Analisi di alcuni dati socio-economici e calcoli previsionali di sviluppo
Introduzione
‘La formula di Marx è invece che ogni merce ha un prezzo di produzione, che ne costituisce il valore nel nostro senso. Pur seguitando a chiamare tale valore valore di scambio, conservando la classica distinzione da valore di uso (inerente alle specifiche qualità fisiche della merce e al particolare bisogno umano che è atta a soddisfare), il concetto è che il valore di ogni merce si calcola secondo gli elementi economici dati nella sua produzione. Sicché ben potremmo introdurre l’espressione: valore di produzione, e dire che noi siamo per una teoria economica del valore di produzione, i nostri avversari per una teoria del prezzo di scambio.
Siamo alla data “funzione lineare” della produzione capitalistica (di essa e di essa sola!): si definisce valore del prodotto la somma di tre termini: primo: il capitale costante – secondo: il capitale salario – terzo: il sopravalore o profitto. Per sapere il terzo termine o profitto io non vado a domandare come la merce è stata venduta e nemmeno a quanto in media si vende in dato spazio e tempo; cerco invece il saggio medio del profitto del mio “modello di società” in esame: unisco (addiziono) i primi due termini del capitale costante e variabile, moltiplico il tutto per il saggio medio, e questo è il terzo termine. L’insieme dei primi due l’economia comune lo chiama costo, prezzo di costo. Ora per noi il valore è il prezzo di costo con aggiunto un tanto per cento che è sempre quello, perché è il medio saggio di profitto ricavato da tutto il complesso delle aziende della studiata società. Non siamo ancora andati affatto a prendere lumi sul mercato e a sfogliare mercuriali e listini, e abbiamo trovata la grandezza che ci preme: valore della merce, dato dal suo prezzo di produzione sociale. Capitale costante più capitale variabile più profitto al saggio medio sociale uguale valore del prodotto’.
“il programma comunista” n. 15, 7-27 agosto 1954
La citazione individua nell’economia capitalistica un nesso importante – per la determinazione del valore del prodotto – fra lavoro morto (capitale costante), lavoro vivo (massa salariale/capitale variabile) e profitto, infatti:’Siamo alla data “funzione lineare” della produzione capitalistica (di essa e di essa sola!): si definisce valore del prodotto la somma di tre termini: primo: il capitale costante – secondo: il capitale salario – terzo: il sopravalore o profitto’.
Le tendenze di sviluppo dei rapporti economico-sociali di produzione capitalistici sono state di recente analizzate in ‘Chaos Imperium’, un lavoro presente sul sito: ora ci apprestiamo a sviluppare ulteriormente la lettura di questi rapporti, anche alla luce della intensificazione dei fenomeni di crisi e di scontro fra i blocchi imperiali concorrenti. Interiormente minata da contraddizioni sistemiche, immanenti e inestirpabili, l’economia capitalistica, espressione del feroce regime di classe borghese, sempre sospesa fra vulcano della produzione e palude del mercato, tenta di invertire la caduta tendenziale del saggio medio di profitto con periodiche e immani distruzioni di capitale costante e variabile in eccesso (al fine di rilanciare, con la distruzione rigeneratrice ottenuta con le guerre, le epidemie, le malattie, la fame, le catastrofi ‘naturali’, e anche attraverso il semplice logorio quotidiano della merce umana sul luogo di lavoro, l’infame ciclo di appropriazione del plus-lavoro proletario e il conseguente profitto aziendale).
Le bande armate di predoni imperiali (cioè gli apparati militari-industriali con annesso e funzionale sistema tecnico-scientifico, in cui è suddivisa a livello globale la minoranza sociale parassitaria borghese), sono disposte a tutto per mantenere il controllo esclusivo delle risorse energetiche, delle vie commerciali, e del plus-valore estratto dalle masse di servi salariati. Tuttavia questi apparati statali militari-industriali borghesi, oltre a combattersi fra di loro, devono comunque fronteggiare, e quindi fare all’occorrenza blocco comune, contro il nemico di classe proletario. Le bande terroristiche di taglia-gole, usate in questo frangente storico all’interno della strategia americana del Kaos, ma anche dagli alleati e vassalli europei e mediorientali del Chaos Imperium, sono dunque uno strumento incarnante una doppia funzione: in primo luogo servono da esercito mercenario nella guerra per procura, asimmetrica, contro il blocco capitalistico concorrente (Russia, Cina e altri paesi), in secondo luogo svolgono la funzione (storica, regolare, fisiologica) del terrore di stato borghese contro la classe sociale proletaria. Queste bande di terroristi sono dunque assimilabili a precedenti storici, ben precisi, di guerra di classe preventiva borghese contro il proletariato, proponiamo due esempi; 1) le squadracce fasciste; 2) i Freikorps tedeschi. Definiamo dunque una volta per tutte la natura sociale classista di questi presunti rivoltosi, assimilandola al terrore che regolarmente, periodicamente, viene scatenato dalla borghesia per stringere il giogo (iugum, zygòs, zèugos) dell’oppressione di classe sui proletari. Dentro questo quadro attuale di scontro fra attori imperiali borghesi, e di concomitante terrorismo statale antiproletario, si delineano le tendenze sistemiche del capitalismo putrescente a sviluppare una sempre maggiore distruzione di capitale costante e variabile, cioè di mezzi tecnici di produzione e di forza-lavoro umana, per ottenere un momentaneo riequilibrio dei parametri di valorizzazione, accumulazione e dominio politico, fortemente alterati dalle due tendenze convergenti della caduta del saggio di profitto e dell’aumento della povertà (pauperizzazione) in senso assoluto e relativo. Alcuni segnali recenti di difficoltà dei mercati finanziari e borsistici, confermano la facile previsione di una ulteriore fase di lacrime e sangue per l’economia capitalistica. In effetti come abbiamo recentemente ribadito in ‘Chaos Imperium’, la crisi finanziaria, lungi dall’essere il fattore generatore delle crisi che si manifestano nell’economia reale, si limita invece, prevalentemente, ad accompagnare e spesso a seguire le crisi della economia produttiva di merci e servizi. In altre parole le difficoltà nella realizzazione di un adeguato plus-valore nella produzione reale, in termini sia assoluti che percentuali, si riverbera anche nella sfera rifugio finanziaria, deprimendo i rendimenti degli investimenti speculativi in obbligazioni emesse dalle SPA, ma anche i rendimenti dei titoli emessi dagli stati sovrani. Abbiamo in ‘Chaos Imperium’ fornito delle tabelle numeriche che dimostrano ampiamente questo trend, per cui è inevitabile concludere, a ulteriore conferma della teoria marxista, che è nella sfera della produzione che si realizza il plus-valore (anche se poi esso viene ripartito far le varie branche del capitale sociale in forma di profitto, interesse e rendita). Dunque partendo dalla constatazione delle perduranti delle difficoltà in cui si dibatte l’economia capitalistica, difficoltà intensificatesi a partire dal 2007, tenteremo nel presente lavoro di analizzare i dati economici di maggiore significato al fine di ipotizzare alcuni scenari di sviluppo del conflitto di classe, mettendoli in relazione ai concomitanti sviluppi del confronto/scontro fra i blocchi imperialistici esistenti. Blocchi imperialistici che vanno intesi non come entità immutabili, ma come realtà soggette a processi variegati di aggregazione/attrazione di nuove parti componenti, e a processi di repulsione/perdita di vecchie parti componenti.
Primo capitolo: Crisi economica e finanziaria, perdita di ruolo del centro capitalistico anglo-americano, scenari di conflitto fra ‘fratelli coltelli’ borghesi
Abbiamo recentemente commentato (in ‘Chaos Imperium’) dei dati numerici relativi alla produzione di acciaio mondiale, mostrando come in questo settore la posizione dell’America e dell’Europa sia ormai marginale rispetto alla Cina. Le recenti scosse finanziarie che stanno colpendo tuttora (febbraio 2016) le principali borse mondiali sono il segnale di difficoltà economiche persistenti, accentuatesi almeno dal 2007. I parametri classici della macroeconomia sono tuttora insoddisfacenti (per la brama di profitto del capitale) e quindi non avrebbe senso, almeno in questo capitolo, entrare troppo nel dettaglio (lo faremo in un capitolo successivo di questa analisi). Per ora tenteremo di fare alcune considerazioni ‘politiche’ partendo dal dato di fatto del ridimensionamento economico del centro capitalistico anglo-americano, per provare poi a decifrare la sua strategia fondamentale per impedire che il vuoto lasciato dietro di sé sia occupato dai fratelli coltelli Russi e Cinesi. La borghesia euro-atlantica, ridimensionata nei suoi sogni di egemonia globale, in forte difficoltà nel teatro mediorientale a causa dell’attivismo di Russia, Iran e Cina, sembra che si trovi costretta ad accarezzare l’ipotesi di scatenare un conflitto militare aperto e dichiarato con i concorrenti, Russia e Cina in primo luogo, che cercano di approfittare del suo attuale indebolimento. Il tentativo del blocco imperiale avversario rappresenta infatti una minaccia ‘esistenziale’ per l’economia capitalistica americana, e per il complesso militare-industriale ad essa collegato. Dal dopoguerra ad oggi l’America ha visto svanire il ruolo egemonico del dollaro e della propria produzione, mantenendo solo un certo predominio nel campo militare. Attraverso lo strumento militare il capitalismo americano, o almeno una sua parte influente, allo scopo di rimandare il proprio declino, tenta ancora oggi di controllare le risorse petrolifere e le vie con cui queste risorse vengono trasferite e commercializzate (ma non dimentichiamoci che la potenza di un esercito nazionale è da collegare anche al grado di sviluppo dell’economia nazionale). La strategia del caos, funzionale al contrasto degli avversari politico-economici internazionali (Russia e Cina in primo luogo), utilizzando in modo spregiudicato il fenomeno fondamentalista sunnita in Siria e Iraq, o appoggiando strumentalmente i variegati nazionalismi e fondamentalismi post-sovietici (paesi baltici, Ucraina, Cecenia, Georgia) alla fine non ha prodotto significativi benefici a suoi artefici. In una logica disperata di scontro totale si potrebbe pure ipotizzare che le oligarchie euro-atlantiche siano costrette ad incendiare le polveri, pur di impedire che l’avversario capitalistico (Russo-Cinese) raccolga l’agognato premio della egemonia. Ma saremmo, per l’appunto, dentro una logica del muoia Sansone con tutti i filistei, mentre finora ha prevalso, a partire dalla fine della seconda guerra mondiale, l’equilibrio del terrore atomico. La Russia può quindi sfidare il gigante americano e i suoi vassalli, consapevole, come dimostrato in Donbass, In Siria e in Georgia, che gli attuali rapporti di forza militari sconsigliano, a entrambe le parti, uno scontro all’ultimo sangue.
