Giornate capitalistiche: condizione senile e pensioni (Italia 2015, lavoratori per sempre)


La vita umana è sottoposta a ritmi biologici: infanzia, adolescenza, gioventù, maturità, senilità. Nell’ultima fase biologica dell’esistenza il corpo e la mente subiscono processi di decadimento, più o meno accentuati dagli stili di vita precedenti (alimentazione, stress, sport, tipo di lavoro). Un lavoratore maturo/anziano, incluso nella fascia di età compresa fra i 50 e i 68 anni, svolge in modo progressivamente più faticoso le proprie mansioni, in ragione delle declinanti energie vitali del suo organismo. Il nostro welfare ci impone di lavorare fino a 67/68 anni, mentre i giovani sono precarizzati fino ai limiti della realtà, e intanto predomina un giovanilismo di facciata, o meglio una triste tendenza generale, frutto di condizionamenti sociali, che ci vincola a un dovere apparire sempre giovani, indipendentemente dall’età anagrafica effettiva (poiché sempre vitale deve essere l’energia che alieniamo nel processo produttivo aziendale). Forever green, sempre giovani per il capitale, questa è la moderna utopia/incubo in cui siamo piombati. Una follia biologica, prima che sociale, l’ennesimo frutto avvelenato della società capitalistica, una società simile a un cadavere che ancora cammina, costretta a rubare scampoli di vita dalle   labbra del proletariato (e quindi a illudersi di possedere gioventù e vitalità autonome). Un vampiro assetato di lavoro vivo (un lavoro vivo sempre più problematico da trovare all’interno dei processi produttivi dominati dal macchinario). Il lavoro vivo, ovvero la preziosa sostanza che valorizza il lavoro morto (cristallizzato in forma di capitale), viene ridotto a occupare tendenzialmente sine die la propria postazione lavorativa dentro i lager aziendali che compongono la base produttiva della moderna economia capitalistica. Il meccanismo di oppressione e di sfruttamento borghese-aziendale si fonda sul furto di vita lavorativa, cioè sull’appropriazione di tempo ed energia psico-fisica destinata a valorizzare il lavoro morto ( il lavoro alienato e cristallizzato sub specie di capitale). Accettando la quotidiana disciplina dispotica sul luogo di lavoro, disciplina caratteristica dell’organizzazione aziendale capitalistica, la classe oppressa si subordina al capitale e inoltre rinnova le condizioni materiali della propria esistenza schiavistica. Il lavoro stesso dei proletari tempra il ferro delle catene che imprigiona la classe proletaria, e inoltre affina l’acciaio con cui sono costruite le armi dell’apparato statale borghese. Il produttore viene dominato dal proprio prodotto che gli si erge di fronte come potenza autonoma e inumana; è l’alienazione. Il macchinario (capitale costante), tuttavia, tende a sostituire il lavoro vivo in molti compiti e mansioni, per cui molti atti di produzione sono ora svolti senza il supporto di forza lavoro umana. Questo fatto può costituire un problema per la valorizzazione del capitale, essendo il lavoro vivo la fonte ultima di profitto su cui si basa l’attuale economia. E allora la classe borghese inventa procedure organizzative aziendali volte a migliorare la produttività del lavoro, intensificando tempi e ritmi di esecuzione dei compiti e prolungando al contempo la permanenza giornaliera del lavoratore nei lager aziendali (o addirittura costringendo, in Italia e in altri paesi, gli anziani stanchi e pieni di acciacchi a lavorare fino a 68 anni). Il pareggio di bilancio, la stabilità dei conti, e varie altre bugie nascondono alle masse mitridatizzate la vera ragione di questa moderna barbarie racchiusa nel prolungamento del tempo di lavoro obbligatorio fino a 68 anni. Come si può ben evincere dalle precedenti righe, la ragione unica di questo prolungamento è innestata nell’esigenza di ottenere il plus-lavoro