Nota redazionale: Anno 1949, l’articolo ‘Marxismo e Miseria’ inizia con la registrazione di alcuni dati storici relativi al periodo precedente alla prima guerra mondiale, ai tempi successivi alla prima guerra mondiale e al periodo successivo alla seconda guerra mondiale: ‘Per lunghi decenni di capitalismo “idilliaco” i rapporti di cambio delle monete dei vari Stati del mondo si conservarono stabili e le oscillazioni si registravano a decimali..(dopo la fine del primo conflitto mondiale, n.r) nei paesi vinti si ebbe invece la tragedia della inflazione e marchi e fiorini e rubli scesero a precipizio a millesimi e milionesimi dell’iniziale valore; a Vienna e Berlino si girò per la spesa con valigette di banconote e a Mosca si equivocava scherzosamente tra milione e limone, parole che si dicono in russo alla latina’...’Nell’interguerra la borghesia, che “non può esistere senza rivoluzionare di continuo i modi e i rapporti della produzione e tutto l’insieme dei rapporti sociali” ha – essa sì – progredito, ha studiato ed imparato. Alla scala nazionale i corsi di professori Mussolini ed Hitler, cui i roghi non hanno tolto la qualità di precursori, le hanno insegnato irrevocabilmente che il potere statale al suo servizio non è solo arnese di polizia e strumento politico di dominio e di corruzione dei capi proletari nei parlamenti o nelle gerarchie, ma deve diventare macchina di regolazione economica della produzione della distribuzione e last but not least dello strumento monetario’….”La nuova centrale mondiale capitalistica è dunque sorta molto più avveduta che a Versailles e a Ginevra, con levatrici meno primitive di quel graveolente Wodrow Wilson. I comandamenti del nuovo testamento borghese sono molti e gravi, tra essi: tu non lascerai di occupare militarmente il paese vinto; tu fucilerai i tuoi colleghi capi rei di aver perduto, e non ne lascerai il disturbo alla autodecisione dei loro sudditi; tu non lascerai precipitare le monete nel paese di occupazione ma lo fregherai maggiormente spendendoci carta straccia da te stampata; tu non lascerai andare alla deriva la moneta degli alleati minori ma ne controllerai le quote…’.
La borghesia ha dunque studiato e imparato, anche dalle esperienze storiche del nazismo e del fascismo, che‘ il potere statale al suo servizio non è solo arnese di polizia e strumento politico di dominio e di corruzione dei capi proletari nei parlamenti o nelle gerarchie, ma deve diventare macchina di regolazione economica della produzione della distribuzione e last but not least dello strumento monetario’.
La borghesia impara dalle esperienze storiche, e d’altronde essa “non può esistere senza rivoluzionare di continuo i modi e i rapporti della produzione e tutto l’insieme dei rapporti sociali”, e quindi la ‘nuova centrale mondiale capitalistica è dunque sorta molto più avveduta che a Versailles e a Ginevra, con levatrici meno primitive di quel graveolente Wodrow Wilson’.
La borghesia impara a prevenire in modo sempre più efficace i rischi di una crescita ingestibile del conflitto sociale, questi rischi erano diventati realtà già nel primo dopoguerra: ‘ Le spaventose inflazioni dell’altro dopoguerra misero a nudo la “precarietà” economica denunziata dal marxismo nella economia capitalistica dei tempi stabili e dettero la sensazione di una tale precarietà ai ceti sociali medi che da una falsa illusione di agiatezza precipitarono nella nullatenenza’.
L’esperienza storica del primo dopoguerra ha evidenziato l’esistenza di ‘fatti’ che i riformisti/progressivi di oggi (anno 1949) vogliono a tutti i costi evitare: ‘Si verificarono punto per punto i fatti che i progressivi di oggi vogliono scongiurare, come le richieste esposte nella mozione del PCI con maggiore lucidità che non nei catechismi dei Marshall o dei Cripps’.
Contenimento dell’inflazione, svalutazione competitiva della valuta nazionale, e quindi sostegno alle esportazioni (e ai profitti aziendali): ‘ Valuta bassa perché, se no,il paese è fregato dal dumping monetario (leggi: gli industriali che producono per la esportazione ricavano dalla vendita dei loro prodotti all’estero troppo poche lire e resta loro poco margine di guadagno; svalutiamo la lira e una automobile a pari costo renderà, venduta a mille dollari, 700 mila lire e non 600 mila), ma valuta ufficialmente stabile tipo discorso di Pesaro, così i prezzi non salgono troppo e la spoliazione dei ceti medi è frenata, politica dunque della produttività e del risparmio, quindi politica nazionale – diavolo! – poiché la illimitata inflazione solleverebbe lo scompiglio generale. E quindi programma di investimenti (questa poi sì che è buona) e di “riforme di struttura”.
Anno 1949, la ricetta capitalistica è incentrata su politiche di contenimento dell’inflazione (poiché la illimitata inflazione solleverebbe lo scompiglio generale), e sulla svalutazione competitiva (Valuta bassa) per favorire i profitti delle aziende esportatrici. Le notizie ansiogene (dell’epoca) sulla svalutazione della sterlina vengono inquadrate nello schema interpretativo marxista: ” (la borghesia) non può esistere senza rivoluzionare di continuo i modi e i rapporti della produzione e tutto l’insieme dei rapporti sociali”, e quindi: ‘Come la marcia su Roma fu una rivoluzione-commedia così il terremoto di oggi per la svalutazione della sterlina è una abile tappa di assestamento e non un segno di catastrofe per il capitalismo inglese, bene arruffianato dal potere social-laburista, è un terremoto-burletta…’.
Dunque, annoverando le misure di politica economica e valutaria del secondo dopoguerra fra gli strumenti migliori e più efficaci di assestamento e messa in sicurezza dell’edificio capitalistico, si potrebbe erroneamente dedurre che i rischi sociali, connessi alla ‘illimitata inflazione (che) solleverebbe lo scompiglio generale’ siano definitivamente scongiurati. Torniamo allora brevemente al concetto di miseria, così come viene inquadrato nella teoria marxista: ‘Miseria nel nostro dizionario economico marxista non significa “bassa remunerazione del tempo di lavoro”. Si capisce che il capitalismo se monopolizza forze produttive tali – fregate allo sforzo di tutti – da avere lo stesso prodotto con dieci volte di meno operai, può a cuor leggero vantare di aver raddoppiato i salari. Il plusvalore relativo e assoluto è enormemente cresciuto e cresce l’accumulazione in massa; ma di ciò al suo luogo. Miseria significa invece “nessuna disposizione di riserve economiche destinabili al consumo in caso di emergenza”. Il diffondersi “progressivo” nelle popolazioni di tali condizioni è la caratteristica fondamentale storica del tempo capitalistico’.
Dunque, a dispetto di ogni misura preventiva (economico-valutaria), mirante a scongiurare l’attualizzazione/realizzazione dell’ingestibilità (potenziale) del conflitto sociale, si erge l’orizzonte sistemico del ‘diffondersi “progressivo” nelle popolazioni di tali condizioni, cioè (“nessuna disposizione di riserve economiche destinabili al consumo in caso di emergenza”), e sono proprio queste condizioni ‘la caratteristica fondamentale storica del tempo capitalistico’.