Abbiamo tentato di ragionare su questa dinamica di confronto e scontro fra i blocchi imperiali già alla fine di agosto 2015, concludendo che le due superpotenze nucleari possiedono una ratio politica che ha finora impedito la conflagrazione atomica finale. Tuttavia le guerre locali, asimmetriche, per procura, sono destinate a subire un incremento quantitativo e qualitativo, in concomitanza con l’esigenza di distruzione di capitale variabile e costante in eccesso che caratterizza fortemente questo ciclo dell’economia capitalistica globale. Dobbiamo quindi attenderci una intensificazione dei fenomeni bellici, e anche una moltiplicazione dei teatri di scontro fra i due blocchi imperiali in molte parti del globo. L’esodo di civili, la morte per stenti e malattie, che sono il corollario classico delle guerre, accoppiato agli altri fenomeni derivanti ‘normalmente’ dal tipo di sviluppo capitalistico, cioè epidemie, fame e patologie varie, contribuiscono ottimamente a distruggere capitale variabile e costante in eccesso. La politica americana del caos, può quindi essere oggi interpretata non solo come la classica strategia della terra bruciata davanti all’avversario che avanza, ma anche come una efficace strategia economica di distruzione rigeneratrice. I due aspetti, strutturali e sovrastrutturali, sono interconnessi in maniera inestricabile. In merito agli strumenti di questa strategia, possiamo ipotizzare dei rapporti di analogia fra i gruppi neo-nazisti operanti in Ucraina e le falangi fondamentaliste operanti in Siria e Iraq. Una doppia analogia, oseremmo sostenere: in primo luogo questi gruppi sono uno strumento militare impiegato direttamente contro gli alleati del blocco concorrente (e quindi da questo lato sono un mezzo di lotta interna fra frazioni di borghesie nazionali e internazionali), e in secondo luogo essi svolgono una funzione oggettivamente terrorizzatrice (come nel passato le squadracce fasciste e i Freikorps tedeschi) verso la classe sociale proletaria.
Abbiamo ipotizzato che le attuali fortune economiche e politiche del blocco euro atlantico non siano ai massimi storici, vediamo perché. Almeno dal 1991, cioè dalla data ufficiale del collasso dell’URSS, e fino al 2008, inizio effettivo dei crolli di borsa e delle bancarotte bancarie americane, il ruolo e la stabilità del cosiddetto imperialismo ‘egemone’ a guida anglo-americana ha dato l’impressione di essere inattaccabile. Questo ruolo si basava sul presupposto della irrilevanza permanente della Russia, trasformata in una potenza regionale dopo il crollo dell’URSS (e da integrare progressivamente nella UE/NATO), e inoltre sulla cooptazione della Cina nel sistema finanziario esistente a guida anglo-americana, e in via subordinata sul suo accerchiamento, principalmente per via mare, allo scopo di impedirne sia una proiezione politico-economica al di fuori dei confini, sia i suoi traffici di merci e le relative esportazioni.
Oggi, anche da una superficiale osservazione dei dati economici globali e delle relazioni internazionali, si può dedurre che i presupposti di una perdurante egemonia unipolare euro-americana siano ormai svaniti, lasciando invece il passo a una competizione intensificata fra centri capitalistici rivali.
Torniamo ancora indietro nel tempo: nel dicembre 1991 scompare di fatto e di diritto l’unione sovietica, pochi mesi dopo viene firmato il trattato di Maastrich, caposaldo essenziale per l’allargamento ad est dell’Unione Europea e per la moneta unica. Inoltre negli anni 90 si afferma il ruolo crescente dell’economia cinese, definita da varie parti come la ‘fabbrica del mondo’. Un paradosso apparente è dato dal fatto che la Cina produce e vende grossi quantitativi di merci che vengono consumate negli Stati Uniti, ma al contempo ne finanzia l’acquisto, comprando quote consistenti del debito pubblico americano. La Russia nel 1998, economicamente, naviga in cattive acque. La ristrutturazione capitalistica incominciata negli anni ottanta sembra non dare ancora buoni frutti. In un momento di particolari difficoltà politico-economiche, gli angloamericani e i sauditi soffiano sul fuoco delle guerre cecene (1994-1996 – 1999-2000), per eliminare la storica presenza russa nel Caucaso (porta d’ingresso nel medio-oriente). Anche lo smembramento della Iugoslavia, in ultima analisi avrebbe dovuto produrre l’effetto di togliere peso e importanza allo storico alleato serbo della Russia. Ma in Cecenia, in Georgia, in Donbass, in Crimea, in Siria, nella stessa Serbia gli effetti delle strategie americane spesso non producono risultati positivi. Cercheremo di analizzare, nel prossimo capitolo, le ragioni economiche e politiche che hanno incrinato e debilitato l’imperialismo euro-atlantico, esponendolo a una serie di ritirate e di pesanti sconfitte in vari teatri dello scacchiere globale.
Secondo capitolo: tabelle numeriche e considerazioni politiche
Abbiamo utilizzato anche di recente (in ‘Chaos Imperium’), dei dati numerici relativi a parametri economici di sviluppo delle principali economie capitalistiche. Ci limitiamo quindi a riproporre le interpretazioni ancora attuali di quei dati. Da un confronto comparativo decennale fra tassi di crescita (PIL) cinesi e americani emerge un dato economico indiscutibile. Negli ultimi dieci anni l’economia cinese è passata da un PIL annuo di 2.000 miliardi di dollari a un PIL superiore ai 16.000 MLD, mentre l’economia a stelle e strisce nello stesso periodo è cresciuta da un valore iniziale di 8.000 MLD, a un valore di 16.000 MLD. Il dato numerico del PIL cinese pro-capite è più basso di quello americano, a causa del numero di abitanti della Cina, sei volte superiore a quello dell’America. Tuttavia bisogna considerare che il debito pubblico americano è equivalente al valore del suo PIL annuo, cosa che non può essere affermata per il concorrente cinese. Sta di fatto che, partendo dalla base di una forte concorrenza delle merci prodotte dalle economie emergenti, l’economia americana e dell’UE sono state complessivamente ridimensionate, e quindi sono stati ridimensionati i progetti egemonici delle sovrastrutture politico-militari di riferimento. Il controllo della Cina attraverso il sistema bancario e valutario anglo americano non è andato a buon fine, soprattutto considerando l’attuale tendenza di Cina, India, Russia e altri paesi a sostituire il dollaro con altre valute negli scambi commerciali. Lo Yuan cinese è stato ormai elevato a valuta di riserva mondiale, anche con l’appoggio interessato di paesi come l’Inghilterra (pensiamo agli investimenti di capitali cinesi), e anche questo può essere letto come un segnale di un riposizionamento, seppure parziale e limitato al settore economico-valutario, di alcuni attori internazionali. La Cina, ‘fabbrica del mondo’, con le sue centinaia di milioni di salariati, inquadrati coercitivamente in un sistema di fabbrica ‘totale’, è il paradiso del plus-valore assoluto e relativo. Non bisogna stupirsi se in una logica puramente strutturale-economica il capitalismo globale, quindi anche quello anglo-americano ed europeo si attrezzano per ottenere dei benefici (con delocalizzazioni e successivi investimenti) dall’esistenza di questo angolo paradisiaco di estorsione a basso costo di plus-lavoro. Il problema, fra fratelli coltelli borghesi, insorge sempre per vili motivi di spartizione del bottino di plus-valore. Un problema di percentuali, come accade quando scoppiano le guerre di camorra e di mafia. Evidentemente, la quota di partecipazione al banchetto di plus-lavoro sottratto al proletariato delle economie emergenti, pretesa dal blocco euro-atlantico, era troppo alta, irrealistica, anche sulla base dei rapporti attuali di forza fra le sovrastrutture statali-militari esistenti. Il blocco di interessi russo-cinese, in sinergia con India, Iran, Iraq, Siria e altri paesi africani e sudamericani, possiede il capitale costante, le conoscenze tecnico-scientifiche, le masse di schiavi salariati, le risorse energetiche, le vie di trasferimento, e soprattutto l’apparato militare-industriale per proteggere tutta questa ‘ricchezza’ (nell’interesse delle proprie oligarchie parassitarie).
