Cineserie
Prefazione
La Cina ha ospitato un summit il 14 maggio, il titolo dell’incontro era“One Belt, One Road”, titolo che allude al progetto ‘Nuova Via della Seta’. I numeri della partecipazione sono i seguenti: ventiquattro capi di Stato e rappresentanti di 130 Paesi di America Latina, Asia, Africa, Europa. Con il termine “Belt” si intende la parte della Via della Seta imperniata sullo sviluppo delle rotte commerciali di terra, secondo un percorso che parte dalla Cina e attraversa l’ Asia centrale, l’Iran, la Turchia e infine l’Europa orientale. Con il termine “Road” si intende la Via della Seta Marittima. Il progetto prevede la costruzione di porti e infrastrutture costiere dall’Asia sudorientale fino al Mediterraneo, e in merito alla parte terrestre una rete di vie commerciali basate su nuove linee ferroviarie, autostrade, oleodotti, porti, e atri tipi di infrastrutture e sistemi di comunicazione. Tale progetto dovrebbe avere un impatto, in termini di investimenti di risorse tecniche, umane e finanziarie, superiore di dieci volte (o anche di più) rispetto al piano ‘Marshall’ del dopoguerra. Abbiamo spesso ricordato l’interconnessione fra struttura economica e sovrastruttura politico-militare, e infatti cosa ne sarebbe di questo progetto se il suo promotore non avesse la forza di difendersi dalle potenziali azioni ostili di qualche avversario? La Cina è uno stato capitalista dotato di un valido strumento militare, tuttavia con una posta in gioco così alta (diventare il punto focale economico globale e quindi l’economia capitalistica egemone) non può bastare l’attuale potenza militare: ci vuole qualcosa di più per dissuadere la concorrenza. Infatti negli ultimi cinque anni si sono intensificati, guarda caso, i rapporti economici e politico-militari con il potente vicino russo. Una convergenza di interessi accomuna i due stati capitalistici, in funzione di contrasto ai residui sogni egemonici dell’imperialismo USA. Nello svolgimento del presente lavoro (che pubblicheremo secondo un piano di suddivisione in tre capitoli) cercheremo di analizzare le forze in campo, le prospettive di evoluzione del conflitto Inter-imperialistico, i riflessi sulla condizione proletaria e sul conflitto sociale di classe.
Capitolo uno: attività economiche e dati numerici
OBOR, cioè “One Belt, One Road”, prevede l’investimento in infrastrutture di più di un trilione di dollari. Questo inaudito impiego di capitale riguarderà la costruzione di infrastrutture in più di 60 paesi. Data l’entità della forza economica messa in campo, è facile comprendere che gli effetti dell’operazione non si fermeranno solo alla sfera economica, ma si trasferiranno ben presto nel campo dei rapporti di forza politici. Utilizzando in definitiva la ricchezza insieme alle proprie risorse tecnologiche e industriali la Cina sta modificando gli equilibri di potere preesistenti, marginalizzando (in tendenza) il ruolo USA.
Per valutare meglio questa tendenza (al declino USA) possiamo ricordare il dato sugli investimenti in infrastrutture: un ordine di ingegneri civili USA ha recentemente assegnato un voto basso (D+) allo stato delle opere civili americane come scuole, ospedali, ponti,impianti di trattamento delle acque reflue e dighe. Durante la campagna elettorale Trump aveva promesso di ridare smalto alle infrastrutture del paese, tuttavia al momento non si vedono segni di impiego sensibile di risorse in questo campo.
Un altro segnale da non sottovalutare (come tendenza al declino USA) è il sostanziale fallimento del partenariato trans-Pacifico, avviato dagli Stati Uniti, per limitare il peso della Cina .Il progetto OBOR ha tolto energia e fattibilità al partenariato trans-Pacifico. La Cina ha la possibilità di offrire la costruzione di infrastrutture ai paesi in via di sviluppo, mentre gli USA hanno sempre meno da offrire, fatta eccezione per le vendite di armi.
