dello sfruttamento, dunque, anche nei periodi delle “vacche grasse”, per la stragrande maggioranza degli inebetiti operai delle metropoli. Ma quando siamo nei periodi bui delle vacche magre (e lo siamo in tutto il mondo dal 1974-75), alla crescita dello sfruttamento, che per il marxismo non adulterato equivale già a miseria crescente, fa seguito anche il frantumarsi delle pseudo garanzie, l’abbassamento drastico del tenore di vita, insomma la povertà nera, che da allora è andata anch’essa inesorabilmente crescendo anche nelle metropoli, pur senza aver ancora raggiunto il livello di guardia oltre il quale si profila lo spettro delle rivolte e più ancora delle guerre sociali”.

Sono in effetti questi fenomeni a porre in essere il continuo distacco dai condizionamenti dell’ideologia dominante, per una parte della classe operaia, che rappresenta l’antitesi socio-politica dell’aristocrazia operaia, ovvero l’avanguardia operaia.

Buona lettura

 

 

Punto n°18: le aristocrazie operaie

LA STRAGRANDE MAGGIORANZA DELLA CLASSE OPERAIA DELLE METROPOLI E’ IDEOLOGICAMENTE ASSERVITA AL CAPITALISMO MA NON CORROTTA.

Il fenomeno dell’apparire delle aristocrazie operaie e la sua correlazione coll’opportunismo politico e sindacale da un lato e con l’imperialismo dall’altro non sono certo dei fatti nuovi. Lo spiega molto bene un “Filo del Tempo” che è utile rileggere estesamente. “Occorre rilevare come in Inghilterra la tendenza dell’imperialismo a scindere la classe lavoratrice, a rafforzare in essa l’opportunismo, e quindi a determinare per qualche tempo il ristagno del movimento operaio, si sia manifestata assai prima della fine del XIX e degli inizi del XX secolo. Ivi infatti le due caratteristiche più importanti dell’imperialismo, cioè un grande possesso coloniale e una posizione di monopolio del mercato mondiale, apparvero fin dalla metà del secolo XIX. Marx ed Engels seguirono per decenni sistematicamente la connessione dell’opportunismo in seno al movimento operaio con le peculiarità imperialistiche del capitalismo inglese. Per esempio Engels scriveva a Marx il 7 ottobre 1858 (ottocento): «Il proletariato inglese si imborghesisce sempre più, sicché questa, che è la più borghese di tutte le nazioni, sembra infine voler arrivare a possedere un’aristocrazia borghese e un proletariato borghese, accanto alla borghesia. Del resto ciò è in una certa guisa spiegabile per una nazione che sfrutta tutto il mondo»” (1). Già un secolo e mezzo fa la classe operaia metropolitana era imborghesita, dunque? Certo, ma questo non significa automaticamente che fosse corrotta. Proseguiamo. “Circa un quarto di secolo più tardi, in una lettera dell’11 agosto 1881, egli parla di quelle spregevolissime Trade Unions inglesi «che si fanno guidare da uomini venduti alla borghesia o almeno da essa pagati» ( 2). Ecco dunque comparire sul proscenio i corrotti, i venduti, coloro che sono pagati dalla borghesia per aggiogare gli altri operai al carro del capitalismo: sono coloro che guidano le Trade Unions, sono i bonzi sindacali, oltre che, naturalmente, i caporioni del Labour Party. “E in una lettera a Kautsky del 12 settembre 1882 [Engels] scriveva ancora: «Ella mi domandava che cosa pensino i lavoratori inglesi della politica coloniale. Ebbene, precisamente lo stesso che pensano della politica in generale. In realtà non esiste qui alcun partito di lavoratori, ma solo conservatori e liberali radicali, e gli operai godono del monopolio commerciale e coloniale dell’Inghilterra sul mondo». E lo stesso dice Engels nella prefazione alla seconda edizione della «Situazione delle classi lavoratrici in Inghilterra», nel 1892” (3). Quindi secondo Engels i lavoratori inglesi in generale (o una gran parte di essi) sono ideologicamente asserviti alla borghesia nel senso che la pensano come i borghesi, ma solo i loro capi, una ristretta élite del proletariato, rappresenta le fetta dei corrotti. Ma lasciamolo dire meglio dalla Sinistra: “Qui sono svelati chiaramente cause ed effetti. Cause: 1) sfruttamento di tutto il mondo per opera del paese in questione; 2) sua posizione di monopolio sul mercato mondiale; 3) suo monopolio coloniale. Effetti: 1) imborghesimento di una parte del proletariato metropolitano; 2) una parte del proletariato si fa guidare da capi che sono comprati o almeno pagati dalla borghesia” (4). Se i due fenomeni citati tra gli effetti fossero in realtà lo stesso fenomeno non ci sarebbe bisogno di enumerarli in due punti tra loro nettamente distinti e separati, il punto 1 che concerne una parte del proletariato metropolitano (imborghesito, e cioè asservito ideologicamente alla borghesia), e il punto 2, che concerne i suoi capi (comprati o almeno pagati e quindi corrotti). La chiave di volta dell’intera questione è che l’adesione ai postulati ideologici delle classi possidenti e l’inquadramento entro i meccanismi che ne esprimono il potere non traduce meccanicamente una identità di interessi materiali nel mantenere in vita l’impalcatura del vigente modo di produzione da parte di tutte le classi e frazioni di classi che a quei postulati ideologici aderiscono. La maggioranza della classe operaia delle metropoli è resa “esitante ed anche opportunista al momento della lotta sindacale e peggio dello sciopero e della rivolta” (5) dalle sia pur minima riserva economica che l’imperialismo può tuttora offrirle, riserva che si collega a “tutta la gamma di misure riformiste di assistenza e di previdenza per il salariato” e che “rappresenta una piccola garanzia patrimoniale da perdere” (6). La massa operaia dà ogni giorno innumerevoli “prove di egoismo o d’indifferenza” (7). Ciò significa che l’aristocrazia