Capitalismo, distruzione di «capitale vivo»

Capitalismo, distruzione di «capitale vivo»

Stalin ebbe a definire l’uomo il «capitale più prezioso». Sotto la spudorata espressione si cela la duplice verità che l’uomo è un mezzo di produzione come una macchina qualsiasi, e che, come mezzo di produzione, è «uomo» finché serve a produrre, o finché i l capitalismo intende servirsene. Si assiste allora, proprio come per le macchine, al fatto che, mentre una parte di uomini lavora nella forma salariata, un’altra giace o inerte, inutilizzato, o in stato di sotto-remunerazione. Si dà poi il caso che la sovra-produzione imponga la distruzione di capitale, cioè di macchine e uomini, di prodotti ed impianti. Queste riflessioni ci vengono suggerite (e le deduzioni già le possediamo) da uno scritto di E. ArabOgly, intitolato «Le vittime del Moloc capitalista», apparso nel numero dell’agosto di quest’anno di «Problemi della pace e del socialismo», «rivista mensile teorica e d’informazione a cura dei partiti comunisti e operai», diretta dall’opportunismo nell’ultima versione stalinkruscioviana.

Per i marxisti ortodossi, non si è mai posta la questione della guerra come distruttrice di «vite umane», allo stesso modo che non si è mai posta la distinzione tra guerre di difesa e di aggressione. Anzi, proprio il marxismo ha scoperto che la guerra è una potente leva inconsciamente rivoluzionaria, anche quando porta scritto in fronte, con caratteri di fuoco e di sangue, la sua natura imperialistica. Quante volte sia Engels che Marx si sono augurali, tra il ’52 e il ’70, che una guerra ponesse fine alla bugiarda convivenza pacifica degli stati, per mettere nuovamente in moto la lotta di classe e sconvolgere gli attuali rapporti sociali! La guerra nell’era capitalistica, soprattutto nella «suprema fase imperialistica», ha come scopo la distruzione di capitale morto e vivo, perché il capitalismo stesso non muoia di soffocazione. La guerra, cioè, è del tutto «naturale» per il modo di produzione capitalistico, e non è evitabile con la «volontà di pace», in quanto la pace è la sua matrice. Vale l’identità pace = guerra, nel senso corretto che la causa prima della guerra moderna è il capitalismo. Perché la guerra sia evitabile va distrutto il capitalismo, come forma di produzione e di vita. Da questa premessa essenziale, i marxisti hanno sempre combattuto i fautori della pace, i pacifisti, e i fautori della guerra borghese, i bellicisti, come aspetti di un solo fronte di battaglia contro-rivoluzionaria. Così hanno irriso ai Wilson come alle Società delle Nazioni, ai Partigiani della pace come all’ONU. Tutti gli uomini, che diamine, preferirebbero vivere in pace che dilaniarsi in guerra, con la differenza sostanziale che gli agenti del capitalismo preferiscono soprattutto tenere in piedi il capitalismo, costi quel che costi.

L’articolista, va da sé, conclude con un inno alla pace, alla evitabilità della guerra mediante l’azione degli «uomini di buona volontà», il «disarmo universale», ecc. A noi interessa, invece, la guerra intesa come mezzo quanto mai violento per distruggere mezzi di produzione, fra cui braccia umane, e, sotto questo aspetto, aggiungere alla serie di equazioni dello «sciupio» quella della guerra. Non basta: per noi è più appropriato definire il capitalismo addirittura come modo di distruzione del lavoro. Le effettive vittime del Moloc capitalista non sono solo ed esclusivamente quelle disperse sui campi di battaglia o inghiottite tra le rovine di città bombardate ma e soprattutto quelle tuttora viventi, che sono sistematicamente distrutte dalla forma salariata del lavoro e i cui sforzi si rivolgono spietatamente contro di se: sono i proletari vivi, che producono e consumano merci riproducendo cosi se stessi come produttori e distruggendo se stessi come uomini.

