Pensioni news: stratagemmi a confronto per risolvere l’annoso problema degli anziani (giornate capitalistiche)
Consideriamo, in generale, che la produzione capitalistica non è soltanto produzione di merci, ma, fondamentalmente, produzione di plusvalore. Il proletario deve produrre plusvalore per essere produttivo per il capitale. Quindi la produttività del lavoro, nell’economia capitalistica, è una condizione relativa, specifica, del lavoro dell’operaio che produce plusvalore per il capitalista, quindi il lavoro salariato va inteso come una mera funzione subordinata del processo di auto-valorizzazione del capitale. Quando usiamo il termine PLUSVALORE ASSOLUTO ci riferiamo al prolungamento/allungamento della giornata lavorativa oltre il limite in cui l’operaio salariato produce soltanto un corrispondente del valore della sua forza-lavoro ( erogato dal datore di lavoro sotto forma di retribuzione/salario). La giornata lavorativa del proletario è quindi approssimativamente divisa in due parti: “lavoro necessario” e “plus-lavoro”. Parlando di PLUSVALORE RELATIVO, ci riferiamo alla circostanza in cui il “lavoro necessario” viene ridotto, con metodi e processi organizzativo-gestionali che rivoluzionano i processi tecnici del lavoro, e quindi consentono di accorciare il tempo di lavoro per produrre l’equivalente in merci della forza lavoro, cioè il tempo di lavoro corrispondente al salario percepito del lavoratore.
Il salario percepito dal lavoratore non può scendere al di sotto del livello di sussistenza, a meno di non disporre di masse enormi di forza-lavoro (come nelle esperienze storiche dei lager), da utilizzare come rimpiazzo immediato per i caduti (a cui è stata erogata una retribuzione al di sotto del livello di sussistenza). Abbiamo ricordato che con il termine PLUSVALORE ASSOLUTO ci riferiamo al prolungamento/allungamento della giornata lavorativa, oltre il limite in cui l’operaio salariato produce soltanto un corrispondente del valore della sua forza-lavoro.
In questo senso, potremmo ipotizzare che l’attuale innalzamento dei requisiti anagrafici per raggiungere l’età di pensionamento, rientri, a buon merito, nella tipologia (in forma indiretta) del plus-valore assoluto. Infatti, se definiamo la pensione come salario differito, vedremo che in considerazione della speranza di vita media di una certa popolazione, l’innalzamento dei limiti di età per la pensione si tradurrà (di fatto), mediamente, in mancata erogazione di un certo numero di assegni mensili pensionistici, cioè in plus-valore assoluto (inteso, in questo caso, non come conseguenza dell’allungamento puro della giornata lavorativa (a parità di retribuzione, e quindi di beni e servizi acquistabili), ma come il risultato della sottrazione/diminuzione del totale medio dei salari differiti, cioè le pensioni mensili, mediamente percepite dal lavoratore prima dell’innalzamento dei requisiti anagrafici).
Se dunque ipotizziamo che un lavoratore percepisse, prima della riforma Fornero, andando in pensione a 62 anni, almeno 13 assegni mensili annui moltiplicati per 18 anni di vita media residua, adesso, con il limite anagrafico dei 67/68 anni, dovremo moltiplicare tredici assegni mensili annui per una vita media residua di 13 anni (conteggiata a partire da 67/68 anni, quindi 80 meno 67=13, mentre 80-62=18). Si tratta di una mancata erogazione di 13 mensilità annue mediamente relativa a cinque anni, corrispondente a (13 per 5) sessantacinque salari differiti/assegni pensionistici. Da un altro punto di vista, si tratta del prolungamento di cinque anni di lavoro, a fronte di una legislazione che in precedenza prevedeva l’erogazione a 62 anni dell’assegno pensionistico. Tornando ai problemi teorico-terminologici, comunque si voglia inquadrare concettualmente/linguisticamente questa situazione di fatto, nessuno potrà negare che pur in presenza di orari di lavoro giornalieri invariati, la riforma Fornero ha potentemente variato/prolungato il limite di anni di lavoro necessari per ottenere il salario differito/pensione.
La diatriba politico-sindacale di maggio/giugno 2016, in merito alla flessibilità in uscita per andare in pensione con tre anni di anticipo, ha degli aspetti come al solito grotteschi e paradossali, e dunque non avrebbe senso riportare il balletto di dichiarazioni dei vari attori della scena gestionale-amministrativa del capitalismo italico. Colpisce, in ogni caso, la proposta governativa di prevedere l’obbligo (per il lavoratore che chieda l’anticipo) di un prestito da rimborsare in venti anni. Immaginiamo che pochi lavoratori decideranno di usufruire di questa ‘opportunità’ concessa dal governo Renzi. Riflettiamo: tre anni di lavoro in meno, a costo di un prestito da restituire in venti anni, con una penalizzazione permanente sull’assegno medio mensile pensionistico di almeno il 10/15%, una cosa del genere non si può proprio definire un buon affare. Sospettiamo che l’economia capitalistica (su scala internazionale) abbia qualche serio motivo di preoccupazione verso gli anziani, considerati un peso per la produzione di plus-valore (assoluto e relativo), e un costo improduttivo per i conti pubblici, e quindi sia obbligata a progettare ogni possibile stratagemma per alleviare e risolvere l’annoso problema.
