Abbiamo letto di recente della lotta di un gruppo di lavoratori turchi per tenere aperta la propria azienda e mantenere il posto di lavoro, i metodi di lotta impiegati sono l’occupazione e la tendenziale autogestione, per consentire così alla produzione di merci di non subire interruzioni e salvare i livelli occupazionali. A questi lavoratori va la nostra piena solidarietà per gli sforzi e le difficoltà che stanno affrontando, tuttavia non possiamo nascondere che questo tipo di lotte è inevitabilmente destinato a produrre, nella migliore delle ipotesi, solo una soluzione temporanea e locale al problema della disoccupazione e della perdita dei posti di lavoro. L’azienda capitalistica delocalizza, licenzia, investe e assume nuova forza-lavoro seguendo la logica esclusiva della redditività del capitale investito, la cosiddetta ricerca del profitto; non possiamo credere che gli effetti distruttivi di questa logica (disoccupazione, impoverimento…) siano invertibili in modo serio e permanente attraverso parole d’ordine come autogestione, compartecipazione e cogestione. In Germania e in America alcune grandi aziende consentono la compartecipazione dei lavoratori agli utili, tuttavia questo dettaglio non si accompagna a un miglioramento generale delle condizioni di vita del proletariato. Consideriamo il caso estremo dell’occupazione dell’azienda che poi si converte in autogestione. Ora dobbiamo chiederci cosa può significare continuare a produrre delle merci quando il mercato non è in grado di assorbirle, cioè quando non esiste una domanda corrispondente, in altre parole dei clienti disposti ad acquistare le merci prodotte dalla fabbrica occupata e autogestita. Ammettiamo pure che un gruppo d’operai, attraverso l’autogestione, diventi con il tempo proprietario dell’azienda, del suo capitale costante (macchinari, automezzi, impianti… probabilmente già obsoleti e da dismettere dal processo produttivo), e quindi trasformi nella forma giuridica della società cooperativa il suo possesso dei mezzi di produzione. Orbene questa cooperativa dovrà poi fare i conti con la realtà del mercato, cioè con le imprese concorrenti, con i prezzi dei fornitori, con le banche e con il fisco. Dovrà soprattutto competere con le altre imprese per accaparrarsi i migliori segmenti di mercato, e quindi si troverà costretta a progettare ed adottare strategie di marketing efficaci per allettare e fidelizzare i potenziali clienti e battere così la concorrenza. In altre parole dovrà mettersi in gioco nel mare magno dell’economia borghese: ci domandiamo ora se è dunque questo l’esempio da seguire indicatoci dai nostri sindacalisti di base. Possiamo ricordare brevemente che da anni anche la propaganda borghese propone ai giovani disoccupati la strada del fare impresa, la strada del mettersi in proprio come soluzione vincente ai problemi occupazionali incrementati dalla crisi. Nella realtà del capitalismo senile, e forse anche di quello meno senile come il turco, è ancora ammissibile che le lotte per tenere aperte a tutti i costi le aziende decotte abbiano un valore pratico, non diciamo d’opposizione al sistema del capitale, ma almeno di tutela permanente del reddito del lavoratore? Siamo davvero convinti che l’occupazione e la successiva autogestione, in altre parole il diventare imprenditori di se stessi, il fare impresa come società cooperativa dentro il mercato concorrenziale dell’economia capitalista sia una buona soluzione? Noi ci permettiamo di dubitare di tutto questo, la storia dimostra che l’emancipazione dei proletari passa in primo luogo per la conquista del potere politico e la sottrazione del controllo dell’apparato statale alla classe borghese. Solo in questo modo si può impedire alla borghesia di continuare l’opera di sfruttamento della classe lavoratrice. Lo sviluppo dell’economia capitalistica dimostra che il progresso tecnico-scientifico, con la conseguente immissione di capitale costante ( mezzi tecnici) in dosi massicce nella produzione, è destinato a soppiantare progressivamente l’impiego di capitale variabile (forza-lavoro umana). Questa legge della produzione su base capitalistica determina inevitabilmente un esercito di forza-lavoro di riserva, disoccupata e impoverita. Il capitale adesso non ha bisogno del lavoro di questa massa umana espulsa dal processo produttivo, e appare quindi velleitario pretendere che ritorni indietro sui suoi passi per salvaguardare l’occupazione. Quand’anche dovessero essere tenute in piedi con la mediazione del potere politico talune produzioni particolari, si tratterà sempre di soluzioni temporanee e specifiche volte a tamponare i problemi sociali di ordine pubblico collegati agli effetti dei licenziamenti. Restando su un piano meramente economico-sindacale la parola d’ordine del salario garantito, invece, molto più di parole come occupazione e autogestione, può svolgere un ruolo di ricomposizione di classe e di superamento della concorrenza tra la forza lavo­ro, limitando le con­seguenze più negative della disoccupazione prodotte dal rapporto storicamente determinato fra crescita percentuale del capitale costante e calo del peso percentuale del capitale variabile. Il sistema economico ha l’esigenza di avere una riserva di forza lavoro disponibile, da inserire all’occorrenza nel processo produttivo, molto bene, allora questa ‘disponibilità’ va remunerata, e così come il lavoratore occupato riceve una retribuzione che gli consente di vivere e riprodurre la propria forza lavoro, anche il lavoratore disoccupato, in area di riserva momentanea, ha bisogno di riprodurre quo­tidianamente (mangiare, vestirsi, istruirsi e addestrarsi) la propria forza lavoro in vista della futura vendita sul mercato. Ricordiamo a questo punto alcuni precedenti storici in merito allo stesso argomento. Nel 1920, in Italia, dopo