È vergognoso che sotto etichette marxiste, comuniste e socialiste, si spacci la più infame menzogna ammantata di umanitarismo, che cioè la più geniale e ardita teoria rivoluzionaria concepita dall’umanità sia un ricettario di buone maniere, tipo Galateo di Monsignor della Casa, o come una bianca palombella col rametto d’olivo nel becco. I grandi trapassi storici fiammeggiano d’urti violenti fra classi in campo aperto, armi alla mano, non nei chiusi lupanari antichi o moderni assai meno puzzolenti gli antichidi Comizi o Consigli, Concilii o Parlamenti.

E così sarà del futuro trapasso da quest’immonda società « democratica » a quella anti-democratica e dittatoriale comunista, in cui soprattutto non ci sarà posto per privati consensi o dissensi.

B. Z. Urlanis, citato nel testo calcola che le «perdite degli eserciti europei nei secoli XVII-XX», siano state le seguenti: periodo di formazione del capitalismo, 1600-1699 milioni 3,3 (33 mila l’anno); 1700-1788 milioni 3,9 (44 mila l’anno); periodo del capitalismo industriale: 1789-1897 milioni 6,8 (62 mila l’anno); periodo dell’imperialismo: 1898-1959 milioni 30 (500 mila l’anno). L opportunista si sforza di presentare gli accadimenti storici come storture e errori degli uomini, quando non collimano con le sue pseudo-teorie o non le dimostrano. Il prospetto citato non prova affatto che il capitalismo sia una formazione storica che distrugge forze produttive, in quanto la guerra è uno strumento usato non solo da tutte le formazioni storiche di classe, ma anche dalle gentes e dalle tribù e che lo stesso socialismo dovrà usare finché non si sarà affermato in tutto il mondo, finché troverà stati capitalisti decisi a contrastargli il passo. In tutte queste fasi radicalmente diverse la guerra ha prodotto distruzioni di uomini e mezzi e in alcune circostanze, in modo proporzionalmente assai maggiore di tante recenti, come nella famosa battaglia di Canne fra Annibale e l’esercito romano. In realtà, si dovrebbe dire che i milioni di morti del periodo di formazione del capitalismo, quello eroico o rivoluzionario, indipendentemente dalla forma aggressiva o difensiva assunta dalla guerra, furono «storicamente produttivi», hanno, come si dice, portato avanti la ruota della storia mentre invece i 36,8 milioni delle guerre imperialistiche sono stati «inutili», fermo restando l’assunto di base marxista che nella storia la violenza non è mai fine a se stessa e sconvolge sempre rapporti sociali di classe. E’ ipotesi: ma, se non ci fosse stata la guerra imperialistica del 1914-18, non si sarebbe avuta nel 1917 la Rivoluzione d’Ottobre, e la catena di rivolte e insurrezioni proletarie autentiche di Germania, Ungheria, Polonia, Finlandia. E fu una guerra di aggressione allo zarismo da parte della «barbara» Germania: con tali risultati rivoluzionari, ci augureremmo che, in assenza della santa barbarie proletaria che ancora giace assopita sotto la coltre gelida del più bieco opportunismo, un qualsiasi stato «barbaro» fosse disposto ad attaccare il super Moloc americano.

La storia dell’industria metallurgica in Italia dimostra che le prime officine, le prime macchine, le prime attrezzature industriali sorsero in dipendenza delle guerre napoleoniche, dalle quali le fabbriche di armi del bresciano trassero uno sviluppo imprevisto, con tutte le conseguenze inimmaginabili in ogni settore economico, e in primo luogo nella stessa popolazione. La caratteristica propria del capitalismo è che l’economia progredisce o regredisce non in virtù di bisogni sociali, ma d’interessi privati di classe; per questo non è controllabile né tanto meno guidabile.

Nelle guerre moderne, l’obiettivo che gli stati si propongono è di distruggere una certa quantità di capitale per consentire la ripresa della sua accumulazione, arrestata dalla precedente crisi di sovra-produzione. Ma, all’interno di questa necessità storica di classe, si muovono i «bisogni» particolari degli stati belligeranti, per cui i più forti cercano di annientare mezzi di produzione e prodotti dei più deboli, o degli avversari in genere, onde evitare che, a guerra terminata, i vinti possano far loro concorrenza, e obbligarli a dipendere dai vincitori.

