Premessa
Le nostre esistenze reali si svolgono all’interno di una società capitalistica, quindi dentro un mondo diviso fondamentalmente in classi sociali dominanti e dominate, un mondo in cui i processi produttivi dei beni necessari alla vita si svolgono nelle galere aziendali, chiamate con un diffuso eufemismo ‘luoghi di lavoro’. Queste dispotiche galere sono protette – di fatto – dalle attrezzature statali di oppressione delle varie borghesie nazionali, le quali, pur facendo affari e profitti senza vincoli e limiti di frontiera, hanno tuttavia bisogno di uno scudo di forza energetica (secondo l’occorrenza latente-potenziale o cinetico e in atto), per assicurarsi la soggezione dei proletari inclusi nel proprio territorio, e anche per difendersi o aggredire le altre borghesie nazionali concorrenti. Possiamo definire tale situazione, che è difficilmente rifiutabile come una realtà di fatto, con i termini peggiori; condannando in nome del nostro umanesimo marxista la mostruosità di un siffatto sistema di rapporti sociali (ma le invettive attualmente servono a poco, poiché la borghesia, storicamente, mira comunque a preservare il sistema di cui è essa stessa prigioniera). I vari apparati industriali-militari e scientifici presenti sulla scena globale hanno in comune la loro origine e funzione classista, e quindi pur essendo in feroce e mortale competizione per il potere e lo sfruttamento del proletariato mondiale, sono in realtà accomunati dallo stesso modo di produzione, e quindi dal comune interesse nel conservarlo e mantenerlo in vita. Gli scontri e le guerre fra questi apparati statali sono l’espressione di una lotta per il predominio, e di una correlata esigenza economica e politica di distruzione di masse umane proletarie superflue (oltre che di mezzi tecnici di produzione in eccesso, capitale variabile e costante in eccesso). Sovrapproduzione di merci, di mezzi e di popolazione proletaria, che la classe borghese tenta di smaltire e distruggere come rifiuti nocivi per riassettare temporaneamente il proprio sistema socio-economico. Cerchiamo di riflettere sugli attuali scenari di confronto-scontro fra le coalizioni politiche ed economiche dominanti. Cina, Russia, India, paesi dell’America latina, Iran, Siria…. da una parte e Stati Uniti, Europa, Canada, Giappone e paesi del golfo….dall’altra. Abbiamo ricordato i principali paesi inseriti, in modo più o meno stabile, nei due aggregati Imperali-capitalistici contemporanei. Le alleanze internazionali sono sempre funzionali al reciproco interesse di potenza degli apparati militari-industriali, e quindi al bisogno contingente di fare fronte unito contro le minacce avversarie. Ripetiamolo, siamo imprigionati in una società capitalista, un mondo dove l’uomo è spesso un lupo per l’altro uomo, e quindi a maggior ragione lo è un apparato statale-militare per un altro apparato.
La guerra nel Donbass, e gli scontri in Iraq, Siria e Libia collegati al fenomeno Isis, sono attualmente le due principali scacchiere di confronto-scontro perseguite dal blocco imperiale euro-americano con l’avversario russo e cinese (e con i paesi che gravitano intorno al blocco economico-militare formato da Russia e Cina). Quasi una riedizione degli schieramenti della guerra fredda, con la particolarità che non ci troviamo più a ridosso della immane distruzione di uomini e macchinari rappresentata dalla seconda guerra mondiale, e quindi in una fase di ricostruzione e conseguente crescita economica, ma in un periodo di caduta del saggio medio di profitto e di surplus di capitale costante e variabile. Un surplus che va distrutto, per rilanciare il ciclo di valorizzazione del capitale e consentire poi alle oligarchie borghesi di continuare a imporre il loro dominio sull’umanità. Se questo è vero, dobbiamo concludere che l’impellente bisogno di uno scontro bellico, o di una distruzione comunque messa in pratica di capitale costante e variabile, si pone sempre di più nell’orizzonte delle probabilità di sviluppo delle relazioni