operaia si è oggi dilatata fino ad inglobare la stragrande maggioranza della classe operaia delle metropoli? Che la stragrande maggioranza della classe operaia metropolitana è corrotta, come lo è per definizione l’aristocrazia operaia? Che la stragrande maggioranza della classe operaia metropolitana è degenerata, ossia che è uscita dal suo genere (proletariato) per andare a far parte di un altro genere (piccola borghesia)? Che essa si è, in altri termini, socialmente e non solo ideologicamente imborghesita? Per rispondere a questi quesiti dobbiamo esaminare anzitutto il significato delle parole che usiamo. Primo punto: che cos’è l’aristocrazia operaia? Essa rappresenta una frazione della classe operaia che è a tutti gli effetti socialmente degenerata (imborghesita) e corrotta. Corrotta non significa che “gode” rispetto al passato di un maggior benessere, in cui si concretizzano gli sbandierati “miglioramenti del tenore di vita operaio”, ma che campa poggiando sullo sfruttamento altrui e approfittando di esso per mantenere un tenore di vita nettamente più elevato del resto degli operai o per accumulare ricchezze. L’arcano del migliorato tenore di vita operaio col progredire del capitalismo, invece, è tutt’uno con la legge della caduta tendenziale del saggio di profitto, e non vi si scopre la diagnosi fasulla di un imborghesimento dell’operaio e quindi dell’eternità del capitalismo, ma, all’opposto, quella della morte certa di esso, soffocato dall’ingorgo delle immense masse di prodotti in cerca di consumatori: “il modo capitalista di produzione una volta instaurato non può sostenersi se non accrescendo di continuo, non la dotazione di risorse ed impianti atti a una migliore vita degli uomini con minori rischi, tormenti e sforzi, ma la massa delle merci prodotte e vendute”. Siamo nel sancta sanctorum del modo capitalistico di produzione perché l’insopprimibile spinta al lievitare bestiale della massa dei prodotti traduce la reazione all’inevitabile caduta del saggio di profitto, del profitto per unità di prodotto. “Crescendo la popolazione meno della massa dei prodotti”, il che è inevitabile dato che gli esseri umani, a differenza dei prodotti industriali, non si riproducono a macchina e crescono in relazione a spinte biologiche che non sempre obbediscono alle inorganiche esigenze della macchina produttiva borghese, “occorre trasformarne le masse [dei prodotti] in maggiori (quali che siano) consumi, e in nuovi mezzi di produzione, infilando una via senza uscita. Questo il carattere essenziale, inseparabile dall’aumentata forza produttiva dei meccanismi materiali che scienza e tecnica mettono a disposizione. Ogni altro carattere relativo alla statistica composizione delle classi, e al gioco, indubbiamente influente, delle soprastrutture amministrative, giuridiche, politiche, organizzative e ideologiche non è che secondario ed accessorio e non sposta i termini della fondamentale antitesi col modo di produzione comunista contenuta intiera ed invariante nella dottrina proletaria rivoluzionaria, dal Manifesto del 1848” (8). Ben altra cosa rispetto all’aumento dei consumi operai ed al migliorato tenore di vita della massa dei lavoratori, di cui si è sopra chiarita l’origine, è il fenomeno della corruzione. L’operaio corrotto è l’operaio che campa, come la piccola borghesia, pappandosi una quota del plusvalore estorto al resto della classe operaia dentro e fuori dalle metropoli imperialiste. Corruzione significa, in altri termini, essere pagati non occasionalmente al di sopra del valore della propria forza-lavoro, significa percepire di più di quanto serve per ricostituire quella forza-lavoro, e talora, ma non necessariamente, anche di più del valore di quanto si produce. Non significa affatto, come ritengono i nostri contraddittori, avere più beni di consumo a disposizione, ossia maggior “benessere”, in quanto la maggiorata massa di beni di consumo può corrispondere e di fatto corrisponde ad un uguale o anche ad un minor valore e, in quest’ultimo caso, ad una maggiore erogazione di plusvalore: prima con 4 ore-lavoro producevo il controvalore del mio consumo e le altre 4 ore se le pappava il capitalismo, adesso con 2 ore-lavoro produco il controvalore di un consumo che include anche auto, stereo e lavatrice, ma il capitalismo si pappa 6 ore. Il mio “maggior benessere” consiste in un’auto, in una lavatrice ed uno stereo svalutati in più di contro ad un’estorsione accresciuta di lavoro non pagato. “Il lavoratore riceve il suo salario e lo consuma tutto. In origine esso basta appena a farlo vivere, colla aumentata produttività esso cresce, ma in ragione assai più lenta di questa: eleva il suo tenore di vita, ma non raggiunge nemmeno per sogno gli euforici livelli ai quali gli si può dire: metti da parte!” (9). Non può mettere da parte perché nulla gli resta dopo aver provveduto a ricostituire la sua forza-lavoro, necessità in cui, col progredire del sistema capitalista, rientrano anche le rate dell’auto, la benzina e talvolta anche il biglietto dell’autostrada, di sicuro quelle della lavatrice, senza la quale dovrebbe restare a casa a fare il bucato a mano invece di occupare il suo tempo a spostarsi dal suo domicilio al posto di lavoro e viceversa, e cioè i tanto decantati fattori del suo “welfare”. Dando prova di una grande capacità di sintesi il marxista inconsapevole Antonio De Curtis, facendo il verso al lirico “io ho quel che ho donato” di Gabriele D’Annunzio, aveva enunciato una legge generale: “Io ho quel che ho rubato” (10). Ben diversa è la condizione dell’aristocrazia operaia, cui viene corrisposto un salario corrispondente, poniamo, a 6 ore-lavoro mentre per