I comunisti rifiutano la critica morale all’esistente e ogni vano grido di angoscia contro l’eterna violenza dell’uomo sull’uomo. I comunisti si schierano con la loro classe e contro l’attuale e ben determinata violenza borghese, contro le sue radici economiche.

Anticipiamo subito, a scanso di equivoci, la nostra posizione complessiva in merito alla questione. La guerra impari fra israeliani e palestinesi non può portare a nessun risultato finché rimane nell’ambito di due opposte “questioni nazionali”. Di certo, le soluzioni prospettate nell’ambito degli annosi accordi sono sfavorevoli da ogni punto di vista: da quello puramente borghese, perché due opposte questioni nazionali sullo stesso territorio non hanno soluzione; da quello puramente comunista perché, invece di liberare il terreno dalla questione nazionale, la rendono più virulenta che mai; da quello sia borghese che comunista, perché non favoriscono le condizioni per lo sviluppo del proletariato né israeliano né palestinese. La lotta palestinese è uno dei classici casi risolvibili solo nella prospettiva rivoluzionaria comunista; per quanto tale sbocco sia lontano nel tempo non ci sono alternative.

Fin dall’inizio, la borghesia   ebraica non poteva risolvere da sola il problema del suo Stato, e fu utilizzata dall’imperialismo americano, nel corso della lotta contro i vecchi imperialismi europei, con l’obbiettivo della penetrazione strategica in Medio Oriente. Il terrorismo ebraico degli inizi e poi la guerra, avevano cacciato i palestinesi dalle loro terre, costringendoli nell’orbita politica delle nazioni arabe. Alcune di queste, a loro volta, erano state indotte ad accettare l’appoggio ambiguo e tentennante dell’URSS.

 Gli equilibri di allora, già nefasti per i palestinesi e per gli arabi in generale, non esistono più. Oggi, meno che mai, i palestinesi possono risolvere il loro problema nazionale mettendolo ancora una volta nelle mani delle borghesie arabe inconseguenti e divise. In ogni caso, è pura apparenza ogni politica nazionale autonoma in un’area delicata come quella del Medio Oriente: la borghesia israeliana, anche se cerca di giocare un ruolo autonomo, è infatti al servizio degli USA, mentre quella palestinese dipende dagli stati arabi e non arabi della regione (Siria ed Iran), quella degli altri attori come Egitto, Giordania ed Arabia Saudita in testa, dipende dalla politica mondiale degli Stati Uniti.

 Anche l’Europa, nonostante le proprie velleità di indipendenza economica e politica rispetto all’imperialismo americano, si dimostra in realtà impotente, succube e persino servile. Per questo la situazione s’impaluda in un massacro ottuso, crudele, insensato, da entrambe le parti. Spietatezza contro martirio.

 Di fronte a questi dati di fatto storici, l’aspirazione palestinese ad uno Stato indipendente si scontra con una prospettiva reale del tutto rovinosa: il simulacro di Stato senza continuità territoriale della Cisgiordania e di Gaza è stato il frutto di accordi fra potenze, ed è sorto su di un territorio disarmato e soffocato, senza economia, senza sovranità nazionale, “concesso” da Israele al fine di rinchiudere quei milioni di palestinesi non integrabili nel territorio dello Stato israeliano, in un grande campo di concentramento sottoposto ad ogni suo arbitrio.