internazionali. Tuttavia, la stessa esistenza di ingenti arsenali nucleari, e del conseguente equilibrio del terrore, lascia presumere che la strada per la realizzazione di questo ‘sogno-incubo’ capitalistico non sia così semplice e lineare. In ogni caso il regime capitalista contiene una variabile strutturale fondata sulla distruzione di lavoro vivo, la variabile è strutturale poiché nella corsa al profitto il capitale travalica ogni limite ‘salutare’ di impiego della forza-lavoro. Il limite viene travalicato in relazione all’impiego fisiologicamente e psicologicamente compatibile del lavoratore(compatibile con la dignità umana e la regolare attività psico-fisica). Affrontiamo ora ‘en passant’ una questione di un certo interesse teoretico. La concezione, anzi, la prassi della guerra nelle società divise in classi dovrebbe essere, a rigore di logica materialistica, necessariamente difforme dalla prassi bellica che ha caratterizzato le formazioni sociali senza classi, senza apparato statale e senza proprietà privata, esistite per lunghi periodi storici. In effetti se variano le condizioni di base di una società rispetto ad un altra, e non dei meri dettagli, come si può sostenere (ed è stato di recente sostenuto) che la guerra ha sempre caratterizzato la storia umana, e solo il comunismo venturo porrà in essere la scomparsa di questa ‘maledizione’? Come al solito chi sostiene queste proposizioni – che hanno l’effetto di naturalizzare in maniera meta-storica il fenomeno della guerra – dimentica di tenere nel giusto conto il fatto che dei modi di produzione diversi, dovrebbero determinare delle forme e dei significati diversi del fenomeno ‘guerra’. A maggior ragione, quando la differenza tra i modi di produzione è netta e profonda, come nel caso del comunismo primitivo con i successivi modi di produzione classisti, la cosa dovrebbe essere scontata e normale. Sostenere questa differenza, e ipotizzare che gli scontri fra i gruppi umani presenti nel comunismo originario abbiano avuto un significato diverso dalla moderna prassi bellica capitalista, non ci sembra fuori dal mondo. È ipotizzabile, quindi, che gli scontri avvenissero a causa della compresenza di diversi gruppi umani sullo stesso territorio di caccia o di raccolta, concludendosi con la fuga di una delle parti o con lo scontro e il successivo assorbimento dei superstiti da parte dei vincitori. Queste ipotesi sono basate su deduzioni di tipo storico-materialistico, e ci sembrano molto più plausibili delle congetture che mirano invece a naturalizzare il fenomeno della guerra, facendolo assurgere al rango meta-storico di maledizione del genere umano, o addirittura a elemento costante di ogni forma di vita (forse fraintendendo il frammento eracliteo in cui si dice che polemos, cioè la contesa, è la madre di tutte le cose). In ogni caso il pensiero di Hobbes e di Machiavelli, ma anche quello di Leopardi e di Schopenhauer, contengono molti riferimenti (fatte le debite proporzioni fra questi autori e i nostri contemporanei critici) all’idea di ‘natura umana’ malvagia, feroce, distruttiva. Non ci sembra molto plausibile, da un punto di vista marxista, ipotizzare l’esistenza di fenomeni sociali meta-storici, cioè indipendenti dalla struttura economico-sociale determinatamente e specificamente caratteristica di una certa fase storica. In effetti nessuna attività umana (ad esempio la scienza, la guerra, l’arte, l’amore, il gioco…) dovrebbe essere considerata indipendente dai condizionamenti della struttura economico-sociale esistente. Altrimenti si rischia di cadere nel solito vizio della metafisica mascherata, che è poi solo la brutta copia della metafisica vera, quella coltivata nel corso della storia della filosofia da validi e rispettabili cultori della materia. Conclusa la digressione ci accingiamo ad analizzare le dinamiche di accordo e scontro fra i principali predoni imperialisti oggi esistenti, aggiornando con l’attuale ricognizione le precedenti analisi sviluppate soprattutto nel lavoro sull’IS e sull’Ucraina.