molti mesi d’inutile occupazione delle principali aziende industriali, i proletari furono costretti a prendere atto della sterilità della lotta sostenuta (sostanzialmente ininfluente a cambiare i rapporti reali di potere con l’avversario di classe borghese). Le dirigenze sindacali e politiche riformiste, di comune accordo con il governo Giolitti, a titolo di compensazione dei vani sforzi profusi dai proletari in quella battaglia perduta, offrirono agli sconfitti una vaga cogestione delle aziende, da rendere operativa, beninteso, attraverso l’intervento e il controllo del sindacato. Nel terzo volume dedicato alla storia della sinistra comunista, a pagina 87, è riportata una lettera di Turati ad un interlocutore confindustriale, ne evidenziamo alcuni passaggi, quelli in cui il buon Turati cerca di rassicurare l’interlocutore in merito ai rischi e ai vantaggi dell’operazione ‘cogestione’ . La lettera di Turati del 1920, in cui si tratteggiano i possibili sviluppi del progetto sindacale e governativo mirante al controllo operaio delle fabbriche, è tuttora attuale per comprendere le fatali illusioni cui soggiace il riformismo nel suo approccio politico alle questioni sociali. La parola chiave più impiegata nella lettera è collaborazione; in altre parole Turati propone la collaborazione fra capitale e lavoro salariato sotto l’alto patrocinio e la mediazione dell’apparato statale, definito senza dubbio come un ente super partes. Chiediamoci, tuttavia, se è proprio vero che può esistere una qualche ‘cointeressenza’ reale fra capitale e lavoro salariato, e soprattutto se è realistico sostenere che lo stato è un organo al di sopra delle parti sociali in conflitto, interessato solo al bene superiore della collettività. La risposta a tali domande si trova a pagina 92 del volume appena citato . In merito alla questione della imparzialità del potere statale possiamo enunciare un principio elementare, senza pretendere di affermare verità nascoste o sconosciute: la condizione di schiavitù salariata può smettere d’essere tale solo dopo la distruzione dell’apparato politico-militare di dominio borghese. Tale distruzione è una possibilità posta in essere dalle stesse contraddizioni interne alla società capitalistica, e usando il termine possibilità intendiamo affermare che essa (la distruzione) non va pensata in modo escatologico come un esito inevitabile della storia umana, ma nondimeno è l’unica alternativa concepibile all’estinzione catastrofica della vita sul pianeta (prospettiva verso cui ci sta velocemente conducendo il demente sistema capitalista). Ancora oggi, a distanza di quasi un secolo, i riformisti pullulanti in campo politico e sindacale propongono le stesse fallimentari ricette, ampiamente sbugiardate dall’esperienza storica, continuando ad attribuire allo stato un’inesistente funzione super partes, potentemente smentita da mille evidenze di segno opposto. Concludiamo con una precisazione finale; in alcuni ambienti politici e sindacali si rimpiange il bel tempo dell’intervento pubblico imponente nell’economia, ad esempio le nazionalizzazioni di settori importanti come l’energia elettrica e il trasporto su rotaie avvenute nel dopoguerra. Ci permettiamo di ricordare che il passaggio dal pubblico al privato, o anche viceversa, in una società capitalistica non significano altro che un semplice mutamento di forma (involucro) esteriore del dominio di classe, un mutamento inoltre funzionale al ciclo economico contingente e alle esigenze permanenti di valorizzazione del capitale. Non si possono rimpiangere l’intervento dello stato in economia, le aziende a capitale totalmente pubblico oppure le società controllate o partecipate dagli enti locali, Regioni, Province e comuni, ignorando che in certe fasi della sua esistenza il modo capitalistico di produzione, per motivi di ordine puramente ciclici, cioè economici e politici insieme, è costretto a trasferire l’amministrazione di alcuni rami dell’economia direttamente al suo apparato statale (Keynes docet). Questa circostanza è spesso mistificata dai socialdemocratici e dagli stalinisti come la prova della presenza di elementi di socialismo dentro l’economia capitalistica. Tale postulato oltre ad essere sbagliato è anche assurdo, perché l’economia pubblica e l’economia privata sono solo le due facce della stessa medaglia capitalista, ed anche l’attuale tendenza all’uniformità degli inquadramenti giuridici dei lavoratori del pubblico impiego e del privato dovrebbe far riflettere. Non è importante la presenza della figura del capitalista privato, già definito da Marx una semplice maschera di carattere, un attore della recita sociale, poiché come scriveva la nostra corrente nel 1952 ‘poteva il capitalista o la classe capitalista cessare qua o là di personificare il capitale, che questo sarebbe rimasto, di fronte a noi, contro di noi, quale meccanismo sociale quale onnipotente legge naturale della produzione ’. Il capitale è un rapporto sociale di dominazione, che si estrinseca in un meccanismo sociale di coercizione e alienazione degli esseri umani; esso si perpetua attraverso l’azione dell’apparato statale, il quale lungi dal rappresentare gli interessi della collettività rispetto al cattivo privato, è invece lo strumento burocratico-poliziesco fondamentale per la continuità del dominio di classe borghese. L’ingenuo rimpianto per le aziende di stato, o addirittura per le società controllate o partecipate dagli enti locali (la via al socialismo attraverso le aziende municipalizzate), non si avvede che il lavoratore salariato pubblico non è meno schiavo del lavoratore salariato privato, così come i milioni di proletari sovietici non erano meno schiavi dei milioni di lavoratori occidentali ai bei tempi del socialismo reale.

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