La politica di Israele negli ultimi 20 anni ha avuto come obiettivo consolidare il Piano Dagan (2001) cioè la cantonalizzazione dei territori palestinesi in cui Cisgiordania e Gaza sarebbero completamente tagliate fuori l’una dall’altra, con governi distinti in ciascuno dei territori. E ha comportato pure appoggiare ed alimentare una forza alternativa ad Al Fatah, Hamas appunto, in cui il nazionalismo anti-israeliano appoggiato all’integralismo islamico, ha trovato il modo di inchiodare alla croce non solo i proletari palestinesi, ma anche il proletariato israeliano e   le masse proletarie arabe in generale. Una forza, dunque, che canalizzasse una parte delle forze palestinesi lontano da obiettivi che alimentassero le contraddizioni di classe, o che portassero a posizioni volte ad unire i proletari delle due parti nella prospettiva di un unico Stato né arabo né ebraico, più esteso dell’attuale Israele. E’ una realtà la tesi secondo la quale Hamas sarebbe stato finanziato, quantomeno ai suoi esordi, dal Mossad, al fine precipuo di contrastare fra i palestinesi l’influenza di Al Fatah, sabotandone in tal modo la forza. La “nascita” di una nuova formazione “radicale”, d’altronde, traeva forza e sostegno dalle condizioni stesse in cui avveniva lo sviluppo e la costituzione dell’Autorità Nazionale Palestinese. Dopo decenni di progetti e risoluzioni, e dopo anni di collaborazione attiva fra Israele ed Autorità Palestinese, la situazione materiale dei proletari palestinesi peggiorava. Gli insediamenti dei coloni non sono diminuiti ma aumentati; l’economia di Gaza e Cisgiordania é molto più disastrata di prima; i proletari palestinesi che lavoravano in Israele sono rimasti in gran parte disoccupati, e gli stessi arabi di Gerusalemme rischiano di essere espulsi. Non appena l’Autorità Palestinese ha avuto la possibilità di esercitare il dominio su un territorio concesso in autonomia coatta, ha sviluppato per prima cosa la polizia: non l’industria, l’amministrazione, la scuola o l’agricoltura, ma la polizia con l’aiuto diretto di Israele! Ciò faceva parte degli accordi per disarmare le fazioni combattenti, che non accettavano gli equilibri all’interno dell’O.L.P. (Organizzazione per la Liberazione della Palestina). Questa situazione non è stata accettata da tutte le masse palestinesi, e si è messa quindi in moto una dinamica che stava sviluppando una forza potenzialmente in grado di superare la politica contraddittoria dell’OLP, ancora prigioniera delle logiche interne dell’attuale direzione del movimento, che rappresenta un blocco politico-militare di correnti disomogenee e quindi sottomesso ad ogni compromesso. L’OLP é sempre stata un’emanazione di politiche altrui, corrotta dai contributi degli stati arabi, asservita alla politica degli stati occidentali che ne fanno l’unico interlocutore ufficiale. Questa organizzazione è   sempre stata l’artefice della sconfitta palestinese. Si appellava infatti alla “guerra santa” della nazione araba, sapendo benissimo che era una falsità, perciò era pronta a sedere a tutti i tavoli di trattativa che gli venivano proposti, senza una forza reale e in un eterno nulla di fatto. Hamas, favorita all’inizio da Israele, dopo essere stata funzionale ai disegni israeliani di rompere il fronte palestinese, indebolendo l’ANP al punto da farla diventare un’appendice dipendente dalla politica d’Israele, non essendo più necessaria, fu bollata come organizzazione terroristica al fine di accelerarne l’isolamento. I risultati sono sotto gli occhi di tutti. Lo Stato di Israele è il solo dominatore del territorio compreso fra il Mediterraneo ed il Giordano. Dopo la morte di Arafat, esso ha trasformato in un protettorato il Governo di Abu Mazen in Cisgiordania, il quale si trova da tempo a dover agire secondo le esigenze politiche di Israele, almeno, fino a quando la contrapposizione con Hamas sarà funzionale agli obbiettivi israeliani. Gaza, governata un tempo dal partito Fatah di Yasser Arafat, dal 2006 è in mano ad Hamas. L’embargo israeliano l’ha trasformata nel campo di prigionia più grande del mondo: qui le masse palestinesi sono ridotte come animali in gabbia, senza corrente elettrica, senza scorte alimentari, senza latte per i propri figli. Israele ha operato dal 2006 ogni genere di pressione per colpire il governo di Hamas, per impedirgli di operare con efficacia, facendo in modo così di sollevargli contro l’ira della popolazione costretta a vivere in condizioni estreme. Lo Stato israeliano ha ottenuto il risultato di avere di fronte due movimenti di liberazione palestinesi: quello di Fatah, che ha sede in Cisgiordania ed è guidato da un presidente debole, Abu Mazen, ampiamente screditato e conciliante; quello di Hamas, con sede nella Striscia di Gaza, che è cresciuto e si è sviluppato con la pretesa di essere il vero custode della “resistenza contro l’occupazione”, che per forza di cose si è dovuto appoggiare agli interessi iraniani e siriani nella regione, ed ha dimostrato di poter applicare le sue disposizioni nella Striscia.