Prima parte: impossibilità del conflitto ‘totale’ e ricorrente ‘tintinnar di sciabole’
Agosto 2015, alcuni mass media veicolano informazioni ansiogene sull’imminenza di uno scontro bellico ‘totale’ fra Russia e America, si diffondono notizie di una nuova imminente offensiva ucraina contro le repubbliche separatiste del Donbass, inoltre delle forze militari turche e americane sconfinano in Siria (protettorato russo) a dispetto degli avvertimenti dissuasivi della Russia. Aspettiamo di verificare, nelle prossime settimane, se questi segnali di fumo nascondono un fuoco bellico già divampato e incontrollabile, oppure sono solo l’ennesimo preludio a una temporanea ridefinizione degli equilibri di potere fra apparati militari-industriali e scientifici concorrenti. Ricordiamo che anche investendo la quinta parte, o poco meno (cioè 90 miliardi di dollari), del budget americano per le spese militari ( che invece supera i 500 miliardi di dollari), la Russia rimane l’unico attore internazionale in grado di costituire, secondo le stesse parole di un generale statunitense, una minaccia ‘esistenziale’ alla nazione americana. La Russia possiede un enorme riserva di ordigni nucleari, inoltre ha le capacità militari-industriali di produrne molti altri e di utilizzarli efficacemente contro l’America (attraverso una grossa flotta sottomarina di sommergibili a propulsione nucleare, dotati di testate missilistiche atomiche, o attraverso l’uso di bombardieri strategici a lungo raggio di azione, e anche attraverso l’utilizzo di missili intercontinentali capaci di colpire il territorio nemico partendo da basi sotterranee). Certo, anche gli Stati Uniti posseggono delle capacità distruttive corrispondenti, e quindi non è al momento ipotizzabile che i due attori internazionali portino il livello di scontro per il controllo globale (delle risorse naturali e della forza-lavoro proletaria), ai limiti dell’autodistruzione. Molto meglio, in una logica di dominio spietatamente razionale, provare a tirare la corda senza mai provocarne la rottura (in un tacito accordo con l’avversario di pari potenza). Questo copione si ripete dalla fine della seconda guerra mondiale, ed è stato ampiamente sperimentato nella guerra di Corea, in Vietnam, a Cuba, in Angola e Namibia. Successivamente lo stesso copione è stato rappresentato in Afghanistan e in tempi recenti in Cecenia e Georgia, e ora si replica in Siria, Iraq e nel Donbass. Gli elementi ricorrenti del copione sono incentrati sul tentativo di erodere, o meglio, usando una metafora scacchistica, di mangiare una parte dei pezzi dell’avversario imperiale (ovvero l’altro giocatore). Tuttavia non si tratta di un semplice gioco, pur se è vero che viene condotto (dalle oligarchie borghesi coinvolte), secondo gli schemi collaudati del gioco degli scacchi. Pensiamo alla scena finale del film di Kubrik degli anni sessanta, in cui il dottor ‘Stranamore’, a cavallo di una bomba nucleare, si avviava follemente verso verso l’innesco del ‘casus belli’ fatale fra le due superpotenze. Oppure la scena del film di Bergman, Il Settimo Sigillo’, in cui un cavaliere di ritorno dalle crociate, dove aveva perso la fede, giocava una misteriosa partita scacchi con la morte. Palesemente, la presenza della bomba atomica e dei suoi effetti irreversibili alligna da tempo nell’immaginario collettivo di una parte dell’umanità, soprattutto nella minoranza borghese, cioè quella che più di altri avrebbe il timore di perdere status e privilegi a seguito di un olocausto nucleare distruttivo e auto-distruttivo. Le moltitudini di diseredati che popolano il globo hanno già ora, bomba o non bomba, il discutibile dono di di vivere in una maniera umanamente insostenibile, e la loro stessa condizione esistenziale è la prova che la fame, la malattia, lo sfruttamento possono egregiamente sostituire gli effetti della radioattività post-atomica. Comunque, al netto di queste considerazioni, teniamo conto delle recenti esternazioni di autorevoli figure, come quella del generale Mini, il quale ha anche ricoperto incarichi di rilievo nella struttura di comando della Nato. Ebbene, questo generale in pensione ha rilasciato un intervista proprio agli inizi di agosto, intervista in cui richiama il pericolo di una guerra su larga scala fra Russia e America, in base alle analisi delle recenti mosse sul campo da parte, principalmente, degli Americani. Secondo questo generale il rafforzamento del dispositivo militare Nato ai confini del territorio statale della federazione russa, insieme alla concentrazione di oltre novantamila soldati ucraini a ridosso delle aree del Donbass controllate dai ribelli, lascerebbero ipotizzare un imminente attacco su vasta scala, foriero di un conseguente massiccio coinvolgimento della Russia (costretta ad intervenire, come nell’agosto 2014, per salvare l’esistenza delle autoproclamate repubbliche del Donbass). Secondo alcuni analisti è addirittura da mettere nel conto delle ipotesi plausibili anche una sortita in armi contro il