Nota redazionale: se ben si osserva il panorama dei gruppi che si richiamano alla nostra corrente, si scopre che una metà di essi è tuttora convinto dell’attualità delle questioni nazionali. Tale errata convinzione deriva da madornali errori di valutazione e dai soliti impulsi attivistici. Ovviamente, nel momento in cui un soggetto politico afferma che i regolamenti di conti fra fratelli coltelli borghesi sono una tappa intermedia per il progresso della lotta di classe, e che quindi vanno sostenuti, allora l’errore teorico diventa anche possibile dispendio pratico di risorse.
Questo è il risvolto veramente negativo delle credenze e dunque degli errori da cui esse fioriscono.
Il capitalismo produce incessantemente diseguaglianze sociali e squilibri di sviluppo economico fra aree territoriali e geografiche, sia all’interno di uno stesso recinto statale-nazionale, sia fra differenti recinti statali-nazionali. Lo squilibrio fra i livelli di sviluppo di aree economiche diverse assume un aspetto funzionale (generalmente) alla creazione di un esercito industriale di lavoratori di riserva inoccupati, pronti a sostituire la forza-lavoro occupata, in caso di richieste salariali non compatibili da parte di questi, oppure da occupare quando il ciclo delle vendite spinge verso una maggiore produzione di beni e di servizi. Basta ricordare l’esempio storico dell’impiego massiccio di forza-lavoro meridionale, nel dopoguerra, nelle industrie del nord Italia, per dare l’idea del meccanismo di un sottosviluppo funzionale di certe aree economiche, rispetto al quadro economico capitalistico generale. Dobbiamo confrontarci con la situazione contemporanea, poiché venuto meno il quadro di rapporti coloniali/imperialisti degli anni 20, o del periodo immediatamente successivo alla fine della seconda guerra mondiale, diventa problematico continuare a ipotizzare l’utilità (per il progresso della lotta di classe) di ulteriori tattiche di sostegno a eventuali lotte nazionali, o addirittura a lotte con sfondo religioso, mentre ci dobbiamo interrogare invece sul significato reale dei fenomeni di reviviscenza nazional-religiosa contemporanei, come abbiamo tentato di fare nel lavoro sull’Ucraina e in quello sullo stato islamico e la politica americana del caos, individuando le linee di congiunzione fra le esigenze permanenti di dominio (di risorse naturali e forza-lavoro) dei blocchi imperiali, e le dinamiche di scomposizione e ricomposizione della lotta per l’accaparramento di quote di plus-valore e per il controllo dell’apparato statale condotta dai ‘fratelli coltelli’ delle varie borghesie nazionali. Nella situazione capitalistica attuale diventa dunque predominante la funzione puramente ideologica delle variegate mascherature ‘nazionali-religiose’, miranti a occultare sotto il velo di queste improbabili rivendicazioni, totalmente disinnestate dalla tendenziale omogenizzazione del contesto storico-economico capitalistico, la lotta feroce per la spartizione del bottino di plus-valore e la conseguente esigenza di controllo della attrezzatura di oppressione statale nazionale ( utilizzata per opprimere il proprio proletariato e combattere con le borghesie rivali esterne, o con frazioni rivali interne). Lo sviluppo del modo di produzione capitalistico ha sovvertito i precedenti rapporti fra città e campagna, e attraverso la potente industrializzazione dell’economia (con annessa introduzione di macchinario e conseguente espulsione di lavoro salariato dal processo produttivo) ha determinato la crescita di una massa enorme di popolazione eccedente i ‘regolari’ bisogni di valorizzazione del capitale investito, i connessi flussi migratori ‘epocali’, e la conseguente necessità di controllo e repressione. Su questa ultima ‘necessità’ si gioca il ruolo preminente che l’attrezzatura statale ha assunto in questa fase, e che ci spinge a caratterizzare il vero volto del dominio borghese, sia nella fase apparentemente democratico-parlamentare che in quella apertamente dispotico-totalitaria, come quella di un