Le strategie, diciamo economico-aziendali, delle frazioni borghesi euro-atlantiche mirate al controllo, o addirittura al possesso delle riserve petrolifere mediorientali, e al connesso dominio nel mare mediterraneo e negli oceani, non hanno avuto buon esito (significativo che al sistema di basi navali americane presenti nell’oceano, che poterebbero essere utilizzate in vista di un futuro blocco navale dell’import-export cinese, la Cina abbia risposto con il progetto di un via terrestre di commercio, e addirittura con la costruzione intensiva di enormi arei cargo per il trasporto delle merci). Abbiamo in precedenza fatto riferimento ai dati numerici, puramente strutturali-economici, che sono alla base, in ultima istanza (per dirla con Engels), di questa discordanza fra gli obiettivi preventivi e quelli consuntivi delle strategie di dominio del blocco imperiale euro-atlantico.
Partendo da quei dati strutturali esistevano elevate probabilità che certi progetti perseguiti dalle sovrastrutture politico-statali euro-americane non sortissero i risultati previsti, e nondimeno non era pensabile che un blocco strutturale/sovrastrutturale come quello della borghesia parassitaria euro-americana rinunciasse a lottare. Vediamo ora cosa è accaduto, nei vari teatri del ‘grande gioco’ globale, alle iniziative messe in campo da questo blocco per conservare il suo potere politico-economico. E soprattutto cerchiamo poi di prevedere i progetti che, con un certo grado di probabilità, potrebbero essere messi in campo dopo l’insuccesso di quelli iniziali.
Una prima sconfitta del blocco capitalistico euro-americano è data dal ritorno della potenza russa nel ruolo di giocatore influente, oscurato invece nel periodo eltsiniano. Questo ritorno sulla scena è dimostrato già dalla batosta inflitta dall’esercito russo alla Georgia, e ai suoi protettori americani, nel 2008, in seguito all’intervento dell’esercito georgiano in Ossezia. Il non ingresso nella UE/NATO, il cordone sanitario e l’allargamento della NATO ai confini della federazione russa, sono la conseguenza del risveglio dell’orso russo. Tuttavia, già prima del 2008, l’intervento militare euro-americano in Afghanistan e in Iraq, si è trasformato nel classico pantano che assorbe inutilmente energie militari e flussi di denaro, senza assicurare nessun controllo efficace del territorio. Inoltre il cambio di regime in Iraq dopo l’invasione del 2003, ha favorito la componente borghese di fede sciita, concentrata nell’area economica ricca di risorse petrolifere del sud, e quindi indirettamente ha rafforzato l’influenza regionale dell’Iran sciita da anni alleato di Russi e cinesi (scontentando e mettendo in difficoltà le altre potenze petrolifere regionali come il Qatar, L’Arabia Saudita, gli EAU, ma anche Israele). Infine, le sconfitte dei piani militari euro-americani in Afghanistan, Iraq e Georgia, intorno al 2008 si accompagnano all’evento della crisi finanziaria e bancaria (pensiamo ad esempio al fallimento di ‘Lehman Brothers’).
Di fatto, le avventure militari in Afghanistan e Iraq, costano migliaia di miliardi di dollari, alla fine, dopo il loro fallimento, si scatena la gara ( a iniziare sono gli americani), per scaricare sugli altri (leggasi Europa) il loro costo economico. E veniamo agli anni recenti, e alle sconfitte registrate in Crimea, Donbass e Siria, per dare un quadro completo di una situazione comunque mobile e in divenire.
Terzo capitolo: la scacchiera, le mosse, un confronto militare tra pedine e vassalli imperiali
Come nel gioco degli scacchi, gli imperi fanno le loro mosse, e ogni volta che muovono una pedina vite umane vengono divorate e distrutte. Se in Crimea abbiamo assistito da parte russa a un colpo di mano sostanzialmente incruento, poiché rapido e inatteso, poi in Donbass e Siria è stata un altra storia. In questi due teatri di confronto fra i blocchi imperiali abbiamo assistito a un braccio di ferro militare dagli esiti alterni. Nel Donbass nell’agosto 2014, una serie di vittoriose offensive dell’esercito Ucraino (al servizio della giunta di Kiev filo americana), sembravano avere portato alla imminente capitolazione delle due repubbliche ribelli di Donetsk e Lugansk. Tuttavia, anche grazie all’aiuto decisivo e mascherato dell’esercito russo, la situazione è stata ribaltata, e l’esercito regolare ucraino, insieme alle milizie neo-naziste, hanno subito una serie progressiva di rovesci, culminati nel febbraio 2015 nella sconfitta di Debaltsevo. Da allora la situazione militare è sostanzialmente ferma, l’offensiva ucraina prevista nell’agosto 2015 non è stata neppure iniziata, mentre gli accordi di Minsk sotto il patrocinio di Russia, America ed Europa hanno registrato e imbalsamato le posizioni sul campo. La stabilizzazione del fronte del Donbass ha consentito all’esercito russo di intervenire in Siria, dove la posizione militare dell’alleato Assad e del suo esercito, almeno fino al settembre 2015 mostrava evidenti segni di cedimento. Il resto è storia recente, e quindi possiamo affermare che a tutt’oggi, 14 febbraio 2016, la situazione militare sembra evolvere a favore dell’esercito siriano e dei suoi alleati iraniani, russi e libanesi (Hezbollah). Per diversi anni, a partire dalla fine dell’unione sovietica, è sembrato che prevalesse sull’intera scena mondiale il cosiddetto capitalismo egemone americano, con annessa Pax Americana. In quel periodo, parliamo in sostanza dell’epoca eltsiniana, erano in apparenza forti le tendenze (interne ed esterne) all’integrazione della Russia nel sistema economico-finanziario americano e nella struttura politico-militare a guida americana, cioè la Nato. Se ci pensiamo bene, in quegli anni si poteva quasi intravedere uno scenario da super imperialismo kautskiano. Tuttavia lo scenario non si è realizzato, storicamente, per due motivi fondamentali: in primo luogo le difficoltà oggettive dell’economia americana, in secondo luogo il conseguente bisogno di uscire da queste difficoltà cannibalizzando alleati e rivali. Tracce di questa pratica in cui si racchiude l’essenza della concorrenza fra capitali, l’abbiamo registrata, d’altro canto, nella vicenda che ha colpito l’economia dell’Argentina e quella delle “Tigri” asiatiche intorno al 2000. In quel caso lo zampino di Washington, e dei gruppi speculativo-finanziari americani (Soros), era scarsamente occultabile. Tuttavia la Russia, anche se indebolita dalla fase di ristrutturazione e razionalizzazione economica post-sovietica (una fase più avanzata del precedente capitalismo sovietico) era comunque un boccone troppo grosso, anche per le fauci del coccodrillo americano. Questione di tempo, quindi, e si sarebbe di nuovo tornati al confronto scontro dichiarato fra blocchi capitalistici concorrenti. Il fuoco che dormiva sotto la brace è divampato di nuovo quando, verificata l’impraticabilità di applicare alla Russia la stessa ricetta somministrata all’Argentina e alle “Tigri” asiatiche, il blocco euro-americano ha iniziato a soffiare (come forza esogena) sul fuoco delle endogene rivoluzioni colorate in funzione anti-russa (in Georgia e in Kirghizistan, e soprattutto in Ucraina, nel 2000-2001, nel 2004-2005, nel 2014) e delle primavere arabe (Tunisia, Libia, Egitto, Siria). L’acutizzazione delle contraddizioni interne del modo di produzione capitalistico, la forte tendenza storica alla riduzione (in primis su base percentuale) del bottino di plus-valore ripartibile fra le varie frazioni della borghesia mondiale, rappresentano la base materiale degli scontri armati e del cannibalismo economico fra i fratelli coltelli borghesi. La fase dello scontro armato è tuttavia foriera di rischi per gli attori che vi fanno ricorso, poiché essa sanziona, quasi sempre in modo definitivo, lo statuto di vincitore o di sconfitto di uno dei concorrenti capitalistici. Nondimeno l’America vi fa ricorso come una ‘extrema ratio’, per tentare di rimandare nel tempo la perdita della propria egemonia globale, e il conseguente pericolo di una intensificazione dello scontro di classe dentro i propri stessi confini. Usiamo per un breve attimo l’espediente narrativo di scrivere in prima persona, come se fossimo un ipotetico interlocutore di una oligarchia borghese unita da comuni interessi, alla guida di un potente apparato militare-industriale.