Il capitalismo, nella sua accumulazione primitiva, vuota le borse, le case, i campi e le botteghe di una platea di soggetti economico-sociali che in precedenza non erano in stato di pauperismo:’ In epoca preborghese l’artigiano il contadino lo stesso servo della gleba non erano in stato di pauperismo, anche quelli a più basso tenore di vita. Tanto meno vi erano i costituenti il ceto medio, piccoli proprietari, piccoli esercenti, funzionari, etc. Il risparmio non era stato inventato, ed era meno facile ridurli al verde. Buona parte della moneta era ancora in oro e argento. Con la sua accumulazione primitiva il capitalismo vuota le borse le case i campi le botteghe di tutti questi, e in numero sempre maggiore e ne fa dei pauperes, dei miseri, dei senza-riserva, dei nullatenenti, li riduce ad essere “schiavi salariati” nel senso di Marx. Cresce la miseria e si concentra la ricchezza perché cresce a dismisura il numero assoluto e relativo dei proletari nullatenenti, che devono mangiare ogni giorno ciò che quel giorno hanno guadagnato’.
L’orizzonte di questa legge tendenziale dello svolgimento socio-economico del capitalismo è di tipo sistemico, perché il ‘capitalismo non può vivere senza crescere, senza espropriare piccoli possidenti e aumentare il numero dei proletari’.
Dunque, in termini di logica di sistema, le misure politico-economiche messe in atto dalle sovrastrutture politico-statali borghesi (nel secondo dopoguerra e fino ai nostri giorni) fungono da semplice controtendenza (reattiva e secondaria), rispetto alla tendenza primaria alla pauperizzazione (Cresce la miseria e si concentra la ricchezza).
Volendo scendere nel dettaglio relativo alla situazione delle politiche tributarie dell’Italia di oggi, cartina da tornasole anche per la comprensione delle politiche di altre realtà ‘nazionali’, si può realisticamente sostenere che i recenti aumenti dell’imposizione fiscale/tributaria sulla casa ( IMU, rendita catastale...), sui servizi comunali (rifiuti, illuminazione…), e via discorrendo, sono direttamente inseribili in questo tracciato storico di collegamento con :‘l’accumulazione primitiva (in cui ) il capitalismo vuota le borse le case i campi le botteghe di tutti questi (l’artigiano, il contadino, lo stesso servo della gleba), e in numero sempre maggiore e ne fa dei pauperes, dei miseri, dei senza-riserva, dei nullatenenti, li riduce ad essere “schiavi salariati” nel senso di Marx’.
Poiché, ripetiamolo, il ‘capitalismo non può vivere senza crescere, senza espropriare piccoli possidenti e aumentare il numero dei proletari’.
Dunque, concentrazione e centralizzazione dei capitali sul piano economico-aziendale, e in parallelo, crescita sul piano sociale della miseria e della concentrazione della ricchezza (in altri termini: proletarizzazione dei ceti medi,‘precarietà ai ceti sociali medi che da una falsa illusione di agiatezza precipitarono nella nullatenenza’, e distruzione progressiva delle garanzie patrimoniali, come la casa e il conto in banca, per una frazione di proletariato che aveva raggiunto tali ‘conquiste’ nei periodi di espansione del ciclo economico, perché: ‘In fase ascendente, di espansione, di prosperità:– aumenta il numero dei salariati occupati nell’industria;– aumenta anche il saggio dei salari;– aumenta anche la produttività del lavoro.In fase discendente,di contrazione,di crisi alternata:– aumenta, ma troppo lentamente, o staziona il capitale-salari totale;– seguita a crescere il numero dei proletari;– diminuisce quello degli operai occupati;– si forma e si allarga l’eccesso relativo di popolazione operaia o esercito di riserva’.
Riportavamo, nel lavoro sulla guerra come distruzione di capitale costante e variabile in eccesso, una citazione dal Capitale: ‘ La centralizzazione, aumentando ed accelerando in questa maniera gli effetti dell’accumulazione, estende ed accelera i mutamenti della composizione tecnica del capitale, che accrescono la sua parte costante a spese di quella variabile e quindi portano a una diminuzione nella domanda relativa di lavoro(…) La crescente estensione delle masse di capitali individuali diviene il fondamento materiale di una costante rivoluzione del modo di produzione stesso (…) la produttività del lavoro viene intensificata come in una serra calda (…) Una parte sempre più grande di capitale viene trasformata in mezzi di produzione, una parte sempre più piccola in forza lavorativa (pag.456)’.
Il nostro commento al passo del Capitale era il seguente: ‘Ecco di nuovo sottolineato il nesso fra centralizzazione aziendale dei capitali e rivoluzionamento del modo di produzione, nel suo collegamento con il processo inesorabile di riduzione della forza lavorativa e con il corrispettivo incremento dei mezzi di produzione tecnici. Il surplus di forza-lavoro proletaria inutilizzata diviene, quindi, una caratteristica ineliminabile e tendenzialmente crescente del processo produttivo del capitale, la cui pericolosità per l’equilibrio sociale borghese pone la classe dominante di fronte al feroce dilemma della scelta del mezzo più adeguato per la disattivazione di questa minaccia che è sociale e politica insieme. Il malcontento sociale, infatti, superata una certa soglia di manifestazione genericamente distruttiva (vandalismo, ribellismo anarcoide, devianza sistemica di massa…), potrebbe prima o poi canalizzarsi sui binari ben più pericolosi della lotta politica, in altre parole, sfociare sul piano del rovesciamento rivoluzionario del potere politico esistente’.
Il tema della crescita dell’esercito industriale di riserva, nei tre testi del 1949 qui riportati, viene esposto in modo da evitare equivoci di ogni tipo:’ (Marx) costruisce la sua legge generale nel senso che, con la diffusione e la accumulazione del capitalismo, checché accada del saggio di remunerazione dei salariati momentaneamente occupati nelle aziende, cresce il numero assoluto e relativo di tutti quelli che stanno in riserva non avendo nemmeno i proventi del lavoro delle proprie braccia. Al quarto paragrafo dello stesso capitolo egli perviene alla enunciazione della legge in parola, che va sotto il nome della legge della miseria crescente: “La grandezza relativa dell’esercito industriale di riserva cresce insieme con le potenze della ricchezza. Ma quanto più l’armata di riserva è grande in rapporto all’armata attiva del lavoro, tanto più massiccia è la sovrappopolazione stagnante,la cui miseria sta in rapporto inverso al suo tormento di lavoro. E infine, quanto più vasti sono gli strati di Lazzari della classe operaia e l’armata industriale di riserva, più grande è il pauperismo ufficiale”.