regime sostanzialmente autoritario e ‘fascista’ (riunione generale del 1953, svoltasi a Genova ‘il partito rivoluzionario di classe è solo ad intendere che oggi i postulati economici, sociali e politici del liberalismo e della democrazia sono antistorici, illusori e reazionari, e che il mondo è alla svolta per cui nei grandi paesi l’organamento liberale scompare e cede il posto al più moderno sistema fascista’). Un regime basato sull’impiego di Moloch statali per il controllo e la repressione della lotta di classe, cioè delle azioni di lotta dei lavoratori occupati e sfruttati e anche di coloro che il sistema pone ai margini della stessa possibilità di sopravvivenza biologica nelle nuove realtà metropolitane (disoccupati, sottoccupati, autoctoni e migranti). In un quadro contemporaneo generale di drammatica realizzazione delle marxiste leggi tendenziali di crescita dell’eccedenza di forza-lavoro (non impiegabile con profitto nel processo produttivo capitalistico), e di conseguente impoverimento progressivo della popolazione, trovano senso e spiegazione anche le fughe e gli arroccamenti nazionalistici indipendentisti di quelle aree economiche ‘forti’ (Catalogna, Veneto), che con l’indipendenza sognano di sfuggire ai rischi delle tensioni politico-sociali innescate dal divenire del modo di produzione capitalistico. Un borghese arroccamento e una difesa estrema di presunte condizioni privilegiate (tentando di coinvolgere in questa difesa anche i propri proletari), dentro la immanente lotta fra fratelli-coltelli tipica della realtà socioeconomica capitalistica. Nient’altro che un accentuazione della dialettica fra aree economiche differenziate tipica del sistema capitalistico (l’accentuazione è chiaramente collegata al momento economico contingente). Di conseguenza, una volta compreso l’arcano economico-sociale che si cela dietro queste anacronistiche rivendicazioni separatiste, autonomiste, indipendentiste o localistiche, si deve decisamente condannare ogni confluenza di energie proletarie in loro sostegno, così come è da escludere la lotta per l’interesse nazionale, o per il risultato gestionale annuale dell’azienda in cui si lavora come schiavo salariato. L’eventuale lotta comune di borghesi e proletari per la creazione di un nuovo apparato statale-nazionale, esito finale di queste ricorrenti rivendicazioni separatiste, autonomiste, indipendentiste e localistiche, per il proletariato non significherebbe altro che farsi spingere (dalla propria borghesia indipendentista) a fabbricare con le proprie mani le mura di una nuova prigione statale in cui continuare a vivere da schiavi .
Le lotte nazionali o addirittura le lotte a sfondo religioso fondamentalista posseggono ancora oggi un valore progressivo per il movimento proletario? A questa domanda abbiamo iniziato a rispondere nel testo ‘Catalunya e questione nazionale’, affrontando le cause sistemiche che si nascondono dietro i variegati movimenti nazionali e fondamentalisti contemporanei, attraverso un confronto serrato con i testi prodotti dalla corrente dagli anni venti a tutt’oggi. La nostra analisi riepilogativa affermava che, almeno in linea generale, tali movimenti (ad esempio lo stato islamico) sono espressione di fattori esogeni (internazionali) ed endogeni (nazionali) relativi a regolamenti di conti fra fratelli coltelli borghesi (nazionali e internazionali). Il compito conseguente di una forza politica marxista è dunque la denuncia di tale caratteristica, e l’indirizzamento dei proletari verso obiettivi autonomi di classe, evitando di parteggiare per una frazione al posto di un altra. Schematicamente è quello che scrivevamo nel lavoro sulla Catalunya. Ora ci capita di leggere che le cose sono ben altre, e quindi dovremmo in fondo sperare che lo stato islamico progredisca. Mentre la linea dell’equidistanza fra i contendenti borghesi, non cogliendo la natura ‘oggettivamente’ antimperialista dei fenomeni che si stanno svolgendo in determinate aree, sarebbe drasticamente arretrata sul piano della individuazione