L’allungamento dell’obbligo di permanenza sul posto di lavoro è uno di questi stratagemmi, perché, oltre a liberare l’apparato statale del capitale dall’obbligo di erogare un salario differito/pensione ( in base ai precedenti calcoli mediamente per 65 mesi), senza una corrispettiva prestazione lavorativa attuale, esso ottiene (mediamente) anche l’effetto di ridurre la speranza di vita del proletario, e quindi ottiene di ridurre il numero totale prevedibile di assegni pensionistici da erogare. Questo secondo aspetto (la riduzione della speranza di vita) è correlato alla maggiore nocività, per l’organismo psico-fisico umano, degli sforzi di lavoro prolungati oltre una certa soglia di età. In parole povere, abbiamo il piccolo sospetto che obbligare un essere umano a restare al lavoro, fin oltre la soglia dei 67/68 anni, non sia molto prudente e salutare per il suo organismo.
Come ricordavamo di recente, la legge della popolazione/sovrappopolazione capitalistica descrive un insieme di processi tendenti inesorabilmente all’aumento della massa di proletari di riserva (latente,fluttuante,stagnante), sotto la spinta della sostituzione (storica) del capitale variabile (forza-lavoro umana), con il capitale costante (mezzi tecnici di produzione). Questa circostanza economico-aziendale, posta in essere dalle leggi stesse della concorrenza, determina il fenomeno della caduta tendenziale del saggio medio di profitto (fondato in ultima istanza sulla estorsione di plus-lavoro proletario, per cui riducendo il numero di proletari occupati, si riduce anche l’entità percentuale del plus-lavoro/plus-valore globale). Come controtendenza storica alla tendenza generale alla caduta del saggio medio di profitto, l’economia capitalistica mira ad incrementare innanzitutto il saggio medio del plus-valore relativo. Il suo incremento si realizza, generalmente, con l’impiego maggiore di capitale costante e di processi produttivi e organizzativi più efficienti ed efficaci ( e l’efficienza è appunto la capacità dell’impresa di raggiungere risultati simili o migliori rispetto al passato, riducendo i costi aziendali, in primis quello del lavoro).
Tuttavia il capitalismo senescente, nella sua parabola distruttiva, riscopre anche forme di appropriazione di plus-valore assoluto tipiche di fasi precedenti (e quindi, come tendenzialmente viola i limiti delle otto ore giornaliere di lavoro, ad esempio attraverso gli straordinari più o meno obbligatori, pagati come ore normali o addirittura con erogazioni in natura, buoni pasto, merci; così, agendo coercitivamente, mira ad allungare non solo la giornata lavorativa della frazione proletaria di lavoratori occupati, ma anche il tempo di vita globale che il proletario occupato deve destinare alla valorizzazione del capitale).
In definitiva, parafrasando il linguaggio e le espressioni asettiche dell’organizzazione aziendale ( insegnata nelle nostre scuole), possiamo giustamente sostenere che le risorse umane, al pari delle risorse tecniche, sono considerate un semplice fattore produttivo aziendale che l’impresa capitalistica deve costantemente ottimizzare nell’impiego.
Una ottimizzazione di impiego delle risorse disponibili, realizzata al fine di incrementare la produttività di ogni fattore produttivo aziendale, in primis le risorse umane (estraendo da esse maggior plus-valore assoluto e relativo), per poi consentire all’impresa di vivere e crescere nel mercato concorrenziale dell’economia borghese (in presenza della tendenza generale, storica, alla caduta del saggio medio di profitto).
Se riflettiamo sul senso di questo mantra capitalistico, riusciamo anche a scorgere il senso della follia (umana) di obbligare gli anziani a logorarsi per altri cinque anni della loro vita al servizio esclusivo della valorizzazione del capitale (e della minoranza di parassiti sociali borghesi che ne trae beneficio).