territorio della Crimea, solo che in questo caso si verificherebbe uno scontro diretto fra truppe ucraine ed esercito russo, con relativo allargamento immediato del conflitto nelle acque del mar nero dove staziona da tempo una flotta US NAVY. Tali scenari vengono ora accreditati da molte fonti come realizzabili entro la fine di settembre. Se lo scenario peggiore dovesse realmente verificarsi, ci troveremmo di fronte al terzo tentativo dell’esercito ucraino di piegare la resistenza dei ribelli. Nei casi precedenti, agosto 2014 e febbraio 2015, l’iniziativa ucraina ha avuto esiti catastrofici in numero di perdite di mezzi e di soldati, evidenziando dei gravi limiti militari di tipo strategico e tattico nella conduzione delle operazioni. Ricordiamo che le offensive fallite sono avvenute sotto la guida dei supervisori americani, e quindi il fallimento coinvolge anche l’efficacia di questa supervisione. Ora gli americani tornano a sollecitare la battaglia risolutiva contro i novo russi, nonostante le proteste e il carico di lutti e di sofferenza già patito da entrambi i contendenti. Il problema è che sul piano dei puri esiti militari, le avventure belliche fomentate dagli americani in Ucraina, Siria, Georgia, e Cecenia in tempi recenti, o nei decenni lontani dell’Unione sovietica in Vietnam, Angola e Afghanistan, hanno sempre prodotto dei risultati incerti e deludenti. In una situazione di sostanziale parità tecnologico-militare, infatti, sia le esperienze storiche, sia le analisi di molti autorevoli istituti di studi strategici e militari occidentali, confermano la probabile superiorità dell’esercito russo in uno scontro con armi convenzionali che si svolgesse sul territorio nazionale russo. In modo particolare, alcuni studi militari anglosassoni evidenziavano, già negli anni ottanta, la maggiore volontà di combattimento e di sacrificio del soldato russo, cioè la maggiore motivazione dovuta al fatto di combattere per la difesa della propria terra ( nel caso di una offensiva congiunta Nato-America). In ogni caso le esperienze pregresse e le deduzioni analitiche poco incidono sulle determinanti materiali che spingono gli Stati Uniti a condurre il proprio gioco internazionale, e lo stesso vale, inevitabilmente, per la Russia. Come accade per le imprese aziendali concorrenti, costrette dalle regole del ‘mercato’, cioè dalle regole dell’economia capitalistica, a ricercare tutti i sistemi per consolidare ed ampliare la propria presenza sul mercato (ovvero studi di marketing, studi di previsione e controllo budgetario delle varie aree della gestione, ricerca e innovazione tecnologica, studio e applicazione di modelli più efficienti ed efficaci di organizzazione aziendale), anche gli apparati statali di oppressione sono spinti a tutelare la propria esistenza, e quella della classe borghese di cui sono una emanazione, con tutti i mezzi teorico-conoscitivi e pratico-applicativi esistenti. Scienza e tecnologia, lo abbiamo già scritto, sono una parte importante e cruciale di questa interminabile ricerca di assetti più avanzati di controllo e di dominio sulla classe proletaria e sui rivali capitalistici pericolosi. Gli stati uniti temono da tempo la minaccia congiunta dei BRICS, temono il dinamismo e la crescita economica di nazioni come la Cina, L’India, il Brasile e i tanti paesi che sono attratti nell’orbita del blocco economico-militare, il cui perno atomico è la Russia. La Russia, il paese che ha sconfitto tartari e turchi, ha battuto l’armata napoleonica, ha battuto la Wehrmacht e le Waffen ss, e ora possiede oltre 5000 ordigni nucleari, un immenso territorio ricco di materie prime, e un esercito competitivo anche sul piano della guerra convenzionale. Per questi motivi il ‘generalone’ a stelle e strisce, prima citato, ha parlato della forza militare russa come l’unica reale minaccia esistenziale alla vita dell’America. Un mondo bipolare, dunque, non l’impero monocratico a guida americana, non lo scontro di civiltà o la fine della storia, come sostenevano due eminenti accademici americani appena quindici anni fa, ma il continuo procedere e svolgersi della storia reale, cioè la storia della lotta di classe fra borghesia e proletariato, e quindi anche la lotta interna alla classe mondiale borghese (i fratelli coltelli), la lotta dei loro spaventosi apparati statali-militari, supportati dalla scienza e dalla tecnologia. Una conflittualità interna alla borghesia che esplode soprattutto nelle fasi economico-sociali di contrazione degli investimenti e della domanda, e quindi di conseguente incremento dello scontento sociale causato dalla disoccupazione e dall’aumento della povertà. Abbiamo ampiamente affrontato, in un altro lavoro in precedenza citato, le origini economiche e sociali che stanno dietro quest’incremento della conflittualità interna alla classe borghese, ci preme dire adesso che esistono da tempo le condizioni per sostituire l’organizzazione sociale capitalistica con un tipo migliore di organizzazione della vita.