degli obiettivi tattici e delle alleanze, e quindi politicamente sbagliata. Questa proposizione riassume (a nostro avviso) la quintessenza del teorema sulla presunta attualità antimperialista delle cosiddette lotte nazionali e religiose. Una posizione sbagliata può anche essere presentata in una forma stilisticamente raffinata, una forma che stimoli e appaghi il senso estetico del lettore, inducendolo a sfumare il giudizio critico sui suoi contenuti politici. Con noi evidentemente non ha funzionato. Dunque l’assioma principale di questi argomenti, l’avrete capito, è l’attualità delle lotte nazionali – religiose come fattore di progresso nella lotta di classe. Il fatto storicamente innegabile della pervasiva presenza dell’economia capitalistica, nell’attuale contesto storico mondiale, non ha importanza per questi teorici della questione nazionale. In altre parole, il fatto innegabile che sia ormai ridotta ai minimi termini la presenza di forme economiche pre-capitalistiche, e che quindi sia problematico parlare di sostegno alle lotte nazionali per accelerare il passaggio da un modo di produzione (feudale o semi feudale) a un altro (capitalistico), non conta nulla per gli ostinati assertori della questione nazionale. La questione politica nazionale-religiosa va invece posta, a nostro avviso, nei seguenti termini: i problemi sociali determinati (anche) dalla congiuntura economica mondiale hanno trovato inizialmente espressione, in nord-Africa, nelle proteste proletarie confluite (come fattore di causa endogeno) nelle primavere arabe. Questo primo fattore sociale endogeno, non essendo riuscito a fare un salto di qualità politico in senso classista, è stato successivamente utilizzato nello scontro di interessi fra i fratelli coltelli borghesi locali, cioè è stato posto al servizio del secondo fattore endogeno (questa volta di segno sociale borghese) delle primavere arabe. Alla luce di questa analisi è corretto dire che cerchiamo l’intervento dei fattori esogeni solo in seguito, o in concomitanza, con quanto avvenuto sul piano endogeno.
Catalunya: nella Catalogna è concentrato il 16% della popolazione spagnola, cioè 7 milioni e mezzo di abitanti, su un totale di oltre 47 milioni. Nella regione catalana viene realizzato il 20% del pil spagnolo e il 23% della produzione industriale. Inoltre hanno sede in questa area circa 5.700 multinazionali estere, ovvero quasi la metà (circa 46%) delle imprese estere che investono in Spagna. Il 25% dell’export spagnolo viene prodotto in Catalogna, che manda sui mercati internazionali quasi il 30% del proprio PIL. Nell’area catalana il PIL pro capite è più alto della media nazionale e anche continentale: cioè 26.500 euro contro i 22.500 della Spagna. La disoccupazione è al 19,1%, mentre la media nazionale è 22%.
Questi dati esprimono quella che, a nostro avviso, è la importante determinante economica che sta a fondamento degli attuali processi di scomposizione e ricomposizione degli equilibri infra-capitalistici spagnoli (certamente non l’unica determinante, ma a nostro avviso quella decisiva, in ultima istanza).
Quali prospettive politiche potrebbero aprirsi, il condizionale è di obbligo, se davvero la Catalogna diventasse indipendente?
La scomposizione dello stato nazionale iberico potrebbe determinare l’accelerazione di analoghi processi separatisti presenti da decenni in altre aree economiche europee. Si può prevedere, tuttavia, che tali processi possano realizzarsi con successo solo nelle aree economiche ‘forti’, cioè nelle aree dove la separazione implicherebbe un immediato e momentaneo miglioramento dei parametri relativi al reddito annuale pro-capite e al Welfare (determinato dal minore gettito fiscale da inviare alle casse dello stato centrale, e quindi nella susseguente diminuzione dell’imposizione fiscale). Pensiamo in questo caso ad aree come quella del nordest italiano, mentre ci sembra poco probabile che le spinte secessioniste indipendentiste giungano a pieno compimento nelle aree ‘deboli’ rispetto ai parametri nazionali.