Il tuo avversario non è stato sconfitto perché i suoi vassalli hanno resistito, mentre i tuoi non hanno prevalso, sembrerebbe una situazione di stallo, ma non è così, perché il tempo non è dalla tua parte, e mentre lo scontro armato con l’avversario non produce netti risultati di vittoria, il dollaro si indebolisce, il castello di carte finanziario della tua economia è imploso (2008), e oggi, anno 2016, hai all’orizzonte una nuova crisi finanziaria. Tempus fugit, e così mentre insegui ancora il vano sogno di spezzare militarmente il nemico, non hai più il tempo dalla tua parte, ora il fattore tempo gioca a favore del blocco imperiale avversario, che a tua insaputa attendeva da tempo, sulla riva del fiume, il tuo cadavere.
Agosto 2008, crisi militare-diplomatica a seguito all’invasione georgiana dell’Ossezia, conclusasi con i tank russi a pochi km dalla capitale della Georgia: l’ultimo tentativo dell’America di assestare un colpo alla forza dell’avversario russo, sul piano militare locale e simbolico generale(prima del crak finanziario) . Il tentativo va male, e nel settembre 2008 la crisi finanziaria di Wall Street, il crollo di alcuni colossi bancari americani, la vicenda dei titoli spazzatura, dirige un fascio di luce sulla montagna di debiti su cui si basava il rilancio dei consumi e del mercato immobiliare degli anni precedenti, svelando a tutti il castello di carte debitorio su cui si fonda l’economia americana. Materialismo dialettico: logica di azione e reazione fra causa ed effetto, struttura economico finanziaria e sovrastruttura politico-militare. Gli insuccessi politico-militari in Iraq e Afghanistan alla fine presentano il conto, e si sommano alla figuraccia rimediata in Georgia (il cui acme non fu tanto dato dai tank russi a pochi km dalla capitale Tiblisi, ma dall’inutilità dello spostamento della flotta americana vicino alle coste georgiane, in funzione di soccorso all’alleato Saakhasvili e di minaccia verso i russi: chi si ricorda, infatti, le contro-minacce allora ricevute dalla task force navale U.S.A, da un generale russo a capo di una divisione missilistica dislocata nell’area del conflitto?).
Lo scontro armato, attraverso interposta organizzazione militare, sia essa un esercito regolare (ad esempio l’esercito georgiano o di recente l’esercito ucraino) o una milizia terroristica-fondamentalista (Isis, Al Qaeda, Al Nusra), è dunque la tattica perseguita ossessivamente dall’imperialismo anglo-americano per disturbare i rivali russi e cinesi, e per controllare le aree petrolifere mediorientali. I dati ufficiali sul debito pubblico americano vanno presi con cautela, alcuni analisti parlano di cifre reali superiori di almeno il doppio rispetto ai 18.000 miliardi di dollari ufficiali (considerando forse anche i debiti privati e quelli delle imprese). I numeri tuttavia contano fino a un certo punto, di fatto l’America non è oggi in grado restituire i debiti contratti sul mercato interno e internazionale dei capitali, tecnicamente insolvente (a meno di non mettere sul piatto della bilancia la vendita di una parte cospicua del patrimonio pubblico), e di conseguenza seriamente compromessa economicamente ( incapace, cioè, di produrre un reddito annuo di grandezza adeguata a subire una imposizione fiscale in grado di consentire il pagamento del debito pubblico). La pletora di basi militari disperse nei vari angoli del globo non aiutano certo gli USA a riequilibrare il proprio bilancio pubblico, anche se forse sono l’unico strumento residuo utilizzabile per mantenere il fantasma della vecchia egemonia globale.
Gli scricchiolii della macchina finanziaria-valutaria americana si fanno sempre più fastidiosi e frequenti, basti pensare al nuovo ruolo dello YUAN come valuta di riserva mondiale, alla vendita di riserve di dollari e di titoli del debito americano da parte di Russia, Cina, India, e vari altri paesi. Basti pensare all’adozione di valute alternative al dollaro nelle recenti transazioni commerciali fra le economie emergenti di questi paesi, BRICS e non solo. Le previsioni degli stessi economisti ‘liberali’ parlano di un picco delle difficoltà economico-finanziarie, innanzitutto euro-americane, nell’arco del quinquennio 2015/2020. La lotta concorrenziale di capitali, nella sua dimensione internazionale, produce sempre nuovi equilibri di potere fra gli attori che si agitano sul teatro geo-economico.
Il ridimensionamento di un blocco economico-politico non è mai pacifico, il capitale non uccide se stesso, e quindi c’è da attendersi che il declino dell’America e dei suoi vassalli e alleati produca ulteriori convulsioni e conflitti nelle varie aree o linee di frattura oggi esistenti fra opposti interessi imperialistici. Gli Stati Uniti non se ne andranno facilmente, ma si batteranno fino all’ultimo, è da prevedere che, al pari di quanto accaduto durante la caduta del Terzo Reich, le oligarchie capitalistiche euro-americane resisteranno nel bunker, in un orgia di distruzione rigeneratrice di capitale costante e variabile in eccesso. La questione siriana, al netto delle interferenze saudite e turche degli ultimi giorni, potrebbe essere considerata dagli americani, usiamo il condizionale, ormai una partita senza possibilità di vittoria. Le minacce di intervento militare turco, tuttavia, sono una variabile da non sottovalutare. La Turchia ha gravi problemi di tenuta sociale ed economica, le proteste di massa contro il peggioramento delle condizioni di vita di larghe fasce sociali (proletariato ma anche piccola borghesia) sono state duramente represse (come d’altronde accaduto anche in Egitto), quindi anche per il capitalismo turco può essere inevitabile riprodurre in piccola scala la politica di rapina e controllo delle risorse e dei capitali altrui, che l’America applica da tempo su larga scala. Fantasie, dirà qualcuno, ebbene pensiamo alla vicenda del traffico di petrolio siriano a basso prezzo fra Turchia e isis, denunciato nel novembre 2015 dai russi. Pensiamo dunque a questa vicenda come a un esempio classico di controllo e saccheggio delle risorse petrolifere di un economia capitalistica, da parte di una o più economie capitalistiche rivali, e avremo quindi ben chiari i contorni del cannibalismo economico borghese che si innesca come riflesso delle periodiche crisi capitalistiche. La Siria va compresa in quanto area economico-aziendale capitalistica, ricca di risorse naturali e di linee di trasferimento ottimali, a causa della sua posizione geografica di collegamento con la penisola arabica e di sbocco sul mediterraneo (la penisola arabica, in modo specifico Qatar e Arabia saudita, a loro volta ricchi di petrolio e bisognosi di utilizzare la via di trasferimento siriana sono una delle cause dell’attuale conflitto). Il flusso di risorse energetiche di cui ha bisogno la ‘fabbrica del mondo’ cinese, non può essere solo garantito dalle esportazioni russe, e quindi il petrolio e il metano di Siria, Iraq e Iran andava appositamente convogliato verso la Cina. A questo stava pensando da tempo la Russia con la costruzione di una pipeline di collegamento fra i giacimenti costieri siriani e lo snodo petrolifero di Kirkuk, in Iraq. Una sorta di abbraccio mercantile fra una via di trasferimento del petrolio verso la Cina, da ovest a est, e una via di trasferimento di prodotti cinesi da est verso ovest, parliamo della via della seta terrestre (pure essa in costruzione). Soffermiamoci sulla via della seta per dire brevemente che essa dovrebbe aggirare i pericoli di un futuro blocco navale e commerciale americano. Infatti la politica americana del caos in medio-oriente, correlata al rafforzamento del sistema preesistente di basi navali oceaniche, può essere interpretata, ipotizziamo, come la doppia articolazione di una strategia unitaria volta alla limitazione e al contenimento del rivale capitalistico cinese (dunque, in definitiva, come una fase della classica concorrenza fra economie capitalistiche, condotta con mezzi non economici, ennesima dimostrazione dei rapporti di interazione fra struttura economica e sovrastruttura politico-militare).
Quarto capitolo: la ricchezza delle nazioni (Cina, India, economie emergenti, poli di valorizzazione e recinti statali per proletari da sfruttare e al contempo salvaguardare dalle brame di borghesie rivali).
‘Scopo determinante del processo capitalistico di produzione
è la maggior possibile auto-valorizzazione del capitale,
la produzione di plusvalore più grande possibile,
e quindi il maggiore sfruttamento possibile della forza-lavoro’.
[Karl Marx]
Il capitale. Libro primo, pag. 372.