Nell’ottica/preoccupazione di ribadire la corretta analisi marxista del fenomeno relativo agli aumenti salariali, fenomeno utilizzato in modo pretestuoso dai riformisti/progressivi per sostenere la via democratico-parlamentare al socialismo (ieri e oggi), il terzo e ultimo testo in ordine di pubblicazione degli scritti del 1949, riporta in sintesi l’intera suddivisione marxista della classe proletaria: ‘Quindi Marx divide tutta la popolazione proletaria, la classe proletaria, in questi strati: 1. Esercito industriale attivo, operai occupati. 2. Sovrappopolazione fluttuante, operai che entrano ed escono dalle fabbriche per la evoluzione della tecnica e la diversa divisione del lavoro che arreca. 3. Sovrappopolazione latente, ovvero operai industriali che vengono quando occorra dalla campagna, non potendo vivere che difficilmente ai margini dell’economia agraria. 4. Sovrappopolazione stagnante, solo in rari momenti chiamata nella grande industria, lavoratori a domicilio, operai di attività marginali a scarsissimo salario. 5. Pauperismo ufficiale: a) disoccupati cronici sebbene attivi al lavoro; b) orfani o figli di poveri; c) invalidi e inabili al lavoro, vedove, ecc. 6. Fuori della classe operaia e nel cosiddetto «Lumpenproletariat», delinquenti, prostitute, malavita. Sorto ed in crescenza il capitalismo, tutta questa massa perde, per effetto dei processi espropriativi, ogni possibilità di vivere che non sia il salario. Ma intanto una sola fortunata minoranza riceve il salario. Il resto vive come può. Le leggi di popolazione degli economisti borghesi sono illusorie; la realtà è che i vari ondeggianti strati meno lavorano e peggio vivono, più prolificano come «certe specie animali deboli e continuamente perseguitate».
Ancora nel testo sulla guerra, precedentemente citato, ricordavamo che soprattutto la sovrappopolazione stagnante presenta nella lettura marxista dei caratteri ‘socio-demografici’ particolari: La sovrappopolazione stagnante, secondo Marx, possiede proprio le caratteristiche della crescita sovrabbondante, da noi precisamente annoverate fra le criticità contro cui è diretta l’estrema ratio dello sterminio storicamente ricorrente di eccedenza operaia. Fino ad un certo punto la presenza di un esercito industriale di riserva costituisce un fattore funzionale alla brama di valorizzazione del capitale, Marx lo ricorda in modo dettagliato, eppure, descrivendo la forma stagnante della sovrappopolazione relativa, viene annotata una peculiarità posseduta in modo specifico solo (soprattutto n.r) da questa forma, citiamo le parole di Marx ‘ Essa però costituisce contemporaneamente un elemento della classe operaia che si riproduce e si perpetua e che contribuisce all’aumento totale di essa in misura proporzionalmente più grande degli altri suoi elementi. Di fatto non solo la quantità delle nascite e dei decessi, ma anche la grandezza assoluta delle famiglie è in ragione inversa del livello del salario, e perciò della massa dei mezzi di sussistenza a disposizione delle diverse categorie di operai. Questa legge della società capitalistica risulterebbe assurda tra i selvaggi o persino tra gli abitanti di colonie civilizzate. Essa ricorda la produzione in massa di certe specie di animali individualmente deboli e continuamente cacciati’. Pag. 467.
Ora, in definitiva, la risposta all’obiezione dei riformisti/progressivi in merito agli aumenti salariali dei proletari occupati (aumento storicamente verificabile, che dovrebbe rafforzare l’ipotesi di un passaggio graduale, democratico al socialismo), tenuto conto della tendenza ineliminabile all’aumento dell’esercito di riserva(fluttuante, latente, stagnante,pauperismo ufficiale), trova questa precisa esposizione: ‘Nei calcoli sul riparto del plusvalore tra consumo personale dei padroni, destinazione a nuovi investimenti ed impianti fissi e materie, e destinazione a nuovi salari, bisogna fare attenzione a questo: non dividere la massa salari per il numero degli operai occupati, ma per il numero totale dei proletari. Nel primo caso si vede salire il saggio e si inneggia al capitalismo civile e progressivo. Nel secondo si vede crescere la fame e la miseria della sovrappopolazione e ingigantire l’antagonismo di Marx, premessa della rivoluzione sociale. La legge viene in piena luce. Più accumulazione, minor numero di borghesi. Più accumulazione, maggior numero di operai, ancor maggior numero di proletari semi-occupati e disoccupati, e di peso morto di sovrappopolazione senza risorse. Più accumulazione, più ricchezza borghese, più miseria proletaria’.
Dunque, dividendo la massa dei salari per il numero totale dei proletari e non per il numero degli operai occupati (quindi dividendo la massa dei salari per ‘tutta la popolazione proletaria, la classe proletaria …questi strati..’), si scopre che in realtà è la miseria e la fame della sovrappopolazione a crescere, ponendo in essere un fattore potenziale di incremento della conflittualità sociale (proprio quel fattore che i progressivi di ieri e di oggi si ostinavano e si ostinano a negare).
Parlando di ‘fattore potenziale’ ci riferiamo all’esistenza materiale di una condizione socio-economica, rilevabile facilmente, ad esempio in Italia, dalle stesse statistiche ufficiali sull’aumento della povertà assoluta e relativa. Sembra che il 10% della popolazione italica, cioè sei milioni di soggetti, graviti attualmente nella categoria della povertà assoluta, quindi si trovi nella situazione di sotto-nutrizione, disagio e precarietà abitativa, con annessa incapacità di ottenere cure medico-sanitarie adeguate. Questo dato spinge ulteriormente a riflettere sulle cose scritte nel 1949: ‘Miseria e pauperismo per l’economista filisteo sono il non aver da mangiare. Secondo il monaco cattolico citato da Marx vi provvede la carità, secondo i conquistatori odierni d’America, l’UNRRA. Miseria per Marx è quella per cui il Lazzaro proletario, per la “espansione e contrazione” incessanti della intrapresa borghese, entra e risorge dalla tomba della quotidiana mancanza di mezzi, e questa miseria cresce perché a dismisura cresce il numero di quelli che si trovano chiusi nelle barriere di queste due alternative: sgobbare per il capitale o fare la fame’.
In effetti, il monaco cattolico citato da Marx, indicando la provvidenziale carità messa in opera dal buon cuore dei donatori, ci suggerisce, tuttora, il nome di uno dei palliativi con cui la società contemporanea prova ad ‘alleviare’ la povertà (il pauperismo crescente prodotto dall’economia capitalistica). Eppure, nonostante i poderosi progressi della scienza e della tecnica moderna, nonostante le enormi capacità produttive dell’economia agraria in grado di impiegare questi progressi, nonostante la provvidenziale carità e i milioni di appartamenti vuoti; poco pubblicizzate dai media, avvengono quotidianamente (nelle nostre città) delle morti di ‘barboni’, di derelitti (le ‘persone ‘sfortunate’ che non ce l’hanno fatta, secondo l’ipocrita senso comune borghese). D’altronde, aumenta il numero dei pensionati poveri, e non solo, incapaci di curarsi, o di essere assistiti (e ‘badati’ da qualcuno), destinati a una estinzione a breve termine. I nostri, si fa per dire, riformisti/progressivi, ora non blaterano più come un tempo di società affluente, di aumento del benessere delle ‘classi popolari e lavoratrici’, anzi di scomparsa del ‘proletariato’. Il mantra ricorrente ora è un altro: la situazione economica è difficile, quindi chiediamo lavoro, lavoro, lavoro ( e per ottenere questo lavoro, aboliamo, ad esempio con il jobs act, alcuni/molti lacci e lacciuoli della precedente legislazione, ovviamente per consentire alle aziende una maggiore libertà di assunzione e di licenziamento). In base alla sempre verde ideologia/bugia per cui l’impresa capitalistica è l’unità basilare di produzione della ricchezza, mentre nella realtà essa è l’unità fondamentale di furto/appropriazione della ricchezza prodotta dal lavoro proletario, le varie maschere politiche del capitale si agitano, sudano, e blaterano ossessivamente, come nel balletto rituale dei tarantolati di cui parla l’etnologo Ernesto de Martino in ‘Sud e Magia’, di lavoro per il capitale: lavoro a buon prezzo, a basso costo, cioè a costo di non fornire neppure una retribuzione buona ad unire il pranzo con la cena.