Il blocco selvaggio imposto a Gaza per molti mesi e l’embargo di merci che ha creato grosse difficoltà nell’approvvigionamento di qualsiasi bene alla popolazione, non hanno portato a piegare il potere politico di Hamas. Anzi Hamas, che nel frattempo aveva assunto rapidamente il controllo del sistema di gallerie scavate al di sotto del confine con l’Egitto, dove passava ogni genere di mercanzia, è divenuto in breve tempo il gestore di tutto il contrabbando che ha salvato Gaza dall’affamamento. Ciò ha avuto l’effetto positivo di sollevare le finanze di Hamas, e di farne aumentare il consenso presso la popolazione della Striscia.

L’attacco di Hamas del 7 ottobre, l’azione militare in territorio israeliano con uomini armati, droni e lancio di missili è indubbiamente la dimostrazione del suo rafforzamento economico e militare.

Israele d’altro canto non può accettare e non accetterà di avere un vicino di casa militarmente forte, tale da mettere a repentaglio la sua sicurezza ed è per questo motivo che sta continuando le sue azioni offensive sul territorio di Gaza. Questo atteggiamento ha una base materiale: le dinamiche di crescita economica, demografica e politica delle popolazioni dell’area. Dunque, il nocciolo della questione è che una ulteriore spartizione del territorio con i palestinesi, a sue spese, rischia di diventare intollerabile, poiché nessuna borghesia locale può rinunciare alla prerogativa della difesa e della tutela del suo territorio, a partire dai problemi più elementari, come l’acqua in una regione desertica e come la scarsità di terra coltivabile e abitabile. In ogni caso, anche dal punto di vista militare, Israele non dispone di una economia in grado di sostenere una   logistica complessa come quella che potrebbe riguardare una guerra generalizzata che durasse più di qualche settimana. Essa infatti non ha estensione territoriale, popolazione e risorse sufficienti per rispondere autonomamente alle sollecitazioni che la storia sta mettendo sul tappeto. È chiaro che la domanda spontanea che sorge subito è per che cosa devono collaborare le due dirigenze palestinesi e lo stato israeliano?

La risposta è molto semplice: la posta in gioco del “massacro di Gaza” è stabilire chi è in grado di controllare il proletariato palestinese. Prima Al Fatah, poi Hamas (dal 1987), hanno tentato di farlo cercando di riversare l’odio di classe nutrito nei confronti delle borghesie mediorientali solo sugli israeliani. Israele deve, dal canto suo, fungere da gendarme controrivoluzionario in Medio Oriente, impedendo a tutti i costi l’innesto di un processo rivoluzionario che, incendiando tutta l’area (ivi compreso l’Egitto), lo divori.