Postilla
L’allungamento degli anni di servizio, cioè l’allungamento, imposto dal capitale e dallo Stato, della durata della capacità lavorativa da 35 anni a 40 anni in media, cioè di 1/7, quindi del 14 e 2/7%, che si fonda sulla giustificazione, utile per gli scemi ottusi della piccola borghesia, che è aumentata la durata media di vita umana naturale, che quindi l’operaio posa vivere magari fino a 100 anni e oltre – questione che non c’entra con l’usura negli anni della capacità della forza lavoro perché essa si consuma ugualmente durante i 35 anni di lavoro, e si logora anche di più se in questi 35 anni di lavoro aumentano per l’operaio i ritmi e l’intensità di lavoro durante le stesse 8 ore di lavoro – è il pretesto, per via indiretta, per aumentare di 1/7 l’orario di lavoro giornaliero. Si assiste, pertanto, indirettamente, ad una legalizzazione dell’orario di lavoro da 8 ore a 9 ore e 1/7. Ma a questo prolungamento legalizzato e indiretto dell’orario di lavoro in un arco compreso tra le 9 e 10 ore giornaliere corrisponderebbe un logorio della forza lavoro maggiore che si sostanzia in una durata della capacità lavorativa minore di 1/7, cioè da 35 anni a 30 anni, anziché da 35 a 40 anni e dunque il risarcimento per questo logorio dovrebbe essere quello di un aumento salariale o pensionistico di 1/3, cioè del 33 1/3%, corrispondente ad un prolungamento degli anni di lavoro 30 a 40 anni, considerando l’estremo di 10 ore lavorative normali al giorno. Una copertura salariale o pensionistica che tenga conto di questo tipo di prolungamento dell’orario di lavoro, renderebbe chiara e immediata agli occhi degli operai una lotta per aumenti salariali o per il riconoscimento degli straordinari, dal momento che si supera l’orario di lavoro apparentemente legale di 8 ore. Si vuole, quindi nascondere il pluslavoro assoluto e renderlo puro e combinato al plusvalore relativo già esistente sulla base della caduta del valore dei mezzi di sussistenza grazie allo sviluppo della forza produttiva del lavoro, spalmando la durata media giornaliera di lavoro di 8 ore giornaliere su 40 anni anziché 35 senza corrispondente aumento salariale o copertura ed erogazione pensionistica connessi al logorio della forza lavoro di cui sopra. A ciò corrisponde dunque il pluslavoro assoluto, cioè il prolungamento dell’orario di lavoro oltre la sua durata normale, cioè oltre le 8 ore, anche se queste 8 ore di lavoro contengono già pluslavoro: sono già divise in lavoro necessario e pluslavoro. Per esempio, al lavoro necessario l.n. per riprodurre il valore della forza lavoro in 8/11 d’ora, cioè in 43 minuti e 38” per un salario di € 50,00 al giorno, si contrappone un pluslavoro pl. che si allunga dalle precedenti 7 ore e 3/11 durante le quali l’operaio, lavorando gratuitamente, produce un plusvalore di € 500,00 al capitale aziendale e allo Stato, a 8 ore 24’ 56” (e 1/10) con le quali ore gratuite di pluslavoro ne paga € 578,57 (e 1/7) al capitale e allo Stato. In tal modo aumenta il saggio del plusvalore: dal 1.000% = € 500,00pv/€ 50,00v = 7 ore 16’22”pl./43’38”l.n. al 1.157 1/7% = € 578,57 (e 1/7)pv / € 50,00v = 8 ore 24’56”(e 1/10)pl. / 43’38”l.n. = 1.157 1/7%. Prolungare la durata della capacità lavorativa dell’operaio da 35 a 40 anni significa, dunque, logorare di 1/7 in più la sua forza lavoro, la qual cosa 2 richiederebbe, come detto sopra, un risarcimento. Ma posto il salario giornaliero pari a € 50,00 e quello annuo (x 300 giorni) pari a € 15.000, l’operaio è come se venisse pagato con un interesse del 2 6/7% annuo che dà, alla fine dei 35 anni di lavoro, € 525.000, cioè € 15.000 : 2 6/7% = € 525.000, dunque € 15.000 x 35 anni = € 525.000, ossia € 15.000/€ 525.000 = 2 6/7%. E trattandosi di pluslavoro assoluto, l’operaio pur lavorando 40 anni, continua ad essere pagato con il valore della sua forza lavoro equivalente a 35 anni, cioè con € 525.000 e quindi al 2 e 6/7% annuo d’interesse. Dall’altra parte, sulla base dell’aumento della durata media di vita naturale di un uomo, l’aumento dell’erogazione pensionistica che tenga conto del logorio della forza lavoro sopra specificato, dovrebbe coprire tutto l’arco compreso tra la fine della vita lavorativa di un uomo e la fine della sua vita naturale in media più lunga, questione improponibile nella fase del debito e del risparmio da parte dello Stato connessi alla sua pratica di far risparmiare, o anche guadagnare, esentandole dalle tasse, frazioni sempre più consistenti di plusvalore aziendale al fine di incrementare l’accumulazione di capitale e dunque il saggio di accumulazione.