‘Del resto il Manifesto aveva già detto che uno dei segni che la borghesia deve crepare è quello che diviene «incapace di dominare perché è incapace di assicurare al suo schiavo l’esistenza persino nei limiti della sua schiavitù perché è costretta a lasciarlo cadere in condizioni tali da doverlo poi nutrire anziché esserne nutrita».
MARXISMO E MISERIA
Ieri
Per lunghi decenni di capitalismo “idilliaco” i rapporti di cambio delle monete dei vari Stati del mondo si conservarono stabili e le oscillazioni si registravano a decimali. Era lo stesso periodo in cui con fiumi d’inchiostro si affermò fallita la “catastrofica” visione di Marx sulla crescente miseria, le crisi galoppanti e il crollo rivoluzionario del sistema economico borghese, e vi si volle sostituire una concezione evoluzionista di lenta trasformazione della struttura economica con riforme progressive tendenti a migliorare il tenore di vita delle masse…
Qualche gioco in borsa lo permettevano le divise degli Stati insufficientemente borghesi del vicino e lontano Oriente, i titoli di rendita turca e simili imbrogli: di truffe in grande stile la storia della economia capitalistica non ha difettato in nessun periodo. Comunque era cosa sicura quanto la trinità di Dio che la sterlina valesse cinque dollari, e il dollaro cinque franchi o lire della zona latina. Benché a detta dei saggi infetta di feudalesimo, l’Italia felice dei primi anni di regno di Vittorio il vittorioso aveva la lira carta quotata certi giorni a 99,50, 99,00, forse 98 e frazione, ossia si aveva per una lira carta più di una lira oro, un grammo di oro valeva meno di L. 3,60; mentre i titoli di stato valevano più delle cento lire nominali.
Fu la guerra del 1914 a determinare un terremoto nelle visioni evoluzioniste e pacifiste, che ebbe anche l’aspetto del terremoto monetario. Nei paesi sconfitti il valore della moneta precipitò in modo, quello sì, progressivo. L’Italia paese vincitore dovette accontentarsi di vedere scendere la lira carta da un quinto a un diciannovesimo di dollaro, da un venticinquesimo a un novantesimo di sterlina, da qualche linea più di una lira oro a meno di un quinto, il che senza continuare coi numeri ricorda che una certa scossa la ebbero anche sterlina e dollaro, tra di essi e rispetto all’oro.
Dalle fesserie riformiste si tentò di passare alla azione rivoluzionaria, ma qui in Italia finì collo stabilizzarsi il potere e la moneta borghese.
Nei paesi vinti si ebbe invece la tragedia della inflazione e marchi e fiorini e rubli scesero a precipizio a millesimi e milionesimi dell’iniziale valore; a Vienna e Berlino si girò per la spesa con valigette di banconote e a Mosca si equivocava scherzosamente tra milione e limone, parole che si dicono in russo alla latina. Non si equivocò però tra empiastri riformisti e rivoluzione, e aristocratici, capitalisti, capi politici popolari e progressivi ne seppero qualche cosa. Vienna, Budapest, Monaco, Berlino erano più a portata di mano dei poteri capitalistici a moneta rivalutata, i capi progressivi locali erano ad ordini ed aiuti più diretti dell’ingranaggio internazionale postbellico, istituito sotto gli auspici del dollaro per l’alleanza delle nazioni e la auto-decisione dei popoli, e le insurrezioni del proletariato per buttare la baracca del potere politico nello stesso baratro in cui era precipitata la moneta borghese potettero essere affogate democraticamente nel sangue.
Contro il vincente proletariato russo non rimase che l’attacco militare diretto che gli anni gloriosi della rivoluzione stroncarono. La Centrale mondiale tentata a Ginevra nella sua prima edizione svolgeva la difesa dell’ordine capitalistico internazionale solo sul piano diplomatico politico e militare, non rispondeva ancora ad una pianificazione generale delle forze economiche. La Russia di Lenin, non presa colla forza, rimase nello stretto e freddo assedio delle economie monetarie e mercantili, slittò inevitabilmente sulla via del privato commercio interno, della produzione per il mercato, della coesistenza con le economie capitalistiche, si dette una moneta stabile e le quotò ai cambi mondiali, regredì inesorabilmente, dalla rivoluzione degenerò al progressismo.
Aveva il nostro “catastrofismo” marxista, caricaturato dagli avversari, avuto ragione o torto? Sono passati altri decenni, che certo nessuno potrà definire pacifici ed idilliaci, tuttavia il mostro capitalista è ancora in piedi.
Nella polemica sul “terremoto” monetario di oggi, la cui chiassosa presentazione fa parte della indecente contraddanza delle opposte e complici propagande mondiali, tanto mostra la corda il seguirsi dei colpi di grancassa di guerra e di pace, la buffonata dei sismografi oscillanti a colpi di pollice che fanno loro tracciare esplosioni atomiche all’ora del unch e crolli di monete a quelle del five o’ clock. In questa polemica uno dei tanti borghesi che scioccamente fanno gioco agli sparafucile da operetta dello stalinismo, il liberale Guido Cortese, cita una lettera di Marx ad Engels, del 1855. Ci piacerebbe ritradurre, pur senza avere sotto gli occhi il testo autentico, nel linguaggio originale della nostra scuola, ma lasciamo pure come sta il colore dell’aggettivazione: “Ricevo ora la tua lettera che discopre piacevoli prospettive nella crisi degli affari… Le cose vanno meravigliosamente bene. In Francia ci sarà un crack formidabile…(puntini sempre del cortese traduttore). Mi auguro che le grandi disgrazie in Crimea facciano traboccare il calice. La crisi americana di cui abbiamo predetto lo scoppio è magnifica, le sue ripercussioni sulla industria francese sono state immediate. La miseria ha già colpito il proletariato; per il momento però non vi sono ancora sintomi rivoluzionari: il lungo periodo di prosperità avendo terribilmente demoralizzate le masse. Finora i disoccupati che si incontrano per le vie vanno mendicando. Le aggressioni aumentano, ma con ritmo troppo lento”.
Non interessano un fico gli esorcismi del foglio liberale a queste truculente per lui prospettive, che egli assimila – non comprendendo di stare in fatto in polemica au dessous de tout – a quelle agitate dall’Unità e secondo lui sempre sognate dai marxisti.
Il senso del marxismo lo hanno colto tanto bene i cortesi quanto gli scoccimarri. La lotta di Marx non è contro la miseria e per la ricchezza del lavoratore, equilibrio da ristabilire con le grassazioni per la via ai panciuti borghesi. Miseria dell’operaio non è il basso livello del salario e l’alto costo dei generi che consuma. La vittoria del capitalista nella lotta di classe non è la riduzione, la resezione del tenore reale del salario, che indiscutibilmente si eleva nella storia in senso generale, a cavallo dei periodi progressivi pacifici guerrieri ed imperialisti. Miseria nel nostro dizionario economico marxista non significa “bassa remunerazione del tempo di lavoro”. Si capisce che il capitalismo se monopolizza forze produttive tali – fregate allo sforzo di tutti – da avere lo stesso prodotto con dieci volte di meno operai, può a cuor leggero vantare di aver raddoppiato i salari. Il plusvalore relativo e assoluto è enormemente cresciuto e cresce l’accumulazione in massa; ma di ciò al suo luogo. Miseria significa invece “nessuna disposizione di riserve economiche destinabili al consumo in caso di emergenza”.