Per esempio, in Germania, il rapporto tra sesso e età nel 1958 ha dato questi risultati: Un vuoto di popolazione compresa tra i 10 e i 15 anni e tra i 25 e i 55 anni, per un totale di circa 18-20 milioni di persone, e un’eccedenza di donne di media età e anziane, per cui si calcola che nella RFT si abbiano 126 donne ogni 100 uomini in età tra i 30 e i 64 anni. Tutto ciò sconvolge l’economia tedesca e crea squilibri non solo attuali ma anche futuri e assai lontani, se si consideri il minor incremento di popolazione dovuto alle classi vuote e all’indebolimento fisico dei superstiti. L’Arab-Ogly calcola che la popolazione della Russia nel 1960 avrebbe potuto essere di 300 milioni «se non ci fossero state… tre guerre sanguinose».

Il fatto poi che alla guerra con armi «convenzionali» si sostituisca la guerra «termonucleare», non cambia nulla alle cause, alla natura e al significato di classe della guerra stessa. È proprio solo dei peggiori traditori della rivoluzione proletaria postulare che, «essendo un crimine contro l’umanità ed un assurdità per quanto concerne la soluzione delle questioni internazionali in discussione e i conflitti politici del nostro tempo, la guerra termonucleare costituirebbe, dal punto di vista demografico, un suicidio internazionale».

Siffatto l’ingaggio non è neppure opportunista; è idealista, wilsoniano, tipico dei nemici giurati della classe operaia, tanto che viene sottoscritto, finché la guerra calda è lontana, da tutti gli stati imperialistici.

Alla distruzione sistematica di «capitale vivo» ad opera del capitalismo, che la attua non una volta tanto, durante sanguinosi conflitti, ma in continuità, in permanenza, durante i suoi periodi «pacifici» di vita, va contrapposto l’avvento rivoluzionario del comunismo proletario: la distruzione sistematica, cioè, del capitalismo. Allora, qualunque cosa possa accadere fra gli uomini sarà risolta senza ricorrere alla guerra, perché ne mancheranno i presupposti di classe.

«Il Programma Comunista», N.23, 16 Dicembre 1962

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Nota redazionale: abbiamo riproposto questo testo del dicembre 1962, perché al di là del suo indubbio valore intrinseco, il suo contenuto è stato una delle fonti ispiratrici del nostro recente lavoro dal titolo ‘Il regime capitalista e l’esigenza di sterminio di forza-lavoro in eccesso’. Un lavoro in cui abbiamo tentato, si spera con esiti positivi, di scolpire e ribadire le dinamiche socio-economiche invarianti del fenomeno ‘guerra’, alla luce delle analisi contenute nel ‘Capitale’ di Marx, e attraverso una ricognizione storica mirata. Il testo che ora inseriamo alla fine di questa nota, è una parte di quel lavoro, contenuto in forma completa nella pagina del sito ‘Testi marxisti’.