Secondo qualcuno il capitale globale è ormai autonomo dai condizionamenti politico-economici nazionali, vaga quindi libero per i circuiti economico-finanziari del globo alla ricerca del miglior rendimento, etereo, senza essere esposto a minacce e attacchi da parte di capitali concorrenti o di masse di sfruttati. La concorrenza è scomparsa, siamo al super-imperialismo kautskiano. Questa insostenibile leggerezza dell’essere del capitale pone le condizioni (nella concezione di chi sostiene questa tesi) per l’ininfluenza del ruolo degli stati. Lo stato borghese, espressione primaria del dominio di una classe sociale detentrice del monopolio dei mezzi di produzione, e quindi padrona del processo di creazione del plus-valore economico determinato dal plus-lavoro estorto ai proletari, non è più decisivo per la perpetuazione dei rapporti di produzione capitalistici. Il capitale è puro spirito, disincarnato dal corpo-corazza della sovrastruttura statale. La dialettica struttura sovrastruttura, a cui ci aveva abituato una deprecabile passione per l’invarianza storica del marxismo, è da buttare nel deposito dei ferri vecchi. Non avevamo capito nulla, il capitale si è autonomizzato, e la dimostrazione di questo è nelle ultime notizie sulle ‘fughe’ di capitali dalla Cina. Perbacco, qualcuno ha scoperto che ci sono dei capitali alla ricerca di verdi pascoli di valorizzazione, in lidi lontani dalla patria natia. Marx, terzo libro del capitale, SEZIONE III LEGGE DELLA CADUTA TENDENZIALE DEL SAGGIO DEL PROFITTO CAPITOLO 14, CAUSE ANTAGONISTICHE. ‘‘Un’altra questione — che per il suo specifico carattere esula veramente dal campo della nostra indagine — è la seguente: il saggio generale del profitto risulterà accresciuto in conseguenza del più elevato saggio del profitto prodotto da un capitale che sia investito nel commercio estero e soprattutto coloniale?
I capitali investiti nel commercio estero possono offrire un saggio del profitto più elevato soprattutto perché in tal caso fanno concorrenza a merci che vengono prodotte da altri paesi a condizioni meno favorevoli; il paese più progredito vende allora i suoi prodotti ad un prezzo maggiore del loro valore, quantunque inferiore a quello dei paesi concorrenti’. Proviamo a ragionare su questo passaggio, i costi di produzione definiti nella citazione di Programma Comunista 1954, sono: ‘Capitale costante più capitale variabile più profitto al saggio medio sociale uguale valore del prodotto’. Tuttavia, a causa del differente impiego di capitale costante esistente fra diverse economie capitalistiche, o anche fra aree economiche incluse nella stessa economia nazionale, accade che ‘il paese più progredito vende allora i suoi prodotti ad un prezzo maggiore del loro valore, quantunque inferiore a quello dei paesi concorrenti’. Riprendiamo ad analizzare il concetto: le merci prodotte in un ‘paese più progredito’ dal punto di vista tecnico-economico, comportano alle imprese capitalistiche dei costi di produzione inferiori (a causa del maggiore utilizzo di capitale costante), rispetto alle merci prodotte nei ‘paesi concorrenti’, quindi meno progrediti dal punto di vista tecnico-economico (in cui il costo di produzione è maggiore a causa del prevalente impiego di capitale variabile, cioè lavoro salariato). Il vantaggio competitivo determinato dalla riduzione dei costi di produzione per unità di prodotto, è proprio determinato dalla possibilità di ottenere (con il commercio estero) ‘un saggio del profitto più elevato soprattutto perché in tal caso… (I capitali investiti nel commercio estero)…fanno concorrenza a merci che vengono prodotte da altri paesi a condizioni meno favorevoli’. Ragioniamo su uno schema contabile astratto; ipotizziamo una merce ‘xwz’ il cui costo di produzione è così determinato: quota capitale costante € 10, quota capitale variabile/salario € 1, profitto al saggio medio sociale (nazionale) € 2. il costo di produzione unitario è quindi 13 €. Lo stesso tipo di merce xwz’ viene prodotta ‘da altri paesi a condizioni meno favorevoli’, cioè quota capitale costante € 3, quota capitale variabile/salario € 11, profitto al saggio medio sociale (nazionale) € 3,5. il costo di produzione unitario è quindi 17,5 €. Si comprende così perché ‘il paese più progredito vende allora i suoi prodotti ad un prezzo maggiore del loro valore quantunque inferiore a quello dei paesi concorrenti’ (in questo esempio basterebbe anche vendere la merce ‘xwz’ sul mercato estero al prezzo unitario di 14,5 €, per ottenere un profitto medio unitario superiore di € 1,5 rispetto ai 2 € offertici dal mercato interno della ‘nostra’ economia nazionale). Inoltre è evidente che il prezzo di vendita più basso rispetto a quello dei concorrenti esteri, ci assicurerebbe il successo competitivo insito nel mantra liberista della riduzione dei costi di produzione per unità di prodotto. Tuttavia la concorrenza fra imprese produttrici di merci dello stesso tipo, realizzate a costi di produzione più bassi o più elevati, nel medio-lungo periodo non può che spingere le imprese dell’area economica meno avanzata a ridurre il divario tecnologico-produttivo con i concorrenti più progrediti. Fino a quando il divario tecnologico non è colmato, valgono come stratagemmi concorrenziali alternativi l’intensificazione della produttività del lavoro (plus-valore relativo) o l’allungamento vero e proprio della giornata lavorativa (plus-valore assoluto). Queste due strade classiche della concorrenza economico-aziendale potrebbero ora spiegare la ‘fuga’ dei capitali cinesi (magari in Vietnam o in Africa), e riportare con i piedi per terra la lettura del fenomeno empiricamente verificato della ‘fuga’ di capitali, separandolo dalle giustapposizioni aprioristiche, cioè dalle forzature interpretative miranti a cercare nella realtà, ad ogni costo, la verifica di un teorema precostituito. Invece, sulla base della invariante conoscenza marxista delle leggi economiche capitalistiche, semplicemente contenute nel terzo libro del Capitale, è possibile navigare senza troppi scossoni fra i procellosi fenomeni del divenire socio-economico contemporaneo. Staccandoci da questa conoscenza invariante la nostra piccola barca rischia di smarrirsi, perché la percezione e il sapere del timoniere, cioè la sua bussola, diventa una bussola impazzita. Riprendiamo il testo di Marx : ‘Fino a che il lavoro del paese più progredito viene in tali circostanze utilizzato come lavoro di un peso specifico superiore, il saggio del profitto aumenta in quanto il lavoro che non è pagato come lavoro di qualità superiore, viene venduto come tale. La stessa situazione si può presentare rispetto ad un paese con il quale si stabiliscono rapporti di importazione e di esportazione: esso fornisce in natura una quantità di lavoro oggettivato superiore a quello che riceve e tuttavia ottiene la merce più a buon mercato di quanto non potrebbe esso stesso produrre….Per quanto riguarda i capitali investiti nelle colonie ecc., essi possono offrire un saggio del profitto superiore sia perché di regola il saggio del profitto è più elevato in questi paesi a causa dell’insufficiente sviluppo della produzione, sia perché con l’impiego degli schiavi e dei coolies ecc. il lavoro viene sfruttato più intensa mente’.
Libro terzo del Capitale, le righe appena riportate sono state dunque scritte negli ultimi decenni del 1800, eppure ancora oggi, anno domini 2016, qualcuno scopre che il capitale cinese rincorre ‘un saggio del profitto superiore’, cercando occasioni di investimento in poli di valorizzazione situati al di fuori dei confini nazionali. Dunque il capitale sarebbe ormai autonomo dai condizionamenti degli apparati statali nazionali, e starebbe volando gioioso come una pura espressione metafisica, libera da fastidiose interazioni prosaiche con i fattori geo-storici, politici, militari. Un capitale che opera in uno spazio socio-economico scevro dalla maledizione degli equilibri di potere e dei rapporti di forza fra potenze concorrenti. Non solo Marx ed Engels, ma anche secoli di pensiero e di opere improntate ad un sano sforzo di realismo politico (Hobbes, Machiavelli, Guicciardini, Vico) vengono rivoluzionate da queste ardite speculazioni sul capitale autonomo. La dialettica complessità delle relazioni sociali reali e quindi dei rapporti di forza fra agenti e fattori economici, finanziari, politici, militari, tecnico-scientifici, giuridici e culturali in senso ampio, vengono ridotte monisticamente ad uno (l’autonomia del capitale). La complessità del reale viene idealisticamente azzerata, ma in cambio otteniamo una bussola impazzita, e così ancora una volta il piccolo legno che doveva portarci verso l’isola sicura del comunismo ci trascina verso l’ignoto.