ricostituire la sua forza-lavoro basterebbe un salario corrispondente a 2 ore-lavoro (stereo, auto e lavatrice inclusi): il capitalismo ci rimette 4 ore-lavoro nette, che letteralmente regala all’aristocrazia per comprare i suoi servigi sociali e politici, prelevandole alla massa del plusvalore estorto all’insieme della classe operaia. E’ in quel “di più” stabilmente e consistentemente percepito rispetto al valore reale della forza-lavoro ceduta che risiede la base economica della corruzione. Quel “di più” rappresenta infatti il prezzo del tradimento proprio perché è plusvalore estorto al resto della classe operaia, contro la quale l’aristocrazia operaia, proprio come la piccola e media borghesia, si erge ora come un’entità estranea e nemica. Il capitalismo infatti in tanto è parassitario in quanto pone “parte di frutti” derivati dallo sviluppo delle forze produttive “a disposizione di uno strato di ceti intermedi, di piccola e media borghesia e di aristocrazia operaia ai fini della sua conservazione” (11). Già sulla base di queste elementari considerazioni risulta evidente che, coi conti della serva alla mano, l’aristocrazia operaia non può per definizione dilatarsi fino ad includere, come si pretenderebbe, “la stragrande maggioranza della classe operaia”. Il Partito non ha mai parlato, in effetti, fino ad ora, di una corruzione della maggioranza della classe operaia, e tanto-meno della sua “stragrande maggioranza”, ma ha parlato, invece, di “briciole, concesse a una parte della classe operaia” e tratte “dalle masse enormi di profitti e sovrapprofitti estorti dalla propria borghesia al resto del mondo”; ed anche di “alcuni strati della classe operaia in Europa e negli Stati Uniti” che in forza di quella spoliazione “si sono venuti a trovare, rispetto a quelli del resto del mondo, in una diversa condizione materiale di vita” (12). Anzi, il Partito ha respinto in anticipo simili teorizzazioni affermando nel 1953, in pieno delirio “benesserista”, che “giace in pezzi la descrizione di questa pretesa società prospera, avviata verso un livellamento del tenore di vita e della ricchezza individuale, che sarebbe composta da una classe media senza classi estreme” (13). La contro-tesi che oggi si enuncia, secondo cui la “stragrande maggioranza” della classe operaia è imborghesita e corrotta, non costituisce quindi una novità, ma è la carrozzella di ritorno della dottrina balorda secondo cui dovremo registrare il trionfo delle “mezze classi”, facendo gettito dei cardini stessi del marxismo. Questa dilatazione inconsulta e inaudita, che oltretutto annulla il significato stesso del termine “aristocrazia” (quando mai si è visto che un’aristocrazia costituisca la stragrande maggioranza di un aggregato sociale?), implica infatti che il capitalismo abbia risolto definitivamente tutte le sue contraddizioni, che non prelevi più il plusvalore come lavoro operaio non pagato ma che abbia trovato il modo di materializzarlo dal nulla. Oppure che il capitalismo non sia più capitalismo, ma che si sia spontaneamente socialistizzato, sottraendo una parte consistente della massa del plusvalore alla sua propria “fame ardente di sopralavoro” (Marx), che lo costringe normalmente a reinvestirlo quanto più è possibile, per andare a distribuirlo sotto forma di beni di consumo, atti a rispondere ai bisogni non già del ciclo di accumulazione, ma degli esseri umani, della “stragrande maggioranza” dei produttori. Nel qual caso la nostra consegna dovrebbe essere: “Proletari, lasciatevi corrompere senza opporre resistenza!”. Perciò ogni teoria sull’imborghesimento della classe operaia, come quella enunciata a suo tempo da Herbert Marcuse e demolita dal nostro Partito (13), rappresenta una nuova dottrina, che dà l’addio per sempre alla nostra Rivoluzione sulla base di una falsa considerazione del divenire del capitalismo. Quindi, rimettendo le cose al loro posto: una minoranza della classe operaia metropolitana (=aristocrazia operaia) è corrotta e imborghesita socialmente e ideologicamente; la maggioranza di essa non è né corrotta né degenerata (=socialmente imborghesita), ma è imborghesita solo dal punto di vista ideologico, nel senso che, pur non avendovi un tornaconto, è succube dell’ideologia borghese, ad essa veicolata da un opportunismo che recluta i suoi quadri sia tra la piccola borghesia sia tra l’aristocrazia operaia. Ecco allora la “base materiale” dell’opportunismo: l’aristocrazia operaia, che, assieme alla piccola borghesia fornisce ad esso materiale umano ed idee. Il resto della classe operaia, la maggioranza, si lascia intossicare da quelle idee non perché condivida gli stessi interessi materiali degli strati operai corrotti e del ceto medio, ma perché agisce e pensa contro i propri interessi materiali, perché agisce e pensa come una cosa della società borghese, come un attrezzo della produzione capitalista. La cosa non dovrebbe stupire quanti hanno appreso l’ABC del marxismo, e cioè che “le idee dominanti sono le idee della classe dominante” (Marx), il che significa che il proletariato, la maggioranza del proletariato professa ideologie contrarie ai suoi interessi storici ed immediati. Ma ancor meno dovrebbe stupire se ci rendiamo conto che tra gli occhi degli operai e la realtà dello sfruttamento capitalistico la classe dominante ed i suoi manutengoli hanno eretto un diaframma costituito da pseudogaranzie, che non annullano lo sfruttamento, ma lo esasperano, portando i senza-riserve col sistema del consumo a credito da una riserva zero ad una riserva negativa (14), anche se simultaneamente hanno comportato finora un certo miglioramento del tenore di vita operaio medio. Migliorato tenore