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‘Tale è il volto dell’attuale guerra cronica, latente, potenziale e in prospettiva acuta e palese, finalizzata non più solo alla conquista e all’asservimento, ma addirittura allo sterminio e al genocidio della forza-lavoro proletaria eccedente. Il capitalismo sogna e pratica l’eliminazione delle masse umane non impiegabili con profitto nel processo produttivo, infatti, da molti decenni, stermina con l’arma della fame e della miseria i proletari dei paesi poveri, li costringe a morire di fame, di stenti e di malattia, consapevole che la loro crescita numerica è un potenziale nemico per la propria sicurezza. Nel presente lavoro, tenteremo di dimostrare il passaggio da una prassi bellica incentrata sul tradizionale binomio difesa e offesa, all’attuale guerra di sterminio del capitale contro quella parte di genere umano, non impiegabile ai fini riproduttivi del ciclo economico. Una guerra non dichiarata formalmente, perseguita in comune dai vari aggregati imperialisti che si contendono le sorti del globo, con lo scopo eminentemente economico e politico di dismettere dal processo di valorizzazione del capitale la parte eccedente dell’esercito industriale di riserva (concentrato essenzialmente nelle aree capitalisticamente arretrate). Il cosiddetto problema della sovrappopolazione di maltusiana memoria si trasforma, alla luce dei fatti, nella semplice esigenza economica d’eliminazione d’interi rami improduttivi della popolazione umana, come accade sempre, d’altronde, in una normale ristrutturazione aziendale. In altre parole, quella parte d’umanità disoccupata, misera, senza riserve patrimoniali, minacciata d’estinzione (e quindi proprio per questo prolifica), è l’obiettivo principale e reale della contemporanea ars bellica capitalista. Un bersaglio che il capitale vuole colpire con il doppio scopo, politico ed economico, di rimuovere una potenziale minaccia alla propria esistenza e, in secondo luogo, per rilanciare il proprio ciclo di valorizzazione sulle macerie della distruzione di capitale costante e variabile (in questo caso soprattutto variabile, vale a dire forza lavoro umana). Cercheremo di chiarire, nel corso delle analisi successive, come i blocchi geo-storici che si confrontano sulla scena globale, non siano la causa dell’attuale guerra cronica, bensì dei semplici attori recitanti il ruolo assegnatogli dal modo di produzione capitalista (un modo di produzione conflittuale, antagonista, che ha la necessità immanente di annientare quantità eccedenti di mezzi e persone per ovviare alla crisi da sovrapproduzione e alla caduta tendenziale del saggio di profitto). In quanto tali i contendenti imperialisti sono una semplice espressione scenica, degli attori diligenti di quella sceneggiatura obbligata scritta dall’unico regista reale: il modo di produzione capitalista. Sotto il velo della pace apparente, seguita all’ultimo conflitto mondiale, la guerra non ha mai smesso di operare con la sua funzione di supporto al dominio economico-politico della classe borghese internazionale. L’obiettivo della distruzione di forza-lavoro eccedente è stato raggiunto con le armi principali dell’impoverimento, della fame, della malattia, e in parallelo, ma in forma secondaria, attraverso guerre convenzionali locali, coinvolgenti variamente i tradizionali predoni imperialisti. Al pari di un racconto gotico in cui la vicinanza dell’epilogo coincide con l’apice della violenza, sottintesa già dall’inizio nella presenza sulla scena di vari segni rivelatori, così anche il moderno Moloch capitalista rivela la propria natura mostruosa al culmine delle crisi ricorrenti da sovrapproduzione. Sterminio, genocidio, ecatombe ed altro ancora, sono i movimenti di questa sinfonia infernale che solo la rivoluzione delle vittime predestinate può finalmente interrompere, consentendo a tutta la specie umana, e a tante altre forme di vita presenti sul pianeta, di crescere e progredire in modo diverso’ (…..)