Pensiamo alla Sardegna in Italia, o alla Scozia in Gran Bretagna, dove un recente referendum per l’indipendenza è stato bocciato dal voto della maggioranza degli scozzesi. Questi processi separatisti, da noi definiti come semplice e fisiologica scomposizione e ricomposizione di precedenti equilibri di interesse infra-borghesi, potrebbero, secondo taluni analisti politici, accelerare il disfacimento dell’attuale società capitalistica, e quindi il suo ‘inevitabile’ tramonto. Sulla parola ‘tramonto’ e anche su ‘inevitabile’ siamo d’accordo, bisogna solo capire cosa ci aspetta dopo l’inevitabile tramonto: il passaggio dalla preistoria alla storia, oppure il salto definitivo nella barbarie? Leggiamo cosa dice il Manifesto ‘La storia di ogni società esistita fino a questo momento, è storia di lotte di classi. Liberi e schiavi, patrizi e plebei, baroni e servi della gleba, membri delle corporazioni e garzoni, in breve, oppressori e oppressi, furono continuamente in reciproco contrasto, e condussero una lotta ininterrotta, ora latente ora aperta; lotta che ogni volta è finita o con una trasformazione rivoluzionaria di tutta la società o con la comune rovina delle classi in lotta ‘.
Lotta di classe: proviamo ad ipotizzare i riflessi che potrebbero verificarsi nel conflitto di classe basico che caratterizza ogni società di oppressi e oppressori, e quindi anche l’attuale società borghese spagnola (in seguito alla indipendenza della Catalogna). Le minori entrate fiscali incamerate dalle casse dell’erario spagnolo dovrebbero tradursi, in breve tempo, nella riduzione dei servizi sociali e assistenziali usufruiti principalmente dalla classe proletaria. Questo dato materiale, traducibile in un immediato peggioramento delle condizioni di vita della classe proletaria spagnola, potrebbe fornire la miccia per l’innesco di un più elevato livello di conflittualità sociale (si tratta di una ipotesi da verificare nel corso reale degli eventi, anche se non depone molto a favore del successo di tale ipotesi, il basso livello di risposta di classe registrato dopo i continui peggioramenti delle condizioni di vita dal 2008 ad oggi). L’attuale capitalismo, nella terza fase di sviluppo di cui parla la corrente, sopravvive a se stesso riformando e rinnovando tutto il possibile e l’immaginabile, pur di rallentare le interiori contraddizioni del suo modo di produzione e le leggi tendenziali che ne segnano il divenire. La scomposizione e la ricomposizione degli equilibri di potere socio-economico fra i fratelli coltelli borghesi è la regola delle giornate capitalistiche, e lungi dal prefigurare immediati scenari catastrofici (almeno in questo caso), rappresenta invece un momento funzionale alla realizzazione della logica intrinseca al sistema sociale classista.
Punto n°24: la questione nazionale
QUELLA DELLA AUTODECISIONE NAZIONALE -O “AUTODETERMINAZIONE DEI POPOLI”- E’ UNA PAROLA D’ORDINE CHE APPARTIENE AL PASSATO DEL MOVIMENTO OPERAIO. A titolo di conclusione del lavoro organico di Partito svolto sul tema della questione nazionale, lavoro che in tanto era indispensabile in quanto doveva dire una parola definitiva in merito, abbiamo stabilito sulla base della disamina dei nostri testi classici che la parola d’ordine di Lenin della autodeterminazione o autodecisione nazionale deve essere oggi abbandonata in quanto col 1975 si è chiuso il ciclo delle lotte anticoloniali del secondo dopoguerra in Asia e in Africa e quello delle “doppie rivoluzioni” a livello mondiale. L’idea che stava alla base della parola d’ordine leninista dell’autodeterminazione dei popoli e delle nazioni, partiva dal presupposto che se una nazione nel capitalismo non è ancora riuscita a darsi una Stato proprio, non per questo è una nazione sminuita, e dunque non ha meno diritto di un’altra di disporre di se stessa. Non è necessario uno Stato proprio e distinto perché una nazione esista e sia riconosciuta come tale, ma, per il fatto di esistere, essa ha il diritto ad uno stato proprio (autodeterminazione). Se l’applicazione di questo principio già ai tempi di Lenin era chiaramente subordinata agli “interessi della rivoluzione mondiale”, il suo significato originario, in breve, era che il “diritto al divorzio” di una nazione oppressa dallo Stato che la ingloba non significa “obbligo di divorziare”. Pur riconoscendo in linea di principio e di fatto questo diritto dei popoli oppressi a separarsi “se lo desiderano”, i comunisti quindi non avrebbero dovuto invitare il