Seconda parte: Scenari di conflitto imperialistici e correlate risposte antagonistiche (Donbass, Kobane e altri luoghi critici)
Ci accingiamo ora a tratteggiare brevemente alcuni scenari possibili, sulla base dei dati e degli eventi di cui siamo a conoscenza, fatti di pubblico dominio, in quanto reperibili in rete e sui quotidiani (almeno su alcuni siti e su alcuni quotidiani). Partiamo dai due attuali fronti caldi imperialistici: il Donbass, dove gli Stati Uniti utilizzano la junta di Poroschenko e i battaglioni neo-nazisti (Azov, Ajdar et similia) per fronteggiare e danneggiare l’avversario apparato militare-industriale russo (e il temibile dispositivo scientifico-tecnologico ad esso funzionale). In questo contesto l’opera disgregatrice dell’America prosegue da vari anni (almeno dieci), ed è iniziata con la rivoluzione arancione della Timoschenko e di Yuschenko. L’apparato statale di potenza della borghesia russa non è rimasto con le mani in mano, e infatti la rivoluzione arancione filo occidentale non ha dato i frutti sperati (almeno fino alla rivolta maidanista affermatasi fra il novembre 2013 e il febbraio 2014). Nel momento in cui la rivolta ha scalzato dalla guida del governo il malleabile e filorusso Yanukovich, l’apparato politico-militare russo ha prontamente reagito occupando la penisola di Crimea, dove ha sede la strategica base navale di Sebastopoli. Ucraini e americani hanno subito passivamente questo smacco, proprio mentre a Kiev si insediava un governo filo occidentale. L’audacia e la velocità del fatto compiuto dall’esercito russo con l’ingresso in Crimea, ma anche la sua palese volontà di affrontare fino in fondo le eventuali conseguenze della propria azione di conquista, hanno fatto recedere l’America e i suoi vassalli da ogni tipo di reazione armata. In conclusione, nel marzo dello scorso anno la Russia si è riappropriata, ‘manu militari’, della penisola di Crimea, tolta ai tartari e ai turchi secoli or sono, e poi donata all’Ucraina (dopo una notte di bevute) dall’allora leader dell’unione sovietica, l’ucraino Kruscev. Il dono di Kruscev, da un punto di vista pratico, allora non ebbe nessuna conseguenza, essendo le frontiere fra gli stati dell’unione sovietica una pura formalità. Con la dissoluzione del precedente blocco capitalista ‘sovietico’, ormai troppo costoso e farraginoso per continuare ad esistere (e competere con successo con i rivali americani), e poi con la successiva riorganizzazione e razionalizzazione delle principali risorse militari-industriali e scientifico-tecnologiche ex sovietiche nelle mani della borghesia russa, sono sorti degli scenari inediti dal punto di vista geo-politico. En passant, utilizziamo non a caso dei termini presi a prestito dal linguaggio economico-aziendale come riorganizzazione e ristrutturazione, perché le ragioni della dissoluzione dell’Unione sovietica e della successiva riorganizzazione efficentista della sua erede principale, la federazione russa, sono anche da intendere alla luce comparativa dei comuni processi di contenimento dei costi, taglio dei rami secchi e riorganizzazione (dei metodi e delle procedure di esecuzione delle mansioni lavorative), tipiche di una impresa economica capitalistica. Dopo il processo di industrializzazione e modernizzazione capitalistica realizzato durante la fase stalinista-autoritaria del regime di classe borghese russo, e i successivi contorcimenti degli anni settanta e ottanta, definiti come periodo della stagnazione, in parallelo con la fase economica mondiale iniziata negli anni settanta, determinata dalla fine degli effetti del bagno di giovinezza della seconda guerra mondiale, è iniziato negli anni novanta un periodo di risveglio dell’orso russo. Questo risveglio fa svanire le ingenue narrazioni sul super-imperialismo, o sull’unico impero mondiale. In effetti se è vero che gli apparati di potenza della classe borghese russa e americana hanno degli interessi comuni, nell’opprimere la classe proletaria, è pure vero che sono spinti da ulteriori interessi politico-economici, proprio come accade nella quotidiana concorrenza fra imprese capitalistiche. L’elemento della competizione economico-aziendale fra capitali individuali, presente come variabile originaria e basica del modo di produzione capitalistico, si ripropone dunque