Il mantenimento del grado minimo di efficienza del sistema di basi militari USA nel mondo (800), comporta degli ammodernamenti infrastrutturali; questi ultimi sono dunque funzionali a un regime di controllo imperiale e non certo allo sviluppo economico. Di conseguenza gli interventi del capitalismo cinese nei paesi in via di sviluppo, finalizzati invece alla costruzione di strade, porti, e altre strutture industriali-commerciali, si presentano decisamente più convenienti agli occhi dei governi interessati. Consideriamo anche il dato storico relativo alle immense distruzioni di infrastrutture, derivate dagli interventi militari USA degli ultimi decenni, in paesi come Jugoslavia, Iraq, Libia, Siria e Afghanistan. E’ facile comprendere come i due interventi (USA, Cina) si mantengano per ora su binari molto distanti. Sul piano militare un ipotetico concorrente potrebbe bloccare, allo stato attuale, le forniture energetiche necessarie al funzionamento della ‘fabbrica del mondo’ cinese. Infatti l’80% delle importazioni di petrolio greggio e di altre forniture, passa attraverso lo stretto di Malacca situato fra Oceano Indiano e Mar Cinese Meridionale. Anche allo scopo di rendere inutile tale minaccia, la potenza capitalistica cinese sta sviluppando il progetto della nuova Via della Seta (OBOR).
Se in passato la Cina è stata la principale detentrice di titoli di stato USA, adesso le cose sono cambiate, e il surplus di capitale monetario viene impiegato (soprattutto) nella Banca Asiatica di Investimento Infrastrutturale (AIIB), un ente creditizio che opera a vasto raggio in Asia, Europa, Africa, America Latina. Anche in questo dato ritroviamo la classica differenziazione fra capitalismo in ascesa e in declino, mentre nel primo prevale ancora la dimensione del profitto collegata all’investimento di capitali nella produzione di beni fungibili (merci e infrastrutture, sia nell’economia nazionale che internazionale), nel secondo questo aspetto tende non a scomparire, ma a diventare secondario rispetto alla pura rapina di risorse, vie commerciali, plus-valore di altri paesi capitalistici (incapaci di difendersi in modo adeguato dai rivali).
Capitolo secondo: Un proletariato che si muove dentro le scatole cinesi delle concessioni e della repressione
L’economia cinese negli ultimi anni ha subito dei lievi rallentamenti nella crescita (se paragonati a quelli della concorrenza). Ad esempio il crac della borsa di Shanghai, e la svalutazione dello Yuan, sono dei segnali di questo rallentamento. Bisogna ricordare che stiamo ragionando sulle cifre ufficiali, quindi con dei dati probabilmente ottimistici. La popolazione cinese rappresenta il 20% della popolazione mondiale, quindi si comprende l’importanza dell’andamento economico di un paese come la Cina (per l’intero sistema capitalistico globale). Cosa intendiamo affermare? Intendiamo affermare che questo paese ha sostenuto (e sostiene) l’economia capitalistica internazionale attraverso il suo proletariato (rurale e industriale), fonte preziosa di plus-valore e profitto per molte importanti imprese aziendali mondiali. I tassi di appropriazione di plus-lavoro operaio in Cina sono infatti più convenienti dei tassi concorrenti europei e USA. A fronte di questa maggiore ‘spremitura’ di plus-lavoro (con annessa e successiva mietitura di plus-valore), si registra inevitabilmente un rapporto PIL/numero di abitanti (cioè il reddito medio pro-capite) decisamente da paese sottosviluppato. E tuttavia il reciproco vantaggio di questa massiccia joint venture, passata e presente,avvenuta fra imprese nazionali cinesi e imprese internazionali (sulle spalle del proletariato) è ora sotto gli occhi di tutti. L’asfittico saggio di profitto delle imprese internazionali che hanno investito in Cina si è rivitalizzato (almeno per qualche tempo), mentre l’economia nazionale cinese ha avuto ulteriori input verso la modernizzazione tecnologica (grazie all’apporto di metodi di produzione, brevetti e software delle imprese internazionali).