di vita non significa, ripetiamolo ancora una volta, corruzione. Tale miglioramento è infatti sinonimo di disposizione di un maggior volume di beni di consumo deprezzati e svalorizzati e quindi è del tutto coerente con l’immiserimento simultaneo della classe operaia giacché “miseria non vuol dire basso salario, vuol dire nullatenenza dei soli che la dilagante ricchezza hanno prodotto «remando» nella torva fabbrica dell’impresa industriale” (15). Nello stesso tempo, tuttavia, esso ha agito e agisce tuttora come un sedativo in quanto genera l’illusione che quelle garanzie abbiano una intrinseca stabilità, mentre in realtà voleranno in frantumi al minimo urto nell’arco di poche settimane se non di pochi giorni, che è poi l’illusione di condividere la sorte delle classi possidenti e dell’aristocrazia operaia. “La precarietà in cui vive nella società moderna il salariato non risulta tanto oggi dal suo tenore di vita nei periodi in cui la macchina della produzione marcia e accelera, quanto dall’integrale delle sue condizioni di vita in lunghi periodi di corsa sull’orlo dell’abisso e di alternato precipitare in esso. Per quante impalcature possa la «civiltà» borghese costruire, è certo che in pochi giorni o settimane ogni protezione del salariato, senza proprietà e senza risparmio, senza riserva, sparisce se arriva la nera crisi e la dilagante disoccupazione”, mentre è “ben diversa la sorte delle classi «a riserva»” (16), tra cui va annoverata anche l’aristocrazia operaia, che, come si è visto prima, fa parte a tutti gli effetti dei ceti intermedi. Chi teorizza che la classe operaia è “degenerata” mostra non solo di condividere questa perniciosissima illusione, ma anche di presumere che tra le idee e la collocazione sociale sussista un rapporto diretto, lineare e meccanico, attestandosi su posizioni che la nostra scuola definisce “materialismo volgare” e che, tradotte in politica, significano cretinismo democratico. Se la maggioranza della classe operaia professa idee borghesi ed opportuniste, sostengono i materialisti volgari, ciò significa necessariamente che la maggioranza della classe operaia è corrotta ed aristocratica. Se così fosse, allora nelle epoche che precedettero la fase imperialista, quando ancora la maggioranza degli operai non era corrotta, essa avrebbe dovuto aderire alle idee comuniste e instaurare il comunismo per via elettorale e parlamentare. E invece la maggioranza non corrotta della classe operaia stava e sta dalla parte dei suoi sfruttatori, condividendone le idee anche prima dell’imperialismo, anche prima del sorgere delle attuali “aristocrazie operaie”. Anche allora gli operai non “votavano” per il comunismo. E sin da allora noi eravamo antidemocratici. Chi non ha digerito nemmeno il “Manifesto del Partito Comunista” è destinato a ricadere invece obbligatoriamente nel più crasso democratismo, se è vero che “la realtà non perdona nessun errore teorico” (Trotsky). Prima dell’imperialismo esistevano altre forme di corruzione, altre basi materiali del fenomeno dell’opportunismo: la fusione di alcuni strati operai con l’artigianato non si era ancora dissolta, e persistevano inoltre molto più di adesso alcune figure sociali ibride che sono tuttora in circolazione, come gli operai-contadini, forme che erano tutte l’espressione della arretratezza delle forze produttive. Anche quegli strati erano corrotti perché erano mezzi-borghesi, e da lì l’opportunismo trasse i suoi quadri e le sue idee (Proudhon). Oggi il capitalismo imperialista distribuisce vere riserve e vere garanzie a pochi e false riserve e false garanzie alla maggioranza degli sfruttati, assegnando ai primi il compito di far credere ai secondi che dispongono anch’essi di vere garanzie, in modo da assoggettarli ideologicamente. Non solo: con il progresso delle forze produttive e l’automazione l’aristocrazia operaia tende da un lato a ridursi dal punto di vista quantitativo (fenomeno che è tutt’uno con la proletarizzazione del ceto medio), dall’altro a modificarsi dal punto di vista qualitativo, surrogandosi sempre più un’aristocrazia politica (personale appartenente agli apparati opportunisti) alla precedente aristocrazia tecnica (operai specializzati), come risulta evidente dal ravvicinarsi della forbice salariale tra operai generici e specializzati nei contratti di lavoro e dal simultaneo divaricarsi della forbice tra i salari della massa operaia e gli stipendi dei bonzi. In questo processo noi leggiamo il grandeggiare del parassitismo e della putrefazione capitalista e la verifica della legge storica dell’aumento della massa della miseria, della massa cioè dei senza-riserve, oggi ancora ipnotizzati dalle fasulle “garanzie” che sono state loro propinate e che coincidono, come si è visto, con un miglioramento dei consumi ma anche con un aumento secco del tasso di sfruttamento. Tuttavia va ribadito che “non si può accusare di egoismo e di mancanza di slancio rivoluzionario chi”, in virtù anche di quelle fasulle garanzie, oggi “non sente nemmeno lo stimolo di migliorare le proprie condizioni, non sente né ribellione né malcontento, non difende neppure i più elementari diritti individuali. Procurare di sviluppare nel proletariato l’aspirazione alla più assoluta libertà e uguaglianza sociali, a renderlo intollerante verso qualsiasi ingiustizia, è dovere elementarissimo di ogni socialista, ma a nessuno spetta il diritto di esigere che il proletariato sia oggi come un giorno diventerà. Volere questo vuoi dire fare astrazione dalle condizioni in cui esso vive, vuol dire creare delle utopie, ed ogni utopia è secondo noi una aspirazione piccolo borghese, non già la manifestazione di una volontà