a livello più ampio nella contesa fra le mostruose attrezzature statali di oppressione possedute dalle varie frazioni della classe borghese mondiale. Il rafforzamento degli stati (almeno di quelli collegati alle borghesie più forti), e quindi la progressiva caduta della loro precedente mascheratura democratica, trova la sua ragion d’essere principale nella crescita della povertà, nella sovrappopolazione relativa determinata dai processi fondamentali dell’economia capitalistica (ovvero nella tendenza alla sostituzione del capitale lavorativo umano, il lavoro vivo, il capitale variabile, con il macchinario, cioè con il capitale aziendale costante). La tendenza storica alla sostituzione del lavoro ‘umano’ con il lavoro delle macchine all’interno delle aziende capitalistiche (soprattutto sotto la spinta della lotta per la concorrenza), è la causa fondamentale della caduta tendenziale del saggio di profitto e delle conseguenti, periodiche, crisi economiche. L’espulsione di forza-lavoro umana dai processi produttivi è quindi una tendenza incoercibile dell’economia capitalistica, una tendenza che sta alla base della crescita di una massa di senza lavoro, un vero e proprio esercito industriale di riserva (per il capitale), impiegabile nei momenti di ripresa dell’attività economica. Abbiamo recentemente analizzato la funzione sociale di questa riserva di forza-lavoro inoccupata, poiché la sua stessa esistenza agisce (sul mercato del lavoro) come potente fattore di contenimento della richiesta (da parte degli occupati) di aumenti salariali e migliori condizioni di lavoro. Gli stessi flussi migratori che modificano il panorama sociale europeo da almeno venti anni, sono un effetto del passaggio (nei paesi di provenienza dei migranti) dalle originarie economie agricole di sussistenza e auto-consumo, ad economie industriali-capitalistiche (con il corollario di disoccupazione legato ai processi ineliminabili dell’economia capitalistica). Un altro fenomeno collegato all’industrializzazione capitalistica è il passaggio dalle campagne alle città di enormi masse umane, con la derivata, e potenzialmente pericolosa concentrazione di queste masse nelle metropoli: quindi, una popolazione precedentemente impiegata in attività agricole si trova ora ad essere proletarizzata in vista dell’uso della sua forza-lavoro nei processi produttivi dell’industria. Abbiamo scritto che questa concentrazione di masse umane (ma soprattutto di forza-lavoro di riserva inoccupata) nelle metropoli urbane, è potenzialmente pericolosa, perché le stesse condizioni di vita emarginate e la povertà relativa di questa ‘riserva’ costituiscono un fattore permanente di rivolta e di rischio per l’ordine pubblico borghese. Le periodiche rivolte nelle periferie metropolitane di Parigi e di Londra sono un chiaro esempio dimostrativo della realtà del rischio da noi ipotizzato. Per questi motivi l’apparato statale, nella fase economica avanzata del regime di classe borghese, deve necessariamente rafforzarsi, e passare dalla forma democratico-legalitaria iniziale, a quella burocratico-poliziesca dei nostri tempi, come ben ricorda Bordiga in vari articoli e testi degli anni 50 e 60. Il rafforzamento dell’apparato statale di oppressione borghese è quindi conseguente agli stravolgimenti economico-sociali determinati dallo stesso modo di produzione capitalistico. In un certo senso il capitalismo si sviluppa all’interno di una serie di contraddizioni intrinsecamente ineliminabili, che, tuttavia, lungi dal determinarne (almeno fino a questo punto) la crisi e la scomparsa finale, lo spingono invece a riassestarsi, almeno temporaneamente, con l’immane e cronica distruzione quotidiana di lavoro vivo, e a volte con le ecatombi di vite, di mezzi tecnici di produzione e di infrastrutture caratteristiche delle guerre mondiali e delle guerre ‘locali’. Le notizie di agosto descrivono dei fenomeni preparatorii di una guerra su ampia scala, quasi come se fosse vicino lo scontro diretto fra i due eserciti più letali e potenti della terra. Nella penisola di Crimea sono stati schierati dei sistemi anti-missile, un vero e proprio scudo protettivo contro un eventuale attacco delle forze ucraine e dei suoi protettori americani. Intanto l’US AIR FORCE ha dislocato nell’area ai confini del Donbass un nuovo