Non rifaremo la storia della Palestina, ma  il punto di partenza obiettivo da considerare, ovviamente, è che nei territori di Gaza, Cis-Giordania, Siria, Libano e Giordania si trovano ammassati oltre 6 milioni di profughi palestinesi, molti dei quali cacciati dalle proprie terre e stipati in miseri campi profughi, per i quali l’impianto dello Stato d’Israele è tutt’ora vissuto come un’invasione di una popolazione straniera, arrogante, militarmente micidiale, che li ha puramente e semplicemente depredati della propria terra. È noto che la principale organizzazione palestinese è l’OLP inizialmente sorta per combattere militarmente Israele, nella vana speranza di riuscire a riconquistare l’intera Palestina (che, giova ricordare, non è mai stata una nazione, ma unicamente parte di una divisione amministrativa ottomana) ed ammainare definitivamente la bandiera di Re David. Vana speranza perché, in primo luogo, sin dal suo sorgere, Israele ha goduto dell’appoggio massiccio, economico non meno che militare, degli USA e, in secondo luogo, gli stati arabi dell’intera regione che a più riprese hanno ingaggiato vere e proprie guerre contro l’esercito israeliano, hanno miseramente fallito, a causa principalmente delle condizioni specifiche attraverso cui sono sorti come stati nazionali. Infatti, seppur sia esistita negli anni ’50 la possibilità teorica di ingaggiare una lotta rivoluzionaria all’insegna del panarabismo, sollevando le masse più povere contro le strutture politiche e sociali largamente precapitalistiche e colonialiste annidate nella proprietà delle terre e nelle produzioni di materie prime per l’esportazione, le borghesie di questi novelli stati hanno finito per accettare come dato definitivo lo spezzettamento realizzato dalle potenze coloniali, dedicandosi unicamente al consolidamento delle rispettive unità nazionali, gelose del proprio particolarismo. Caduta quest’alea di una rivoluzione sociale che, potenzialmente, avrebbe potuto unificare in un’unica unità statale l’intero Medio Oriente ed il Nord Africa, proprio a causa di questo particolarismo nazionalista, appare comprensibile come questo stesso fatto abbia condizionato anche un sostegno efficace ai palestinesi. Gli eventuali appoggi forniti alle rivoluzioni democratiche nell’area rispondevano infatti alla logica dell’affermazione di singole borghesie nazionali, non di un’insurrezione popolare generale ed unitaria.

Possiamo ben dire che questo paralizzante particolarismo nazionalista è una caratteristica che ha segnato i rapporti interarabi, paralisi che in realtà aveva, ed ha tutt’ora, la sua base reale nella ricerca della stabilizzazione interna da parte delle borghesie arabe. Detto in altri termini, le borghesie arabe, cresciute all’ombra del colonialismo tradizionale, nascono corrotte e imbevute dalle ideologie delle borghesie imperialiste più reazionarie, maggiormente preoccupate di garantirsi, in primis, contro il rischio dell’esplodere di aperte e vaste lotte di classe. Nei rapporti interstatali, quindi, il nazionalismo risponde sempre bene alla bisogna, tanto all’interno che all’esterno. Non è un mistero che durante la prima guerra con Israele, nel 1948, i diversi contingenti militari arabi agirono ognuno con un proprio comando. Ma anche in seguito, dopo la creazione della Lega Araba e l’istituzione di un comando militare unificato, questo risultava come il compromesso raggiunto sul terreno dell’equilibrio rispetto a ciò che ogni nazione riteneva fossero i propri specifici interessi. Il fatto è che la Lega araba è un organismo morto, proprio a causa del suo atto d’origine. Sono difatti i suoi insuperabili particolarismi nazionalistici a strangolarlo in permanenza. Né, nella fase imperialista, potrebbe essere diversamente. Presupporre l’esistenza di un organismo internazionale, frutto dell’equilibrio dei suoi nazionalismi interni, e pretendere una sua sostanziale indipendenza dagli equilibri imperialisti mondiali, è un semplice assurdo, teorico non meno che pratico.

La borghesia palestinese, parimenti, quella che oggi si riconosce fondamentalmente nell’ex OLP, ora ANP (Autorità Nazionale Palestinese), è la più corrotta e servile che l’area abbia prodotto, non certamente per   una tara genetica, ma a causa della sua intrinseca debolezza politica, e ciò a causa della sua non superabile inconsistenza sul piano economico. Ovvio, quindi, che sia rimasta sotto la pressione del ricatto economico-politico e delle e variazioni degli equilibri tra i diversi stati arabi della regione.

In    ultima analisi, è probabilmente una delle borghesie più corrotte, condannata sicuramente ad accogliere ogni forma di ricatto, nel senso più ampio del termine.