fattiva, che è tale perché sa comprendere gli ostacoli, e li affronta per sormontarli” (17). Ciò significa che quando quelle pseudo-garanzie andranno finalmente in frantumi il proletariato vincerà se incontrerà un Partito che aveva denunziato già da prima il gioco infame attraverso cui la piccola borghesia ed il bonzume aristocratico le avevano spacciate per delle vere e solide “riserve”, non certo un Partito che si era divertito fino a quel momento a raccontare fiabe sulla presunta “corruzione della classe operaia”, avallando a sua volta l’inganno. Solo se incontrerà un Partito che in tanto ha diritto di dirsi marxista in quanto non nutre sentimenti di disprezzo verso la massa operaia. In quanto non è un Partito genuflesso alle aspirazioni dei piccoli-borghesi infuriati, che esigono che il proletariato sia fin d’ora rivoluzionario o quantomeno animato dallo spirito della lotta di classe e che, se si accorgono che non lo è, si indignano e strepitano che la classe operaia è ormai degenerata e imborghesita. Conviene a tale proposito riportare per esteso alcuni limpidi brani dell’articolo del 1913 prima citato, che rivestono un carattere di grande attualità: “Se si tiene conto delle condizioni sociali e quindi anche morali ed intellettuali in cui vivono le masse, non si ha diritto di meravigliarsi delle prove di egoismo o d’indifferenza che manifestano alcune organizzazioni di mestiere, ma bisogna meravigliarsi che non succeda di peggio”. Per tali motivi “chi è marxista non può deprezzare il movimento operaio”, mentre a tanto giunge, tipicamente, l’intellettuale piccolo-borghese che non è un vero disertore in quanto è rimasto prigioniero della psicologia della sua classe d’origine. “Secondo noi il primo dovere dell’intellettuale che vuole servire la causa del proletariato è quello di spogliarsi della propria psicologia piccolo-borghese e procurare d’immedesimarsi con quella del proletariato. La borghesia come classe non ci potrebbe riuscire – i singoli transfughi della borghesia compenetrati della serietà del compito che si assumono e della modestia di ciò che possono dare al movimento proletario possono raggiungere questo scopo, basta che studino e osservino e disciplinino il proprio pensiero e la propria azione e li immedesimino col pensiero e con la azione del proletariato quale classe che dallo stato di asservimento deve, poco per volta, superando quotidianamente innumeri ostacoli intimi ed esteriori” tra i quali vanno annoverate anche le fasulle garanzie e il cosiddetto benessere “arrivare alla consapevolezza dei propri diritti, alla comprensione dei nessi sociali, alla convinzione che una società basata sulla uguaglianza dei diritti e dei doveri di tutti i cittadini, sostituirà l’attuale organizzazione sociale”(18). Sul muso coriaceo di quanti hanno il coraggio di dire oggi che la questione dei transfughi è chiusa dal 1848, la Sinistra ha quindi assestato un sonoro ceffone già nel 1913, quando ha ripreso pazientemente in esame la questione per dire che non sono veri transfughi quelli che, non essendosi spogliati della psicologia piccolo-borghese, esigono che la classe operaia sia rivoluzionaria e, in caso contrario, la diffamano e la deprezzano cianciando di “corruzione” e di “imborghesimento”; che non sono veri transfughi quelli che non disciplinano il loro pensiero e la loro azione ritmandoli sul pensiero e sull’azione del proletariato e quindi immedesimandosi col suo “cammino di Golgota”; che non sono veri transfughi quelli che, non riuscendo a compiere questo passaggio, che è il minimo che viene richiesto, restano in uno stato di turgore e di insufflamento dell’Io che impedirà loro sempre di compenetrarsi della serietà del compito che si sono assunti, che è molto più importante e più vasto del loro meschino Io, e insieme della modestia di quello che possono dare al movimento proletario, che si riduce a qualche utile nozione tecnica galleggiante nell’oceano di merda dell’“alta cultura”. Giova anche ricordare, a questo punto, che la polemica della Sinistra contro i “bidellini”, lungi dal costituire una “novità”, non è altro che la continuazione di una polemica anti-intellettualistica presente già in Engels, che scrisse parole roventi contro il “professorino” W. Liebknecht: “Nonostante tutte le sue preziose qualità, Liebknecht è un maestro di scuola nato. Se succede che un operaio dica «me» anziché «io» al Reichstag o pronunzi una vocale latina corta come se fosse lunga, e che i borghesi ne sorridano, è preda della più nera disperazione. E’ perciò che vuole avere gente «istruita» come il molle Viereck che ci ha screditato con uno solo dei suoi discorsi al Reichstag più di quanto non avessero potuto fare 2000 “io” errati. Inoltre non sa aspettare. Cerca anzitutto il successo immediato, anche se deve per questo sacrificare un vantaggio futuro ben superiore” (19). Aggiungiamo, chiosando Engels, che la prosternazione verso gli intellettuali, verso i molli Viereck di ieri e di sempre che appestano l’aria del nostro Partito con tutta la loro prosopopea di “gente istruita”, è tutt’uno con quella “incapacità di attendere” e con quella ricerca del successo immediato che caratterizzano e definiscono l’opportunismo. Che cosa altro era, inoltre, la polemica rovente di Marx contro “la casta dei pretesi «uomini di cultura»”, contro “tutta una banda di studenti e di dottori superintelligenti, che vogliono dare al socialismo un indirizzo «superiore, ideale»” (20), se non una battaglia non solo contro i “professorini rossi” ma soprattutto ed in particolare contro quei professorini rossi che periodicamente insorgono contro le presunte “volgarità” del marxismo (o, se preferite, contro