tipo di caccia multiruolo, praticamente invisibile ai radar e ai rilevatori delle fonti di calore: un aereo che attualmente non ha rivali, anche se la Russia e la Cina dovrebbero produrne uno con caratteristiche simili entro il 2020. La Russia ha sfoggiato, dal canto suo, durante la sfilata sulla piazza rossa svoltasi a Mosca il 9 maggio 2015, un tank pesante dalle caratteristiche letali e per ora senza paragoni nel campo avversario. Decisamente interessante il dettaglio dell’assenza dei maggiori leader occidentali alla sfilata, e di converso altrettanto interessante la presenza dei maggiori leader sudamericani, della Cina, dell’India e di vari altri paesi. Sicuramente significativa la presenza, per la prima volta, di un contingente di truppe dell’esercito cinese che ha sfilato insieme a quelle russe. Si tratta di messaggi simbolici di forza e solidità politico-militare rivolti ai rivali imperiali euro-americani, per fargli comprendere che le economie capitalistiche emergenti di Cina e India sono pronte a supportare con aiuti e accordi economici, e finanche con le armi, lo sforzo russo di contrastare le pretese egemoniche del gendarme americano. In sostanza è dalla fine della seconda guerra mondiale che registriamo le evoluzioni del confronto fra le due superpotenze militari-industriali esistenti, assistendo alle guerre per procura o per interposta persona in varie parti del globo, non potendo i due colossi nucleari scontrarsi in una guerra ‘totale’ convenzionale, potenzialmente preludio di una ecatombe nucleare generale. Il problema che si pone oggi come ieri, e che ci spinge pertanto ad essere scettici sulla possibilità di una guerra ‘totale’ imminente, risiede nel limite assegnabile a un eventuale conflitto aperto e diretto fra russi e americani. Chi dovrebbe fissare questo limite, e poi soprattutto chi potrebbe garantire la sua osservanza da parte dei due contendenti? L’equilibrio del terrore esiste, l’arsenale nucleare posseduto dai due competitori globali non ha confronti numerici con i piccoli arsenali nucleari di India, Cina, Francia, Pakistan, Inghilterra e Israele. Il club della bomba invade come una presenza fastidiosa e perturbante i sogni di una parte dell’umanità, e tuttavia ci racconta anche un altra storia, la storia di due apparati militari-industriali che, attraverso la loro impossibile guerra aperta, dimostrano al resto del mondo e delle nazioni la loro terrificante capacità distruttiva. Un segnale e un monito per ricordare agli attori presenti sullo scacchiere mondiale il nome di chi possiede la chiave dell’apocalisse, di chi detiene l’unico arsenale bellico da fine del mondo. In lunghi decenni ormai alle nostre spalle è andato ricorrentemente in scena lo stesso copione, l’identica rappresentazione dell’incontro scontro accelerato e poi frenato, la guerra e la pace, l’odio e l’amore (sempre impossibile) fra le due ‘entità’ statali più potenti che storicamente la classe borghese sia riuscita a edificare. Da veri ‘fratelli coltelli’ i due rivali imperialisti sfoggiano la potenza dei propri apparati militari-industriali (supportati da scienza e tecnologia adeguate) allo scopo di terrorizzare le frazioni borghesi concorrenti e soprattutto il nemico di classe proletario. Quest’ultimo rappresenta una minaccia esistenziale alla società capitalistica, mentre le rivalità imperiali russo-americane hanno solo l’obiettivo di conservare e ampliare le posizioni di potere raggiunte dalle rispettive borghesie di riferimento (all’interno della società esistente). Come scrivevamo nell’articolo sulla brigata Prizrak, tuttavia, in certi casi, il confronto-scontro fra i due mastodonti statali può determinare dei fenomeni di scollamento e di fuga di una parte del proletariato dalle gabbie della società borghese. In modo particolare, la ricorrente esigenza sistemica di sterminio di forza-lavoro in eccesso perseguita attraverso le guerre locali, la fame e le malattie, può di converso generare dialetticamente dei fenomeni di ribellione (come se in un mondo ipotetico gli animali incamminati verso il macello riuscissero a ribellarsi e a fermare i loro abituali massacratori).
Gli eventi accaduti di recente in Donbass e a Kobane andrebbero analizzati, senza certezze precostituite, anche alla luce delle nostre modeste considerazioni.