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‘Riprendere il testo marxista, nel contesto di un’elaborazione teorica sulla guerra, può sembrare superfluo, eppure solo mostrando i nessi fra forza lavoro in eccedenza, leggi di rapporto, evoluzione e composizione del capitale complessivo, si può comprendere pienamente il fenomeno del cosiddetto ‘esercito industriale di riserva ’, e il rapporto dialettico che esso intrattiene con il modo di produzione capitalista: in altre parole, l’esercito di riserva proletario disoccupato, va visto come opportunità positiva per il capitale di ricatto verso la forza lavoro occupata, da una parte, e al contempo, dall’altra parte, come possibilità negativa di disordini sociali e minacce all’ordine borghese. Dato che in regime economico capitalista la massa di proletari disoccupati, parzialmente occupati, o addirittura mai occupati, aumenta tendenzialmente a dismisura, in ragione dell’inesorabile rapporto di sviluppo, inversamente proporzionale, fra la parte costante e la parte variabile del capitale, allora anche i rischi politici di instabilità e di rottura fatale del dominio borghese vanno letti e intesi come una costante non solo ineliminabile, ma anche suscettibile di crescita e di ampliamento, di pari passo con la centralizzazione dei capitali e la crescita delle capacità produttive. Citiamo un passo preso da pagina 458, e 459 ‘L’ accumulazione capitalistica piuttosto produce in continuazione, ed esattamente in rapporto alla propria energia e alla propria entità, una popolazione operaia relativa, cioè eccedente le esigenze medie di valorizzazione del capitale, quindi superflua, ossia supplementare (..) Con l’accumulazione del capitale che essa stessa produce, la popolazione operaia produce quindi in quantità sempre più grande i mezzi per la sua propria eccedenza relativa. E’ questa una legge della popolazione specifica del modo di produzione capitalistico, come in effetti ogni particolare modo di produzione storico possiede le proprie particolari leggi della popolazione, storicamente valide (..) Tuttavia, mentre una sovrappopolazione operaia è il prodotto necessario dell’accumulazione ossia dello sviluppo della ricchezza su fondamento capitalistico, questa sovrappopolazione diviene a sua volta la leva dell’accumulazione capitalistica, anzi diviene condizione d’esistenza del modo di produzione capitalistico. Essa costituisce un esercito industriale di riserva disponibile che appartiene integralmente al capitalista, così come se questi l’avesse tirato su a proprie spese, e genera per le sue variabili esigenze di valorizzazione un materiale umano da sfruttare che è disponibile in ogni momento (..)’. Marx. Dunque, questo esercito industriale di riserva, disponibile in ogni momento per le esigenze di valorizzazione del capitale, si sposta all’uopo nei rami della produzione più bisognosi di forza lavoro da impiegare, e così, come una mandria di bestiame viene fatta spostare nei pascoli più verdi e rigogliosi dal pastore oculato, anche il materiale umano proletario, infine, sarà attirato incessantemente nei verdi pascoli del capitale, dove un salario da fame gli consentirà, temporaneamente, di sopravvivere ( almeno fino al prossimo ciclo di espulsione determinato dalla variazione della composizione del capitale). Intere masse umane di senza riserve, sospinte potentemente dalla fame e dall’indigenza, si muoveranno verso questi verdi pascoli del capitale, dove si ripeterà il rito dell’estrazione di plus-lavoro insieme alla mercificazione delle loro povere vite. Alla base dell’infame regime capitalista, la fame da lupi per il plus-lavoro assilla la mente anonima del capitale, e costringe gli attori della scena sociale ad una danza macabra che si conclude solo quando il ciclo di valorizzazione è stato soddisfatto. Centralizzazione ed accumulazione innescano lo sviluppo economico in nuovi rami dell’economia, aprendo nuove prospettive di investimento e di profitto in precedenza impensabili. Citiamo di nuovo, questa volta da pagina 460 ‘ In tutti questi casi grandi masse di uomini debbono poter essere spostate d’improvviso nei punti più importanti, senza per questo alterare la scala della produzione nelle altre sfere. E’ la sovrappopolazione che pensa a fornirle. Il caratteristico ciclo vitale dell’industria moderna, la forma di un ciclo decennale di periodi di vitalità media, di produzione con massimo impegno, di crisi e di stagnazione, ciclo interrotto da piccole oscillazioni, ha per fondamento la continua costituzione di un esercito industriale di riserva o di una popolazione eccedente, il loro più o meno grande assorbimento e la loro ricostituzione. Dal canto loro le alterne vicende del ciclo industriale reclutano la sovrappopolazione e divengono uno dei loro più energici agenti di riproduzione. ’ Marx. Il proletariato, costretto ad una forma larvale d’esistenza – in quanto sussunto e incorporato