funzionale alla sopravvivenza del mostro sociale capitalista. Dai giovani studenti sedicenni, obbligati a lavorare gratuitamente 400 ore per le aziende dalla riforma della buona scuola, ai vecchi stanchi, e spesso malati, vicini alla settantina, obbligati a lavorare anch’essi fino ai limiti fisiologicamente ammissibili, emerge senza veli il marchio d’infamia del regime di oppressione borghese. Si può paragonare questa situazione solo alle fasi finali del regime nazista, quando anche i vecchi e gli adolescenti furono mandati in battaglia contro gli eserciti alleati. Consideriamo le sensazioni che deve provare un lavoratore, è ipotizzabile che egli si senta come Achille che non riesce mai a raggiungere la tartaruga (ben fatto Zenone), prima 57 anni, poi 62, poi 67/68. Negli ultimi sei mesi è stato ricorrentemente dibattuto (fra gli attori del teatro politico) il cosiddetto tema delle pensioni anticipate, ovvero, tradotto in termini reali, il sistema per fregare economicamente con penalizzazioni del 20%-30% i lavoratori ultrasessantenni, intrappolati ‘sine die’ nelle galere aziendali del capitale dalla legge Fornero. L’apparato statale punta sul fatto che esiste una quota considerevole di lavoratori desiderosi di ottenere (quasi a ogni costo) uno sconto di pena sugli anni residui di prigionia lavorativa. Il problema, in questi patti offerti con toni suadenti dal diavolo sociale capitalista, è che le cose non sono mai come sembrano a una prima lettura. Il capitale (e il suo apparato politico-statale) ha scoperto che tenere al lavoro gente ultrasessantenne è antieconomico: la verità è che queste persone si ammalano e stanno a casa in congedo per malattia, e poi il decadimento collegato all’età li rende meno pronti di riflessi, cioè in definitiva li rende meno sfruttabili . È la fisiologia, bellezza! E allora cosa si fa, si impianta un bel dibattito-tormentone politico, in cui i partecipanti fingono davvero di preoccuparsi per la eccessiva permanenza al lavoro dei poveretti fregati dall’ultima ‘riforma’ previdenziale. Viene quindi offerta loro (per ora solo a parole) la possibilità di togliersi dalle scatole due o tre anni prima del previsto, versando in contropartita pensioni ridotte del 20% o addirittura del 30%. Con queste pensioni ridotte, il futuro pensionato dovrà vivere quasi di stenti, privandosi anche delle cure mediche necessarie alla sua salute (1). Infine, confidando nel successivo calo della speranza media di vita, dovuto alla crescita delle morti collegate alle malattie non curate decentemente per mancanza di soldi, si provvederà a depennare i deceduti dai registri contabili di spesa previdenziale correlata, con grande soddisfazione per il bilancio dello stato (che con questi ‘salutari’ risparmi potrà meglio remunerare il capitale finanziario-usuraio nazionale e internazionale che possiede i 2500 miliardi di euro di debito pubblico italiano).

  1. A noi interessa, invece, la guerra intesa come mezzo quanto mai violento per distruggere mezzi di produzione, fra cui braccia umane, e, sotto questo aspetto, aggiungere alla serie di equazioni dello «sciupio» quella della guerra. Non basta: per noi è più appropriato definire il capitalismo addirittura come modo di distruzione del lavoro. Le effettive vittime del Moloc capitalista non sono solo ed esclusivamente quelle disperse sui campi di battaglia o inghiottite tra le rovine di città bombardate ma e soprattutto quelle tuttora viventi, che sono sistematicamente distrutte dalla forma salariata del lavoro e i cui sforzi si rivolgono spietatamente contro di se: sono i proletari vivi, che producono e consumano merci riproducendo cosi se stessi come produttori e distruggendo se stessi come uomini-Il Programma Comunista 1960, ”Capitalismo: distruzione di ‘capitale vivo’.

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