La ricchezza delle nazioni, ovvero la massa di lavoratori salariati da impiegare nei processi produttivi di nuovo valore e quindi plus-valore, poiché ‘Scopo determinante del processo capitalistico di produzione è la maggior possibile auto-valorizzazione del capitale, la produzione di plusvalore più grande possibile, e quindi il maggiore sfruttamento possibile della forza-lavoro’. Marx. In Cina abbiamo osservato e osserviamo da vari anni delle tendenze e sperimentazioni (su larga scala) di forme di organizzazione del lavoro estremamente dispotiche, parliamo di quel fenomeno economico-aziendale definito come ‘fabbrica totale’. Le lotte proletarie cinesi contro le condizioni di vita e di lavoro in queste ‘fabbriche totali’ sono state già analizzate in un articolo pubblicato nel giugno 2015, inoltre nel gennaio 2016 abbiamo pubblicato un altro articolo sul plus-valore assoluto e relativo in Cina. La ‘fabbrica totale’, i suoi modelli organizzativi e produttivi vengono esportati e impiantati in altre aree economiche del globo, insieme ai famosi capitali ‘autonomi’: pensiamo solo alla repubblica Ceca e al Messico. Nell’area economica di provenienza e nelle aree economiche di destinazione, questi modelli produttivi e organizzativi di azienda capitalistica possono continuare ad essere un luogo dispotico di sfruttamento della forza-lavoro solo perché, oltre a fornire il minimo dei mezzi di sussistenza al lavoratore attraverso un salario, sono anche difesi dai pericoli del conflitto sociale (innescato dalle periodiche rivendicazioni economiche e legali immediate della classe salariata) dalla funzionale attrezzatura statale di oppressione (attrezzatura che lungi dall’indebolirsi, come anche in questo caso sostiene qualche sognatore, si rafforza invece di pari passo con il rafforzarsi dello sfruttamento e del dispotismo aziendale). L’incremento del dispotismo di fabbrica, che noi ravvisiamo nel modello aziendale cinese, è stato già facilmente preconizzato da Marx, insieme al correlato aumento dello sfruttamento necessario a limitare gli effetti della caduta del saggio di profitto. Aumento dello sfruttamento, aumento della povertà in senso assoluto e relativo, e quindi rafforzamento degli strumenti di oppressione statali e del dispotismo di fabbrica. Ecco un lineare esempio di conoscenza invariante di alcuni non secondari aspetti del modo di produzione capitalistico.
Concludiamo il capitolo quarto con alcune riflessioni.
L’apparato statutale capitalista rappresenta il deposito di energia della classe sociale borghese; energia che può mostrarsi in forma latente-potenziale (quando il conflitto sociale ristagna), oppure in forma cinetica-attualizzata quando il conflitto sociale esplode minaccioso. Nessun capitale aziendale potrebbe sopravvivere in un certo territorio, in un certo distretto industriale, in una certa area economica, senza una legislazione amica, composta da norme la cui efficacia venga garantita dalla forza repressiva/dissuasiva di apposite attrezzature statali. Infatti, in termini di dottrina generale del diritto (ad esempio Kelsen), si riconosce che l’efficacia della norma, cioè il suo rispetto da parte della maggioranza dei cittadini, è condizionato da due fattori principali: in primo luogo un certo grado di consenso sociale verso il contenuto della norma, e in secondo luogo l’esistenza di adeguate sanzioni miranti a colpire le sue violazioni da parte di eventuali trasgressori.
L’apparato poliziesco-giudiziario rappresenta dunque il braccio esecutivo del potere politico-legislativo (ambito volitivo) che noi definiamo come sovrastruttura di dominio borghese, funzionale alla vita della struttura economico-produttiva capitalistica. L’organismo socio-economico capitalistico può esistere solo nell’ambito di una interazione funzionale fra struttura e sovrastruttura, quindi la postulazione di scenari di autonomia del capitale (cioè della struttura economica, rispetto alla sovrastruttura politico-statale) è anti-materialistica e senza nessun fondamento storico, oltre che assurda dal punto di vista della logica dialettica. L’apparato statale svolge un ruolo fondamentale anche nel confronto/scontro fra i fratelli coltelli borghesi, intendendo con questa espressione le opposte frazioni di borghesia che si contendono periodicamente le risorse energetiche, le vie di trasferimento, e il bottino di plus-valore ottenibile dal plus-lavoro della classe proletaria. Rifiutare questi dati di fatto significa rifiutare la realtà storica per quello che è, condannandosi alla totale incomprensione della società capitalistica.
Quinto capitolo: Prospettive economiche capitalistiche per l’esercizio amministrativo 2016
Mettiamo insieme alcuni tasselli del mosaico socio-economico capitalistico su scala globale, opera ardua, anche se ci proviamo lo stesso, per poi abbozzare delle previsioni per i prossimi dieci mesi. Secondo il Fondo monetario internazionale il crollo del prezzo del petrolio (crollo causato dai giochi geopolitici fra i blocchi imperiali concorrenti ma anche da un vero e proprio calo della domanda, calo collegato alla riduzione della produzione industriale e quindi al perdurare della crisi economica), la frenata della crescita cinese, e infine la politica di rialzo dei tassi di interesse della Federal Reserve americana, sono i principali fattori che condizionano negativamente l’economia mondiale. Il FMI fa il suo mestiere, e quindi presenta come cause delle difficoltà dell’economia capitalistica, quelle che sono invece delle semplici conseguenze delle leggi tendenziali di esistenza della stessa economia capitalistica, di seguito schematizzate: accumulazione, riproduzione allargata del capitale, concorrenza fra capitali aziendali, concentrazione, centralizzazione, variazione della composizione organica del capitale e preponderanza del capitale costante, caduta tendenziale del saggio medio di profitto, sovrapproduzione di merci, sovraccumulazione di capitali, forza-lavoro in eccesso, esigenza di una distruzione rigeneratrice di capitale costante e variabile in eccesso (1). Lo schema racchiude l’origine dei fenomeni indicati invece dal FMI come cause della congiuntura economica negativa, le cause proposte dal FMI sono dei semplici effetti derivati dalle interiori contraddizioni del modo di produzione capitalistico. A noi interessa poco, in questa sede, rimarcare il velo illusorio in cui è racchiusa la ‘scienza’ del FMI (2), mentre appare più interessante, dal nostro punto di vista, riprendere le sue stesse previsioni al ribasso della crescita economica globale per il 2016. I numeri della crescita media prevista sono del 3%, un po poco per cantare le lodi della ripresa su scala globale (ammesso che il problema sia quello di continuare a crescere). Il FMI valuta con preoccupazione le ripercussioni delle difficili situazioni economiche della Cina, del Brasile e della Russia sul corso dell’economia globale (ma anche le stime di crescita dell’America sono ritoccate al ribasso). Un breve inciso sulla Russia: in definitiva le sanzioni caldeggiate dall’America per l’annessione della Crimea e l’aiuto alle repubbliche di Donetsk e Lughansk, hanno creato una divisione fra Russia ed Unione Europea, a tutto vantaggio di Washington. I legami commerciali fra la Russia e l’Unione Europea, non limitabili alle sole risorse energetiche, hanno subito dei danni. Sappiamo da tempo che gli Stati Uniti hanno intenzione di vendere gas liquefatto all’Europa, e quindi anche per questo motivo provano, con lo strumento delle sanzioni, ad espellere la Russia da uno dei suoi maggiori mercati. Nello stesso senso vanno le politiche di alcune nazioni europee che pongono impedimenti e ostacoli al progetto Nord-Stream-2 , determinando un aumento della dipendenza della Russia dall’Ucraina per i diritti di transito sui metanodotti e oleodotti che attraversano il suo territorio. Uno degli effetti delle sanzioni è stata la parziale riorganizzazione del mercato interno, in quanto per rimpiazzare le merci sanzionate, la domanda nazionale russa si è orientata in gran parte verso i produttori autoctoni. In secondo luogo le sanzioni e la politica euro-atlantica hanno accelerato i processi integrativi e funzionali fra le economie e gli apparati statali-militari russi e cinesi, favorendo l’aggregazione intorno al blocco capitalistico russo-cinese di paesi come l’India, l’Iran, la Siria, e vari altri paesi del sud-America e dell’Africa. Se uno degli obiettivi delle sanzioni era di accrescere le difficoltà dell’economia russa e di favorire successivi disordini sociali, per poi ammorbidire o danneggiare il concorrente imperiale, ebbene per ora l’obbiettivo non è stato raggiunto. Non bisogna stupirsi, gli stessi fattori di debolezza del proletariato mondiale, intesi come l’insufficiente livello di potenza delle lotte economico-sindacali, e la conseguente incapacità di affermazione di un partito e di un programma comunista, giocano a favore della conservazione dello status quo sia in Russia che in America. Secondo alcuni centri di studi americani uno dei principali obbiettivi strategici di Washington dovrebbe essere l’affievolimento dei rapporti fra Germania e Russia, e il motivo è semplice; le risorse industriali, scientifiche e tecnologiche tedesche, congiuntamente alle risorse energetiche russe, e alla potenza del suo apparato militare-industriale, rappresenterebbero un pericolo ‘esistenziale’ per gli Stati uniti. Si tratta di ipotesi e di scenari che rientrano nel campo del possibile, tuttavia un dato di fatto è rappresentato dal ‘Trattato Transatlantico sul Commercio e gli Investimenti (TTIP)’, una vera e propria serie di misure protezionistiche degli Stati Uniti, finalizzate (per quanto possibile, e una volta approvate dai soci-vassalli europei) a creare ostacoli all’attività della concorrenza commerciale di Cina e Russia. Anche il Partenariato Trans-Pacifico può essere letto, in prospettiva, come la base per un blocco commerciale protezionistico in Asia. Torniamo ora all’Europa. La crescita della cosiddetta ‘zona euro’ è anch’essa ritoccata al ribasso, questa volta dalla Commissione Europea, che prevede una crescita della zona euro pari a 1,7%, rispetto al precedente 1,8% previsto nell’autunno scorso. L’esecutivo comunitario scrive, nel novembre 2015, ‘La crescita continua a tassi moderati in Europa, ma settori significativi dell’economia mondiale stanno facendo i conti con sfide di prima importanza…la ripresa è lenta, sia in termini storici che rispetto ad altre economie avanzate’.