Il diffondersi “progressivo” nelle popolazioni di tali condizioni è la caratteristica fondamentale storica del tempo capitalistico. In epoca preborghese l’artigiano il contadino lo stesso servo della gleba non erano in stato di pauperismo, anche quelli a più basso tenore di vita. Tanto meno vi erano i costituenti il ceto medio, piccoli proprietari, piccoli esercenti, funzionari, etc. Il risparmio non era stato inventato, ed era meno facile ridurli al verde. Buona parte della moneta era ancora in oro e argento. Con la sua accumulazione primitiva il capitalismo vuota le borse le case i campi le botteghe di tutti questi, e in numero sempre maggiore e ne fa dei pauperes, dei miseri, dei senza-riserva, dei nullatenenti, li riduce ad essere “schiavi salariati” nel senso di Marx. Cresce la miseria e si concentra la ricchezza perché cresce a dismisura il numero assoluto e relativo dei proletari nullatenenti, che devono mangiare ogni giorno ciò che quel giorno hanno guadagnato. Nulla muta al fenomeno economico se ogni giorno il salario di alcuni di essi, per dati mestieri, in dati paesi, consente la fetta di carne ed il cinema, e, ventura suprema, il sottoscrivere per l’Unità.
Il proletariato non è più misero se scende il salario, come non è più ricco se questo aumenta e scendono i prezzi. Non è più ricco quando è occupato di quando è disoccupato. E’ misero in senso assoluto chiunque è entrato nella classe salariata.(Ciò non esclude il caso singolo che taluno possa uscirne, specie se le guerre e le invasioni democratiche gli danno la ventura di divenire sciuscià e lenone). Non vi è relativismo, non vi è progressismo che qui tenga. Chi ha letto la prima pagina di Marx e non ha ritenuto questo, può sopprimersi senza danno sociale. Il regime del salariato è quello in cui chi lavora non accumula, e accumula chi non lavora. Non a caso dice il Manifesto descrivendo la crisi: il salario diviene sempre più incerto, più precaria la condizione di vita dell’operaio. Compenso incerto, non più basso, condizione precaria, non più modesta. Alla seconda versione possono rimediare abbracciati il liberalismo dei Cortese e le riforme di struttura della direzione del PCI (se tuttavia fossimo in un paese meno sfessato); alla prima della marxistica miseria, incertezza, precarietà si oppone una cosa sola, la Rivoluzione. il capitalismo non può vivere senza crescere senza espropriare piccoli possidenti e aumentare il numero dei proletari, del grande esercito sociale che, a sua volta, non può progredire facendo indietreggiare passo passo il nemico, e può sperare in un solo successo, quello di annientarlo, sur place.
Oggi
Nell’interguerra la borghesia, che “non può esistere senza rivoluzionare di continuo i modi e i rapporti della produzione e tutto l’insieme dei rapporti sociali” ha – essa sì – progredito, ha studiato ed imparato. Alla scala nazionale i corsi di professori Mussolini ed Hitler, cui i roghi non hanno tolto la qualità di precursori, le hanno insegnato irrevocabilmente che il potere statale al suo servizio non è solo arnese di polizia e strumento politico di dominio e di corruzione dei capi proletari nei parlamenti o nelle gerarchie, ma deve diventare macchina di regolazione economica della produzione della distribuzione e last but not least dello strumento monetario.
La nuova centrale mondiale capitalistica è dunque sorta molto più avveduta che a Versailles e a Ginevra, con levatrici meno primitive di quel graveolente Wodrow Wilson. I comandamenti del nuovo testamento borghese sono molti e gravi, tra essi: tu non lascerai di occupare militarmente il paese vinto; tu fucilerai i tuoi colleghi capi rei di aver perduto, e non ne lascerai il disturbo alla autodecisione dei loro sudditi; tu non lascerai precipitare le monete nel paese di occupazione ma lo fregherai maggiormente spendendoci carta straccia da te stampata; tu non lascerai andare alla deriva la moneta degli alleati minori ma ne controllerai le quote…
Con questi ed altri capisaldi la nuova Centrale, sia essa ONU, ECA, ERP, etc., funziona come una suprema compagnia di assicurazione contro il pericolo della Rivoluzione, e a tal fine cerca di pianificare dovunque gli indici di produzione di consumo di salario e di profitto.
Le spaventose inflazioni dell’altro dopoguerra misero a nudo la “precarietà” economica denunziata dal marxismo nella economia capitalistica dei tempi stabili e dettero la sensazione di una tale precarietà ai ceti sociali medi che da una falsa illusione di agiatezza precipitarono nella nullatenenza.
Si verificarono punto per punto i fatti che i progressivi di oggi vogliono scongiurare, come le richieste esposte nella mozione del PCI con maggiore lucidità che non nei catechismi dei Marshall o dei Cripps. Valuta bassa perché, se no,il paese è fregato dal dumping monetario (leggi: gli industriali che producono per la esportazione ricavano dalla vendita dei loro prodotti all’estero troppo poche lire e resta loro poco margine di guadagno; svalutiamo la lira e una automobile a pari costo renderà, venduta a mille dollari, 700 mila lire e non 600 mila), ma valuta ufficialmente stabile tipo discorso di Pesaro, così i prezzi non salgono troppo e la spoliazione dei ceti medi è frenata, politica dunque della produttività e del risparmio, quindi politica nazionale – diavolo! – poiché la illimitata inflazione solleverebbe lo scompiglio generale. E quindi programma di investimenti (questa poi sì che è buona) e di “riforme di struttura”.
Altro che dare ad intendere – per evitare che qualche ancora sisaleggiante medio borghese si volga alla tessera staliniana per la notizia che esista una Atomgrad – che Togliatti prepara in Italia il terremoto!
Come la marcia su Roma fu una rivoluzione-commedia così il terremoto di oggi per la svalutazione della sterlina è una abile tappa di assestamento e non un segno di catastrofe per il capitalismo inglese, bene arruffianato dal potere sociallaburista, è un terremoto-burletta, studiato pianificato e preparato da tempo sulla via di un mezzo monetario unico fisso e stabile in tutto il mondo, primissima trincea della controrivoluzione, a cui manca solo la convenzione dollaro-rublo.
Questo terremoto annunzierebbe la rivoluzione fatta da quegli estremisti che, degno paio alle nostre famose camicie nere, sono costituiti dai correntisti di conti in sterline!
Aspettate a far ballare i vostri sismografi economici quando si sentirà venire il terremoto dal sottosuolo sociale dei senza conti e dei senza soldi.
Passerete un quarto d’ora peggiore di oggi che “le aggressioni aumentano, ma con ritmo troppo lento”. Marx non è il re travicello, di cui vi lagnate.