Al livello attuale la ‘fabbrica del mondo’ cinese consuma il 40% dei metalli prodotti nell’economia mondiale, e circa il 30% delle materie prime di natura differente. I bassi salari sono stati finora il ‘segreto’ dell’enorme sviluppo dell’economia, questo dato (il basso costo del lavoro) ha funzionato come attrattore di capitali da altri paesi. Negli ultimi due decenni una parte del proletariato cinese ha prodotto enormi quantitativi di merci per conto di imprese europee, USA e giapponesi. In relazione a tale dato sono sorte delle zone industriali ‘franche’, con fiscalità e normativa sul lavoro favorevoli per i capitali investiti da parte dei grandi trust internazionali, in particolare nell’area di Shanghai, Shenzhen, Hong Kong.
Al netto degli attuali cambiamenti nel confronto commerciale-politico fra potenze capitalistiche, determinato anche dalla recente capacità di investimento cinese nei mercati esteri ( AIIB, OBOR), resta assodato dunque che per alcuni decenni l’economia cinese ha garantito (con i bassi salari dei lavoratori) un adeguato saggio di profitto al capitale internazionale in cerca di valorizzazione.
Una piccola ricognizione storica ci consente di comprendere il tipo di interconnessione fra investimento di capitale internazionale ed economia nazionale (cinese). Si parte in primo luogo dalle industrie locali che importano le materie prime o i semilavorati e li trasformano in prodotti finiti (o li assemblano) per conto di imprese straniere. Il prodotto finale appartiene al committente estero (in genere una impresa multinazionale) che ottiene, con questo giro di percorsi produttivi, una sensibile riduzione dei costi aziendali di produzione. Il basso costo del lavoro garantisce dunque l’appetibilità dell’investimento, il plus-valore ricavato dalla vendita (sul mercato globale) dei beni ottenuti da tale meccanismo produttivo viene poi suddiviso fra il committente estero e l’appaltatore/commissionario nazionale. Da un punto di vista quantitativo la parte maggiore di questo plus-valore va all’impresa estera, mentre una parte più o meno marginale va a finire nelle tasche della borghesia locale ( dirigenti e sotto-dirigenti aziendali innanzitutto).
Il proletariato cinese nell’ultimo decennio è stato protagonista di varie lotte a sfondo economico. Molto spesso queste lotte sono contrassegnate da scontri con la polizia.
Lo sviluppo capitalistico cinese nel corso del tempo ha parzialmente svuotato le campagne per fornire manodopera al settore industriale dell’economia, tuttavia, seguendo le leggi di funzionamento dell’economia capitalistica, è stata prodotta una sovrappopolazione relativa crescente, funzionale alle alterne fasi del ciclo industriale. Una parte di questa sovrappopolazione alle volte ritorna nel luogo di origine, mediamente nel tentativo di mettersi in proprio nel settore terziario (commercio elettronico, servizi vari…). Le lotte dell’ultimo decennio sono condotte da un proletariato (in prevalenza) mobile e flessibile, interessato spesso all’ottenimento di obiettivi già previsti nella legislazione del lavoro vigente (nondimeno negligentemente ‘dimenticati’ dalle imprese). La ‘mobilità’ di una parte di questo proletariato è connessa, spesse volte, alla velocità delle informazioni (sulle migliori condizioni di lavoro e di paga) che circolano sulla rete. Sulla base di migliori prospettive di lavoro una quota non irrilevante di proletari (soprattutto giovani) si sposta di azienda in azienda, oppure permane nello stesso luogo di lavoro (ma a fronte della minaccia di andare via, ottiene di converso migliori condizioni contrattuali). Dunque almeno una quota di proletari cinesi riesce a ottenere dei relativi miglioramenti economici, seppure all’interno del vigente sistema di relazioni industriali fra capitale e lavoro. Questo ultimo aspetto, sicuramente reversibile e transitorio (come tutte le conquiste dei lavoratori a capitalismo vigente), funge tuttavia da parziale fattore di demotivazione del conflitto sociale.
Accennavamo in precedenza al ritorno al luogo di origine (campagna) di una parte della sovrappopolazione relativa prodotta dal capitalismo; spesso i soggetti coinvolti in queste dinamiche tendono a sviluppare attività collegate al settore terziario dei servizi. Nell’economia capitalistica il settore terziario è d’altronde in crescita (per numero di aziende e di addetti) rispetto agli altri settori economici (primario e secondario). Questa è una tendenza ‘storica’ che coinvolge l’economia capitalistica si base mondiale.