In controtendenza con le preoccupazioni del FMI, altre ‘autorevoli’ fonti giornalistiche preconizzano un ruolo fondamentale della Cina nel determinare la direzione dell’economia mondiale e dei flussi di capitale. Le interessanti letture delle strategie di politica economica del governo cinese, contenute nei giornali economico-finanziari della borghesia, sono di sicuro più attendibili e verosimili della ‘nouvelle vague’ nostrana sul ‘capitale autonomo’. Vediamo cosa sostengono questi ‘cervelli’ economici borghesi sulla propria stampa, e lasciamo da parte le elucubrazioni sul ‘capitale autonomo’: l’importanza della Cina sulle sorti capitalistiche globali non sarà data dal rallentamento della sua economia, perché come mostrano gli ultimi numeri sulla produzione industriale, le misure di stimolo dell’economia stanno producendo degli effetti positivi. Quindi alcuni analisti economici affermano che in Cina gli investimenti stanno ripartendo, spinti dalle maggiori risorse messe a disposizione dai governi locali (ecco lo stato che a sua volta diventa forza economica) per la costruzione di infrastrutture. Anche il settore economico rappresentato dalle imprese a controllo pubblico sta investendo di più. Secondo tale analisi questi fatti segnano un ritorno al vecchio modello cinese di crescita fondato su investimenti ed esportazione di merci. Un modello dal quale la Cina stava cercando di uscire (aumentando il volume di investimenti in capitale finanziario, e anche il volume di investimenti diretti di capitale aziendale produttivo in altre economie nazionali, intendendo con il termine ‘investimenti diretti di capitale aziendale’, la creazioni ex novo di aziende funzionanti, o l’acquisizione/controllo di aziende già esistenti e funzionanti). Gli stessi analisti economici borghesi rilevano che le autorità politiche cinesi, negli ultimi mesi, hanno dovuto confrontarsi con una frenata dell’economia più forte del previsto, e quindi hanno deciso di cambiare linea di politica-economica, nella previsione che un alto livello di disoccupazione nel settore industriale, determinato dall’accentuazione dell’investimento di capitali all’estero o nella sfera finanziaria, potesse creare disordini sociali e minacciare la stabilità politica della borghesia cinese. La politica economica di ritorno agli investimenti di capitale nei settori industriali interni, sia pure per costruire infrastrutture inutili, ha il sapore keinesiano del rilancio dell’economia in direzione dei consumi interni, l’effetto di tali manovre è la cosiddetta e auspicata leva sulla domanda globale di beni e servizi, previa erogazione di un reddito da destinare al consumo. In parole povere si cerca di far girare l’economia e di tenere buoni i sudditi del capitale, continuando ad offrirgli un lavoro alienante nelle fabbriche totali, e un salario appena in grado di garantire la loro sopravvivenza biologica (3). Tuttavia, al di là della costruzione di infrastrutture, una parte del capitale investito nel settore industriale ‘interno’ è destinato alla produzione di merci. Una quota della produzione di merci sarà esportata e venduta a prezzi competitivi (pensiamo al plus-valore assoluto realizzato nelle fabbriche totali), e dunque, pensando a questi ultimi aspetti, è facile comprendere il perché delle previsioni fiduciose (di alcuni analisti economici) sull’economia cinese. Il calo del prezzo del petrolio, l’incremento dello sfruttamento della forza-lavoro (plus-lavoro/plus-valore assoluto), il maggiore impiego di capitale costante, determina una caduta dei prezzi di produzione, contribuendo ulteriormente al deprezzamento della moneta (Yuan) in termini reali. Una svalutazione lenta dello YUAN potrebbe essere vista come un fattore economico positivo dal resto delle economie capitalistiche del mondo, dato che soprattutto le economie ‘avanzate’ soffrono di una domanda inadeguata, l’importazione di merci meno costose dalla Cina potrebbe aiutare ad aumentare i consumi interni. Come si può ben arguire, i cervelli più fini della borghesia provano ad analizzare il trend di sviluppo economico globale, ‘ritrovando’ sparsi in giro dei segnali da interpretare in vario modo (privilegiando comunque letture moderatamente ottimistiche). Torniamo ora brevemente ai dati economici statunitensi. Da qualche anno alcune agenzie di disinformazione blaterano con insistenza di ripresa dell’economia americana, fornendo numeri di crescita del PIL oscillanti fra il 2% e il 5%. Anche per il 2016 le previsioni di crescita si aggirano su una forbice numerica che va dal 2% al 5%. Possiamo usare il termine ‘crescita drogata’ per riferirci a questi numeri, ammesso che abbiano un senso economico reale. Tentiamo di comprendere come fa il capitalismo americano a ricrescere, sia pure di poco, dopo il botto del 2008. Le vie del capitale in questa fase non sono infinite, anzi non sono neanche delle vie al plurale, trattandosi infatti di una sola via, quella di sempre, ovvero l’aumento dell’estorsione di plus-lavoro/plus-valore alla forza lavoro, e in seguito l’impiego del bottino ottenuto dallo sfruttamento nella sfera finanziaria. Tuttavia l’impiego del plus-valore nel ramo finanziario non crea ricchezza effettiva (beni e sevizi), bensì sposta semplicemente la ‘ricchezza’, il plus-valore prodotto nell’economia reale, dalle tasche del capitale industriale a quelle del capitale finanziario-usuraio. In altre parole si ripete un copione che va avanti da più di un secolo: in prossimità di una crisi economica da sovrapproduzione, determinata dalle cause schematizzate nel modello esposto all’inizio, si acutizzano le tendenze della classe borghese parassitaria a ricercare nella sfera finanziaria una compensazione alla caduta del saggio di profitto nell’economia reale produttrice di beni e servizi. In ‘Chaos Imperium’ abbiamo mostrato con una serie di tabelle numeriche dettagliate, partendo dal 1970 fino a giungere ai nostri anni, la precedenza delle crisi economiche rispetto a quelle finanziarie. Dunque è la caduta storica del saggio di profitto, determinata dalla variazione della composizione organica del capitale, a rappresentare il vero problema per l’economia borghese, e non certo le turbolenze, le speculazioni e gli imbrogli della sfera finanziaria. Al problema reale della propria economia la classe borghese oppone la cura consequenziale dell’aumento dello sfruttamento. Questo aumento non significa solo ritmi di lavoro più intensi (aumento della produttività/plus-valore relativo), o allungamento della giornata lavorativa (plus-valore assoluto), ma anche il furto del salario indiretto-differito, cioè le pensioni, i servizi sociali e via dicendo. Pensiamo ad esempio alle recenti discussioni politiche sul taglio alle pensioni di reversibilità, alla riforma Fornero che obbliga i settantenni a continuare a lavorare, o ai tagli alla sanità, e avremo un indizio dell’importanza ‘basica’ del furto di salario indiretto-differito, come ulteriore strumento di sfruttamento (rispetto ai normali strumenti di sfruttamento dati dai ritmi di lavoro più intensi o dall’allungamento della giornata lavorativa, che colpiscono invece il salario diretto). Il quadro non sarebbe completo se dimenticassimo l’incremento dello sfruttamento reale causato dall’aumento dell’imposizione fiscale, sui beni e sui servizi di primaria importanza (casa, energia elettrica, trasporti, sanità, istruzione). Gli aumenti del carico fiscale sulle tasche dei proletari contribuiscono a formare l’aggregato numerico-percentuale dell’inflazione, il caro-vita. Negli ultimi decenni sono state smantellate alcune conquiste come la scala mobile, e di conseguenza, oggigiorno, l’inflazione dovrebbe essere parzialmente compensata con altri automatismi retributivi (ancora più insufficienti della vecchia scala mobile), oppure con gli aumenti contrattuali (se dovessero esserci). Lo stato agisce come vero e proprio agente della minoranza sociale borghese, quando impone ai proletari tributi e imposte per pagare gli interessi sul debito pubblico (posseduto dal capitale finanziario-usuraio). Alla faccia dell’autonomia del capitale, si può verificare quindi praticamente, ancora una volta, l’importanza dell’apparato statutale, come strumento funzionale agli interessi della classe dominante (sia come riserva di forza latente-potenziale e attuale-cinetica per difendere e conservare l’ordine sociale borghese, sia come supporto legislativo-fiscale e politico-economico a un modo di produzione incapace di proseguire con le proprie forze). In relazione a questa funzione di supporto statale all’economia citiamo solo (in Italia) i numerosi salvataggi delle banche e le defiscalizzazioni, cioè gli incentivi per attrarre investimenti, ma anche e soprattutto le norme contenute nelle riforme come il ‘Jobs Act’, o la riforma della ‘buona scuola’ con le sue quattrocento ore gratuite di alternanza scuola-lavoro (obbligatorie per gli studenti del quarto anno delle superiori). Un piccolo inciso, lo stato borghese italico, attraverso la riforma pensionistica Fornero e la riforma scolastica di Renzi, ha messo in atto delle misure estreme per la sopravvivenza del modo di produzione capitalistico, estendendo la coercizione lavorativa a nuove fasce di età, sia giovanili che senili. Abbiamo solo pochi precedenti storici di ‘rastrellamento’ di giovani e anziani nei momenti di massimo pericolo per un regime