Battaglia Comunista n° 37 del 1949
LOTTA DI CLASSE E “OFFENSIVE PADRONALI”
Ieri
Gli errori nella pratica della lotta proletaria o le rovinose deviazioni di essa, che hanno caratterizzato storicamente il tempo della Prima Guerra Mondiale, e nella Seconda il tempo della guerra e del dopoguerra, sono strettamente collegati allo smarrimento dei cardini critici del metodo marxista.
Marx coordinò la previsione dell’insorgere rivoluzionario dei lavoratori con le leggi economiche dello svolgimento capitalistico.
I revisionisti del marxismo hanno voluto trovare il sistema in difetto, forti del ritardo di un secolo in cui si troverebbe la nostra rivoluzione mentre Marx per le mutate condizioni dei mezzi di collegamento e comunicazione mondiale ne previde una marcia più rapida di quella della rivoluzione borghese, e pretendono che quelle leggi fossero errate e che il divenire più moderno del regime borghese avesse smentito la tesi centrale: sempre più ricchezza ad un polo, sempre più miseria all’altro.
E da cinquant’anni si citano le statistiche dell’aumentato saggio del salario, dell’aumentato raggio e saggio dei consumi del lavoratore industriale, i risultati del vastissimo macchinario delle riforme sociali che tendono a sollevare dalla caduta nella fame assoluta i lavoratori buttati fuori dal ciclo dell’attività salariata per infortunio, malattia, vecchiaia, e disoccupazione. E d’altro canto si pretese che avessero valore di un surrogato delle esigenze socialiste la estensione delle funzioni della macchina centrale statale, il suo preteso controllo sulle alte rese e i vertici eccessivi della speculazione capitalistica, la sua distribuzione a tutti di benefici e servizi sociali e collettivi.
Tutto ciò nella visione revisionista tendeva a disegnare la possibilità ”progressiva” di una sempre migliore distribuzione del ricavato della produzione tra coloro che vi avevano partecipato, calando sempre più la possente aspirazione socialista nelle molli bassure di una campagna di untuosi filantropi per la balorda parola della ”giustizia sociale”, bagaglio teorico e letterario anteriore all’opera di Marx e da questa sterminato senza pietà.
Il capitalismo fu riportato dal poemetto arcadico agli orrori della tragedia dalla folle corsa monopolistica ed imperialistica che ebbe un primo sbocco nella guerra del 1914; e la evidenza che, quando esso persiste, vive e cresce, del pari crescono e dilagano miseria, sofferenza e strage, si riflette in un vigoroso ritorno dei partiti operai alle posizioni radicali e alla battaglia che ha per suo scopo la distruzione, non la emendazione del sistema sociale borghese.
Dopo la riprova teoricamente ancor più decisiva della Seconda Guerra, gli anni che trascorrono pongono il grave problema di una mancata reazione rivoluzionaria dei metodi di azione proletaria nel mondo.
La legge generale dell’accumulazione capitalistica è esposta da Marx nel Libro I del Capitale al cap. XXIII. Il primo paragrafo premette che il progresso dell’accumulazione tende a far salire il saggio dei salari. La diffusione della capitalistica produzione in grande, come nell’esempio inglese dall’inizio del XV secolo a metà del XVIII, e come del resto in tutto il mondo moderno nella seconda metà di questo ultimo, con la richiesta di un maggior numero di salariati fa sì che “subentri un aumento dei salari”. Vana fatica dunque voler smentire Marx col fatto che i salari dei servi del capitale non sono discesi. Perché subito dopo le parole riportate Marx scrisse le altre: “Le circostanze più o meno favorevoli in cui i salariati si mantengono e si moltiplicano non cambiano nulla al carattere fondamentale della produzione capitalistica”.
E questo carattere fondamentale, la legge generale di cui si tratta, non è fissato da Marx nel solo rapporto operaio-padrone, ma nel rapporto dell’insieme delle due classi. La composizione di esse varia continuamente. Nella classe borghese l’accumulata ricchezza si concentra dividendosi in un numero di mani sempre minore e soprattutto in un numero sempre minore di grandi aziende. Al traguardo di questa prospettiva sta espressamente il “limite che sarebbe raggiunto nel momento in cui l’intero capitale sociale fosse riunito nella mano di un singolo capitalista o di un’unica associazione di capitalisti”. Engels commentò nel 1890 che tale previsione del 1864 era verificata dai “più moderni trusts americani e inglesi”. L’allora marxista radicale Kautsky ribadì vent’anni dopo che il fenomeno era dilagato in tutto il mondo capitalista. Lenin ne svolse, nel 1915, la completa teoria dell’imperialismo.
La scuola marxista ha i materiali per completare il classico testo con le parole: “…o anche nello Stato capitalista nazionalizzatore, abbia esso a capo gli Hitler, gli Attlee o gli Stalin”.
Dall’altro lato della trincea sociale, Marx segue in quella centrale analisi, come in tutta la sua opera, non l’oscillare della mercede ma la composizione della popolazione non possidente e le sua variabile ripartizione in armata industriale di riserva. E costruisce la sua legge generale nel senso che, con la diffusione e la accumulazione del capitalismo, checché accada del saggio di remunerazione dei salariati momentaneamente occupati nelle aziende, cresce il numero assoluto e relativo di tutti quelli che stanno in riserva non avendo nemmeno i proventi del lavoro delle proprie braccia. Al quarto paragrafo dello stesso capitolo egli perviene alla enunciazione della legge in parola, che va sotto il nome della legge della miseria crescente: “La grandezza relativa dell’esercito industriale di riserva cresce insieme con le potenze della ricchezza. Ma quanto più l’armata di riserva è grande in rapporto all’armata attiva del lavoro, tanto più massiccia è la sovrappopolazione stagnante,la cui miseria sta in rapporto inverso al suo tormento di lavoro.E infine, quanto più vasti sono gli strati di Lazzari della classe operaia e l’armata industriale di riserva, più grande è il pauperismo ufficiale”.
Miseria e pauperismo per l’economista filisteo sono il non aver da mangiare. Secondo il monaco cattolico citato da Marx vi provvede la carità, secondo i conquistatori odierni d’America, l’UNRRA. Miseria per Marx è quella per cui il Lazzaro proletario, per la “espansione e contrazione” incessanti della intrapresa borghese, entra e risorge dalla tomba della quotidiana mancanza di mezzi, e questa miseria cresce perché a dismisura cresce il numero di quelli che si trovano chiusi nelle barriere di queste due alternative: sgobbare per il capitale o fare la fame.
Il chiodo dei revisionatori di Marx era che questi avesse incominciato in materia a revisionare il sé stesso del 1848, nello scrivere il Capitale. La prova che non avevano mai capito un Kolaroff sta nel fatto che Marx stesso tiene in questo passo a citare in nota il suo scritto anteriore allo stesso Manifesto:La Miseria della Filosofia scritta contro la Filosofia della Miseria di Proudhon nel 1847. Il rimando di nota è posto subito dopo le parole: “Questo carattere antagonistico della produzione capitalistica”. Il passo autocitato in nota dice che i rapporti di produzione attuali “producono la ricchezza della classe borghese solo annientando continuamente la ricchezza di singoli membri di questa stessa classe, e creando un proletariato sempre più numeroso”.
Punto, questo, centrale del marxismo, dunque, anzi caposaldo di esso,che è sempre più in piedi, nella corsa storica 1847-1874-1949.