Non ci si deve stupire, allora, se i dati sulle lotte economiche ‘immediate’ del 2016 mostrano che nel settore terziario è concentrato il 22% delle lotte, mentre nel settore manifatturiero (escluse le imprese di costruzioni che totalizzano oltre il 40%) solo il 20%.
I lavoratori ‘migranti’, cioè di recente spostatisi dalla campagna alle periferie industriali, sono oltre 270 milioni, quindi più di un terzo della popolazione attiva. La situazione contrattuale di quasi il 70% di questi lavoratori ‘migranti’ è quantomeno suscettibile di miglioramenti ( nel senso di maggiori vincoli a carico delle imprese). Dunque, considerando anche i salari (mediamente più bassi al confronto con le altre tipologie di lavoratori), emerge un quadro di vita poco entusiasmante per la popolazione rurale recentemente proletarizzata. Considerando il proletariato cinese nel suo complesso possiamo rilevare che il salario medio mensile si aggira intorno ai 400 dollari; un dato numerico inferiore a quello europeo e USA. Questo dato salariale medio è comunque superiore a quello di alcuni paesi dell’area. Gli scioperi e le lotte sono stati uno dei fattori alla base degli aumenti (insieme alla prospettiva aziendale di un aumento delle vendite attraverso la crescita salariale). Tuttavia, come detto in precedenza, le concessioni salariali vengono spesso vanificate dall’inflazione, e quindi il risultato della lotta economica immediata si rivela in breve tempo nullo.
Cineserie. Capitolo terzo: Prospettive
La crisi economico-finanziaria del 2008 ha ribassato anche il tasso di crescita dell’economia cinese. Diminuendo la domanda globale di merci la produzione industriale globale, e nello specifico la produzione cinese, hanno subito dei rallentamenti e in certi casi degli arresti.
In parziale alternativa alla valorizzazione del capitale nel settore industriale, dopo il 2008 è stata seguita la strada degli investimenti in infrastrutture (sia all’interno del paese, sia all’esterno). L’AIIB rappresenta proprio la sublimazione di questa tendenza all’investimento in infrastrutture (soprattutto nei paesi in via di sviluppo capitalistico). Dal punto di vista del capitale aziendale (sia esso basato su fonti di finanziamento proprie o di terzi) questa tendenza è definibile con il termine ‘differenziazione degli impieghi’. Negli ultimi dieci anni è dunque aumentata l’attività di costruzione di aeroporti, ferrovie, ponti, fabbricati ad uso civile e industriale, strade ed autostrade, scuole, ospedali, musei e teatri. In certi casi, come accade d’altronde in altri paesi, le costruzioni restano inutilizzate per lunghi periodi, a dimostrazione del fatto che il fine della loro produzione (come d’altronde accade per le merci) non era una intrinseca utilità d’uso, ma la valorizzazione del capitale (e dunque l’impiego di una forza-lavoro salariata da cui estrarre plus-lavoro/plus-valore adeguati). In termini tecnici, l’investimento di capitale nella produzione di beni immobiliari destinati ad un prevalente inutilizzo (in mancanza di acquirenti o di utilizzatori), può definirsi sovra-investimento (in effetti esso è il risvolto della sovrapproduzione). Da un punto di vista economico generale siamo nell’ambito della categoria dello spreco (sciupio) tipici del capitalismo (soprattutto nella fase matura). Non deve meravigliare, dunque, che negli ultimi anni la sola economia cinese abbia impiegato qualche migliaia di ml di dollari nella realizzazione di opere prive tuttora (in prevalenza) di un verificabile uso pratico. Parlando in termini di economia capitalistica globale, è giusto ricordare che intorno alla costruzione di beni immobiliari si realizza (al di là della mancata utilizzazione pratica delle costruzioni) un giro di affari che vede coinvolti (in veste di beneficiari) varie figure economiche: imprenditori immobiliari, produttori di materie prime, appaltatori e sub-appaltatori. La storia delle opere pubbliche inutili dimostra anche che la copertura dei costi aziendali avviene, in modo regolare, con l’aumento dell’imposizione fiscale a carico