Israele, nella gestione della questione palestinese, non ha molte strade: se formalizzasse il Grande Israele “dal fiume al mare” annettendo i palestinesi, sancirebbe la morte del sionismo, dato che in quell’area, viste le tendenze demografiche, gli abitanti di ceppo ebraico stanno diventando minoranza; se desse invece una reale autonomia ai territori palestinesi, dovrebbe fermare i coloni e spostare quelli già insediati, con il rischio di una rivolta e di un ammutinamento nell’esercito. Lo Stato israeliano preferisce la formazione di uno Stato palestinese a sovranità limitata e dotato di scarse risorse, dove relegare la maggioranza della popolazione araba. I profughi palestinesi in Medio Oriente sono 6 milioni, divisi fra Giordania, Libano, Siria e Irak. Complessivamente, la popolazione palestinese è oltre il doppio di quella israeliana ebraica, e il ritorno dei profughi palestinesi previsto nella risoluzione ONU del 1948, metterebbe in pericolo il carattere sionista dello Stato israeliano.

Non è lecito dimenticare che la base fondante dello stato d’Israele è il sionismo, la forma più virulenta ed oppressiva di nazionalismo e di razzismo ebraico, e che questa base ideologica continua ad essere l’espressione onnicomprensiva della sua politica. La sua affermazione sull’intera società ebraica riposa su un’ulteriore conseguenza: l’eliminazione di ogni lotta di classe ed il suo sviamento verso il “nemico esterno” che, proprio grazie a guerre, conflitti, repressione, rinsalda vieppiù la sua unità interna. Per Israele il nemico alle porte è sempre stata la condizione per perseguire la propria unità interclassista, potente strumento per neutralizzare la propria classe operaia. Non si dimentichi che in Israele sono confluiti consistenti gruppi di proletari, soprattutto dal Centro Europa, con notevoli tradizioni di lotte e di esperienza puramente proletaria, che Israele ha dovuto “sterilizzare” per farli confluire nel sionismo. Lo stesso partito comunista israeliano, ai suoi esordi (anche se influenzato dallo stalinismo), non appoggiava il nazionalismo esasperato di Israele, e le organizzazioni economiche svolgevano ancora, bene o male, una azione di difesa della propria classe operaia (anche se, sin dal suo sorgere, l’atteggiamento delle Unions israeliane è stata l’esclusione degli arabi). Il sindacato infatti, struttura portante dello Stato, prima ancora che lo Stato venga costituito formalmente, è lo strumento per eccellenza della neutralizzazione della classe operaia israeliana a sostegno del sionismo, alla stregua, neppure tanto mascherata, del corporativismo fascista.

L’intera area, ce lo dicono le statistiche, è oggi sotto l’incubo di una recessione economica e, se la funzione non è mai cessata dall’origine, l’azione antiproletaria dello Stato diviene sempre più la preoccupazione principale di Israele. Notizie di cronaca ci informano che, malgrado la condizione di guerra permanente e la militarizzazione dell’intera società israeliana, lotte a carattere economico non sono scomparse affatto in questo paese.

Condizione essenziale di esistenza di Israele è continuare ad alimentare l’unità  interclassista propria del sionismo che, ridotta al nocciolo, non è null’altro che una delle forme estreme di nazionalismo; l’accerchiamento, lo stato di guerra permanente, con la militarizzazione dell’ intera società, lungi dall’essere un disgraziato accidente sinora non eliminato, ma che con la buona volontà ed una politica “illuminata” potrebbe condurre ad una “pace giusta”, entra invece nei calcoli dei dirigenti israeliani ed è implicito nell’atto costitutivo del loro Stato.

Se guardiamo agli interessi delle diverse classi, mentre tutti gli strati borghesi che, in un modo o in un altro, vivendo il loro relativo privilegio di classe grazie alla concorrenza capitalistica, trovano nell’azione repressiva e discriminatoria del proprio stato la difesa di tali privilegi, la sola classe operaia israeliana potrebbe, senza rinunciare a difendere i propri interessi, fare dei proletari arabi i propri fratelli di classe. Allora acquista il suo effettivo significato, l’obiettivo reale del sionismo: è l’azione infatti della borghesia israeliana per neutralizzare preventivamente qualunque indipendenza classista proletaria. Ed allora, sarà così incomprensibile che la borghesia israeliana trovi, oggettivamente anche al di là di un qualunque “complotto” (peraltro mai escluso), nell’integralismo islamico, il corrispondente ideologico del sionismo in campo arabo, ovvero il proprio “alleato di classe” contro l’intero proletariato dell’area, la confederazione di tutti gli stati borghesi in alleanza preventiva contro il proletariato.   Il 1871 del Medio Oriente, anche senza una Comune araba?