Proletario è il misero, ossia il senza-proprietà, il senza-riserva, non il malpagato. La parola è trovata da Marx in un testo del 1774, secondo il quale più proletari un Paese ha, più esso è ricco. “È proletario, definisce Marx,il salariato che produce capitale e lo valorizza, ed è gettato sul lastrico non appena è divenuto superfluo per le esigenze di valorizzazione del ‘Signor Capitale'”. Con infinito acume Marx deride l’altro autore che parla di “proletario della foresta vergine”. L’abitante di questa ne è il proprietario, non è un proletario: “Perché egli fosse tale bisognerebbe che, invece di servirsi egli della foresta, fosse la foresta a servirsi di lui”.
L’ambiente della peggiore barbarie è questa moderna foresta che si serve di noi, foresta di ciminiere e di baionette, di macchine e di armi, di strane bestie inanimate che si cibano di carne umana.
Oggi
La situazione di tutti i senza-riserva, ridotti a tale stato perché sono dialetticamente essi stessi una riserva, è stata dalla esperienza di guerra spaventosamente aggravata. La natura ereditaria dell’appartenenza alle classi economiche fa sì che essere senza riserva è cosa più grave che essere senza vita. Dopo il passaggio delle fiamme di guerra, dopo i bombardamenti a tappeto, i componenti della classe lavoratrice, non meno che dopo ogni altro disastro, non solo perdono con la massima probabilità la contingente occupazione, ma si vedono distrutta anche quella minima riserva di proprietà mobile che in ogni abitazione è data da suppellettili rudimentali. I titoli del possidente sopravvivono in parte a qualunque distruzione materiale, perché sono diritti sociali sanciti allo sfruttamento altrui. E per scrivere ancora a caratteri di fiamme la marxista Legge dell’antagonismo viene l’altra constatazione alla portata di tutti che le industrie della guerra e della distruzione sono quelle che conducono ai massimi profitti e ai massimi concentramenti di ricchezza in mani ristrette. Non restano indietro l’industria della Ricostruzione, e la foresta degli affari e dei piani Marshall ed ERP elegge il Gr. Uff. Sciacallo a suo degno Amministratore Delegato.
Le guerre hanno dunque rovesciato senza possibilità di equivoco altri milioni e milioni di uomini nei ranghi di quelli che nulla hanno più da perdere. Esse hanno dato sul viso del revisionismo il colpo del knock out. La parola del marxismo radicale doveva echeggiare tremenda:i proletari non hanno nella rivoluzione comunista nulla da perdere fuorché le loro catene.
La classe rivoluzionaria è quella che nulla ha da difendere e non può più credere nelle conquiste con cui la si ingannò nei tempi di interguerra.
Tutto fu compromesso dalla teoria infame della “Offensiva borghese”.
La guerra doveva dar luogo all’iniziativa e all’offensiva di quelli che non hanno nulla contro la classe che ha e domina tutto, e fu invece gabellata come la pedana di lancio per azioni della classe dominante dirette a ritogliere al proletariato inesistenti benefici, vantaggi e conquiste di tempi passati.
La prassi del partito rivoluzionario fu barattata in una prassi di difesa di tutela e di richiesta di “garanzie” economiche e politiche che si pretese fossero acquisite alla classe proletaria, laddove erano proprio le garanzie e le conquiste borghesi.
Non solo nella frase finale il Manifesto aveva scolpito quel punto centrale, risultato di un’analisi di tutto il complesso sociale che anni di esperienza e di lotta avevano sviluppato, ma in un altro di quelli che Lenin definisce i passi dimenticati del marxismo: “I proletari possono impossessarsi delle forze produttive sociali soltanto abolendo il loro stesso modo di appropriazione e, con esso, l’intero modo di appropriazione finora esistente. I proletari non hanno nulla di proprio da salvaguardare; essi hanno soltanto da distruggere le sicurezze e le guarentigie private finora esistenti”.
Fu la fine, nell’esempio italiano, per il movimento rivoluzionario quando, per ordine dell’ancora vivente Zinoviev, che a caro prezzo pagò queste sviste senza rimedio, si gettarono tutte le forze a difendere “garanzie” come la libertà parlamentare e l’osservanza costituzionale.
Il carattere dell’azione dei comunisti è l’iniziativa, non la replica alle cosiddette provocazioni. L’offensiva di classe, non la difensiva. La distruzione delle garanzie, non la loro preservazione. Nel grande senso storico è la classe rivoluzionaria che minaccia, è essa che provoca; ed a questo deve prepararla il partito comunista, non al tamponamento qua e là di pretese falle nella barcaccia dell’ordine borghese, che dobbiamo colare a picco.
Il problema del ritorno dei lavoratori in ogni paese sulla linea della lotta classista sta in questo ravvivato collegamento tra la critica del capitalismo e i metodi della battaglia rivoluzionaria.
Finché tutta l’esperienza dei passati disastrosi errori non sarà stata utilizzata, la classe lavoratrice non sfuggirà alla esosa protezione dei suoi vantati salvatori da offese minacce e provocazioni che potrebbero sorgere domani, e che gli si presentano intollerabili. E’ almeno da un secolo che il proletariato ha davanti e sopra ciò che non può tollerare, e che quanto più tempo passa, più intollerabile diverrà, secondo la legge di Marx.
Battaglia Comunista n. 39 del 1949
Precisazioni su «marxismo e miseria» e «lotta di classe e offensive padronali»
Il passo di Marx citato nell’ultimo Filo del tempo, suona così nella sua traduzione integrale dal tedesco:
«Quanto maggiore è la ricchezza sociale, ossia il Capitale in funzione, l’ampiezza e la energia nel suo accrescimento, quindi anche la grandezza assoluta del proletariato e la forza produttiva del suo lavoro, tanto maggiore è l’esercito industriale di riserva» (sovrappopolazione relativa). «Le stesse cause sviluppano tanto la forza-lavoro disponibile, quanto la forza di espansione del capitale. La grandezza proporzionale dell’esercito industriale di riserva cresce dunque insieme con le potenze della ricchezza. Ma quanto maggiore è l’esercito di riserva in rapporto all’esercito attivo del lavoro, tanto più massiccia è la sovrappopolazione stagnante la cui miseria sta in rapporto inverso al suo tormento di lavoro. Ed infine, quanto più vasti sono gli strati di Lazzari della classe operaia e l’esercito industriale di riserva, tanto maggiore è il pauperismo ufficiale» (cioè burocraticamente riconosciuto). «Questa è la legge assoluta, generale, dell’accumulazione capitalistica». Il corsivo è di Marx, che aggiunge: «Tale legge, come ogni altra, è modificata nella sua realizzazione da molteplici circostanze, la cui analisi non trova qui posto».
Il riferimento ci riporta allo studio del fenomeno nella sua complessità svolto nel II, III, IV volume, incompleti, dell’opera di Marx, che ha dato luogo alle grandi polemiche sulla accumulazione di Hilferding, Kautsky, Luxemburg, Bucharin e altri.
L’applicazione di una legge semplice al campo più completo dei fenomeni reali, abituale nella scienza e nello studio delle modificazioni effettuali, non va confusa con abbandono e modifica della legge generale. Così ad esempio non contraddicono alle leggi di Keplero e Newton sul moto dei pianeti i calcoli delle reciproche perturbazioni delle orbite nel sistema solare, in cui i pianeti sono molti e in dati casi non è trascurabile l’effetto della attrazione tra due di essi, oltre che tra ciascuno e la dominante massa del sole. Come l’astro centrale ed un pianeta non saranno mai soli, così la classe capitalistica e la classe operaia industriale non saranno mai sole nella società reale.