dei soliti noti (in primis Pantalone, cioè i lavoratori salariati). In tal senso andrebbe riletto un testo del P.C.Internazionale degli anni 50, dal titolo e dal contenuto appropriato anche alle attuali vicende: ‘Imprese economiche di Pantalone’. Un altro termine ricorrente, nella analisi del sovra-investimento di capitali, è quello di ‘crescita drogata’. In questo caso il capitalismo, almeno quello posizionato nella fase matura-senile, viene assimilato a un organismo dipendente dall’uso massiccio di droghe economiche. Lo spreco di risorse umane e materiali nella realizzazione di opere inutili, mentre una fetta considerevole dell’umanità langue nell’indigenza, è d’altronde tipica del capitalismo (maturo-senile). La ‘giovane’ economia capitalistica cinese affronta, dopo solo pochi decenni dal suo decollo industriale, gli stessi problemi in cui sono incappate le vecchie economie capitalistiche dopo qualche secolo di sviluppo. La rapidità dei processi capitalistici qualificabili come sovra-investimento, crescita drogata, sovrappopolazione stagnante, è posta in essere in Cina dall’elevato grado di sviluppo tecnico-scientifico del capitale costante esistente nell’economia globale. Il capitale costante mediamente impiegato dalle imprese nel 2017 (il macchinario, le attrezzature, la loro tecnologia di costruzione) è in grado di sostituire un numero 100 volte maggiore di salariati rispetto al capitale costante utilizzato dalle imprese economiche nel 1817, o 50 volte maggiore rispetto alle imprese del 1917. Un capitalismo ‘giovane’ dei nostri tempi, senza nessun paradosso, è dunque destinato a diventare già ‘vecchio e decrepito’ dopo qualche decennio di vita. Infatti le avanzate caratteristiche tecnologiche del capitale costante (mediamente diffuso nell’economia globale), riducendo in modo intensivo la parte variabile del capitale aziendale (la forza-lavoro umana) nei processi produttivi, erodono già in partenza la base del profitto aziendale (cioè il plus-lavoro proletario). Sulla base di questi dati si può comprendere il senso economico dei meccanismi gestionali e organizzativi (come la fabbrica totale) volti ad aumentare la produttività del lavoro (e quindi l’appropriazione di plus-lavoro relativo), o il meccanismo del puro aumento dell’orario giornaliero di lavoro senza alcun corrispettivo aumento salariale (plus-lavoro in termini assoluti). In altre parole questi meccanismi funzionano come una controtendenza rispetto alla caduta tendenziale del saggio di profitto, insita nella riduzione progressiva dell’impiego di forza-lavoro umana nei processi produttivi. Negli ultimi tre anni sono stati registrati dei segnali di rallentamento anche nel campo degli investimenti in infrastrutture: la causa principale di questo dato si trova nelle fonti di finanziamento scelte per sostenere il settore delle costruzioni. Lo stato cinese ha reperito i finanziamenti (soprattutto a partire dal 2009) attraverso la crescita del prestito obbligazionario, e in secondo luogo vendendo i terreni dei contadini agli imprenditori del settore delle costruzioni. Mentre con l’impiego della prima fonte di finanziamento il debito totale (pubblico e privato) è passato in pochi anni dal 150% del PIL al 260% (con relativo aumento del costo degli interessi passivi), con la seconda fonte di finanziamento è stato costruito (in oltre venti anni) un vasto esercito di riserva per il capitale industriale (ma anche una sovrappopolazione di riserva potenziale fattore di turbolenza sociale). Sul piano macroeconomico la crescita del debito e del connesso aumento di spesa per il pagamento degli interessi passivi, implica inevitabilmente l’incremento del carico fiscale sulle tasche del solito Pantalone proletario. L’aumento del carico fiscale generale (in assenza di paralleli e proporzionali aumenti del reddito medio della classe proletaria) porta al conseguente peggioramento del potere di acquisto medio e quindi delle condizioni di vita popolari. Anche quest’ultimo aspetto, inutile dirlo, è inquadrabile nella categoria dei fattori di