Il problema scottante è che neppure il passaggio dal nazionalismo (Al Fatah) all’islamismo (Hamas) si è dimostrato in grado di contenere la dinamite del proletariato palestinese. Israele vuole un Hamas debole (così come ha infiacchito Al Fatah) nei suoi confronti, ma forte nei confronti del proletariato palestinese (mettendo sotto il giogo della sharia le donne e i giovani). Dunque Israele ha bisogno di Hamas, come Hamas ha bisogno di Israele! Anche per questo motivo non c’è alcuna soluzione sul terreno nazionale e borghese alla “questione palestinese”. Quanto paiono ciechi (ma è cecità di classe!) quei medesimi “esperti” della politica internazionale, che rimproverano ai dirigenti israeliani di “sbagliare” i propri calcoli politici perché con le “punizioni collettive”, lungi dal piegare e sconfiggere il presunto “terrorismo islamista”, non fanno altro che spingere le masse arabe sotto le bandiere di Hamas. Il fatto è certamente obiettivo, ma non è casuale, né è un errore.

Se, come si diceva, sionismo e radicalismo islamico sono le due facce complementari della stessa medaglia, ne derivano ulteriori conseguenze. Anche il “radicalismo islamico”, senza speciosi distinguo, è il mezzo specifico dell’azione antiproletaria della borghesia araba.

La rivendicazione che lo caratterizza: quattro zolle sabbiose di stato arabo indipendente – peggio, uno staterello islamico – è la trappola interclassista proposta ai proletari per fuorviarli dal loro compito storico.   Dei continui massacri di cui è vittima la popolazione araba, sono solidalmente corresponsabili entrambe le borghesie, perché espressioni sociali dello stesso modo di produzione. Da una parte e dall’altra del fronte si afferma il cinismo tipico di una borghesia corrotta e reazionaria che, per la propria affermazione come classe dirigente, è ben disposta a svenare in un stillicidio di omicidi senza fine il proprio proletariato (“suicidati”, giustiziati, o “combattenti per la democrazia” poco importa), purché non si ricostituisca una unità di lotta puramente proletaria.

Da ultimo, che concludano o meno di formalizzare l’esistenza uno stato palestinese nominalmente indipendente, sionismo e radicalismo islamico saranno, oggi ed in futuro, proprio per la propria intrinseca ragione d’essere, impotenti a risolvere la “questione palestinese”, perché impotenti ad eliminare le condizioni oggettive sulla quale è sorta. Non che una qualche soluzione diplomatica sia assolutamente impossibile, ma, di necessità, non potrà non essere che un equilibrio basato su dei “rapporti di forza”, l’unico equilibrio che possa affermarsi in una società fondata sul modo di produzione capitalistico; vale a dire che, anche da un punto di vista meramente “pratico”, non vi può essere soluzione che possa eliminare gli odi, i risentimenti, lo spirito di rivincita, poggianti su dei “diritti divini”.

Si suole obiettare che, quand’anche si riaffermasse un movimento puramente proletario, questo non potrebbe eliminare automaticamente l’odio nazionale-razziale- religioso sedimentatosi in decenni di continua contrapposizione fra le due comunità. Ammettiamo che anche una soluzione da parte proletaria sarebbe certamente difficile e laboriosa, ma sicuramente a portata di un movimento comunista internazionale. Infatti, è un non senso ipotizzare una ripresa del movimento proletario e continuare a proiettare in tale profondamente mutata situazione le stesse caratteristiche dell’epoca attuale. La rinascita di un movimento proletario che – impossibile ipotizzarlo diversamente – risorgerebbe sul terreno della lotta aperta, di per sé stessa sarebbe già l’inizio del superamento delle divisioni attuali, non certamente la loro scomparsa grazie alla bacchetta magica ma, ciononostante, la condizione obiettiva che condurrebbe al suo superamento.