proletariato della nazione oppressa a battersi comunque ed in ogni circostanza per affermarlo, ed in particolare non avrebbero dovuto sostenere la formazione di nuovi Stati indipendenti se non nei casi in cui la lotta nazionale si svolgesse ancora nel quadro di una “doppia rivoluzione” e non fosse incompatibile con gli interessi della classe operaia e del proletariato mondiale. Oggi quel quadro non esiste più in nessun angolo del pianeta: pertanto l’uso di un termine che, sia pure impropriamente, può dare a intendere che il Partito inviti qualsiasi proletariato, sia pure appartenente alla nazionalità predominante, ad appoggiare la rivendicazione di indipendenza nazionale avanzata da qualsiasi borghesia nazionale, per quanto oppressa, rappresenta un vero e proprio crimine, una abdicazione ai compiti imposti in ogni parte del globo dal premere di una rivoluzione proletaria “pura” nelle viscere di un capitalismo che ha fatto finalmente il giro del mondo. Il fatto che il Centro nel 1993 avesse chiaramente identificato nella “sopravvalutazione della lotta palestinese in quanto «terreno di classe»” e nel “lancio di parole d’ordine para-democratiche in Algeria” (1) le manifestazioni più eclatanti di quel movimentismo che era stato all’origine dell’esplosione del Partito nell’82-83 ci imponeva infatti in modo inderogabile di chiudere definitivamente la questione. Fare altrimenti non ha significato altro che lasciare la porta aperta al ritorno in campo della tesi fasulla sulla necessità di “supplementi di rivoluzione borghese” nei paesi della cosiddetta “periferia” del capitalismo, sulla quale ci siamo soffermati al Punto n° 3. Il fatto grave, in altri termini, è che sia stata sospesa la formulazione delle conseguenze tattiche di un giudizio storico già pronunziato. Per un elementare dovere di chiarezza siamo costretti a questo punto a riprendere in mano materiali (lettere e Circolari) dei quali abbiamo volentieri fatto finora a meno, ma che in questo caso si intrecciano troppo strettamente con la polemica politica per poter essere messi da parte. Nella Lettera centrale del 10.6.00 dopo una Riunione Interregionale ad esso consacrata, si sintetizzava la conclusione del lungo lavoro sulla “Questione Nazionale” pubblicato in diverse puntate si “il programma comunista” nei seguenti termini: “Il P. ritiene che la fase dei moti nazionali e anticoloniali –nei quali spettavano al proletariato anche compiti borghesi, da attuare comunque in totale autonomia politico-organzzativa- si sia conclusa intorno alla metà degli anni Settanta (Tall el Zaatar, ecc.) e che dunque non resti alcuno spazio, in nessuna area geo-storica, per prospettive di “rivoluzione doppia”. Ma la chiusura del ciclo delle doppie rivoluzioni non significa l’eliminazione di situazioni di oppressione nazionale dove il P., tenendo ferma la rotta e la necessità dello sviluppo rivoluzionario e dell’unione del movimento proletario internazionale, deve ancora mantenere la direttiva dell’autodecisione e della dialettica realizzazione dell’unità proletaria internazionale, attraverso opposte consegne per il proletariato dei paesi oppressori e per quello dei paesi oppressi”, assegnando tuttavia alla parola d’ordine dell’autodecisione un significato politico che “attiene alla necessità del disfattismo rivoluzionario nei confronti della borghesia della propria nazione e della lotta contro ogni sciovinismo nazionale palese o mascherato”. Si precisava infatti di seguito che “solo se il proletariato del paese oppressore riconosce il diritto di separazione a quello del paese o della nazionalità oppressa, esso rompe i legami «di fatto» con la propria borghesia e consente contemporaneamente al proletariato del paese oppresso di abbracciare materialmente la consegna dell’unione col proletariato del paese oppressore”. In questa sintesi si era parlato di una “opposta consegna” per il proletariato del paese oppresso e per quello del paese oppressore al solo scopo di non fare confusione parlando, come sarebbe stato più corretto, di una “doppia consegna”, termine che purtroppo riecheggia involontariamente quello, ormai storicamente escluso, di “doppia rivoluzione”. Ma sarebbe stato meglio chiarire subito il fatto cruciale che riconoscere il diritto alla separazione della nazione oppressa non equivale a sostenere o appoggiare la causa di tale separazione, come accadeva e non poteva non accadere nel contesto delle “doppie rivoluzioni”, ma implica al contrario il fatto di