crescita del conflitto di classe (ma l’aumento fiscale e la diminuzione del potere d’acquisto vanno anche intesi come fattori di calo della domanda generale). In questi ultimi anni, in considerazione delle difficoltà di valorizzazione del capitale nel settore della produzione industriale di merci e delle crescenti difficoltà di valorizzazione nel settore delle costruzioni, l’economia cinese ha registrato forti investimenti nel settore terziario dei servizi. La domanda interna di servizi tuttavia risente, chiaramente in negativo, delle stesse condizioni (in primis il calo del potere di acquisto) che ostacolano la crescita della domanda nel mercato delle merci e dei beni immobiliari. Allo scopo di incrementare, o almeno di mantenere inalterato il volume annuo delle esportazioni, nel 2016 il governo cinese ha svalutato ripetutamente lo Yuan. Tuttavia anche questa misura, mentre da un lato favorisce l’acquisto di prodotti dall’estero (a patto beninteso che le altre economie nazionali non svalutino a loro volta la propria valuta), dall’altro lato funge da fattore depressivo della domanda interna. Infatti, con la svalutazione della moneta nazionale, in assenza di adeguate e contemporanee riduzioni dei prezzi delle merci e dei servizi, si verificherà inevitabilmente una parallela riduzione del volume della domanda generale. Sul piano macroeconomico è dunque da valutare se la contabilità delle esportazioni è in grado di segnare degli aumenti sufficienti a coprire/superare i mancati guadagni causati dal calo della domanda sul mercato interno, calo determinato dall’aumento combinato della pressione fiscale e della svalutazione competitiva della moneta nazionale.
Da un punto di vista socio-economico, i ‘sacrifici’ richiesti dalla ‘crescita drogata’ capitalistica, in linea generale, vengono accollati al solito Pantalone proletario (maggiori tasse e minore valore del salario reale in termini di potere di acquisto). Quest’ultimo aspetto conferma la validità della legge della miseria crescente e la persistenza dei suoi effetti collegati (ovvero l’aumento della conflittualità sociale e quindi la potenziale minaccia politica al dominio della classe borghese).
Nell’ultimo decennio sono aumentati gli scioperi per motivi salariali. Questi scioperi trovano una ragione contingente anche nella esigenza di assicurare una pensione sufficiente al lavoratore, considerando che essa è quasi totalmente a carico dei contribuiti versati dalle imprese allo stato (e quindi si basa in ultima analisi sul valore della retribuzione erogata). Gli scioperi nell’anno 2010 hanno coinvolto, in una sola provincia ai confini con la Corea, quasi 70.000 lavoratori. Nel 2014, nel centro industriale di Dongguan, hanno scioperato invece quasi 40.000 lavoratori. Lo stesso proletariato giovanile ha dimostrato negli ultimi anni una elevata combattività (scioperi, proteste, manifestazioni), nei confronti della tendenza all’aumento dello sfruttamento attraverso l’aumento della giornata lavorativa (plus-lavoro assoluto). Nel 2015/2016 sono aumentate le azioni di protesta contro i tagli all’occupazione, ma anche per gli aumenti salariali o il pagamento degli arretrati (per lavoro straordinario). I tagli all’occupazione (si parla di milioni di licenziamenti) sono collegati a una valutazione di scarsa economicità di alcuni settori decotti ( ad esempio carbone, edilizia, cantieri navali) delle imprese pubbliche, sostenute finora dal credito di stato.
In conclusione l’analisi dei dati macroeconomici cinesi (in linea con le tendenze dell’economia globale) non rivela altro che l’esistenza delle solite contraddizioni insite nel modo di produzione capitalistico. Il fuoco del conflitto sociale di classe è continuamente alimentato da queste contraddizioni, in ogni landa del capitalismo globale. La classe operaia cinese, tuttavia, sia per le proprie dimensioni quantitative che per il grado di combattività dimostrato negli ultimi dieci anni, può rivelarsi una delle punte avanzate della lotta di classe internazionale contro il regime sociale borghese.