Certamente c’è da schierarsi, ma il fronte è quello di classe, contro le borghesie palestinese, israeliana ed araba in generale, che incatenano tutto il proletariato dell’area alla rupe del nazionalismo e del fondamentalismo religioso, in un massacro che avrà fine solo con la fine del mito nefasto dello Stato. Tutto il nostro appoggio e la nostra solidarietà va al proletariato palestinese, che si batte quotidianamente per sopravvivere e, nel farlo, cozza contro una borghesia (Hamas a Gaza e Al Fatah in Cisgiordania) che difende con le unghie e coi denti i propri interessi e privilegi. Solidarietà, anche, col proletariato israeliano e con chi si batte in Israele contro il massacro di Gaza, disertando e/o sabotando le operazioni militari, manifestando in tutte le forme possibili la propria avversione verso la politica della borghesia israeliana. Tutto il nostro odio di classe e il nostro profondo disprezzo, allora, verso tutte le borghesie mediorientali che sfruttano e colpiscono a morte i proletari di queste terre distrutte e insanguinate.

 Non va dimenticato inoltre che le lotte di liberazione nazionale (Congo, Algeria, Angola, Mozambico, Vietnam) sono terminate da mezzo secolo e che l’ultima rivoluzione borghese antifeudale, quella cinese, si è conclusa nel 1949. Non dimentichiamo, infine, che “Israele rappresenta un vero e proprio trapianto di capitalismo moderno nelle plaghe desertiche della Palestina rimaste nell’abbandono per decine di secoli. La rivoluzione industriale capitalista vi ha raggiunto il limite estremo delle possibilità storiche, costituendo un esempio di rivoluzione borghese fino in fondo, dato che è assente ogni traccia dei preesistenti rapporti feudali”. (La crisi del Medio Oriente, 1955, Il programma comunista nn. 20-21).  Dunque non ci sono rivoluzioni antifeudali o nazionali antimperialiste da fare.

 L’internazionale dei “cretini di sinistra”, anche in questo caso, non si smentisce scendendo in piazza (in versione nazionalsocialista) in difesa del popolo palestinese (che ignorano essere diviso in classi sociali), quando non addirittura a sostegno del gruppo fascista di Hamas; e questo, trovandosi in buona compagnia con gli “idioti di destra” dei gruppi apertamente fascisti. Ci sono anche i cretini di sinistra che sostengono Israele in quanto “unica democrazia in M.O”; e questo trovandosi in buona compagnia con gli “idioti di destra” istituzionali.

Le pattumiere della Storia li attendono. E’ solo questione di tempo e noi sappiamo attendere.

I proletari hanno una sola via da seguire: quella del disfattismo rivoluzionario. La propria borghesia è il primo nemico da battere. Nei conflitti in epoca imperialista il proletariato deve augurarsi la sconfitta del “suo” governo e lottare per scatenare un’insurrezione rivoluzionaria, quando l’insurrezione che doveva impedire la guerra non è riuscita. Questi insegnamenti ci vengono da lontano (Lenin 1916) ma valgono oggi come ieri. Schierarsi quindi assume un significato più ampio, per i comunisti significa che i proletari devono lottare ogni giorno per difendere la propria condizione e lo fanno perché sono parte di una classe proletaria rivoluzionaria mondiale che ricorrentemente scatena la propria rabbia contro lo sfruttamento del capitale. Il proletariato palestinese, il proletariato israeliano, il proletariato arabo devono trovare l’unione che darà loro la forza di scatenare un processo rivoluzionario in tutta l’area del Vicino e Medio Oriente, contro ogni nazionalismo, contro le borghesie arabe reazionarie e completamente asservite all’imperialismo russo, statunitense, cinese. Non ci sono altre strade

La soluzione è una sola: la rivoluzione a scala mondiale con alla guida il futuro Partito Comunista Internazionale.

23.10.2023

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