il “materialismo volgare”, che ostinatamente si oppone dal basso agli “ideali superiori” che costoro vorrebbero instillare nella zucca dei proletari), e che insorgono, come è naturale, in nome delle “loro divinità della Giustizia, della Libertà, della Eguaglianza e della Fraternità” (21), in nome di una mitologia moderna che i professorini di oggi non osano più difendere apertamente, ma che resta nondimeno tanto viva ed attiva nel loro foro interiore da farli sobbalzare di sdegno allorché, ad esempio, si osa riconoscere nella II Internazionale la reincarnazione dei club giacobini nel corpo della classe operaia, ed ancor più quando si addiviene finalmente a formalizzare anche il superamento del giacobinismo residuale della III Internazionale, con le sue vecchie e tramontate parole d’ordine semi-borghesi sull’autodecisione dei popoli e con le sue pretese di imporre alla classe operaia occidentale quelle che, sotto la veste dei “fronti unici”, erano di fatto delle alleanze con altre classi. Il grido che prorompe dalle viscere della banda dei professorini (ed anche degli operai che “abbandonano il loro mestiere” e che a quella casta “sono sempre disposti ad associarsi” in posizione sottomessa e genuflessa) è sempre la Marsigliese, anche se la cantano oggi con accento ispano-americano e con piglio guevarista (Libertad por el pueblo! Pueblo unido!). Le gonne sotto cui costoro vanno a rifugiarsi, insomma, sono sempre quelle di Marianna, anche se la loro “mitologia moderna” ha assunto le sembianze del guerriglierismo terzomondista. Saranno ancora Marx ed Engels a precisare, a proposito degli intellettuali, questi contrabbandieri di professione, che, prima di accoglierli nelle file del Partito come i famosi “disertori” che necessariamente la storia fa affluire verso il proletariato, proprio come “noi abbiamo spiegato già nel Manifesto comunista”, bisogna “fare due osservazioni [altro che “questione chiusa dal 1848”: Marx ed Engels la riaprono nel 1879!]: in primo luogo, queste persone per essere utili al movimento proletario, devono veramente portare ad esso degli elementi di formazione dotati di un valore reale” e per far ciò devono “cominciare a studiare seriamente la nuova scienza” invece di “aggiustarsela per farla combaciare con le idee che hanno ricevuto, fabbricandosi una propria scienza privata [compenetrarsi della serietà del compito che si sono assunti, rinunciare alle elucubrazioni individuali, come sarà poi ribadito dalla Sinistra!], con la ostentata pretesa di insegnarla agli altri”, di imparare per davvero la dottrina socialista invece di “cercare di armonizzare le idee socialiste, superficialmente assimilate [niente adesioni epidermiche, quindi, come ripeterà 30 anni più tardi la Sinistra!], con le più disparate opinioni teoriche che questi signori hanno raccattato dall’università o da altrove” in quanto “il partito può fare tranquillamente a meno di tali elementi di formazione teorica, il cui primo principio è di insegnare ciò che non è stato neppure appreso” [vietato insufflare la vanità degli intellettuali, vietato dar corda alle loro eterne pretese di montare subito in cattedra, vietato corteggiarli, come ribadirà ancora una volta la Sinistra, perché noi possiamo fare anche a meno di loro!]. In secondo luogo: allorché questi individui che provengono da altre classi si raccordano al movimento proletario, la prima cosa che bisogna esigere da loro è che non portino con sé nessun residuo dei loro pregiudizi borghesi, piccolo borghesi, ecc., ma che facciano proprio senza riserve il modo di considerare le cose del proletariato [non si dice qui semplicemente la dottrina, la visione teorica del mondo, ma qualcosa di più: il “modo di considerare le cose” è infatti anzitutto un “modo di sentire le cose”, è una consapevolezza che scaturisce dal sentimento, ed è questo far proprio il sentimento di un’altra classe che è il passaggio duro da compiere, perché coincide con la necessità, più volte ricordata, di strapparsi anche dal cuore la propria collocazione anagrafica]” (22). Chiarito il nesso che intercorre tra le deformi teorizzazioni sull’“imborghesimento” della classe operaia metropolitana e l’impazienza piccolo-borghese, conviene soffermarsi sulle implicazioni politiche di tali teorizzazioni. La legge marxista secondo cui via via che il capitalismo si impone e grandeggia la miseria si accumula ad un polo della società simmetricamente al crescere della ricchezza al polo opposto non implica necessariamente che i due “poli” debbano coincidere, come vorrebbero i politologi terzomondisti, con una precisa disposizione geografica e in particolare con una localizzazione al Nord del polo della ricchezza e al Sud di quello della miseria. Che le metropoli imperialiste drenino sovrapprofitti dai paesi della “periferia” è un dato di fatto incontestabile. Che le briciole di tali sovrapprofitti vadano ad alimentare le aristocrazie operaie, vera “cinghia di trasmissione” degli interessi borghesi in seno alla classe operaia, anche. Che a questo modo il capitalismo si assicuri la pace sociale nelle metropoli è una ulteriore fatto che abbiamo registrato. Ma da tutti questi elementi di fatto non è possibile trarre la falsa conseguenza che la lotta di classe nelle metropoli sia ormai storicamente e definitivamente tramontata in forza di profonde e radicali modificazioni che sarebbero intervenute nel tessuto sociale dei paesi capitalisti più avanzati. Le aristocrazie operaie sono sempre state e restano una minoranza più o meno esile della classe operaia metropolitana, il che significa che la massa della miseria seguita a crescere non solo nelle bidonvilles dei paesi della