all’interno delle altalenanti vicende del ciclo industriale – sconta sotto forma d’incertezza, precarietà e impoverimento la colpa sociale di non sapersi emancipare dalla condizione di semplice classe esistente in funzione dei bisogni di valorizzazione del capitale. La mancanza di lavoro, l’interminabile ricerca di una qualsivoglia occupazione, non importa se precaria e sottopagata, non sono l’eccezione, viceversa, rappresentano la base stessa del moderno modo di produzione. Scrive Marx ‘ La forma dell’intero movimento dell’industria moderna sorge quindi dalla continua trasformazione di una porzione della popolazione operaia in braccia disoccupate od occupate a metà ’. Pagina 460. Riepiloghiamo, la variazione inversamente proporzionale fra parte costante e parte variabile del capitale, determinata dall’accumulazione e dalla concentrazione economico-aziendale di determinati capitali iniziali, e dall’azione del concomitante progresso tecnico-scientifico applicato ai processi produttivi, espelle periodicamente forza lavoro proletaria da alcuni rami dell’economia, rendendola d’altronde disponibile per ulteriori impieghi in altri rami in quel momento in espansione e rapido sviluppo. Il capitale di Marx ci conduce all’interno di un modello di spiegazione della realtà del movimento economico moderno, si tratta di un modello scientifico che inquadra, sulla base di osservazioni empiriche e sullo studio di dati storico-fattuali, suffragati da ampia e articolata documentazione, le caratteristiche e le condizioni necessarie perché il processo di produzione e valorizzazione del capitale possa venire alla luce e continuare ad esistere. La periodicità dei cicli economici di espansione e contrazione, con il corollario di tutti i fenomeni annessi e conseguenti, costituisce la regola di questo sistema economico. Dato e assunto quest’aspetto come un fenomeno regolare e ineliminabile della moderna economia capitalista, si tratta poi di comprendere come si sviluppi, in un certo periodo storico determinato e specifico, il movimento alterno di espansione e contrazione dell’economia. Noi abbiamo postulato, all’inizio di questa ricerca, che oltre una certa soglia quantitativa, l’esercito industriale di riserva inizi a rappresentare un problema di ordine politico per la stabilità del regime borghese. Quella soglia quantitativa è superata nelle fasi di contrazione, in altre parole nei momenti in cui molti rami dell’economia globale incontrano difficoltà e impedimenti nella realizzazione di profitti adeguati ai propri investimenti di capitali. Quest’incapacità di realizzare profitti adeguati può essere definita, seguendo la traccia marxista, ‘caduta tendenziale del saggio medio di profitto ’, ed è determinata dalle stesse cause che sono all’origine della crescita della forza lavoro eccedente, cioè la modificazione del rapporto fra parte costante e parte variabile del capitale. Alla fine di un ciclo economico di valorizzazione del capitale, nei vari rami della produzione, si manifesta il fenomeno della saturazione, esso significa grossi quantitativi di merci invendute, mezzi tecnici inutilizzati e forza lavoro in eccedenza: in altre parole è la crisi da sovrapproduzione. A questo punto la classe borghese si pone il doppio problema di come far ripartire l’economia, realizzando adeguate condizioni di profitto ai propri capitali, e di come garantire sicurezza e stabilità al proprio regime sociale schiavista, disinnescando la mina del surplus di forza lavoro proletaria disoccupata o occupata a metà. Il dato quantitativo che costituisce un ostacolo e un problema, di ordine sia politico sia economico, è dunque la sovrappopolazione operaia e l’eccesso di mezzi tecnici di produzione. Le guerre moderne, al di là delle cause scatenanti contingenti e formali, ma anche al di là delle ragioni di potenza e di predominio che le accomunano con quelle del passato, mostrano oggi una caratteristica nuova, poiché esse sono soprattutto, oggettivamente, una funzione collegata alla necessità economica di distruzione di mezzi tecnici, merci e forza lavoro eccedente. In altre parole sono principalmente una funzione derivata economica, legata alla periodicità dell’alterno ciclo di espansione e contrazione dell’economia capitalista. Da un punto di vista scientifico non escludiamo, naturalmente, l’esistenza di altre funzioni, ugualmente imputabili al fenomeno guerra, per così dire di tipo più tradizionale (conquiste territoriali, pulizia etnica, etc., etc.,) e tuttavia, considerando che al centro del moderno sistema sociale si pone la valorizzazione del capitale posseduto dalla minoranza borghese, allora dobbiamo per forza concludere che la funzione principale della guerra, all’interno del regime capitalista, in ultima istanza è quella di supporto a questa valorizzazione, proprio in quanto essa è l’aspetto centrale del sistema.

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