opporvisi, anche se con la propaganda rivoluzionaria, naturalmente, e non certo con le baionette. E che proprio perciò le consegne per il proletariato del paese oppressore e per quello del paese oppresso sono diverse ma non opposte: la prima infatti accentua e pone in primo piano un disfattismo ed un anti-sciovinismo che si estende fino alla difesa del diritto alla separazione della nazionalità oppressa o non è nulla, mentre la seconda accentua invece la necessità storica dell’affasciamento del proletariato internazionale in un unico fronte di lotta contro tutti i capitalismi nazionali ed il rigetto di tutte le suggestioni reazionarie dell’indipendentismo. Nella Lettera sopra citata si annunciava inoltre che la parte conclusiva del Rapporto sulla “Questione Nazionale” sarebbe stata “pubblicata sul numero di settembre del nostro giornale”. Nella Circolare centrale n° 2 (21.5.01) si faceva correttamente presente circa la pubblicazione di quelle conclusioni che “per adesso si è ritenuto opportuno soprassedere in quanto le riunioni tenutesi in proposito e i diversi elaborati e contributi ricevuti dal C. non ci hanno consentito di dirimere alcuni dubbi relativi all’impiego o meno della formula dell’«autodecisione», quale forma (particolare e non tipica) di manifestazione del disfattismo rivoluzionario in un’epoca che ormai non mette più all’ordine del giorno in nessuna area geo-storica la «rivoluzione doppia»” e altrettanto correttamente si comunicava che “si rende necessario un ulteriore lavoro che ci consenta di arrivare alla massima chiarezza”.
Quelli a cui lo studio era stato affidato svolsero tale “ulteriore lavoro”, per cui la successiva Circolare dell’8.6.01, prendendone atto, annunciava nuovamente che “restano da pubblicare i rapporti presentati all’ultima R.G. e la puntata conclusiva dello studio sulla «Questione Nazionale»”. Da allora in poi non solo non è stato pubblicato più nulla, ma nell’arco di due anni non una sola nota, nonostante le ripetute sollecitazioni, è stata inviata dal Centro a coloro che avevano svolto l’ulteriore lavoro che si era reso necessario, neppure per criticare o correggere le conclusioni cui essi erano pervenuti. Vale la pena allora di puntualizzare che tali conclusioni andavano nel senso di seppellire definitivamente la formula dell’«autodecisione» sulla base di un’elaborazione che può ben dirsi collettiva in quanto era stata il frutto di un travaglio che aveva coinvolto tutto il Partito. In un primo tempo infatti la validità attuale di quella formula era stata bensì confermata, ma solo a ben definite condizioni (che si trattasse di vere nazioni oppresse e non dei “popoli senza storia” di cui parla Engels, che l’oppressione nazionale fosse caratterizzata da una “persistenza” storica, ed infine che il proletariato del paese oppresso fosse ancora irretito dal nazionalismo della “sua” borghesia) e, soprattutto, era stata confermata nel rispetto più rigoroso del vero significato che a tale parola d’ordine nelle aree pienamente capitaliste si deve assegnare: nessun appoggio o sostegno alle rivendicazioni di indipendenza nazionale dei popoli oppressi, neppure da parte dei proletari del paese oppressore, ma solo disfattismo da parte di questi ultimi verso la loro borghesia, disfattismo che non può non esprimersi anche contro le vessazioni nazionali da essa perpetrate, e che quindi deve necessariamente spingersi anche fino a riconoscere il diritto della nazionalità oppressa a separarsi “se lo desidera” (Lenin), ma che mai e poi mai potrà corrispondere al fatto di manifestare anche solo una generica simpatia per una simile rivendicazione aderente a prospettive ormai antistoriche e reazionarie. Antistoriche perché il capitalismo si è già impiantato e reazionarie perché propugnano lo spezzamento della classe operaia in segmenti nazionali. Gli estensori materiali dello studio sulla «Questione Nazionale», che così avevano inquadrato il problema, non compresero dapprima le resistenze che da più parti si levavano nel Partito contro una formulazione apparentemente ineccepibile, non avvedendosi che un contenuto politico ineccepibile dal punto di vista marxista veniva poi calato dentro una formula -quella, appunto, dell’«autodecisione»- che non lo era altrettanto. Attenendosi al criterio del centralismo organico, che afferma che se delle resistenze nel Partito vi sono, vuol dire che qualcosa non va nelle proposizioni politiche adottate, essi giunsero poi a individuare questo “qualcosa”, identificandolo non già nel contenuto politico delle conclusioni cui si era pervenuti, ma nel fatto di mantenere in vita una formula equivoca. Ciò che gli estensori materiali degli articoli non avevano visto è che sono passati ormai più di 80 anni da quando la III Internazionale scrisse quella formula sulle proprie bandiere, 80 anni di una controrivoluzione che ha azzerato la memoria storica della classe operaia mondiale e che ha riempito quella formula di altri ed opposti contenuti. Per cui leggendo sulla nostra stampa o ascoltando dalla nostra voce la formula dell’«autodecisione nazionale» nessun proletario sarebbe oggi in grado di riconoscerne il vero significato. La sua mente non associa più quella formula a Lenin, ma a Fidel Castro o a Ho Chi Minh, se non addirittura all’intervento “umanitario” degli USA per l’autodecisione nazionale del Kossovo. Il significato che oggi comunemente si dà a quella formula, insomma, è opposto a quello originario e si identifica, per l’appunto, nel sostegno alla causa dell’indipendenza nazionale di questo o quel “popolo oppresso” e quindi della costituzione di nuovi Stati borghesi. L’unica soluzione corretta dal punto di vista del funzionamento organico del Partito (nel senso che non era l’espressione di “pensate”individuali, ma il risultato del convergere di impulsi provenienti da tutta la sua rete) era pertanto quella di liquidare una formula che –oltre che inadeguata ed amarxista da sempre- aveva il difetto imperdonabile di farci confondere con tutto il ciarpame terzomondista, che si pasce proprio dei sogni impotenti e reazionari di indipendenza nazionale dei “piccoli popoli”. E di fare ciò senza deflettere di un millimetro dalla difesa dell’originale contenuto che era stato adagiato dentro a una formula ormai obsoleta: esortare i proletari dei paesi oppressori ad essere disfattisti fino in fondo, fino a sabotare le imprese scioviniste della loro borghesia volte a bombardare massacrare reprimere nel sangue le nazionalità soggiogate ma non dome, fino alla difesa del diritto di queste ultime a costituire un loro Stato indipendente “se lo desiderano”, ma senza mai stancarsi di gridare loro la vera parola d’ordine del Partito, che non è quella di concedere diritti di indipendenza a chicchessia, che non è quella di propugnare la formazione di nuovi stati-galera per qualsiasi proletariato, ma è quella di sostenere col massimo vigore la prospettiva luminosa della «unione non coercitiva delle nazioni», parola d’ordine in regola col materialismo storico, che non abbiamo avuto bisogno di inventare perché è di Lenin, e che ha il pregio di non esporci a pericolosi equivoci e di non impegolarci in metafisiche rivendicazioni di autonomie giuridiche. L’immotivato rifiuto di pubblicare queste conclusioni è equivalso a calpestare non tanto gli esecutori materiali del lavoro, ma tutto il Partito, sulla base dei cui impulsi tali conclusioni erano state raggiunte. Ed il risultato politico di questa improvvisa ed immotivata sospensione è stato quello di consentire alla Centrale di continuare a tracciare delle direttive à son goût, dettate cioè dagli umori del momento e magari anche dall’orientamento degli interlocutori politici del momento, come è accaduto a proposito del Kurdistan, questione rispetto alla quale sono state pubblicate sul giornale delle posizioni in totale contrasto fra loro (2). E che si assista al fenomeno paradossale per cui dall’America Latina si avvicinano a noi dei compagni sperando di trovare nel nostro Partito delle armi teoriche contro il guerriglierismo terzomondista e che noi rispondiamo a questa esigenza mettendo nelle loro mani articoli come “In memoria di Ernesto «Che» Guevara”, che approdano ad un elogio “marxista” del guevarismo. Allo stesso risultato approdano articoli come quello sul Chiapas messicano (3): si prendono per buoni i dati economico-sociali che compaiono sulle pubblicazioni piccolo-borghesi e che ci presentano il falso quadro di un Messico arretrato ed agricolo, dimenticando l’inurbamento e l’industrializzazione, cioè la proletarizzazione dell’80% del Paese, sicché alla fine tutto cospira a dare l’impressione che siamo ancora nel 1909 o giù di lì e che la rivoluzione borghese sia di là da venire. Le nostre conclusioni “politiche”, che pretendono di criticare le posizioni piccolo-borghesi ed insistono sulla necessità della rivoluzione proletaria, risultano pertanto pura politique d’abord in quanto sono totalmente campate per aria.