periferia capitalistica, ma nel cuore mostruoso dei principali centri imperiali. Che alla stragrande maggioranza degli operai delle metropoli è negata non solo la facoltà di accumulare, requisito indispensabile per assurgere dai gironi infernali del lavoro salariato all’empireo delle mezze classi, ma anche una quota crescente della ricchezza prodotta, alla faccia del migliorato “tenore di vita”, che è e resta uno specchietto per le allodole. “Eppure, malgrado tutto il «progresso economico», rimane una grande verità di fatto, una verità sempre più viva e palpitante, che la massa della miseria della classe lavoratrice non è per nulla diminuita e che la sua schiavitù salariale è così terribilmente aumentata da superare ogni limite prima raggiunto. Centinaia di milioni di lavoratori, di proletari, di semi-proletari, di salariati di tutti i paesi, sono sottoposti ad uno sfruttamento spietato, a una schiavitù costante ed avvilente; mentre una gran parte di essi vive addirittura nella più nera e squallida miseria, soffrendo letteralmente la fame. Lavoratori dell’India e in genere dell’Asia, dell’Africa, dell’America meridionale e centrale, della «ricca» Europa e della «ricchissima» America del Nord, salariati di tutte le razze e di tutti i continenti, sono permanentemente soggetti all’assillo spietato del bisogno economico e della ricerca del pane, alla minaccia costante della disoccupazione, alla paura della guerra; in balia di un meccanismo inesorabile di sfruttamento. Tutta una massa enorme dell’umanità, la stragrande maggioranza di essa, patisce sofferenze incalcolabili a causa del cieco e spietato dominio del capitale, di questo vampiro sociale che si ingigantisce nutrendosi del sangue succhiato al vivente lavoro” (23). La verità dunque, secondo la Sinistra, è che la miseria cresce anche nelle metropoli, e che la stragrande maggioranza delle masse salariate di tutte le razze e di tutti i continenti, operai bianchi e metropolitani inclusi, lungi dall’essere corrotta e imborghesita, come osano affermare alcuni sedicenti continuatori della Sinistra corrotti e imborghesiti, patisce, col grandeggiare del dominio capitalista, sofferenze incalcolabili. Secca crescita dello sfruttamento, dunque, anche nei periodi delle “vacche grasse”, per la stragrande maggioranza degli inebetiti operai delle metropoli. Ma quando siamo nei periodi bui delle vacche magre (e lo siamo in tutto il mondo dal 1974-75), alla crescita dello sfruttamento, che per il marxismo non adulterato equivale già a miseria crescente, fa seguito anche il frantumarsi delle pseudo garanzie, l’abbassamento drastico del tenore di vita, insomma la povertà nera, che da allora è andata anch’essa inesorabilmente crescendo anche nelle metropoli, pur senza aver ancora raggiunto il livello di guardia oltre il quale si profila lo spettro delle rivolte e più ancora delle guerre sociali. Nei ricchissimi Stati Uniti infatti “la disintegrazione sociale iniziata negli anni Settanta, si è intensificata negli anni Ottanta ed è accelerata nei Novanta” (24), e per rendersene conto basta studiare l’andamento della popolazione carceraria, che di quella disintegrazione è uno specchio fedele: “i dati forniti regolarmente dall’Ufficio delle statistiche giudiziarie degli Stati Uniti non necessitano di ulteriori commenti. Nel 1975 si contavano 380.000 reclusi, divisi fra carceri statali, federali e locali; la cifra è salita a 740.000 nel 1985, a 1,6 milioni nel 1995. Negli anni Novanta il tasso di crescita annuale della popolazione carceraria è stato dell’ordine dell’8%. Continuando con questa crescita nel 2005 le carceri ospiteranno 3,5 milioni di detenuti. Inoltre, se contiamo anche le persone sotto custodia cautelare, ossia detenuti, cittadini in libertà vigilata e condizionale, avremmo 3 milioni nel 1985, 5,4 milioni nel 1995, superando l’anno seguente i 5 milioni e mezzo, cioè il 2,8% della popolazione adulta del paese. Se estrapoliamo il tasso di crescita medio di questo gruppo durante gli anni Novanta, arriviamo per il 2005 a oltre 7 milioni di persone (Bureau of Justice Statistics). Nel corso dell’ultimo quarto di secolo abbiamo assistito all’espansione accelerata dell’universo carcerario all’interno della società più ricca del mondo” (25). La crescita della popolazione carceraria USA è stata quindi addirittura del 400% dal 1975 al 1995. Le disuguaglianze sociali inoltre, proprio nella “società opulenta” per eccellenza, non hanno fatto che scavare un fossato sempre più profondo tra le diverse classi, a conferma della legge della miseria crescente fissata da Marx: “nel 1974 il 5% più ricco assorbiva il 16,5% delle entrate nazionali, il 21,1% nel 1994, mentre il 20% più povero scendeva dal 4,3% al 3,6%” (26). Nello stesso periodo, infine, secondo le statistiche del U.S. Bureau of the Census, è cresciuta drasticamente la povertà: si è passati dai 24,7 milioni di poveri del 1977 ai 35,6 milioni del 1997, con un incremento di 10,9 milioni di poveri, corrispondente ad un drammatico + 44.12% in 20 anni (27). Il confine delle battaglie a venire è quindi un confine di classe, non coincide con un conflitto nazionale che opporrà i popoli ricchi ai popoli poveri, ma con un conflitto sociale che attraverserà tanto il Nord quanto il Sud del mondo. In tale contesto ogni cedimento al terzomondismo, anche se nascosto dietro le pompose teorizzazioni sul ruolo crescente del “proletariato periferico”, porta alla svalutazione disfattista delle potenzialità rivoluzionarie del proletariato metropolitano e alla negazione del suo ruolo essenziale ai fini dello scioglimento a noi favorevole della futura ripresa della lotta classista e rivoluzionaria.