sociale, ma lasciamo alla fantasia del lettore l’individuazione di questi precedenti. Tornando alla questione dei salvataggi delle banche, è importante ricordare che in base al principio della socializzazione delle perdite, i costi vengono scaricati, attraverso l’imposizione fiscale, sulle tasche del proletariato, che, in tal modo, è costretto a finanziare i propri sfruttatori. Anche negli USA sono stati condotti dalle autorità governative dei salvataggi di alcune importanti banche, costati oltre 2000 miliardi di dollari (dopo il crack di Lehman Broters), ma soprattutto la FED ha stampato quasi 3600 miliardi di dollari negli ultimi anni per pompare liquidità nell’economia. Questa massa di valore cartaceo è poi finita in buona parte nella sfera finanziaria, permanendo, evidentemente, le difficoltà ‘sistemiche’ di una adeguata spremitura di plus-valore nell’economia reale. Le misure di supporto fiscale e valutario della sovrastruttura statale americana alla propria struttura economica hanno prodotto una crescita drogata, vanamente magnificata da vari organi di informazione, che solo ‘en passant’ ricordano che l’altro effetto di queste misure è stato l’aumento spaventoso del debito pubblico, ormai aggirantesi intorno ai 20.000 miliardi di dollari ufficiali (il rapporto PIL debito pubblico è passato dal 65% del 2007 al 105 % del 2015, non considerando i debiti delle famiglie e delle imprese americane). In conclusione, si può ipotizzare che i recenti scossoni registrati nei mercati finanziari e borsistici mondiali segnalino, principalmente, le persistenti difficoltà per il capitale di drenare plus-valore adeguato nell’economia reale (4). Se tale ipotesi risultasse veritiera, si dovrebbe prevedere, per l’anno 2016 e per i prossimi anni a venire, una intensificazione del confronto/scontro fra i blocchi imperiali concorrenti (per il controllo delle risorse energetiche e il bottino di plus-valore) e l’aumento del grado di sfruttamento della forza-lavoro mondiale ( attraverso la gamma di strumenti diretti e indiretti – volti a colpire il salario diretto e indiretto – prima menzionati: aumento della produttività, allungamento della giornata lavorativa, riduzione diretta, e indiretta, cioè caro-vita, delle retribuzioni, e quindi imposizione fiscale sui beni e servizi di primaria importanza, estensione della coercizione lavorativa, ove possibile, a fasce di età di giovanissimi e di anziani). La difesa immediata delle proprie condizioni di vita, da parte del proletariato, potrebbe manifestarsi in modo più intenso proprio in ragione del grado di intensificazione dei livelli di sfruttamento e di impoverimento che sono in atto da sempre, in modo tendenziale, come aspetti sistemici del modo di produzione capitalistico.
(1).Senza attingere vertici speculativi, basta intendere in pratica che se i fenomeni concreti osservabili e registrabili nei cento anni da che il metodo si applica e nei cento – mettiamo – che verranno, andassero in altra direzione, allora si concluderebbe che la costruzione del modello, la scelta delle grandezze, le relazioni tra esse calcolate, e tutto il resto, tutto è da buttar via, come avvenuto storicamente per moltissime costruzioni dottrinarie che volevano riprodurre i modi di essere di “fette” del mondo naturale, e di quella speciale fetta che è la società umana, e che – non senza avere avuto storico effetto – scomparvero come teorie. Dunque noi non cerchiamo la prova che il nostro modello è valido, e le leggi fedeli al processo reale, in particolari virtù dello spirito, nelle pretese interne proprietà assolute del pensiero umano, meno che giammai nella potenza cerebrale di un genio scopritore, comparso nel mondo; non certo poi nella volontà eroica di una setta, e nemmeno di una classe sociale rivoluzionaria. ‘Vulcano della produzione…’
(2).Abbiamo visto che la stessa classe borghese, la quale vanta di avere per la prima eretta una scienza economica, prese audacemente a maneggiare modelli, e stabilire grandezze da introdurre nel calcolo economico e nella costruzione di leggi che applicò al divenire della società umana organizzata e moderna. Ma ciò fu appunto perché era quella allora una classe rivoluzionaria, ed attuava forse la più grande rivoluzione della storia, per la quale occorrevano braccia che impugnavano armi non meno che teste pervase da una teoria (e che fosse sotto forma di fede e di fanatismo, si inquadra nella nostra spiegazione della storia in modo totale). Quando dalla gioventù di Marx noi gridiamo che non vi è movimento rivoluzionario senza teoria rivoluzionaria, non intendiamo dire che solo il movimento operaio è rivoluzionario e sola teoria rivoluzionaria è quella comunista. Noi applichiamo quella enunciazione a tutte le rivoluzioni, e non vogliamo con questo dire (né per quelle precomuniste né per la nostra) che ogni cenacolo intellettuale possa fabbricare una teoria e con ciò suscitare una rivoluzione! Le forze profonde che sconvolgono l’organizzazione sociale a un dato (raro) svolto dei cicli, come assumono la forma di contrasti economici e produttivi e di scontri tra gruppi e classi di uomini, così prendono quella di una battaglia di nuove fedi contro le antiche, e anche, non è difficoltà ad ammetterlo, di miti contro miti.’Vulcano della produzione…’
(3).La tesi marxista che i ceti medi scompariranno non si prende nel senso che in tempo prossimo in tutti i paesi sviluppati debbano esservi solo capitalisti, grandi proprietari, e salariati, ma invece che delle tre classi tipo solo quella proletaria può lottare e deve lottare per l’avvento del nuovo tipo sociale, del nuovo modo di produzione. Dato che questo comporterà l’abolizione del diritto sul suolo e sul capitale e quindi l’abolizione delle stesse classi, quando abbia ceduto la resistenza delle attuali due classi dominanti non vi sarà per le classi minori posto in una forma di produzione, che non sarà più privata e mercantile. Esse non possono legare le loro forze che alla causa della conservazione delle classi sfruttatrici, o in certi casi, e per effetto subcosciente, a quella della classe proletaria, ma quello da cui sono escluse è lottare per un tipo di società “loro proprio”. Di qui non la loro attuale o prossima inesistenza e nemmeno la loro assenza totale da lotte economiche, sociali o politiche; solo la certezza che non hanno un compito proprio e che hanno importanza secondaria e non possono essere messe sullo stesso piano della classe salariata, ove si tratti di uno scambio di aiuti; mentre è fase nettamente regressiva della rivoluzione anticapitalista quella in cui il proletariato sostituisce alle sue le esigenze di tali classi e si confonde tra esse nella organizzazione o nelle famigerate alleanze e fronti.’Vulcano della produzione…’
(4). Ci riferiamo innanzitutto al solito aspetto della variazione della composizione organica del capitale, nei processi produttivi economico-aziendali, e quindi alla preponderanza del macchinario (capitale costante) a discapito del capitale variabile (cioè la forza-lavoro, unica fonte reale di plus-valore), non dimenticando che questa preponderanza del capitale costante è direttamente correlata alla caduta tendenziale del saggio medio di profitto. In secondo luogo ci riferiamo alla difficoltà di monetizzare, nella sfera della circolazione-distribuzione, il plusvalore carpito nella sfera della produzione sotto forma di plus-lavoro operaio incorporato nelle merci. In ‘Chaos Imperium’ abbiamo mostrato che riducendosi, storicamente, la quantità di plus-valore contenuto nella singola merce, le imprese concorrenti che formano il reticolo dell’economia capitalistica, si vedono obbligate ad aumentare la quantità di merci prodotte per compensare la riduzione del plus-valore in esse precedentemente racchiuso. In altre parole, le singole unità capitalistico-imprenditoriali, per sopravvivere sui mercati concorrenziali, devono ridurre i costi di produzione per vendere i prodotti a prezzi competitivi, di conseguenza devono costantemente ampliare le dimensioni aziendali (o attraverso la concentrazione, cioè il potenziamento di valore di uno stesso capitale, oppure attraverso la centralizzazione, cioè l’unione o l’incorporamento di diversi capitali aziendali). Tuttavia, nella sfera della circolazione-distribuzione, le merci incontrano delle difficoltà ad essere vendute, poiché l’impoverimento tendenziale di larga parte della popolazione, determinato in buona misura dalla crescita di un esercito industriale di riserva, espulso dai processi produttivi dall’aumento del capitale costante/macchinario, indebolisce pure la domanda globale di beni e servizi. In altre parole, indebolisce la platea di clienti in grado di comprare le merci ai prezzi adeguati al profitto previsto dalle imprese. Consideriamo che le imprese devono realizzare, attraverso la vendita del prodotto, il recupero del costo di produzione (quota capitale costante+quota capitale variabile+quota saggio medio sociale di profitto) tipico dell’economia borghese. Paradossalmente gli stessi processi concorrenziali che spingono le imprese a introdurre maggiore capitale costante nei processi produttivi, per produrre più merci a costi di produzione inferiori, trasformano poi in masse di disoccupati i lavoratori precedentemente occupati, che diventano quindi clienti incapaci di comprare le merci offerte sul mercato (ai prezzi adeguati al al costo di produzione).