1. Lettera del Centro a Parigi del 29.III.1993.
2. Nell’articolo “Le false questioni nazionali” (il programma comunista, n° 10, 2002) si afferma infatti che “nel caso del Kurdistan” sono presenti le condizioni che consentono di avanzare “la rivendicazione del diritto di autodecisione”, mentre nell’articolo “La questione palestinese e il movimento operaio internazionale” (il programma comunista, n° 9, 2002) si afferma al contrario che “oggi il ciclo delle lotte e dei movimenti puramente nazionali per la Palestina e tutto il Medio Oriente [di cui il Kurdistan fa parte] è definitivamente privo di qualunque prospettiva storica”. Si deve notare tuttavia en passant che la formula utilizzata nell’articolo, che esclude “movimenti puramente nazionali”, non esclude che nel contesto di movimenti proletari possano ancora essere avanzate parole d’ordine democratiche e nazionali, risollevando dal fango le bandiere lasciate cadere dalla borghesia. Non è tanto importante rilevare una contraddizione tra i due articoli, che comunque risulta evidente agli occhi di qualsiasi lettore che non sia più che allenato alle sottigliezze terminologiche grazie alle quali ciò che viene buttato fuori dalla porta viene fatto rientrare dalla finestra, ma osservare anzitutto che nell’articolo ci si fa beffe del risultato raggiunto dopo anni di lavoro sulla questione nazionale,e cioè della riconosciuta necessità di liquidare il termine “autodecisione nazionale” in quanto esso è fuorviante anche laddove è tuttora giustificato che il proletariato difenda il diritto del popolo oppresso dalla sua borghesia ad andarsene se lo desidera, in quanto la sua utilizzazione lascia presumere che tale difesa coincida col sostegno alla prospettiva dell’indipendenza nazionale, ciò che non è e non può essere in forza del giudizio storico sulla avvenuta chiusura del ciclo rivoluzionario borghese alla scala planetaria, in quanto in altri termini si presta ad una pericolosa confusione tra il disfattismo del proletariato appartenente alla nazionalità dominante nei confronti della propria borghesia e l’appoggio da parte di qualsiasi reparto nazionale del proletariato a qualsiasi rivendicazione di indipendenza nazionale ed a qualsiasi progetto di edificazione di nuovi Stati borghesi. In secondo luogo bisogna osservare che sempre in omaggio al criterio del dispregio del lavoro svolto organicamente dal Partito l’articolo “Le false questioni nazionali” non si prende neppure la briga di precisare da parte di chi la rivendicazione dell’autodecisione kurda (che dovrebbe essere ridefinita come difesa del diritto dei kurdi ad andarsene se lo desiderano) dovrebbe essere avanzata (e cioè che dovrebbe casomai essere avanzata dai proletari turchi, siriani, irakeni e iraniani, ma non certo dai kurdi) e neppure quali sono le “ben precise condizioni” che consentirebbero di avanzarla (e cioè il fatto che l’entità nazionale kurda non sia un ectoplasma creato dall’imperialismo, ma una realtà caratterizzata da una sua persistenza e dignità storica, il fatto che l’oppressione nazionale kurda sia anch’essa una realtà basata su effettive discriminazioni tra proletari appartenenti a differenti nazionalità ed il fatto che il proletariato kurdo sia tuttora inquadrato al seguito della sua borghesia nazionale).
3. il programma comunista, n° 3, 2001.