Continua senza soste la lotta teorica della classe sociale borghese, attraverso i dibattiti televisivi di mezza estate. Questa volta siamo incappati in una animata discussione su uno degli effetti collaterali della riforma scolastica Renzi. Stiamo alludendo , è presto detto, all’obbligo di trasferimento dei docenti neo-assunti, in una provincia inserita in un elenco di cento province, cioè, in parole povere, in un qualsiasi angolo d’Italia. La prospettiva di emigrare alla giovane età di quaranta o di cinquant’anni, evidentemente, è apparsa un po’ indigesta a una parte dei settantamila immessi in ruolo, e quindi sono partite le proteste (e i conseguenti e accessori dibattiti televisivi). Nel merito dell’obbligo normativo (per il neo assunto) di trasferirsi dove c’è una cattedra disponibile, nulla quaestio: nella società capitalistica è il lavoro vivo che si muove secondo le direzioni funzionali tracciate dal capitale. Lo stato del capitale, e quindi la pubblica istruzione, rappresentano, nel sistema capitalistico, importanti organi a cui è affidato lo svolgimento di determinate funzioni. Con il passare del tempo l’istruzione pubblica ha accentuato la sua tendenza a rifornire, con gli stage e l’alternanza scuola-lavoro, una quota di forza-lavoro gratuita alle imprese. La riforma Renzi infatti porta da 160 a 400 le ore di alternanza, e inoltre rende più stringenti ed efficaci i meccanismi di controllo e dominazione sui lavoratori del settore (docenti, impiegati, bidelli, assistenti tecnici), e sugli studenti, con la genialata dei super poteri al preside prefetto. Abbiamo già scritto su questi tristi argomenti, segno inequivocabile dell’avanzare della barbarie capitalistica, nella nostra epoca di dissoluzione di ogni valore, dignità, o coscienza realmente umani. Come un pozzo senza fondo, la riforma della scuola rivela senza tregua dei lati inattesi, ulteriormente peggiorativi del quadro iniziale, già di per sé fosco e opprimente. E’ il caso dell’obbligo di trasferimento per i neo assunti, impiegati per decenni come supplenti nella stessa scuola, o almeno nella stessa provincia, ed ora obbligati per legge ad andare, diciamolo senza ironia, là dove li porta il cuore nero di questa riforma da rottamare. I moderni e perplessi vagabondi della pubblica istruzione , costretti ad emigrare, sostenendo spese di affitto, sradicamento sociale, e aggravamento di situazioni familiari precarie, sono dunque un nuovo piccolo grattacapo per il potere politico. Nel dibattito televisivo, un giornalista in quota politica governativa, ha redarguito con stizza e fare infastidito la docente precaria che poneva in discussione la ineluttabilità del trasferimento in una qualsiasi provincia d’Italia. Anche una brillante esperta di problemi del lavoro ha ricordato che l’offerta di lavoro deve rassegnarsi ad andare, cioè a spostarsi, dove è presente una domanda effettiva di lavoro (pur ricordando che, a suo dire, la riforma prevede dei meccanismi per tenere in considerazione le esigenze personali e familiari particolari). La morale della favola televisiva, consiste sempre nel dibattito in se stesso, e non nell’argomento contingente affrontato, che può essere diverso da puntata a puntata. E la morale è che il dibattito televisivo, nella stragrande maggioranza dei casi, è un momento della lotta teorica della classe sociale borghese, lotta particolarmente preziosa e necessaria in questa fase di ristrutturazione degli assetti economico-sociali capitalistici. I dibattiti presentano un copione standard, in cui il problema sociale di turno, e il correlato peggioramento delle condizioni di vita proletarie, vengono trattati alla luce del buon senso comune aziendalista. Fornendo alle platee di ascoltatori supini la risposta-messaggio (ipnotico – compulsiva) delle ragioni elementari dell’economia di mercato. Un vero e proprio condizionamento mentale, reso ancora più efficace, dal suo astuto mostrarsi come un dibattito pluralista e democratico, celando quindi la sua vera identità di lotta teorica al servizio della classe dominante.