1 “Imperialismo vecchio e nuovo”, Battaglia Comunista n. 3 del 1950.

2 Ibidem.

3 Ibidem.

4 Ibidem.

5 “Partito rivoluzionario e azione economica”, da “Bollettino interno n. 1”, settembre 1951.

6 Ibidem.

7 “Partito socialista e organizzazione operaia”, L’Avanti! del 30 gennaio 1913.

8 “Riunione di Genova 26 aprile 1953, Parte II – La rivoluzione anticapitalista occidentale” (Per l’organica sistemazione dei principi comunisti, pag. 32).

9 “Vulcano della produzione o palude del mercato?” in “Economia marxista ed economia controrivoluzionaria” pag. 147.

10 Dal film “I tre ladri” (Totò, “Parli come badi”, Bur, pag. 44).

11 “Riunione di Genova 26 aprile 1953, Parte II – La rivoluzione anticapitalista occidentale” (Per l’organica sistemazione dei principi comunisti, pag. 33).

12 “Il proletariato degli Stati Uniti e di alcuni Stati europei si trova a vivere in paesi che detengono la egemonia economica e militare, finanziaria e politica, sul resto dei mondo. Questo fatto ha notevoli conseguenze su strati più o meno numerosi della classe operaia, sul suo atteggiamento politico, e in genere sullo svolgimento della lotta di classe e rivoluzionaria per l’abbattimento del sistema di produzione capitalistico” (“Ad un secolo dalla fondazione della I Internazionale” – La piovra dell’aristocrazia operaia, il programma comunista, n. 18-21, 1964). Ed ancora nello stesso testo si legge: “Nel corso di interi secoli e fino ad oggi uno strato più o meno numeroso del proletariato dei paesi capitalistici di occidente, in particolar modo di alcuni paesi di questa area geografica, ha divorato le briciole delle masse enormi di profitti e sovrapprofitti estorti dalla propria borghesia al resto del mondo, grazie al suo dominio commerciale, tecnico, finanziario, militare. Con queste briciole, concesse a una parte della classe operaia, la borghesia ha posto al suo servizio gli stessi partiti operai, cointeressandoli alla politica colonialista e di brigantaggio imperialista. Il proletariato di questi paesi si è quindi venuto a trovare e tuttora si trova in una situazione di apparente benessere di fronte al resto della popolazione mondiale; ma la radice materiale di questa situazione risiede nello sfruttamento esoso, nelle sofferenze atroci, inflitte a centinaia di milioni di lavoratori, nella rapina e nello sterminio di interi popoli. La borghesia occidentale, oggi non la sola, ha praticato e pratica il saccheggio e lo sfruttamento coloniale di territori e popolazioni immensi, il brigantaggio imperialistico sul mondo intero. Se dunque alcuni strati della classe operaia in Europa e negli Stati Uniti, se in genere il proletariato d’Occidente, si sono venuti a trovare, rispetto a quelli del resto del mondo, in una diversa condizione materiale di vita, tutto ciò non è dipeso e non dipende che dalla spoliazione di una buona parte del pianeta ad opera delle rapaci borghesie metropolitane”. il programma comunista – Spartaco, n° 4, 1965.

13 “Marcuse, profeta del «piccolo mondo antico»”, il programma comunista, n. 16, 1979. Riportando un’intervista di Marcuse a “La Repubblica” del 5.8.1979, in cui si affermava che “il proletariato marxista è stato sostituito dalla classe media, dai piccoli borghesi. I quali cominciano a ribellarsi dappertutto contro i grandi monopoli che ormai li schiacciano”, l’articolo metteva correttamente in rilievo come tali elucubrazioni riflettessero alla perfezione “la posizione dei ceti improduttivi”, ceti “il cui interesse è in contrasto con quello del proletariato rivoluzionario”.

14 “Già è stato definito feudalesimo industriale questo sistema americano del credito, che lega il lavoratore al suo luogo di lavoro, e di debito. Un ulteriore passo della «crescente miseria», che significa perdita di ogni «riserva» economica. Il proletario classico è a riserva zero, il moderno ha una riserva negativa: deve pagare una forte somma per potersene andare nudo dove voglia. Come pagare, se non come a Shylock, con una fetta di natica?” (Dialogato coi Morti, Ed. Sociali, pag. 78). 14 Ibidem, pag. 125.

15 Ibidem, pag. 125.

16 “Struttura economica e sociale della Russia d’oggi”, pag. 734.

17 “Partito socialista e organizzazione operaia”, L’Avanti! del 30 gennaio 1913.

18 Ibidem.

19 “Avec toutes ces précieuses qualités, Liebknecht est un maître d’école né. S’il arrive qu’un ouvrier dise «Me» au lieu de «Moi» au Reichstag ou prononce une voyelle latine courte comme si elle était longue et que les bourgeois en rient, alors il est au désespoir. C’est pourquoi il veut avoir des gens «instruits» comme le mou Viereck qui nous a plus discredité avec un seul de ses discours au Reichstag que 2000 fausses «moi» n’eussent pu le faire. En outre il ne sait pas attendre. Il recherche avant tout le succès immédiat, même s’il doit sacrifier pour cela un avantage futur bien supérieur” (Lettera di Engels a Bebel, 10 maggio 1883, in Marx-Engels, “La socialdémocratie allemande”, UGE, 1975, pag. 175).

20 Marx, Lettera a Sorge, 19.10.1877. 86

21 Ibidem.

22 Marx ed Engels, Circolare a Bebel, Liebknecht e Bracke, settembre 1879. 23 “Ad un secolo dalla fondazione della I Internazionale”, il programma comunista, n. 18-21, 1964. 88

24 Jorge Beinstein “Scenari della crisi globale. I cammini della decadenza”, Relazione presentata al II incontro internazionale degli economisti su “Globalizzazione e problemi dello sviluppo” – La Habana, 24-29 gennaio 2000. 25 Ibidem.

26 Ibidem.

27 Fonte: Dalaker J. e Naifeh M., 1998 (Citata in Jorge Beinstein “Scenari della crisi globale. I cammini della decadenza”, Relazione presentata al II incontro internazionale degli economisti su “Globalizzazione e problemi dello sviluppo” – La Habana, 24-29 gennaio 2000).

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