In questo stesso capitolo, intanto, Marx porta in gioco l’esistenza di classi rurali agli effetti del rapporto, preso a studiare, tra il diffondersi del capitalismo e la composizione della classe operaia.
Comunque, troviamo importante sottolineare che in nessun caso Marx studia un ambiente di soli capitalisti e soli salariati. Tale ambiente è assurdo, lo hanno sviluppato e studiato a vuoto, da Proudhon in poi, sindacalisti di ogni tipo e recentissimi «aziendisti». La prima e più semplice (e sempre valida in seguito) legge del marxismo considera questi elementi: La classe capitalistica – i lavoratori occupati e salariati – i lavoratori non occupati, ma impossibilitati ad uscire dalla classe proletaria.
Marx espone tutto il gioco delle quantità studiate con la sua prosa di incomparabile rigore, convinto di rendere la teoria comprensibile agli operai più che se avesse adottato un apparato matematico.
Rosa Luxemburg discute con deduzioni numeriche sul riparto della produzione tra capitalisti ed operai. Bucharin adotta formule algebriche. In sede che non è questa, il problema sarà oggetto di altri studi; qui va fatta la modesta osservazione che il calcolo deve tener conto della sovrappopolazione relativa, che al tempo stesso è proletaria, che vive, e che se vive consuma prodotti che vanno messi nel conto, vengano essi da forme basse e anormali di lavoro, da vendita di suppellettili comprate nel tempo di occupazione, dalla solidarietà dei non abbienti, infine dalle misure parimenti pidocchiose della carità signorile e del riformismo legalitario. Chi paga è sempre lo sforzo della minoranza operaia al lavoro, attraverso il complesso sistema della moderna economia privata associata e pubblica.
Del resto il Manifesto aveva già detto che uno dei segni che la borghesia deve crepare è quello che diviene «incapace di dominare perché è incapace di assicurare al suo schiavo l’esistenza persino nei limiti della sua schiavitù perché è costretta a lasciarlo cadere in condizioni tali da doverlo poi nutrire anziché esserne nutrita». Siano le varie fognose istituzioni tipo ERP nuova arra che «il tramonto della borghesia e il trionfo del proletariato sono egualmente inevitabili».
Riprendiamo la descrizione degli strati della popolazione lavoratrice che Marx premette alla sua legge generale, dopo essersi domandato: Qual è l’effetto del movimento della accumulazione capitalistica sulla sorte della classe salariata?
I capisaldi di questa trattazione sono semplici.
L’accrescersi del capitale sociale, o accumulazione (a parte il restringersi del numero dei capitalisti e delle ditte e l’accelerato aumento della importanza economica di ognuna: accentramento, concentrazione, di cui alla prima parte del capitolo), determina in generale col progresso tecnico una minore proporzione di capitali salari rispetto al capitale totale.
In genere però la massa del capitale salari seguita ad aumentare.
In fase ascendente, di espansione, di prosperità:
– aumenta il numero dei salariati occupati nell’industria;
– aumenta anche il saggio dei salari;
– aumenta anche la produttività del lavoro.
In fase discendente,di contrazione,di crisi alternata:
– aumenta, ma troppo lentamente, o staziona il capitale-salari totale;
– seguita a crescere il numero dei proletari;
– diminuisce quello degli operai occupati;
– si forma e si allarga l’eccesso relativo di popolazione operaia o esercito di riserva.
Quindi Marx divide tutta la popolazione proletaria, la classe proletaria, in questi strati:
1. Esercito industriale attivo, operai occupati.
2. Sovrappopolazione fluttuante, operai che entrano ed escono dalle fabbriche per la evoluzione della tecnica e la diversa divisione del lavoro che arreca.
3. Sovrappopolazione latente, ovvero operai industriali che vengono quando occorra dalla campagna, non potendo vivere che difficilmente ai margini dell’economia agraria.
4. Sovrappopolazione stagnante, solo in rari momenti chiamata nella grande industria, lavoratori a domicilio, operai di attività marginali a scarsissimo salario.
5. Pauperismo ufficiale: a) disoccupati cronici sebbene attivi al lavoro; b) orfani o figli di poveri; c) invalidi e inabili al lavoro, vedove, ecc.
6. Fuori della classe operaia e nel cosiddetto «Lumpenproletariat», delinquenti, prostitute, malavita.
Sorto ed in crescenza il capitalismo, tutta questa massa perde, per effetto dei processi espropriativi, ogni possibilità di vivere che non sia il salario. Ma intanto una sola fortunata minoranza riceve il salario. Il resto vive come può. Le leggi di popolazione degli economisti borghesi sono illusorie; la realtà è che i vari ondeggianti strati meno lavorano e peggio vivono, più prolificano come «certe specie animali deboli e continuamente perseguitate».
Con questo richiamo fondamentale, premessa ad ogni ulteriore analisi sulla accumulazione, resta chiaro il passo di Marx sulla Legge assoluta.
Resta chiaro che l’antagonismo scoperto da Marx non è nel campo della azienda borghese, non è antagonismo tra la mercede dell’operaio e l’altezza del profitto del padrone.
È antagonismo nel campo della società, tra le classi, quella borghese che si restringe, quella proletaria che si dilata.
Nei calcoli sul riparto del plusvalore tra consumo personale dei padroni, destinazione a nuovi investimenti ed impianti fissi e materie, e destinazione a nuovi salari, bisogna fare attenzione a questo: non dividere la massa salari per il numero degli operai occupati, ma per il numero totale dei proletari.
Nel primo caso si vede salire il saggio e si inneggia al capitalismo civile e progressivo. Nel secondo si vede crescere la fame e la miseria della sovrappopolazione e ingigantire l’antagonismo di Marx, premessa della rivoluzione sociale.
La legge viene in piena luce. Più accumulazione, minor numero di borghesi. Più accumulazione, maggior numero di operai, ancor maggior numero di proletari semi-occupati e disoccupati, e di peso morto di sovrappopolazione senza risorse. Più accumulazione, più ricchezza borghese, più miseria proletaria.
Il falso marxismo si compendia nella tesi che il lavoratore può conquistare posizioni utili: a) nello Stato politico con la democrazia liberale; b) nella azienda economica con aumenti di salari e rivendicazioni sindacali. E ciò parallelamente al crescere dell’accumulazione del capitale. Il falso marxismo corteggia la dottrina che l’aumentata produzione è aumento di ricchezza sociale ripartita tra «tutti». Ha tradito totalmente la legge basilare del marxismo.
Sorge da questa chiarificazione, da una parte, lo studio economico teorico della modernissima accumulazione, dall’altra una conclusione sulla strategia della lotta di classe. Abbiamo pertanto coi dati della storia di essa impreso a mostrare questo: al centro del falso marxismo e al vertice del tradimento sta la teoria della «offensiva» padronale borghese capitalistica, sia essa dipinta nel campo dello Stato o della azienda, e la sua sporca figlia, la pratica del «blocco» e del «fronte unico».
«Battaglia Comunista» n. 40 del 1949